IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XVII, 1975, Numero 1, Pagina 4

 

 

La crisi dello Stato nazionale e il
problema dell’unificazione europea
nell’epoca delle guerre mondiali
 
LUCIO LEVI
 
 
L’affermazione contemporanea della democrazia e del federalismo.
L’unità europea è l’ideale antichissimo dei più grandi spiriti europei da Dante a Kant. Nella sua versione moderna si collega ai problemi posti dalla rivoluzione francese e non risolti dalla rivoluzione russa, cioè dall’affermazione dei principi della libertà, della democrazia e del socialismo, i quali trasformarono la struttura interna degli Stati, mentre il popolo e i lavoratori continuarono a essere esclusi dal controllo delle relazioni internazionali, che rimasero il terreno dei rapporti di forza, ma in una situazione di crescente anarchia internazionale.
L’idea dell’unità europea si viene così precisando progressivamente nella formula federalistica degli Stati Uniti d’Europa, la sola formula politica che permetta di instaurare relazioni pacifiche tra le nazioni e di garantirne nello stesso tempo l’autonomia, subordinandole a un potere superiore, ma limitato, in grado di assicurare la partecipazione democratica a livello supernazionale e il controllo popolare delle relazioni tra gli Stati.
Con la rivoluzione francese, cioè con l’affermazione del principio democratico, si affermò, come già con la rivoluzione americana, l’esigenza di subordinare al controllo popolare anche le relazioni internazionali.
La rivoluzione americana, portando al potere per la prima volta nella storia moderna dei governi a base interamente democratica, rivelò che il problema della coesistenza pacifica di Stati vicini e indipendenti non era automaticamente risolto dal fatto che il governo si fondava sulla partecipazione democratica e sul controllo popolare. Ma, per le ex-colonie nord-americane, che non avevano una lunga storia come Stati indipendenti e sovrani, fu relativamente facile superare la divisione politica attraverso la federazione, la quale, realizzando il primo esempio di un governo democratico supernazionale e il modello del governo della società delle nazioni, ristabilì in una nuova forma l’organizzazione politica unitaria, che il sistema imperiale britannico aveva mantenuto fino alla guerra d’indipendenza e che la confederazione non era stata in grado di garantire.
Invece il sistema europeo era sempre stato governato dal principio dell’equilibrio tra Stati indipendenti e sovrani, che implicava l’accordo su un solo punto, come scrive Dehio, «evitare l’unificazione dell’Occidente sotto l’egemonia di uno di loro».[1]
L’Europa si trovava dunque, e si trova tuttora, di fronte all’ostacolo gigantesco di superare la divisione in Stati storicamente consolidati, che, fino al 1945, hanno svolto il ruolo di protagonisti della storia mondiale. D’altra parte le forti tensioni internazionali hanno sviluppato strutture statuali chiuse, accentrate, autoritarie e con accentuati caratteri militaristici, in contrasto con le aspirazioni di autogoverno delle comunità locali che erano emerse nella rivoluzione francese, in particolare nella corrente girondina.
In Europa una corrente federalistica si è manifestata contemporaneamente all’affermazione del principio della sovranità nazionale durante la rivoluzione francese e si è mantenuta viva nel corso del XIX e del XX secolo. Si trova per la prima volta l’ideale federalistico nella componente cosmopolitica della rivoluzione francese, nell’opera di Kant e nell’utopia europea di Saint-Simon. Lo si ritrova nei programmi delle associazioni pacifistiche, nelle risoluzioni dei congressi della pace e dei congressi dei giuristi della fine del secolo scorso, negli scritti di Cattaneo, Frantz, Mazzini e Proudhon. Ed è presente in modo persistente e consistente, sia pure con le eclissi determinate dalle vicende storiche, in seno alle correnti liberale, democratica e socialista, che hanno dominato la storia del XIX secolo, a testimoniare la consapevolezza che i valori di cui tali correnti erano portatrici non possono essere limitati a un solo paese senza degenerare.
Ad ogni modo si trattava di un’esigenza ideale, cui non corrispondevano ancora nella realtà storica condizioni adatte a tradurla in azione politica. Tuttavia la sua radice era profonda. La ragione impedisce di pensare i valori liberali, democratici e socialisti, che nel secolo scorso hanno affermato nuovi modelli di convivenza politica, che però si sono realizzati in modo parziale e precario all’interno degli Stati nazionali, come limitati al solo spazio nazionale. D’altra parte l’estensione di tali valori sul terreno europeo, per aprire la strada alla loro affermazione universale, non è possibile senza impiegare strutture politiche federali.[2]
 
La crisi dello Stato nazionale.
I limiti dello Stato nazionale, che all’inizio potevano essere percepiti solo nell’orizzonte teorico federalistico, cioè sulla base della negazione della pretesa dell’ideologia dominante di presentare le istituzioni nazionali come l’unica forma legittima di organizzazione politica dell’umanità, con il pieno sviluppo e la generalizzazione del principio nazionale, diventarono limiti pratici della stessa azione politica degli Stati nazionali e delle forze che li sostenevano, derivanti dalla crescente contraddittorietà tra questa formula politica e le tendenze di fondo del corso storico.
Il concetto di crisi dello Stato nazionale mette in luce l’incompatibilità tra la struttura e le dimensioni di questo tipo di Stato e lo sviluppo delle forze produttive da una parte e l’equilibrio internazionale dall’altra. Questo concetto costituisce una chiave insostituibile per comprendere il mondo attuale e offre una prospettiva indispensabile per identificare il senso della storia contemporanea.[3]
 
L’incompatibilità tra Stato nazionale e sviluppo delle forze produttive.
L’evoluzione del modo di produrre con il capitalismo e la rivoluzione industriale, mentre ha determinato l’unificazione dei comportamenti umani negli spazi di dimensioni nazionali, creando la base materiale degli Stati nazionali, ha sviluppato incessantemente le relazioni tra le singole società nelle quali è diviso il genere umano, creando un mercato mondiale.
Questo processo di integrazione dell’attività umana su spazi sempre più vasti è alla base della crisi dello Stato nazionale e del sistema europeo delle potenze.
Fin dal 1883, Seeley, osservando come lo sviluppo della rivoluzione industriale favorisse la tendenza a moltiplicare e a intensificare le relazioni sociali, a unificarle in aree sempre più vaste e a creare così le basi materiali dell’organizzazione dello Stato su spazi di dimensioni continentali, formulò questa profezia: nel giro di mezzo secolo «la Russia e gli Stati Uniti supereranno in potenza quelli che ora chiamiamo grandi Stati, come i grandi Stati territoriali del secolo XVI erano superiori a Firenze».[4]
Nei tre decenni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale l’espansione industriale aveva ricevuto una forte spinta dalla concentrazione del capitale (passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo oligopolistico), dalla applicazione di nuove tecnologie (linea di produzione e nastro trasportatore) e dall’introduzione dei metodi della produzione di massa.
Lo sviluppo delle forze produttive premeva nel senso dell’allargamento dei rapporti di produzione e di scambio, mentre la base materiale degli Stati europei stava diventando insufficiente rispetto alle possibilità di sviluppo della moderna società industriale. La causa della crisi dello Stato nazionale è dunque la crescente contraddizione, che comincia a profilarsi già verso la fine del XIX secolo, tra la tendenza delle forze produttive a uscire dagli argini degli Stati nazionali e a organizzarsi su spazi più vasti e le dimensioni nazionali del potere politico. Tale tendenza mentre non incontrava ostacoli negli sterminati spazi dell’Impero degli Zar e degli Stati Uniti, era frenata dalla divisione politica dell’Europa e dall’antagonismo tra gli Stati nazionali, che si opponevano alla formazione di una società, di un’economia e di un potere politico a livello europeo, che permettesse agli Europei di competere con le potenze di dimensioni continentali e di continuare a svolgere un ruolo mondiale. Tuttavia tale tendenza, aggravando le tensioni tra gli Stati del sistema europeo e spingendoli a cercare lo «spazio vitale» al di là delle loro frontiere, condannava la formula politica dello Stato nazionale a una fatale decadenza storica.
 
