IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XVII, 1975, Numero 4, Pagina 206

 

 

L’unità europea*
 
LUCIO LEVI
 
 
L’integrazione europea: ultima fase della crisi dello Stato nazionale e prima fase del suo superamento.
La profonda trasformazione storica messa all’ordine del giorno dalla crisi dello Stato nazionale consiste nella necessità e nella possibilità dell’allargamento delle dimensioni della comunità politica e nella creazione di un nuovo Stato su un’area pluristatale.
Una comunità politica è una comunità di destino solo se esprime compiutamente il processo storico, cioè solo se ha le dimensioni necessarie a controllare lo sviluppo economico e a garantire la difesa dei cittadini. Così gli Stati che non sanno adeguare la dimensione della comunità politica a quella dei problemi di politica economica, estera e militare che debbono affrontare perdono il ruolo di guida politica ed entrano in decadenza.
Ora, con la conclusione della seconda guerra mondiale, nell’Europa occidentale la decadenza delle sovranità nazionali ha spostato il problema della sicurezza dal livello dei singoli Stati in lotta tra loro al livello atlantico sotto il protettorato degli Stati Uniti. Il sistema difensivo europeo è integrato nella N.A.T.O. sotto il comando supremo americano.
Liberati dalla necessità di provvedere autonomamente alla propria difesa, gli Stati nazionali possono far convergere le rispettive ragioni di Stato.
Si tratta di un vero e proprio rovesciamento delle tendenze storiche del sistema europeo, il quale, a sua volta ha costituito la base di un grande cambiamento economico-sociale: la formazione di uno spazio europeo unificato di fatto, che, grazie alle sue dimensioni, favoriva lo sviluppo delle forze produttive.
Prima la cooperazione, poi l’integrazione europea sono così diventate l’indirizzo fondamentale della politica estera degli Stati dell’Europa occidentale. L’integrazione europea non è sospinta solo da incentivi economici, ma anche e soprattutto da una forza storica irresistibile, più forte della volontà di qualunque governo e di qualunque partito, la forza che si sprigiona dall’evoluzione del modo di produrre. Essa impone oggi in Europa a tutti i settori della vita sociale una dimensione molto più ampia di quella delle nazioni tradizionali. Si tratta dunque di un processo di cambiamento che si può accelerare o ritardare, non accettare o respingere.
È la manifestazione più sviluppata di una nuova fase storica di integrazione dell’attività umana, al di là delle barriere degli Stati, che ha dimensioni mondiali e che creerà le condizioni dell’unificazione federale del mondo.
Il suo fondamento politico consiste nell’impossibilità degli Stati di controllare separatamente la loro economia e di organizzare separatamente la loro difesa.
Stati che non sono più in grado di garantire da soli né la sicurezza né lo sviluppo economico ai loro cittadini, non sono più Stati nel vero senso della parola. E questo fatto rende anacronistici, e quindi superabili i loro confini. La fase della cooperazione e dell’integrazione europea ha caratteristiche ambigue: costituisce nello stesso tempo l’ultimo stadio della crisi dello Stato nazionale, il quale, per sopravvivere, è costretto a collaborare con i vicini, in modo da affrontare in comune i fondamentali problemi economici, politici e militari e il primo stadio del superamento dello Stato nazionale, perché tale collaborazione, creando progressivamente una società e un’economia europea, tende a distruggere la base delle sovranità nazionali esclusive.
Si può dunque definire l’integrazione europea come il processo nel corso del quale la società civile perde il suo carattere esclusivamente nazionale e acquisisce, accanto al carattere nazionale, un carattere europeo e tende cioè a diventare una società federale. In altri termini, è il processo di formazione di una nuova realtà popolare, l’unità pluralistica delle nazioni europee.
Da una parte la politica di cooperazione e di integrazione, ha prodotto le trasformazioni più positive avvenute nel dopoguerra in Europa. Essa si è mossa infatti nella direzione del superamento dei più gravi aspetti degenerativi della vita politica, economica e sociale che hanno caratterizzato la crisi dello Stato nazionale nel periodo delle guerre mondiali: l’imperialismo, il ristagno economico e il fascismo.
Con la fine dell’equilibrio europeo delle potenze, una guerra tra Francia e Germania è diventata inconcepibile, perché entrambi gli Stati sono inseriti nel sistema egemonico controllato dagli Stati Uniti e la politica mondiale dipende dall’equilibrio tra questo sistema egemonico e quello dominato dall’Unione Sovietica. Di conseguenza, la posizione subalterna assunta dagli Stati europei ha rappresentato anche il presupposto del crollo dei loro imperi coloniali.
Ma non basta. L’integrazione europea rappresenta un esempio per tutta l’umanità di un nuovo modo di organizzare le relazioni tra gli Stati, un’alternativa all’imperialismo e alla guerra, un metodo per avviare il superamento delle divisioni nazionali.
Inoltre l’integrazione europea ha fatto saltare le vecchie strutture economiche protezionistiche, autarchiche e corporative e, grazie alle dimensioni continentali del mercato, ha favorito il processo di concentrazione industriale e la modernizzazione dell’apparato produttivo, determinando in certi settori lo sviluppo di nuove forze produttive generate dalla rivoluzione scientifica (sviluppo della scienza, della tecnologia, dei mezzi di comunicazione e di trasporto, ecc.).
In definitiva, la nuova situazione internazionale, che ha indebolito le tensioni tra gli Stati europei e quindi le spinte all’accentramento, e che ha favorito lo sviluppo produttivo e l’espansione economica, ha contribuito al mantenimento della democrazia, la cui restaurazione in Europa occidentale fu in maggior misura il risultato dell’intervento degli alleati che dell’apporto autonomo delle forze della Resistenza.
D’altra parte però il fatto che l’integrazione europea non sia stata ancora stabilizzata dalla formazione di un governo europeo non garantisce che tali progressi siano acquisiti in modo permanente. Finché, con la fondazione di un governo europeo, non sarà varcata la soglia dell’irreversibilità del processo di integrazione, la ricaduta nel nazionalismo sarà sempre possibile (anche se non più nelle stesse forme del passato, a causa dell’eclisse delle sovranità nazionali) e così anche le nefaste conseguenze che lo hanno accompagnato: la crisi economica e sociale e il fascismo.
Delineate le caratteristiche fondamentali dell’integrazione europea, è ora il momento di cercare di periodizzare tale processo, distinguendo le principali tappe evolutive. A questo scopo ci serviremo della tripartizione proposta da Albertini, secondo la quale la prima fase è caratterizzata dalla liberalizzazione degli scambi e dalla diffusione degli ideali europeistici; ciò che distingue la seconda fase è lo sviluppo dell’integrazione economica nel quadro istituzionale delle Comunità europee; la terza fase è caratterizzata dal problema dell’unificazione politica come mezzo per progredire nell’integrazione economica e per dar vita a una presenza autonoma dell’Europa nelle relazioni internazionali.
 
