IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXXV, 1993, Numero 3, Pagina 170

 

 

Saremo capaci di rinunciare a vincere?
 
CARLO MARIA MARTINI
 
 
Introduzione.
 
Sono lieto di poter intervenire a questo Convegno internazionale promosso dal Movimento federalista europeo a cinquant’anni dalla sua fondazione. Rivolgo un pensiero riconoscente agli illustri relatori, al Magnifico Rettore dell’Università che ci ospita, alle Autorità, agli organizzatori e a tutti i partecipanti.
Come sottolinea il titolo del tema generale, «L’Europa alla resa dei conti», il momento che il nostro continente sta attraversando è certamente cruciale. Siamo di fronte ad un’autentica ora storica, scattata quasi inaspettatamente verso la fine del 1989, che si è incontrata con un lungo processo di unificazione in atto da diversi anni almeno in Europa occidentale.
Un’ora che tuttavia si è rivelata e si va rivelando come un detonatore dagli effetti imprevedibili, con una serie incalzante di eventi gravi, tra i quali vorrei ricordare la perdurante crisi in atto nella ex Jugoslavia. Ci troviamo in una situazione inedita di libertà, ma la domanda circa la direzione che questa libertà va e deve andare assumendo si fa sempre più insistente e ineludibile.
Nello stesso tempo, alla libertà è succeduta una fase di deserto, con tutte le prove e le tentazioni tipiche di tale condizione: dall’Oriente e dall’Occidente ci si raduna insieme nello sforzo di costruire la «Casa comune», e però le regole di questa convivenza spesso non sono identificate e condivise; il processo di rifondazione degli Stati e dell’intera convivenza civile è tuttora in atto; antiche diversità e rivalità etniche e culturali, sopite, calpestate, e non risolte durante il dominio comunista, risorgono con veemenza e non ci si può non interrogare circa il valore e il significato delle nazioni e delle loro culture e circa i limiti e il superamento dei risorgenti nazionalismi.
 
Il segno drammatico della ex Jugoslavia.
 
Ho avuto già occasione di illustrare al Colloquio internazionale svoltosi a Milano nello scorso mese di maggio sul tema: «L’impegno politico di ispirazione cristiana nella costruzione della nuova Europa», che il segno più drammatico della difficile situazione che vive oggi l’Europa e delle sfide che l’attendono è l’assurdo conflitto che continua a verificarsi nella ex Jugoslavia. In una parte d’Europa a noi vicinissima, si presenta infatti un problema di nazionalità e di etnie che non riescono a trovare un modus vivendi accettabile da tutte le parti. Contemporaneamente è latente un conflitto tra due tradizioni europee, quella dell’Ovest e quella dell’Est, a cui si aggiunge il confronto tra la vecchia Europa e l’lslam.
Ne emerge la vera sfida con la quale dobbiamo tutti confrontarci, sintetizzabile in un interrogativo che non è: chi vincerà tra Est e Ovest, tra Nord e Sud?, bensì: saremo tutti capaci di rinunciare a vincere, cercando una nuova integrazione che trasformi il conflitto in una gara di mutuo servizio e di accoglienza tra culture diverse, in una sintesi a misura di uomo e di cittadini, in una grande federazione, patria di tante piccole nazioni e culture?
Questa, a mio avviso, è la «resa dei conti» che è posta davanti ai cittadini europei: e di questa «resa dei conti», l’alternativa tra federalismo o nazionalismo è indubbiamente un aspetto importante e nevralgico.
 
Il Manifesto di Ventotene (1941).
 
In tale ottica vogliamo cogliere la lungimiranza del Manifesto di Ventotene del 1941, allorché guardava alla creazione di un solido Stato internazionale come a compito centrale e concepiva la conquista del potere nazionale quale strumento per realizzare l’unità internazionale. Quel gruppo di antifascisti che, sul finire dell’agosto 1943, si radunò a Milano, nella casa di un credente valdese, Mario Alberto Rollier, intorno ad Altiero Spinelli, per fondare il MFE, secondo le linee ispiratrici del Manifesto, si impegnava a battersi — al di sopra di ogni differenza ideologica e di ogni obiettivo di parte — per la Federazione europea, considerata appunto lo strumento necessario per la pacificazione definitiva dei popoli d’Europa e inizio e promessa di pacificazione per l’intero genere umano.
Allora si era nel pieno della guerra, il nazionalismo e il razzismo imperavano, ovunque in Europa era violenza e morte, Milano devastata e prostrata dai terribili bombardamenti a tappeto che, proprio nel tragico agosto 1943, avevano operato distruzioni mai viste.
Oggi, a distanza di cinquant’anni, il grande approdo indicato dai fondatori del federalismo europeo e da altri padri dell’Europa non è stato ancora raggiunto. Altre sono le forme di devastazione, di morte, di distruzione e di conflitto che segnano i nostri giorni e anche la città di Milano. Tuttavia oggi, come allora, c’è da sperare e lottare per una convivenza più umana, più giusta e più pacifica. E sono davvero lieto che sia stata scelta Milano quale sede del vostro Convegno internazionale, mentre mi auguro che possa essere un segno di speranza e di rinascita in questa metropoli che sta vivendo un momento non facile, senza dubbio gravido di responsabilità.
Tra gli aspetti fortemente negativi della nostra situazione contemporanea si pone il risorgere di nazionalismi esasperati, che stanno trascinando molti popoli in una spirale dolorosa di violenze. Nuove e analoghe spinte disgregatrici, foriere di chiusure, contrapposizioni e rifiuti, potrebbero ancora esplodere all’Est e all’Ovest e ci farebbero ricadere in un passato che non vorremmo rivedere. Dobbiamo perciò, tutti e ciascuno, avvertire la necessità e l’urgenza di distinguere adeguatamente tra nazionalismo e patriottismo; di discernere tra sentimenti nazionali positivi e negativi, valutando adeguatamente l’idea di «identità nazionale»; di riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la tendenza ad ogni uniformità schiavizzante; di ricercare formule che, superando l’immediata identificazione tra «Stato» e «nazione», consentano a popoli diversi di vivere in un’unica entità statale vedendo pienamente salvaguardati i propri diritti e la propria identità.
Mi permetto di citare in proposito la Dichiarazione finale (n. 10) del Sinodo dei Vescovi per l’Europa, celebrato a Roma nel 1991: riconoscendo che «le differenze nazionali non devono scomparire, ma piuttosto essere mantenute e coltivate come il fondamento, storicamente sviluppatosi, della solidarietà europea», che «la stessa identità nazionale non si realizza se non nell’apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi» e che «i conflitti devono essere risolti mediante le trattative e i negoziati e non attraverso l’uso della violenza», occorre impegnarsi per addivenire anche a proposte di diritto internazionale in grado di salvaguardare il valore della nazione senza cadere nella esasperazione dei nazionalismi.
 