L’incompatibilità tra Stato nazionale ed equilibrio internazionale.
Finché in Europa dominò la formula politica dello Stato assoluto, i rapporti internazionali furono rapporti di re e di principi, dai quali i popoli erano esclusi. L’aristocrazia formava una comune società europea, cui corrispondevano degli obblighi derivanti dall’unità morale del mondo cristiano e dal riconoscimento delle norme del cosiddetto «diritto europeo», che aveva lo scopo di mantenere l’equilibrio di potere tra gli Stati. Anche le relazioni tra individui di nazionalità diversa erano improntate della convinzione di appartenere a una comune società europea, nella quale gli elementi di unità erano più forti di quelli di divisione. La formazione politica di Metternich era influenzata da questa realtà e, se l’ordine europeo che uscì dal Congresso di Vienna fu stabile, ciò dipese dal fatto che quegli obblighi conservavano forza vitale anche nell’età dell’incipiente nazionalismo e rappresentavano ancora un contrappeso al confronto aperto degli egoismi nazionali.
D’altra parte le trasformazioni subite dallo Stato con le riforme democratiche e sociali, le quali portarono il governo a fondarsi sulla partecipazione popolare e a estendere le proprie competenze all’intervento nella vita economica e sociale, favorirono un’enorme concentrazione di poteri nello Stato burocratico impensabile durante l’ancien régime. Lo Stato si appropriò così delle energie destate dalla rivoluzione industriale e dalle trasformazioni politiche che la accompagnarono e il risultato (non voluto e non previsto né dai liberali, né dai democratici, né dai socialisti) fu l’accentramento, l’integrazione nazionale e il nazionalismo. Ciò dipese dal fatto che dietro la «nazione sovrana» c’era sempre lo Stato con le vecchie esigenze di sicurezza e di potenza, ma reso ancora più aggressivo dalla nuova necessità di servire gli interessi economici e sociali delle masse in un’epoca nella quale, in conseguenza della rivoluzione industriale, che andava moltiplicando i rapporti tra individui appartenenti a Stati diversi, le relazioni internazionali tendevano a estendersi e a moltiplicarsi costantemente, aggravando così l’anarchia internazionale, il disordine economico e l’autoritarismo. D’altra parte il controllo dei valori linguistici, morali e culturali, che animano il sentimento nazionale e che erano rimasti fino allora esclusi dalla lotta politica, passò allo Stato, il quale se ne servì per fondare sia la legittimazione del proprio potere sia la propria politica estera. In questo modo lo Stato nazionale soppresse tutti i legami spontanei di attaccamento che gli uomini avevano sempre avuto verso le comunità territoriali più piccole e verso le collettività più grandi della nazione, per impedire che altri legami potessero indebolire la fedeltà assoluta che lo Stato pretendeva dai cittadini.
E per realizzare questo obiettivo si servì di istituzioni appropriate: gli eserciti permanenti fondati sulla coscrizione militare obbligatoria, il sistema amministrativo uniforme su tutto il territorio dello Stato, la tutela prefettizia sugli enti locali, la scuola di Stato, e più recentemente il monopolio statale dei più importanti mezzi di comunicazione di massa.
Le strutture rigide e autoritarie dello Stato accentrato consentono di assoggettare al controllo diretto del governo gran parte delle risorse materiali e ideali del paese in modo da giungere da una parte a una rapida mobilitazione in caso di guerra e d’altra parte, a un’efficace repressione dei movimenti di opposizione che, dividendo la società, ne indeboliscono le capacità difensive.
Tali strutture sono state create per orientare un tipo di socializzazione politica della popolazione che garantisse la formazione di fedeli servitori dello Stato.[5]
La fusione dello Stato e della nazione eliminò dunque i limiti interni e internazionali che avevano frenato lo scontro tra gli Stati quando erano fondati sul principio dinastico e ne fece dei gruppi chiusi, accentrati e bellicosi. E nelle coscienze si affermò la convinzione ideologica che le nazioni fossero «stirpi» assolutamente diverse, fondate su principi inconciliabili.
 
La contraddittorietà dei principi del liberalismo, della democrazia e del socialismo con lo Stato nazionale.
I grandi movimenti rivoluzionari, che nel secolo scorso hanno affermato i principi della libertà, della democrazia e del socialismo sono stati caratterizzati fin dall’origine da una forte componente internazionalistica. La realizzazione di tali principi nell’ambito nazionale fu sempre intesa come una tappa necessaria alla loro estensione a livello europeo e mondiale. Quando i teorici liberali, democratici e socialisti hanno pensato all’avvenire delle relazioni internazionali hanno immaginato che i popoli, divenuti padroni del loro destino, grazie alla liberazione dal dominio monarchico e aristocratico o da quello borghese e capitalistico, non avrebbero più avuto motivi di conflitto. In altri termini, l’internazionalismo, spiegando la politica internazionale con le stesse categorie con le quali spiega la politica interna e imputando le tensioni internazionali e le guerre esclusivamente al carattere autoritario dei governi o alla struttura capitalistica del sistema economico, cioè alla natura delle strutture interne dello Stato, considera la pace come una conseguenza automatica della trasformazione delle strutture interne degli Stati. Si tratta di una concezione politica che, dal punto di vista teorico, non attribuisce alcuna autonomia al sistema politico internazionale rispetto alla struttura interna degli Stati e, dal punto di vista pratico, considera prioritarie le lotte per attuare la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale all’interno degli Stati e assegna un ruolo subordinato agli obiettivi della pace e dell’ordine internazionale. Formulata in un’epoca in cui la storia metteva all’ordine del giorno la trasformazione delle strutture interne dello Stato, essa presenta la pace come una conseguenza necessaria di tali trasformazioni. In realtà la pace del secolo scorso dipendeva dal soddisfacente equilibrio tra le potenze europee e l’espansione economica dall’unità del mercato mondiale, garantita dall’egemonia commerciale e navale della Gran Bretagna. Tali condizioni però non erano destinate a mantenersi indefinitamente.
Mentre si diffondeva l’illusione che il miglior equilibrio avrebbe potuto essere garantito fondando interamente l’Europa su basi nazionali, Proudhon con grande lungimiranza scrisse che la miscela esplosiva della fusione dello Stato e della nazione avrebbe accentuato le divisioni internazionali, trasformando gli Stati in «macchine di guerra» e le lotte tra i popoli in uno «sterminio di razze». Proudhon fu il primo a denunciare che la divisione dei poteri e il suffragio popolare, che dovrebbero garantire rispettivamente la libertà e l’uguaglianza politica, in una struttura statuale così rigida si sarebbero ridotti a vuote formule giuridiche. In effetti, negli Stati unitari, dove la divisione dei poteri ha una base esclusivamente funzionale, il legislativo e l’esecutivo tendono inevitabilmente a essere controllati dalle stesse forze politiche, con la conseguenza che il potere giudiziario, il più debole dei tre poteri, è ridotto quasi a un ramo della pubblica amministrazione. Così una democrazia che si manifesta soltanto a livello nazionale senza la base dell’autogoverno locale è una democrazia nominale, perché controlla dal vertice, soffocandole, le comunità, cioè la vita concreta degli uomini. E si può aggiungere che anche la pianificazione, se viene decisa al centro senza una relazione effettiva con l’ambiente umano nel quale sono radicate le istituzioni regionali e locali e con le esigenze reali che esse esprimono, non solo ha carattere autoritario, ma è inefficace, perché non si basa sulle preoccupazioni concrete degli uomini.
D’altra parte Frantz aveva intuito la contraddizione fondamentale del nazionalismo tra l’aspirazione all’autonomia e all’uguaglianza di tutti i popoli e la loro divisione politica. La divisione politica trasforma i popoli in gruppi armati e ostili e rende così precaria, e alla lunga impossibile, la loro coesistenza pacifica. La ineguale distribuzione del potere politico tra gli Stati determina rapporti egemonici e imperialistici degli Stati più forti nei confronti dei più deboli. L’autonomia e l’affratellamento di tutti i popoli, affermati nei principi, sono negati nella realtà. E l’affermazione del principio nazionale, prima in Italia e poi soprattutto in Germania, sconvolgendo l’equilibrio europeo e rendendo inevitabile la prima guerra mondiale con le sue caratteristiche di guerra generalizzata e totale, confermò il giudizio storico di Proudhon e di Frantz.
 
L’unificazione nazionale tedesca e la crisi del sistema europeo delle potenze.
La contraddizione tra la dinamica delle forze produttive e le strutture nazionali del potere politico si manifesta nel modo più acuto in Germania, l’ultima venuta nel sistema degli Stati nazionali del continente, la cui formazione sconvolge l’equilibrio europeo. Affermatasi rapidamente come la più forte delle potenze del continente, grazie a un impetuoso sviluppo industriale, situata all’incrocio di tutte le tensioni europee a causa della sua posizione geografica, la Germania entrò in conflitto con la Gran Bretagna contro il predominio commerciale e navale, che essa esercitava sui mari, per inserirsi nell’emergente sistema mondiale degli Stati.
Di conseguenza la Germania, per sviluppare il proprio sistema industriale adottò, secondo gl’insegnamenti di List, il sistema protezionistico e, per combattere l’egemonia inglese sui mari, costruì la marina da guerra. Da una parte, il protezionismo e il nazionalismo economico si estesero in modo contagioso agli altri paesi europei, disintegrando gradualmente l’unità del mercato mondiale garantita fino ad allora dall’egemonia inglese sui mari, proprio nel momento in cui i grandi spazi aperti diventavano indispensabili all’espansione delle forze produttive. D’altra parte, la sfida all’Impero britannico era anche una sfida al ruolo di ago della bilancia dell’equilibrio europeo che la Gran Bretagna svolgeva da secoli e che le aveva sempre consentito di difendere l’autonomia degli Stati più deboli, contribuendo a coalizzarli contro le potenze (la Spagna prima e la Francia poi) che avevano tentato di soggiogare l’Europa alla propria egemonia e quindi a mantenere in equilibrio il sistema.
Così apparve ben presto che l’esaurimento della fase storica dominata dall’egemonia navale e commerciale inglese, iniziata con l’affermazione della nazione tedesca, avrebbe esasperato le tensioni tra gli Stati fino a mettere in crisi l’equilibrio europeo e si sarebbe conclusa con un nuovo tentativo di egemonia sull’Europa.
Ma ciò che distingue il tentativo egemonico della Germania da quelli precedenti della Spagna e della Francia è che avviene nel momento in cui lo sviluppo delle forze produttive ha rafforzato la tendenza verso una sempre più stretta integrazione economica e sociale del mondo e la formazione di un sistema mondiale di Stati. Esso è espressione dell’esigenza della potenza più forte del continente europeo di partecipare alla politica mondiale in un’epoca nella quale gli Stati nazionali, con le loro strutture chiuse e accentrate erano entrati in contraddizione con l’evoluzione delle forze produttive e l’equilibrio internazionale e avevano acquisito, in seguito alla partecipazione attiva delle masse alla vita politica e sociale e agli sviluppi della tecnica moderna, inauditi strumenti di distruzione.
 