La fase della liberalizzazione degli scambi e la diffusione degli ideali europeistici.
Le prime fasi del processo di integrazione europea si sono sviluppate nel clima internazionale della guerra fredda sotto la protezione e l’impulso del governo nord-americano, il quale favorì tale processo per sostenere il confronto con l’Unione Sovietica. Gli ingenti aiuti del piano Marshall che contribuirono in modo determinante alla ricostruzione post-bellica, erano stati attribuiti all’Europa nel suo insieme e non ai singoli Stati. L’O.E.C.E., l’organismo creato per la ripartizione degli aiuti, se da una parte diede un impulso alla liberalizzazione degli scambi, la premessa dell’integrazione europea, d’altra parte servì, a causa della sua struttura intergovernativa, che non limitava i poteri nazionali, alla ricostruzione degli Stati, cioè delle divisioni del passato. E se il passato non si è ripetuto con le sue guerre e la sua miseria, ciò non dipese dalla lungimiranza della classe politica europea, ma dal nuovo sistema internazionale che assegnava agli Stati nazionali un ruolo subalterno, che avrebbe impedito le avventure nazionalistiche e favorito la collaborazione europea.
Il quadro internazionale che ha fatto dell’integrazione europea lo strumento di una politica atlantica e anticomunista fa parte di quelle circostanze non scelte che nella storia condizionano sempre l’azione umana e che condizionavano le iniziative a favore dell’unità europea nel secondo dopoguerra.
Tuttavia l’unificazione europea fu sempre concepita dai federalisti e dagli europeisti come il solo mezzo per far riconquistare l’indipendenza all’Europa, per superare la divisione del mondo in blocchi e per aprire la strada all’unificazione del genere umano.
In quest’epoca gli ideali europeistici si diffondono nella classe politica ad eccezione dell’estrema sinistra.
Il Consiglio d’Europa, istituito contemporaneamente all’Alleanza atlantica (1949), fu il simbolo dell’aspirazione dell’Europa occidentale a costituirsi in un’unità politica capace di vita autonoma tra le grandi potenze.
Tuttavia il fatto che il Consiglio d’Europa includesse la Gran Bretagna, una delle potenze vincitrici della guerra, che conservava ancora una relativa indipendenza, costituiva un ostacolo insormontabile all’affermazione di iniziative volte a creare un governo europeo.
 