Continuare il processo di integrazione europea.
 
Gli ultimi cinquant’anni non sono comunque trascorsi invano. Il processo di integrazione europea ha consentito, infatti, di superare antiche e radicate conflittualità e ha pacificato i popoli che vi erano coinvolti; le frontiere, che un tempo venivano quasi sacralizzate quali segni invalicabili di identità nazionali diverse e contrapposte, stanno perdendo la loro carica ideologica e simbolica e sempre meno separano tra loro le genti dell’Europa comunitaria. La stessa sovranità degli Stati, la cui limitazione è necessaria per costruire una Unione europea secondo i principi corretti del federalismo, è andata ridimensionandosi. Il significato più innovativo dell’esperienza dell’Europa comunitaria sta nella capacità di sostituirsi agli Stati nel disciplinare rilevanti rapporti sociali e di risultare quindi, sia pure embrionalmente, limitativa della loro sovranità; si assiste significativamente, per la prima volta nella storia, alla presenza di istituzioni capaci di adottare atti che, nell’ordinamento degli Stati membri, conseguono la stessa efficacia delle leggi interne e che addirittura da queste ultime risultano inattaccabili.
D’altra parte, occorre riconoscere che l’integrazione comunitaria è ancora in gran parte un processo tra Stati; ci sono passi non indifferenti da compiere per arrivare a un’Europa dei popoli e dei cittadini e dunque a un’organizzazione internazionale che possa essere di esempio e di sprone per l’intera convivenza mondiale. A tale riguardo, vorrei ricordare una volta di più che se l’unità europea si potrà realizzare, non sarà né per la geografia, né per la storia o la lingua e neppure per il convergere di diversi interessi emergenti. L’unità sarà piuttosto il frutto della libera volontà dei popoli, che a sua volta presuppone ed esige un’autentica maturità morale. Occorre, perciò, che si operi per realizzare un’autentica e diffusa democrazia, dove il libero consenso dei cittadini sia mosso da valori ideali e dalla scoperta e suscitazione di interessi comuni, cioè di un bene comune europeo, e dove gli strumenti istituzionali, anche a livello continentale, siano autentica espressione della sovranità popolare.
Agli Europei, cui il Trattato di Maastricht riconosce una cittadinanza comune, bisogna garantire una partecipazione reale, da cittadini, alle grandi scelte dell’Europa, togliendo la sensazione che l’Unione europea sia solo un’opera di vertice, che non interessa la gente. Solo così sarà possibile una sintesi politica fondata sul rispetto delle persone e dei gruppi, ma nello stesso tempo sulla disponibilità di persone e gruppi a compiere sacrifici per il bene comune dell’intero continente.
Non dimentichiamo che la continuazione di questo cammino e il consolidamento delle strutture federali saranno anche meglio in grado di accogliere quei paesi europei che aspirano ad unirsi all’Unione europea: in essa potranno trovare una garanzia della loro stabilità democratica e la definitiva sconfitta del nazionalismo. E tutto questo può e deve avere un riflesso più ampio, a dimensione mondiale. Se, lo ricordava trent’anni or sono Giovanni XXIII nella Pacem in terris, per realizzare la pace sulla Terra occorrono poteri pubblici in grado di operare in modo efficace sul piano mondiale (n. 45), a noi è chiesto di tendere alla costituzione di un governo democratico del mondo, che assicuri la preminenza del diritto sulla forza e la soluzione delle controversie con mezzi pacifici. L’Europa, nella quale è sorto lo Stato nazionale con le sue ideologie e i suoi limiti, può e deve offrire l’esempio di un vero governo sovranazionale e di un’autentica democrazia internazionale. La sua missione storica consiste anche in questo, nel realizzare una tappa ulteriore verso la costituzione — auspicata dal Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes — di «un’autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti» (n. 82).
L’augurio con cui concludo il mio intervento è che, oggi come ieri, non manchino uomini e donne, giovani e adulti, che condividono tali ideali e che sono disposti ad assumere ogni loro responsabilità per l’edificazione di un’Europa nella quale ogni uomo, ogni popolo, ogni nazione possa vivere in una pace piena e solidale.

 

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