L’epoca dell’imperialismo.
La fase della storia mondiale che inizia con l’unificazione nazionale tedesca viene definita come l’epoca dell’imperialismo. Questa parola, entrata allora nel vocabolario politico, ha una connotazione negativa, a differenza della parola impero, che era stata sempre associata al valore della pace. Questa innovazione terminologica avviene in un’epoca nella quale l’affermazione degli Stati nazionali ha determinato la partecipazione attiva dei popoli alla vita politica, ponendo in termini nuovi il problema delle relazioni internazionali. La parola «imperialismo» designa infatti la dominazione di un popolo su di un altro popolo.
Si possono individuare due fasi distinte nella degenerazione imperialistica del sistema europeo delle potenze: la prima, nella quale è prevalente la lotta per la spartizione delle colonie, la seconda, che è dominata dalla lotta della Germania per l’egemonia in Europa e si conclude con la fine del sistema europeo delle potenze.
 
La lotta per la spartizione delle colonie.
In una prima fase il terreno dello scontro, volto a cercare nuovi spazi allo sviluppo delle forze produttive generate dalla rivoluzione industriale, sono i territori coloniali. La colonizzazione era un aspetto dell’espansionismo europeo che datava da quattro secoli. Ma ciò che distingue il periodo successivo al 1870 è la febbrile e sistematica penetrazione in tutte le zone della terra (soprattutto l’Africa e l’Asia), che erano ancora suscettibili di essere assoggettate alla dominazione coloniale.
Proiezione oltremare dei conflitti sul vecchio continente, diviso in Stati ormai troppo piccoli per contenere la dinamica delle forze produttive, nella sua motivazione fondamentale la lotta per le colonie rappresenta la manifestazione della necessità di trovare sbocchi alla produzione e ai capitali eccedenti e di garantire il rifornimento di materie prime. Tuttavia anche Stati che non avevano capitali e produzione eccedenti, come l’Italia, parteciparono alla lotta per le colonie, spinti dall’esigenza di non perdere terreno nell’equilibrio delle potenze.
Dopo che gli Stati europei ebbero completata la spartizione delle colonie e l’espansione degli Stati Uniti ebbe raggiunto il Pacifico, si concluse l’epoca dei grandi spazi aperti. Il mondo si restringe costantemente con l’intensificarsi delle comunicazioni e il moltiplicarsi degli scambi. Legate sempre di più le une alle altre, le diverse società sono ormai tutte comunicanti tra di loro e mentre dipendono sempre meno dalle sole determinanti interne, i rapporti internazionali diventano sempre più influenti. In sostanza il mondo, diventato sempre più piccolo e interdipendente nelle sue parti, tende irresistibilmente all’unificazione. Ma questa tendenza è frenata dal fatto che il sistema europeo delle potenze mantiene ancora il controllo della politica mondiale e l’antagonismo tra gli Stati impedisce di superare la coesistenza di numerosi piccoli Stati chiusi e indipendenti e di sviluppare rapporti di produzione e di scambio al di là delle barriere nazionali.
 
L’imperialismo europeo e la guerra mondiale.
Mentre in Asia nuove potenze (l’Impero degli Zar, il Giappone e gli Stati Uniti) si affacciavano sulla scena politica mondiale con una politica espansionistica, le tendenze aggressive delle potenze europee, completata la spartizione delle colonie, che ritardò soltanto lo scontro decisivo sul continente, resero inevitabile la prima guerra mondiale.
La prima guerra mondiale è la manifestazione di una nuova e più acuta fase della crisi dello Stato nazionale: quella dell’imperialismo europeo. Per valutare il terremoto che il principio nazionale determinò nei rapporti internazionali basta paragonare il carattere limitato delle guerre dinastiche dell’epoca dell’assolutismo illuminato con la guerra mondiale.
L’estensione di quest’ultima è l’espressione negativa della tendenza storica verso l’unificazione mondiale. Il suo carattere di guerra totale che mette al servizio della politica di potenza la tecnica progredita della civiltà industriale, coinvolgendo tutta la popolazione e tutte le risorse produttive, rivela come siano ormai caduti i limiti interni e internazionali allo scontro sfrenato degli egoismi nazionali e come lo scopo della guerra sia la totale distruzione del nemico.
Il fatto che l’intervento degli Stati Uniti sia stato decisivo per sconfiggere la Germania dimostra come l’Europa non possedesse più la forza per ritrovare da sola il proprio equilibrio e stesse per perdere la propria indipendenza e la direzione della politica mondiale a vantaggio di potenze di un altro ordine di grandezza. In effetti la Gran Bretagna con gli alleati europei non era più in grado di impedire l’unificazione del continente sotto l’egemonia tedesca. Così gli Stati Uniti, per evitare questa prospettiva, che avrebbe minacciato la loro sicurezza, furono costretti a gettare il loro peso sulla bilancia delle forze per ristabilire l’equilibrio in Europa.
 
La guerra mondiale e il problema degli Stati Uniti d’Europa.
La guerra rivela un fatto inquietante: la totale impotenza della classe politica europea a controllare le forze cieche suscitate dalla crisi dello Stato nazionale. In altri termini né la teoria liberal-democratica né la teoria social-comunista seppero riconoscere la direzione del movimento storico della società, che tendeva irresistibilmente verso il superamento dello Stato nazionale, né riuscirono a individuare obiettivi di lotta capaci di superare le contraddizioni della società europea e rimasero quindi prigioniere di una società che non erano in grado di cambiare.
Tuttavia in seno alle correnti politiche che si ispiravano a tali teorie si manifesta una parziale presa di coscienza di alcuni aspetti della nuova fase della storia. Si tratta naturalmente di voci isolate o di gruppi minoritari (ricorderemo Einaudi e Trotskij, i quali durante la guerra mondiale lanciarono all’opinione pubblica la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa), che tuttavia sono l’espressione della componente federalistica presente in quelle correnti politiche e manifestatasi tutte le volte che l’Europa fu scossa da una crisi abbastanza profonda da porre i problemi politici di fondo.
 
L’interpretazione di Trotskij.
Trotskij all’inizio della prima guerra mondiale scriveva: «Alla base dell’attuale guerra è la rivolta delle forze produttive sviluppate dal capitalismo contro la forma statale nazionale della loro utilizzazione. I vecchi Stati nazionali… sono superati e si sono trasformati in catene per lo sviluppo ulteriore delle forze produttive. La guerra del 1914 costituisce prima di tutto la crisi dello Stato nazionale come area economica autosufficiente».
E proseguiva: «In queste condizioni storiche la soluzione per il proletariato europeo non può comportare una difesa della ‘patria’ nazionale superata, che è diventata il principale freno al progresso economico: il compito che si impone è di creare una nuova patria, assai più potente e assai più stabile, gli Stati Uniti d’Europa come fase transitoria verso gli Stati Uniti del Mondo».[6]
Il merito di Trotskij consiste nell’aver intuito il nesso che esiste tra la crisi dello Stato nazionale e le guerre mondiali e nell’aver messo in luce che il superamento dello Stato nazionale, in quanto istituzione che soffoca lo sviluppo delle forze produttive, era un problema cruciale della nostra epoca che mette all’ordine del giorno la creazione di spazi politici ed economici integrati di dimensioni continentali. Bisogna però sottolineare i limiti della sua visione storica.
Per Trotskij la crisi dello Stato nazionale non è che un aspetto di una crisi più profonda: la crisi del capitalismo, costretto a trasformarsi in imperialismo per potersi sviluppare al di là dei confini nazionali. Tutti gli autori marxisti di quest’epoca da Lenin alla Luxemburg concepiscono l’imperialismo e la guerra come manifestazioni delle insanabili contraddizioni del capitalismo nella fase del suo pieno sviluppo e del suo crollo imminente. La storia smentì tale previsione. Il capitalismo, soprattutto dopo la crisi del ‘29 che esamineremo in seguito, è entrato in una fase di trasformazione che ha visto le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori acquisire crescenti poteri di controllo sull’indirizzo dello sviluppo economico-sociale.
Questa considerazione ci permette di affermare che, se non è avvenuto il crollo del capitalismo, siamo però entrati nella fase storica della transizione al socialismo, nel corso della quale, grazie alle riforme sociali, sono già stati rimossi gli ostacoli più gravi che si opponevano all’emancipazione del proletariato in quanto classe oppressa. Grazie al riconoscimento dei diritti di voto, di associazione e di sciopero, i lavoratori hanno conquistato salari superiori al livello di sussistenza, la riduzione dell’orario di lavoro, il controllo parziale dei processi economico-sociali, soprattutto nei paesi a regime di programmazione economica e di economia mista, anche se lo sfruttamento non è stato eliminato.
D’altra parte bisogna aggiungere che la dimensione nazionale dello Stato con la conseguente chiusura e con l’irrigidimento del sistema produttivo entro i suoi confini, minacciava non solo le prospettive di sviluppo, ma le stesse conquiste già acquisite dalla classe operaia. Tale minaccia non si manifestò invece negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, Stati capitalistici che disponevano però di immensi mercati interni o coloniali. Non era quindi il regime capitalistico, ma il carattere nazionale dello Stato, che frenava lo sviluppo delle forze produttive.[7] Ed era la tendenza dello Stato nazionale ad adeguarsi alle dimensioni continentali richieste dallo sviluppo produttivo che provocava l’imperialismo e la guerra. La causa ultima della guerra risiedeva dunque nella divisione politica dell’Europa e dell’antagonismo tra gli Stati e la sua rimozione dipendeva dalla creazione degli Stati Uniti d’Europa. E mentre Trotskij continuò ad aspettare per tutta la vita la rivoluzione socialista, in Europa si affermò il fascismo. Egli non comprese mai che la federazione europea era ormai la condizione della affermazione e dello sviluppo del socialismo e non la conseguenza della sua impossibile vittoria in un singolo Stato e della sua estensione a quelli vicini. In realtà solo l’abbattimento delle barriere nazionali (inteso come obiettivo autonomo di lotta e non come la conseguenza automatica del trionfo del socialismo nei vari Stati europei) avrebbe permesso di creare un quadro politico adatto all’espansione delle forze produttive e di conseguenza, di progredire sulla strada dell’emancipazione sociale.
 