La fase economica dell’integrazione europea.
Le prospettive cambiarono nel 1950, quando sotto la pressione della guerra fredda, gli Americani proposero la ricostruzione della Germania dell’Ovest e la sua integrazione nel blocco occidentale e il governo francese, accettando il progetto di Monnet, fece la controproposta della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (C.E.C.A.) e successivamente quella della Comunità Europea di difesa (C.E.D.).
Queste iniziative della Francia si fondavano sulla consapevolezza che la sola alternativa alla rinascita dello Stato tedesco e alla ricomparsa in Europa delle vecchie divisioni e dei vecchi conflitti era la subordinazione della industria carbosiderurgica e dell’esercito della Germania, i due principali fattori dai quali dipendeva la potenza tedesca, a qualche forma di controllo a livello europeo.
La cornice di tali iniziative era la cosiddetta «piccola Europa», cioè quel gruppo di sei paesi dell’Europa continentale, nei quali la crisi dello Stato nazionale si era manifestata nella forma più acuta e che quindi potevano essere la sede di ulteriori progressi sulla strada di una più stretta integrazione. Da una parte, con la C.E.C.A. furono create delle istituzioni capaci di controllare il processo di integrazione economica senza creare un governo europeo, le quali serviranno da modello per la C.E.E. D’altra parte, la C.E.D., fondandosi sull’illusione che fosse possibile creare un esercito europeo senza un governo europeo, aprì lo spazio a ulteriori sviluppi del processo di integrazione, in senso federale. In effetti il governo italiano, accettando una proposta di Spinelli, riuscì a ottenere che fosse affidato all’assemblea della C.E.C.A. il compito di elaborare la costituzione della Comunità politica europea (C.E.P.), la quale prevedeva l’elezione diretta di un parlamento europeo, con la conseguenza di determinare l’intervento del popolo nella costruzione dell’Europa e lo schieramento dei partiti a livello europeo, le condizioni essenziali del trasferimento dei poteri fondamentali dagli Stati all’Europa.
La battaglia per la C.E.D. fu perduta per pochi voti al Parlamento francese e con essa cadde la possibilità di scatenare il processo costituente della Federazione europea. Il successo fu pregiudicato dalla convergenza tra le forze tradizionalmente nazionalistiche e le sinistre. Queste ultime concepivano infatti la C.E.D. come un fattore di esasperazione della guerra fredda in senso anticomunista, mentre invece i movimenti europeistici e federalistici la sostennero, perché pensavano che la sua approvazione, aprendo la strada all’unificazione politica europea, avrebbe avviato il processo di superamento dei blocchi e l’emancipazione dell’Europa dall’imperialismo americano. D’altra parte, la caduta della C.E.D. non solo impedì tale processo, ma fu la premessa della ricostruzione della Germania occidentale come Stato indipendente e del suo riarmo.
Finché restò aperto il problema della ricostruzione della Germania, imposto dalla guerra fredda, rimase sul tappeto l’alternativa della creazione di un potere politico europeo, sull’esercito tedesco, il quale avrebbe potuto essere fondato solo se vi si fossero sottoposti anche gli altri Stati della «piccola Europa». Di conseguenza, mentre la fase storica che si chiude con la caduta della C.E.D. avrebbe potuto concludersi con la nascita della Federazione europea, nel periodo successivo i governi nazionali, in collaborazione tra loro, sono stati in grado di controllare e di far progredire l’integrazione europea, senza che per molto tempo si aprisse di nuovo una possibilità di fondare la Federazione europea.
Il sistema degli Stati nazionali non aveva ancora esaurito tutte le possibilità di azione. La scelta politica che ispirò la costruzione della Comunità economica europea (1958) fu di far progredire l’integrazione europea sul terreno economico, cioè secondo la linea di minor resistenza, in modo da evitare il problema della cessione di una parte della sovranità a favore di organi supernazionali. Si trattava di una decisione che ha consentito agli Stati di prolungare la loro sopravvivenza ma a condizione di creare progressivamente una società e una economia europee, cioè a condizione di distruggere la loro base di potere, la sovranità nazionale esclusiva. Ciò significa che l’integrazione economica, contribuendo a far maturare la crisi degli Stati nazionali, avrebbe rinviato, ma non eliminato, il problema dell’unificazione politica.
La contraddizione di fondo, che comincia a profilarsi fin dall’inizio del processo di integrazione europea e che tende progressivamente ad aggravarsi ad ogni fase evolutiva di tale processo, risiede nell’estensione della dimensione supernazionale del processo produttivo, che tende a creare una unità europea di fatto, cui corrisponde la dimensione nazionale dei poteri politici. Di modo che si viene creando una tensione sempre più forte tra i bisogni di cambiamento, che si accumulano in tutti i settori della società, e l’ostacolo che trovano nelle istituzioni politiche dello Stato nazionale con il loro accentramento, il loro autoritarismo e la loro impotenza nei confronti dei centri di potere politici ed economici internazionali cui sono subordinate.
 