L’interpretazione di Einaudi.
Fu Einaudi, in due memorabili articoli pubblicati nel 1918 sul «Corriere della Sera», ad individuare le linee di fondo di una simile interpretazione. Egli definisce la guerra mondiale come una manifestazione dell’esigenza di unità dell’Europa, «lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore» agli Stati nazionali.[8]
Ma, a differenza di Trotskij, concepisce gli Stati Uniti d’Europa come il mezzo attraverso il quale le nazioni avrebbero potuto garantire «a se stesse, come parti di un superiore organo statale, la vera sicurezza contro i tentativi di egemonia a cui nella presente anarchia internazionale, lo Stato più forte è invincibilmente tratto dal dogma funesto della sovranità assoluta».[9] Un’organizzazione federale degli Stati europei, sul modello degli Stati Uniti d’America, avrebbe permesso di dare una risposta adeguata ai problemi messi all’ordine del giorno della storia. Einaudi giunse a questi risultati grazie alla teoria della ragion di Stato[10] e alla teoria dello Stato federale.
La teoria della ragion di Stato impiega nello studio della politica internazionale categorie diverse da quelle utilizzate per l’analisi della politica interna. La politica di potenza e le tendenze bellicose che si formano nei rapporti tra gli Stati sono imputate sostanzialmente all’anarchia internazionale, cioè alla pura e semplice divisione del genere umano in Stati sovrani, in conseguenza della quale ogni Stato, indipendentemente dal regime politico e dal sistema produttivo, deve piegarsi alla legge della forza per tutelare la propria indipendenza.
Il concetto di anarchia internazionale non esclude che si formino dei sistemi di Stati, nell’ambito dei quali si stabilisca un equilibrio di potere, in modo che ciascuno Stato abbia assegnato un proprio ruolo, obbedisca a regole abbastanza stabili e sia così assicurato un relativo ordine internazionale. Né esclude un’influenza subordinata delle strutture interne dello Stato, come ad esempio il sistema economico o il regime politico, sulla politica estera, nel senso che quest’ultima, pur essendo sempre determinata da esigenze di sicurezza e di potenza, si adegua nei mezzi e nei contenuti alla natura di tali strutture.
La teoria della ragion di Stato, mostrando come la lotta tra gli Stati influenzi la loro struttura interna nel senso della chiusura e dell’accentramento, di modo che i valori liberali, democratici e socialisti sono immancabilmente subordinati ai bisogni bellicosi e autoritari, che la sopravvivenza dello Stato nell’arena politica internazionale alimenta, mette in luce un aspetto ideologico della teoria liberal-democratica[11] e di quella social-comunista: l’estensione sul terreno internazionale dei valori di cui tali teorie sono portatrici non è la conseguenza automatica della trasformazione dell’ordine interno degli Stati, ma richiede una lotta specifica per instaurare un ordine pacifico al di sopra degli Stati.
La teoria dello Stato federale, in quanto teoria del governo democratico supernazionale, mostra come i rapporti tra gli Stati siano dominati dalla legge della forza finché non li regola un potere superiore e che quindi qualsiasi lotta per umanizzare le relazioni internazionali presuppone che quest’ultime siano sottratte alla sfera pre-giuridica dello stato di natura e inserite in un ordinamento giuridico supernazionale.
In sostanza Einaudi individua la causa ultima della guerra nell’anarchia internazionale e non nel capitalismo e nell’unificazione federale dell’Europa il solo modo per garantire la pace.
 
Materialismo storico e ragion di Stato.
La rilevanza teorica della dottrina della ragion di Stato consiste nel riconoscimento della relativa autonomia delle strutture del potere politico nel determinare il corso della storia, anche se, come è stato messo in luce dalla concezione materialistica della storia, le strutture della produzione determinano «in ultima istanza» la struttura dello Stato. In termini molto generali si può pensare a un’integrazione tra la teoria della ragion di Stato e del materialismo storico nel modo seguente.
L’evoluzione del modo di produrre determina, in ultima istanza, la forma delle relazioni che si stabiliscono tra gli uomini, il loro grado di dipendenza reciproca e i limiti entro i quali è possibile organizzare gruppi umani. Quanto alla dimensione dello Stato, si può affermare che l’evoluzione del modo di produrre tende a moltiplicare e intensificare costantemente le relazioni sociali e a unificarle in aree sempre più vaste, che a ogni stadio di tale evoluzione le dimensioni dello Stato si sono allargate dalla città, alla regione, alla nazione, al continente, ma che non esistono ancora le condizioni sociali per creare una comunità politica di dimensioni mondiali. Dal punto di vista sociale questo processo non è il risultato di un’azione cosciente degli uomini, ma si realizza indipendentemente dalla loro volontà, ed è il risultato della trama complessiva delle azioni reciproche degli individui appartenenti a Stati differenti.
Esso non si realizza senza contrasti. In effetti il mutamento sociale e il movimento storico avvengono nel quadro di istituzioni, le quali sono sostenute dalle forze politiche e sociali dominanti. Quando con lo sviluppo della società, tali istituzioni, invece di favorire lo sviluppo delle forze produttive, lo ostacolano, si apre la crisi rivoluzionaria. Il mutamento delle strutture politiche è un momento di rottura rivoluzionaria, nel quale la coscienza si innesta sul corso della storia e lo orienta verso il superamento delle sue contraddizioni, realizza cioè il riadattamento delle istituzioni politiche allo sviluppo della società[12] e una diversa distribuzione del potere tra le forze politiche e sociali.
Lo Stato e il sistema mondiale degli Stati costituiscono il quadro giuridico e politico nel quale si svolge il processo di produzione e di riproduzione della vita sociale. Ad essi Marx ed Engels assegnano un ruolo sovrastrutturale. Il che non significa che tale ruolo sia insignificante nella determinazione del corso storico. «La sovrastruttura», scrive Althusser, «non è il puro fenomeno della struttura, ne è anche la condizione di esistenza».[13] In altri termini, senza lo Stato, cioè senza l’ordine pubblico e la difesa nei confronti degli altri Stati, e senza il sistema mondiale degli Stati, cioè senza quel minimo di ordine e di equilibrio internazionale, che esso garantisce, non sarebbe possibile il funzionamento del processo produttivo. Ora però il rapporto che esiste tra i processi storico-sociali e le strutture politiche è, per utilizzare una famosa immagine di Trotskij, lo stesso che esiste tra il vapore e un cilindro a pistone. Senza organizzazione politica «l’energia delle masse si volatizzerebbe come il vapore non racchiuso in un cilindro a pistone. Eppure il movimento dipende dal vapore e non dal cilindro o dal pistone».[14]
Le strutture del potere possiedono dunque una «relativa autonomia», obbediscono cioè alle leggi specifiche della vita politica, le quali solo «in ultima istanza» sono costrette a piegarsi alle esigenze della produzione. Il che significa che, mentre i mutamenti irrilevanti nel modo di produrre non si ripercuotono sulla sovrastruttura, le grandi svolte nell’evoluzione del modo di produrre sconvolgono la sovrastruttura e la costringono ad adeguarsi alle esigenze della produzione sociale. Il rapporto tra la struttura produttiva e la sovrastruttura politica è, come scrisse Engels, un’«azione reciproca tra due forze ineguali», in cui il ruolo della sovrastruttura può essere quello di favorire (quando c’è «corrispondenza» tra forze produttive, rapporti di produzione e sovrastruttura politica) o di inceppare (quando non c’è tale «corrispondenza») lo sviluppo delle forze produttive.[15]
Orbene, se prendiamo in esame la situazione del sistema mondiale degli Stati all’epoca della prima guerra mondiale, possiamo constatare che tale sviluppo da una parte era favorito dalle dimensioni dello Stato nella Grande Russia e negli Stati Uniti, in modo relativamente indipendente dal loro regime politico (anche se, ovviamente, la struttura del regime costituisce un fattore che in determinate circostanze può frenare e in altre accelerare lo sviluppo delle forze produttive, come per esempio dimostrano gli effetti della trasformazione dell’Impero degli Zar in Unione Sovietica). D’altra parte invece con la crisi del sistema europeo, derivante dall’affermazione della potenza tedesca, la divisione politica dell’Europa e l’antagonismo tra gli Stati si trasformarono in altrettanti limiti al libero sviluppo delle forze produttive e scatenarono spaventose forze distruttive.
Venuto meno l’equilibrio europeo, fino allora garantito dalla Gran Bretagna, ogni Stato cercò di adattare il proprio sistema produttivo alle condizioni di crescente insicurezza internazionale e di indebolire i vicini con il protezionismo. Il mercato mondiale si trasformò, in contraddizione con le esigenze della produzione moderna, in una somma di mercati nazionali chiusi.
La prima guerra mondiale è quindi il prodotto della contraddizione tra il sistema europeo degli Stati come sistema egemonico mondiale, fondato sul principio della sovranità nazionale, e la tendenza della storia che premeva verso forme sempre più ampie di unificazione sociale supernazionale e l’accrescimento dell’interdipendenza tra gli Stati. E’ l’espressione del bisogno di unità dell’Europa e di nuovi equilibri internazionali che garantissero di nuovo l’unità del mercato mondiale.
La decadenza storica del sistema degli Stati nazionali, derivante dal modo irrazionale nel quale era organizzato il potere politico in Europa, si espresse nell’incapacità di tenere a freno la violenza che dilagò tanto nei rapporti internazionali, quanto all’interno dei singoli Stati, minacciando alla radice la stessa civiltà europea.
E’ stato quindi un fattore politico (lo Stato nazionale, la divisione dell’Europa in numerosi Stati nazionali) che ha frenato lo sviluppo delle forze produttive, anche se «in ultima istanza», l’evoluzione del modo di produrre si impone sempre, come dimostra il fatto che nel secondo dopoguerra l’integrazione europea ha fatto saltare le barriere nazionali.
Ma l’integrazione europea si è imposta contro la resistenza opposta dagli Stati nazionali. Ciò significa che, come scrisse Engels, «la reazione del potere dello Stato… può andare contro la corrente [dell’evoluzione del modo di produrre], ma a lungo andare essa fallisce».[16]
Il grado di sviluppo del modo di produrre determina quindi, in ultima istanza, le dimensioni dei gruppi umani e dei fenomeni di integrazione politica e sociale. Ma ciò significa anche che l’integrazione europea si è potuta affermare grazie a una trasformazione rivoluzionaria[17] nel sistema politico internazionale, la nascita del sistema mondiale degli Stati, nell’ambito del quale gli Stati nazionali europei, distrutti come centri di potere indipendenti e ridotti alla condizione di satelliti degli U.S.A. e dell’U.R.S.S., hanno potuto rovesciare la tendenza storica della divisione e dell’antagonismo, sviluppando nuove forme di collaborazione internazionale e di integrazione economica nelle rispettive sfere di influenza.
 
Il fallimento della Seconda internazionale.
La prima guerra mondiale rappresenta lo sbocco catastrofico dell’affermazione del principio nazionale in Europa e della corrispettiva disintegrazione della comunità internazionale. Per illustrare le caratteristiche nuove di questa fase storica è sufficiente soffermarsi su due manifestazioni clamorose del cedimento del socialismo al nazionalismo: il fallimento della Seconda internazionale e la costruzione del socialismo in un paese solo dopo la rivoluzione di ottobre.
Il fallimento della IIa Internazionale, che dimostrò l’impotenza della classe operaia a impedire la guerra mondiale con lo sciopero generale rivelò che la solidarietà nazionale era più forte di quella internazionale, mise in luce che il socialismo non era in grado di piegare le relazioni internazionali ai principi che era riuscito ad imporre all’interno dello Stato. L’internazionalismo socialista si fonda sull’illusione che l’interesse ad abbattere il capitalismo, che accomuna i lavoratori, indipendentemente dalla loro nazionalità, sia sufficiente a realizzare un’effettiva solidarietà internazionale tra i lavoratori.
Il limite dell’internazionalismo consiste nel trascurare l’autonomia che possiedono le strutture dello Stato in conseguenza della divisione del genere umano in Stati sovrani e l’ostacolo che esse rappresentano nel raggiungimento di un’effettiva solidarietà tra i popoli e tra i lavoratori al di là delle frontiere nazionali.[18] Le procedure democratiche di formazione delle decisioni politiche e di organizzazione delle masse si arrestano ancora completamente ai confini degli Stati, al di là dei quali perdura lo scontro diplomatico e militare tra gli Stati non regolato da leggi. Gli individui, singolarmente o organizzati in partiti o in sindacati, non dispongono di alcuno strumento di azione politica al di là dei confini dello Stato nazionale che non siano le procedure di vertice della politica estera. Ancora oggi le istituzioni attraverso le quali avviene la partecipazione democratica non consentono che di agire nel proprio paese e di influenzare la politica del proprio paese. Il nazionalismo non può essere superato semplicemente sul piano culturale, perché è un problema di natura politica e, più specificamente, di organizzazione politica,[19] che può essere risolto soltanto estendendo il diritto, gli strumenti di controllo democratico e di pianificazione economica alla sfera delle relazioni internazionali con le istituzioni federali. L’internazionalismo concepisce lo Stato nazionale come la forma più elevata di organizzazione politica e la divisione del genere umano in Stati nazionali come un dato naturale e non storicamente determinato. Non mettendo in discussione lo Stato nazionale, finisce con l’essere una copertura ideologica della conservazione nazionale e delle posizioni di potere nazionali, tanto di governo, quanto di opposizione.
Solo se si risolve il problema, trascurato dall’internazionalismo, di distruggere o almeno di limitare la sovranità nazionale esclusiva, causa ultima della politica di potenza e della guerra, diventa possibile piegare la politica internazionale alle stesse regole alle quali ubbidisce la politica interna. Finché perdura la divisione e l’antagonismo tra gli Stati, le internazionali dei partiti e dei sindacati non sono in grado di schierare le masse dietro le proprie decisioni, perché non sono assemblee democratiche capaci di stabilire la linea politica internazionale dei lavoratori. Non sono altro che conferenze di dirigenti con il compito di difendere gli interessi nazionali del proprio partito o del proprio sindacato in un mondo di nazioni antagonistiche. E i dirigenti che, in nome dell’internazionalismo, non difendessero gl’interessi nazionali dei lavoratori che rappresentano finirebbero con l’essere rimossi dal loro posto. Mancando così le condizioni istituzionali che permettono alle masse di esprimersi in modo unitario a livello internazionale, la divisione tende a prevalere sull’unità e la solidarietà nazionale su quella internazionale.
 