I limiti delle istituzioni comunitarie.
Le istituzioni comunitarie sono la sovrastruttura giuridica e politica del processo di integrazione europea, cui è assegnato il compito di gestire la transizione degli Stati dell’Europa occidentale dalla divisione all’unità. Non deve trarre in inganno il loro nome: il Parlamento europeo, non è un vero parlamento, perché ha solo poteri consultivi e si fonda sul suffragio indiretto; la Commissione esecutiva non è un vero governo, perché non ha, se non in casi marginali, un potere diretto sulle società nazionali, cioè sugl’individui e sui gruppi economici e sociali, e non ha a sua disposizione né polizia né esercito per imporre la propria autorità; infine, siccome la struttura del sistema comunitario è organizzata in modo tale che la sostanza del potere rimane ai governi nazionali, la Corte di giustizia non ha un potere effettivo nei confronti degli Stati; così non può avere il ruolo che la Corte suprema svolge nelle federazioni e le sue sentenze sono limitate al ristretto campo di validità del diritto comunitario.
Se questi tre organi che sembrano prefigurare le istituzioni legislative, esecutive e giudiziarie di uno Stato, da una parte rivelano il proposito dei fondatori della Comunità di trasformarla in futuro in uno Stato, proposito confermato dall’art. 138 del trattato di Roma, che prevede l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, d’altra parte però il fatto che siano privi di poteri effettivi, perché la sostanza del potere della Comunità risiede in un quarto organo, il Consiglio dei ministri, che è la sede nella quale la convergenza tra le ragioni di Stato degli Stati europei si traduce in un’effettiva collaborazione, mostra la loro natura di organi di transizione nei quali prevalgono ancora nella fase attuale dell’integrazione europea i fattori della divisione su quelli dell’unità.
Anche se la soluzione di un numero crescente di problemi è stata trasferita dagli Stati agli organi della Comunità, e in settori ben delimitati (regolamenti comunitari) è avvenuta una vera delega di poteri all’autorità europea, le cui decisioni si impongono direttamente ai soggetti, non ci troviamo di fronte a un trasferimento di sovranità, perché le decisioni politiche fondamentali continuano a essere prese dai governi nazionali attraverso il Consiglio dei ministri della Comunità.
Nelle associazioni tra Stati dotate di organi comuni ne esistono alcune (le federazioni), la cui coesione è garantita dal fatto che una parte della sovranità degli Stati membri è ceduta a un superiore centro di decisione politica in quei settori della politica estera ed economica, il cui controllo diviso, essendo incompatibile con l’unità politica, provoca anarchia internazionale e disordine economico. Ne esistono altre (le confederazioni), i cui organi centrali essendo privi di un’autorità propria e mantenendo l’assoluta indipendenza degli Stati associati, non rappresentano qualcosa di qualitativamente differente dalla somma degli enti politici componenti e pertanto sono costretti a subire la dinamica degli interessi degli Stati, senza poterla controllare, e a rispecchiare le contraddizioni che invece dovrebbero superare. Pertanto nel sistema confederale, dove gli Stati, non riconoscendo alcun potere superiore, mantengono la loro sovranità esclusiva, le spinte centrifughe, espresse dagli interessi particolaristici degli Stati, tendono a prevalere su quelle centripete espresse dagli organi confederali.
Le istituzioni comunitarie appartengono a questa seconda categoria.
Il principio politico sul quale si fonda la Comunità è la subordinazione dei suoi organi al potere degli Stati.
Il criterio-guida della condotta dei membri del Consiglio dei ministri, che è l’organo motore della Comunità, è la difesa degli interessi degli Stati che essi rappresentano. Il suo funzionamento è pertanto soggetto al diritto di veto dei singoli Stati. Ne consegue che le sole decisioni comuni alle quali è possibile giungere, e che abbiano quindi un’effettiva possibilità di essere eseguite, sono quelle prese all’unanimità, cioè giudicate accettabili da tutti.
Siccome il vincolo confederale non modifica la struttura dei rapporti tra gli Stati, una volontà politica unitaria si forma solo quando l’equilibrio politico spinge in questa direzione, ma non impedisce gravi conflitti e profonde divisioni in caso contrario. A questo proposito si possono ipotizzare tre situazioni tipiche.