La componente federalistica della rivoluzione russa e il socialismo in un paese solo.
Anche nella rivoluzione russa, come già nella rivoluzione francese si può identificare una componente federalistica. Abbiamo visto che Trotskij aveva lanciato la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa fin dall’inizio della guerra mondiale, essendo consapevole che il socialismo, se fosse rimasto confinato in un solo paese, sarebbe degenerato e che quindi avrebbe dovuto estendersi sul terreno europeo, per aprire la strada alla sua affermazione universale. Tale parola d’ordine fu introdotta nelle tesi del «Socialdemocratico», l’organo centrale del partito bolscevico, e poi respinta da Lenin in un famoso articolo del 1915, nel quale però non ne poté contestare il valore positivo.
Egli si limitò a ribadire che il compito preliminare era la realizzazione della rivoluzione socialista dovunque fosse possibile, a cominciare da alcuni paesi o anche da un solo paese. Ma siccome pensava che essa fosse imminente in tutta l’Europa, il momento di lanciare quella parola d’ordine era soltanto rimandato al tempo in cui il socialismo avesse trionfato. Di conseguenza tale presa di posizione non equivaleva affatto al rifiuto del principio dell’unità europea, l’estensione a livello internazionale della rivoluzione essendo stata considerata sempre da Lenin una condizione indispensabile della sua realizzazione.
Successivamente, nel 1923, Trotskij riuscì a far adottare la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa dall’Internazionale comunista, quando, da una parte, l’occupazione della Ruhr ripropose in termini drammatici il tema dell’antagonismo franco-tedesco con i pericoli che la sua esplosione comportava per l’equilibrio europeo, e, d’altra parte, le speranze di una rivoluzione in Germania e della sua estensione al resto dell’Europa si erano riaccese per l’ultima volta.
Ma fu poi lasciata cadere con Stalin. Prevalse così il principio della costruzione del socialismo in un paese solo e mentre l’U.R.S.S., malgrado la profonda degenerazione che vi ha subito la rivoluzione d’ottobre, possedeva la struttura e le dimensioni necessarie a garantire lo sviluppo delle forze produttive, negli Stati dell’Europa centrale e occidentale la lotta della classe operaia, isolata e soffocata entro le troppo strette dimensioni nazionali, dovette piegarsi al dilagare del totalitarismo fascista.
D’altra parte nel sistema dei Soviet si è manifestata l’esigenza di decentramento del potere e di autonomia di gestione economica e politica contro le tendenze burocratiche e accentratrici dell’apparato statale. Ma il controllo operaio dal basso fu soppiantato dal controllo dal vertice da parte del partito, nel quale si concentrò rapidamente tutto il potere.
La degenerazione della rivoluzione russa dimostra che anche il marxismo è dovuto scendere a compromessi con la ragion di Stato. Il che significa che ciò che negava teoricamente l’ha poi dovuto accettare nei fatti (non è possibile affermare i valori contro la potenza, se non adeguandosi alle sue leggi).
Non è dunque sorprendente per chi ragiona in base alla categoria della ragion di Stato che il socialismo si sia potuto mantenere in un paese solo di dimensioni gigantesche, capace di difendere la propria autonomia contro l’accerchiamento di un mondo ostile, e che lo Stato-guida dell’esperienza socialista sia stato spinto a subordinare al proprio interesse nazionale quello del socialismo e della rivoluzione mondiale e nella lotta per la sopravvivenza sia stato costretto ad abbandonare il sistema dei Soviet, la tematica del deperimento dello Stato e della società comunista e abbia cercato con ogni mezzo (compresa l’occupazione militare) di piegare alla propria ragion di Stato le varie componenti del movimento comunista internazionale.
D’altra parte, la spaventosa arretratezza dell’U.R.S.S. e l’imperativo di una rapida industrializzazione che comportava la accumulazione forzata e la compressione dei consumi, contribuirono ulteriormente alla centralizzazione del potere.
La rivoluzione russa non seppe dunque risolvere il problema internazionale posto dalla formazione dello Stato nazionale. Né la trasformazione socialista, prima della Russia, poi di altri Stati, determinò una modificazione sostanziale del carattere tendenzialmente violento delle relazioni internazionali.
 
L’impotenza della Società delle nazioni di fronte al disordine internazionale.
Dopo la guerra gli Stati Uniti si ritirarono nel loro tradizionale isolamento, l’Unione Sovietica si concentrò nello sforzo titanico di creare una moderna società industriale e l’Europa fu abbandonata in preda al nazionalismo. Mentre la classe dirigente europea si attendeva dalla generalizzazione del principio nazionale (che coprì l’Europa di un mosaico di piccoli Stati in lotta tra loro e che ebbe l’effetto di aggravare l’anarchia internazionale) e dalla fondazione della Società delle Nazioni, decise a Versailles, lo sviluppo del sistema democratico e l’inizio di un’era di pace, si crearono le premesse del fascismo e del nazismo, della seconda guerra mondiale e del crollo definitivo del sistema europeo degli Stati.
La S.d.N., come scrisse Einaudi fin dal 1918,[20] non era un’istituzione adeguata ad affrontare il problema del disordine internazionale e ad instaurare la pace poiché gli Stati membri conservavano integralmente la loro sovranità nazionale. Solo un’organizzazione di tipo federale, sul modello degli Stati Uniti d’America, avrebbe permesso di garantire la pace in Europa.
Si trattava di una soluzione del tutto illusoria della crisi del sistema europeo. Di conseguenza le contraddizioni derivanti dal mancato superamento della sovranità nazionale si sarebbero ripresentate in forma più acuta, perché la storia ripropone continuamente i problemi che gli uomini non riescono a dominare teoricamente e a risolvere praticamente.
 
Il nazi-fascismo, estrema forma degenerativa dello Stato nazionale.
Nel periodo tra le due guerre la tensione internazionale e il nazionalismo paralizzano la circolazione degli uomini (per la prima volta gli Stati Uniti emanano leggi restrittive dell’emigrazione) e ostacolano quella delle merci (si diffonde il protezionismo, derivante dal desiderio di ogni Stato di raggiungere l’autosufficienza economica e di controllare il proprio apparato produttivo per rafforzare la propria potenza e indebolire quella dei vicini, l’esperienza della guerra avendo mostrato che il paese più capace di reggere in caso di conflitto era quello che poteva meglio provvedere ai propri bisogni in termini di approvvigionamento di prodotti industriali, materie prime e derrate alimentari).
Il disordine e l’instabilità internazionale spingono i governi ad accrescere il controllo sull’apparato produttivo per adattarlo alle esigenze dell’economia di guerra.
Gli intralci che subiscono gli scambi favoriscono l’apparizione di industrie parassitarie che operano al riparo della concorrenza internazionale, che tuttavia vengono protette per non aggravare la disoccupazione e per non danneggiare produzioni indispensabili alla difesa.
Il ristagno dello sviluppo produttivo, conseguenza della trasformazione del mercato mondiale in una somma di economie chiuse, è particolarmente grave in Europa dove l’esiguità degli spazi economici è causa di debolezza e di asfissia.
Uno dei segni più evidenti della decadenza dell’Europa può essere individuato nelle statistiche relative allo sviluppo economico. Il rallentamento del ritmo di sviluppo dell’Europa rispetto agli Stati Uniti nel periodo tra le due guerre dipende dall’impossibilità degli Stati europei per ragioni difensive di formare un mercato unificato al di là delle barriere nazionali. Mentre gli Stati Uniti introducono nuove tecniche produttive, che permettono di realizzare la produzione di massa e di praticare una politica di alti salari, condizione dell’espansione della domanda interna, in Europa il ristagno economico e la disoccupazione determinarono la radicalizzazione della lotta di classe e l’immiserimento delle masse proletarie e piccolo-borghesi. La borghesia e i ceti medi nell’Europa centrale, in Italia e in Germania, terrorizzati dall’ascesa del comunismo, che con la rivoluzione di ottobre aveva modificato i rapporti di forza del mondo tra socialismo e capitalismo e ora minacciava dall’interno i regimi democratico-liberali dell’Occidente e il sistema capitalistico,[21] appoggiarono il fascismo. Il fascismo vince nei paesi più vulnerabili a causa delle piccole dimensioni del mercato, che hanno le strutture economiche più deboli, che non dispongono di vaste dipendenze coloniali e dove i regimi democratici sono meno consolidati e quindi più fragili. La forza del fascismo deriva esclusivamente dall’incapacità delle forze e delle istituzioni democratiche a risolvere i problemi di fondo di politica interna e di politica internazionale, a garantire cioè l’espansione economica e la sicurezza.
Lo Stato nazionale giunto alla fase più acuta della sua crisi, non è più in grado di mantenere il regime democratico e genera tirannidi di tipo nuovo il cui carattere totalitario era già latente nella sua struttura chiusa e accentrata.[22]
La grande crisi del ‘29 mette in discussione il legame che gran parte dell’opinione pubblica dell’Occidente aveva stabilito tra capitalismo e prosperità: il regime della libera impresa aveva provocato il caos e la depressione. L’intervento dello Stato nella regolazione del processo economico rappresenta l’innovazione fondamentale della società neocapitalistica. Il sistema si può mantenere a condizione di prevenire la disoccupazione attraverso investimenti pubblici (dalle sovvenzioni alle imprese in difficoltà, alle commesse, alle opere pubbliche, alle nazionalizzazioni) e di espandere i consumi, elevando il tenore di vita dei lavoratori. Il fatto nuovo è costituito dalla crescente influenza del potere organizzato dei lavoratori che permette a questi ultimi di incidere concretamente, nei sistemi democratici, sulla politica economica e di ottenere una redistribuzione più giusta della ricchezza.
Mentre negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, dove l’espansione della produzione era favorita da immensi mercati interni o coloniali, le istituzioni democratiche sopravvissero alla crisi con un semplice rafforzamento dei poteri del governo, anche se in Francia la democrazia fu scossa duramente, in Germania, dove la produzione era soffocata dai ristretti confini nazionali, la classe dirigente scelse il fascismo. L’Italia e la Germania, modificato a loro favore l’equilibrio europeo, contribuirono in modo determinante con il loro intervento alla vittoria del fascismo in Spagna. Ma il fascismo è stato un fenomeno ben più ampio, che si è manifestato nel generale regresso della libertà, della democrazia e del socialismo, nel prevalere incontrastato degli egoismi nazionali e nell’impotenza delle democrazie, che hanno salvato le loro istituzioni a condizione della passività e dell’acquiescenza verso le tendenze aggressive delle dittature fasciste.
Mai, come in questa fase della storia d’Europa, apparve più vero il principio, che Kant aveva enunciato nel 1784, prima ancora che l’era del nazionalismo diffondesse i suoi veleni, secondo il quale «il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo».[23]
Il fascismo ha rappresentato il tentativo di andare contro la linea evolutiva della storia.
E’ stato l’espressione della volontà di vivere dello Stato nazionale in una situazione storico-sociale nuova, che favoriva l’ascesa, alla guida della politica mondiale, delle potenze di dimensioni continentali, portando fino alle estreme conseguenze la logica totalitaria della mobilitazione di tutte le risorse materiali e ideali della società nella politica di potenza e della compressione di tutte le forze produttive entro i propri confini, cercando di espandere la produzione, favorendo le concentrazioni produttive e accrescendo il controllo statale sullo sviluppo economico, mediante la pianificazione.
Sul piano economico-sociale ha rappresentato la risposta autarchica e corporativa al ristagno economico e alla radicalizzazione della lotta di classe e sul piano politico la risposta imperialistica a un equilibrio europeo ormai insostenibile e a un ruolo egemonico mondiale ormai in piena decadenza.
L’aspirazione egemonica della Germania, non era altro, come vide giustamente Einaudi,[24] che una manifestazione della esigenza di unità dell’Europa.
Nella misura in cui la Germania per sopravvivere era costretta a cercare il proprio «spazio vitale» sul territorio degli Stati vicini e a trasformarsi così in un impero europeo, sottolineava la decadenza storica dello Stato nazionale. Infatti, se tale disegno si fosse avverato, la Germania avrebbe negato il proprio carattere di Stato nazionale e distrutto il sistema europeo degli Stati.
D’altra parte la sopravvivenza della Germania comportava la distruzione del sistema democratico, necessaria per adattare l’apparato produttivo alle esigenze di sviluppo della società industriale nei ristretti confini nazionali. In tal modo veniva distrutto il legame tra principio nazionale e principio democratico, che si traduce nell’idea dell’autodeterminazione dei popoli e che, affermatosi con la rivoluzione francese, si era esteso alla Germania nel 1871.
Affinché lo Stato nazionale potesse continuare a esistere era necessario che non mutassero le condizioni interne e internazionali della sua sopravvivenza. Lo sviluppo delle forze produttive tendeva però a distruggere tali condizioni invece di riprodurle. Da un lato premeva nel senso della distruzione delle istituzioni democratiche per realizzare l’espansione all’interno, e nel senso dell’ingrandimento delle dimensioni della comunità politica e quindi della guerra di conquista per realizzare l’espansione verso l’esterno.
D’altro lato rafforzava le potenze laterali al sistema europeo dotate di dimensioni continentali, il cui interesse convergente le spingeva ad allearsi per schiacciare l’imperialismo europeo della Germania. L’evoluzione storica faceva dunque maturare le condizioni del superamento dello Stato nazionale.
 
Il problema dell’unità europea tra le due guerre mondiali.
La crisi dello Stato nazionale, esplosa con la prima guerra mondiale, rese possibili le prime azioni politiche per l’unità europea sostenute da un movimento di opinione.[25]
Il movimento Paneuropa, fondato da Coudenhove Kalergi, ispirò il progetto di unione europea che Briand presentò alla Società delle Nazioni nel 1929.
Ma la storia sbarrava la strada a qualsiasi progetto di carattere federalistico. Il sistema europeo delle potenze, malgrado la su profonda decadenza, continuava a svolgere un ruolo egemonico mondiale a causa dell’isolamento degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Il problema dell’unità europea non poteva che porsi nei termini di una collaborazione tra Stati per fronteggiare le potenze laterali al sistema europeo, che avrebbero formato i due poli del sistema mondiale degli Stati e per mantenere i rispettivi imperi coloniali. E in effetti il progetto di Briand era guidato dalla preoccupazione di non ledere la sovranità di nessuno Stato; aveva cioè carattere confederale e non federale.
Ma l’opposizione della Gran Bretagna, fedele alla sua tradizionale politica volta a contrastare ogni tentativo di unificare il continente, e poi l’avvento al potere di Hitler in Germania fecero crollare la fragile costruzione diplomatica, volta a varare un embrione di organizzazione europea, fondata sull’accordo tra Briand e Stresemann.
Venuta meno la possibilità di un’intesa e di una collaborazione tra Francia e Germania, i principali antagonisti sul continente, il sistema europeo degli Stati si avviava così verso la sua più immane e definitiva catastrofe.
Negli anni precedenti la seconda guerra mondiale la Gran Bretagna, un osservatorio particolarmente favorevole per studiare la decadenza del sistema europeo degli Stati, fu la sede dove si sviluppò un importante movimento politico federalistico (Federal Union, promosso da Lord Beveridge), il quale impiegò i principi politici della teoria federalistica per spiegare la crisi dello Stato nazionale.
Lord Lothian precisò l’insegnamento kantiano sulla natura della guerra e della pace, applicandolo al mondo contemporaneo, identificò nell’anarchia internazionale la causa della guerra e ne indicò il rimedio nelle istituzioni federali. Nello stesso tempo l’anarchia internazionale viene definita come il principale ostacolo alla piena affermazione del liberalismo (L. Robbins) e del socialismo (B. Wootton).[26]
Federal Union influenzò Churchill, il quale nel 1940, al fine di rafforzare la resistenza al nazismo, propose alla Francia, che stava per cadere sotto la dominazione tedesca, di unirsi alla Gran Bretagna, sotto un parlamento comune.
Nel momento del crollo del sistema europeo per la prima volta un governo nazionale, rovesciando la tendenza storica del sistema fondata sul principio dell’equilibrio tra Stati indipendenti, formulava dunque una proposta di unificazione federale. E’ il segno che il principio federale è diventato un obiettivo politico operativo.
Com’è noto, la proposta non trovò nel governo francese sconfitto un interlocutore preparato ad accogliere un progetto così rivoluzionario e fu lasciata cadere. Così l’Europa non imboccò una strada che avrebbe potuto portarla all’unificazione federale sulla base del primo nucleo anglo-francese.
 
La nascita dei movimenti federalisti durante la Resistenza.
Sotto il profilo politico e militare la Resistenza restò dunque un fatto nazionale. Tuttavia come in tutte le epoche di crisi bellica o rivoluzionaria che hanno scosso l’Europa dopo la rivoluzione francese, dal punto di vista ideale, in tutte le correnti politiche si è manifestata una componente europeistica e federalistica. Ma la radicale novità della Resistenza consiste nella formazione di movimenti federalistici che partecipano alla lotta contro il nazi-fascismo con una autonoma fisionomia politica (il Movimento federalista europeo fu fondato in Italia nel 1943, il Comitato francese per la federazione europea nel 1944). E ciò che è singolare è che i numerosi gruppi che professavano questo ideale nacquero spesso l’uno all’insaputa dell’altro nella lotta clandestina.
Alla base di questo fatto non può che esserci una profonda trasformazione storica (la fine dello Stato nazionale come fattore attivo della politica internazionale e la fine del sistema europeo delle potenze), che mette all’ordine del giorno della storia il problema del superamento dello Stato nazionale e rende l’unificazione europea un obiettivo politico concretamente perseguibile. In effetti, fino alla seconda guerra mondiale, cioè finché la crisi dello Stato nazionale non giunse alla fase culminante, il federalismo non poté andare al di là della semplice negazione dello Stato nazionale e rimase spettatore interamente passivo di un movimento storico sottoposto a leggi sulle quali non poteva ancora intervenire.[27]
Se già verso la fine del XIX secolo era possibile constatare, come aveva fatto Seeley, che la potenza tendeva a emigrare verso gli sterminati spazi esterni al sistema europeo, tuttavia tale sistema era destinato a rimanere il centro della politica mondiale, finché il suo crollo non costringerà le potenze laterali ad intervenire per colmare il vuoto di potere formatosi in Europa. Fino alla seconda guerra mondiale la logica antagonistica di tale sistema impedì di sviluppare rapporti di collaborazione politica ed economica tra gli Stati a livello europeo.
Il significato ultimo delle guerre mondiali sta nella impossibilità della società europea di continuare a vivere in un regime di Stati nazionali, la cui sovranità assoluta era diventata incompatibile con un minimo di equilibrio e di ordine internazionale, di sviluppo economico e di stabilità democratica.
Come si può constatare leggendo il discorso pronunciato all’Assemblea costituente,[28] Einaudi identificò nel problema dell’unificazione europea il filo conduttore della storia del nostro secolo, definì le guerre mondiali come due tentativi di risolverlo con la violenza e indicò la causa di tali guerre nella contraddizione tra il carattere tendenzialmente supernazionale della produzione e di tutti gli altri aspetti della condotta umana ad essa direttamente o indirettamente collegati e le dimensioni nazionali dello Stato.
Il crollo del sistema degli Stati nazionali durante la guerra fa dunque nascere l’idea della possibilità e della necessità di ricostruire l’Europa su basi unitarie.
Il Manifesto per un’Europa libera e unita,[29] scritto da A. Spinelli e E. Rossi nel 1941 nel confino di Ventotene, enuncia i principi fondamentali che ispireranno l’azione dei movimenti federalistici: l’attribuzione alla crisi dello Stato nazionale della causa dell’imperialismo, della guerra, e della degenerazione della vita politica e sociale, di modo che «se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale», scrivono, «sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie»,[30] e l’identificazione della «linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari» non con «la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire» ma con «la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale e che faranno sia pure involontariamente il gioco delle forze reazionarie, lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità — e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale».[31]
Il giudizio storico sul quale si fonda l’autonomia teorica e politica del movimento federalistico, si riassume nel concetto di crisi dello Stato nazionale, di un potere che non essendo più in grado di controllare le tendenze di fondo del corso storico, è diventato il principale ostacolo allo sviluppo delle forze produttive e al rinnovamento della società e condanna al fallimento tutte le alternative politiche nazionali di sinistra.
Questo punto di vista permetterà di denunciare i limiti delle battaglie per trasformare la società in senso più democratico e socialista condotte nel quadro nazionale e l’illusione di chi considera tali battaglie pregiudiziali rispetto a quella per la federazione europea.
La conquista del potere nazionale non costituisce più un obiettivo che consenta ai cittadini e ai lavoratori europei di prendere in mano il loro destino, perché gli Stati nazionali non sono più centri di decisioni autonome, ma sono subordinati a centri di potere politici ed economici internazionali, dai quali dipendono le sorti dell’umanità.


[1] L. Dehio, La Germania e la politica mondiale del XX secolo (1955), trad. it. Milano, 1962, p. 111.
[2] Cfr. M. Albertini, «Le radici storiche e culturali del federalismo europeo» in M. Albertini, A. Chiti-Batelli, G. Petrilli, Storia del federalismo europeo, Torino, 1973, pp. 43-90.
[3] Il concetto di crisi dello Stato nazionale occupa nella teoria federalista il posto centrale che ha nella teoria socialistica e comunistica il concetto di crisi del capitalismo. Fino alla seconda guerra mondiale esso costituisce l’orizzonte teorico nell’ambito del quale è possibile formulare un giudizio storico radicale sulla crisi dell’Europa e soltanto a partire dalla Resistenza e dal crollo del sistema europeo delle potenze diventa il fondamento dell’autonomia teorico-pratica di una nuova corrente politica organizzata, che si esprime nei movimenti federalistici.
[4] J.R. Seeley, L’espansione dell’Inghilterra (1883), trad. it. Bari, 1928, p. 259.
[5] Tali esigenze e tali istituzioni sono, com’è noto, sconosciute e comunque non si sono mai radicate profondamente negli Stati insulari (Gran Bretagna, U.S.A.) che, essendo poco esposti ai pericoli di invasione, hanno potuto lasciare sviluppare la società civile in modo molto più libero dai condizionamenti del potere politico, che non gli Stati del continente europeo.
[6] Questo brano è tratto dall’opuscolo La guerra e l’internazionale (cfr. Scelta di scritti: 1905-1940, a cura di G. Novack, Roma, 1968, pp. 59-60 e 63). Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti sovietici d’Europa cfr. anche La IIa Internazionale dopo Lenin, Milano, 1957, pp. 49-55 e Scritti 1929-1936, Milano 1968, pp. 178-90.
[7] Un’altra considerazione, che smentisce la teoria che imputa l’imperialismo alle contraddizioni del capitalismo, è che anche tra Stati che hanno eliminato la proprietà privata dei mezzi di produzione si manifesta la politica di potenza e lo sfruttamento economico, come prova l’analisi dei rapporti tra l’Unione Sovietica e i suoi satelliti dell’Europa orientale. D’altra parte anche negli Stati che hanno tale regime le barriere nazionali costituiscono un freno allo sviluppo delle forze produttive. Tibor Kiss scrive in proposito: «Un’importante contraddizione nell’integrazione del Comecon è quella esistente tra il processo produttivo in via di internazionalizzazione e la proprietà sociale dei mezzi produttivi, che sono di carattere nazionale» (A.A.V.V., Riforme e sistema economico nell’Europa dell’Est, Roma, Bologna, 1972, p. 48).
[8] La guerra e l’unità europea, Milano, 1953, p. 14.
[9] Ibid., p. 24.
[10] Per una esposizione sintetica cfr. l’introduzione di S. Pistone a Politica di potenza e imperialismo, Milano, 1973.
[11] Sulla contraddizione tra sovranità nazionale e democrazia cfr. G. Vedel, «Lo Stato sovrano contro la democrazia» in Piccola antologia federalista, Roma, 1957, 2a ed., pp. 49-63.
[12] Cfr. K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, e K. Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, a cura di L. Gruppi, Roma, 1966, pp. 292-304 e 745-49.
[13] Per Marx, trad. it., Roma, 1967, p. 182.
[14] Storia della rivoluzione russa (1932), trad. it. Milano, 1964, p. 11.
[15] Engels a Conrad Schmidt, 27 ottobre 1890, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 1245, cfr. anche F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Milano, 1972, pp. 90-94.
[16] Engels a Conrad Schmidt, op. cit., p. 1245.
[17] Sulla base della concezione materialistica della storia, l’epoca delle guerre mondiali può essere interpretata come la fase di transizione dal sistema europeo al sistema mondiale degli Stati; cioè come uno sconvolgimento sociale, determinato dalla contraddizione tra l’evoluzione della società verso forme sempre più strette di integrazione supernazionale e la struttura politica del sistema europeo degli Stati nazionali, il cui sbocco rivoluzionario è consistito nella sostituzione del sistema europeo con il sistema mondiale delle potenze.
Mi pare quindi corretto definire la nascita del sistema mondiale degli Stati come una trasformazione di carattere rivoluzionario. Infatti, come all’interno di uno Stato la rivoluzione consiste in una trasformazione della struttura del regime politico e in una redistribuzione del potere tra le forze politiche e sociali, in modo da adeguare l’organizzazione dello Stato allo sviluppo delle forze produttive, così sul terreno internazionale essa consiste nella trasformazione della struttura del sistema politico internazionale e nella ridistribuzione del potere tra gli Stati, in modo da far corrispondere l’assetto internazionale del potere alle condizioni e allo sviluppo della produzione.
[18] Cfr. B. Wootton, Socialismo e federazione (1940), trad. it. in Federazione europea, Firenze, 1948, pp. 191-218; E. Reeves, The Anatomy of Peace, New York, 1945, cap. 11; I. Silone, «La missione europea del socialismo», in Europa federata, Milano, 1947, pp. 37-53, ristampato in Trent’anni di vita del Movimento federalista europeo, a cura di L. Levi e S. Pistone, Milano, 1973, pp. 82-91.
[19] Cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, 1960.
[20] Cfr. La guerra e l’unità europea, cit., pp. 3-24.
[21] La nascita dei partiti comunisti dopo la rivoluzione di ottobre si è accompagnata all’illusione che fosse possibile estendere rapidamente il modello bolscevico a tutta l’Europa. Il loro mantenimento e il loro sviluppo è in stretto rapporto con la crescente influenza internazionale dell’Unione Sovietica, la quale ha rappresentato, e rappresenta ancora in larga misura, un punto di riferimento per le forze anticapitalistiche. Avendo provocato la divisione del movimento dei lavoratori, senza essere stato in grado di superarla, hanno messo in luce la crisi della sinistra e la sua impotenza di fronte al fascismo.
[22] Alcuni spunti per un’interpretazione del nazi-fascismo in questa direzione si possono trovare in L. Dehio, Equilibrio o egemonia (1948), trad. it., Brescia, 1954, pp. 277-99.
Schematizzando, si può dire che l’interpretazione liberal-democratica spiega il nazi-fascismo come una manifestazione dell’ondata dei totalitarismi, categoria che comprende anche il regime dell’U.R.S.S., e che quella di ispirazione marxistica spiega il fenomeno come il prodotto del capitalismo, categoria che include sistemi politici che non hanno conosciuto il fascismo come quello statunitense.
Queste interpretazioni non riescono a identificare gli aspetti specifici del fenomeno (la crisi dello Stato nazionale) e accomunano esperienze politiche eterogenee: da una parte quella nazi-fascista, un tentativo di andare contro il corso della storia, che premeva nel senso del superamento dello Stato nazionale, d’altra parte il socialismo sovietico e la democrazia statunitense, esperienze politiche che la storia ha dimostrato essere evolutive perché, esprimendosi in un quadro statuale di dimensioni continentali, hanno potuto sviluppare le forze che sconfissero il nazi-fascismo e hanno sorretto il sistema politico mondiale, che ha garantito l’ordine internazionale e lo sviluppo delle forze produttive nel dopoguerra.
[23] «Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico», in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, 1965, p. 131.
[24] La guerra e l’unità europea cit., pp. 14 e 156-57.
[25] Cfr. A. Spinelli, «Sviluppo del moto per l’unità europea dopo la II guerra mondiale», in L’integrazione europea, a cura di Grave Haines, Bologna, 1967, pp. 66-71.
[26] Cfr. Lord Lothian, Pacifism is not enough, nor Patriotism either, Londra, 1935; L. Robbins, L’economia pianificata e l’ordine internazionale (1937), trad. it. Milano, 1948 e Le cause economiche della guerra (1939), trad. it. Torino, 1944; B. Wootton, op. cit. alla nota 18.
[27] Cfr. N. Bobbio, «Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza», relazione svolta a Milano il 21 ottobre 1973, in occasione del trentennale della fondazione del Movimento federalista europeo, Critica sociale, LXV, 1973, pp. 569-75.
[28] Cfr. La guerra e l’unità europea, cit., pp. 153-64.
[29] Ripubblicato in Trent’anni di vita del Movimento federalista europeo cit., pp. 45-65.
[30] Ibid., p. 55.
[31] Ibid., p. 58.

 

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