In primo luogo, se esiste una completa convergenza di interessi tra gli Stati, è possibile giungere facilmente a decisioni comuni.
In secondo luogo, come avviene più spesso, se esistono divergenze, le decisioni non possono essere che compromessi tra interessi contrastanti. Questa situazione mette in evidenza che il sistema comunitario, come qualsiasi sistema internazionale di Stati indipendenti, è regolato dai rapporti di forza materiale che si stabiliscono tra i singoli componenti e, data la diseguale distribuzione del potere politico tra gli Stati, l’integrazione politica della Comunità si fonda sull’egemonia politica e militare di uno o più Stati sugli altri. L’integrazione del sistema comunitario è stata garantita dal ruolo di élite esterna degli Stati Uniti, che in pratica hanno avviato l’integrazione europea, e dal ruolo di élite interna al sistema del direttorio franco-tedesco, nel quale la Francia ha una funzione di guida che dipende, tra l’altro, dal fatto che appartiene al «club atomico».
In terzo luogo, se le posizioni degli Stati sono inconciliabili, cioè troppo lontane per permettere un compromesso, nessuna decisione è possibile. Se questa situazione tende a ripetersi, si apre la strada alla paralisi o addirittura alla dissoluzione della unione confederale. A causa delle esigenze contraddittorie (assicurare l’unità mantenendo l’assoluta sovranità degli Stati) che non è in grado di conciliare, la Comunità è quindi una formula politica estremamente instabile, condannata a dissolversi o a consolidarsi, trasformandosi in uno Stato, il quale tutelerà l’autonomia delle unità componenti solo se avrà una struttura federale.
In ogni caso le decisioni degli organi comunitari hanno più la natura di raccomandazioni che di leggi, perché tali organi da una parte non sono formati attraverso una lotta politica, alla quale partecipino direttamente le forze politiche che operano all’interno degli Stati con il consenso della popolazione, né d’altra parte hanno organi esecutivi dotati di un potere diretto sui cittadini. L’esecuzione delle decisioni prese dagli organi comuni è in realtà affidata agli Stati, i quali le rispettano solo se le giudicano convergenti con i loro interessi. In ultima istanza, il potere di decisione rimane nelle mani degli Stati. Per questo motivo qualsiasi decisione presa a livello confederale non ha carattere vincolante.
La Comunità non ha un governo democratico. I suoi organi emanano dai governi e dai parlamenti degli Stati. Il popolo è completamente escluso dalla scelta dei rappresentanti negli organi comunitari e dalla partecipazione alle decisioni che essi prendono. La partecipazione elettorale dei cittadini si ferma ai confini degli Stati. La Comunità deve quindi essere definita come un’associazione tra governi piuttosto che tra popoli, poiché i rapporti tra gli Stati rimangono limitati al livello di vertice della politica estera, la quale non è un mezzo di espressione della democrazia, ma del suo opposto, cioè delle esigenze di sicurezza e di potenza degli Stati. Se si può dire che esiste un governo della Comunità, questo è il risultato dell’equilibrio nei rapporti di forza tra gli Stati che ne fanno parte. Per quanto riguarda le decisioni, questo «governo», può giungere solo a compromessi tra decisioni nazionali e interessi nazionali.
 
Valore e limiti del metodo di integrazione funzionalistico.
La teoria funzionalistica, che sta alla base del metodo di integrazione avviato dalle Comunità europee, come quella federalistica, ha come obiettivo la realizzazione della pace e dell’ordine internazionale, ma, per raggiungere tale obiettivo, invece di proporre l’istituzione di un potere supernazionale in grado di regolare i conflitti tra gli Stati, punta sullo sviluppo graduale della cooperazione internazionale a cominciare dai settori che non sono suscettibili di provocare conflitti politici internazionali.
È nata dalla riflessione su due fenomeni organizzativi a livello internazionale: le istituzioni create alla fine del secolo scorso, come l’Unione Telegrafica internazionale (I.T.V.), istituita nel 1865, e l’Unione Postale Universale (O.P.U.), istituita nel 1874, e le numerose altre, fondate successivamente, relative alla proprietà letteraria e industriale, alla Croce rossa, e così via, e soprattutto gli organismi specializzati, creati durante le due guerre mondiali per coordinare nel modo più efficace lo sforzo bellico delle opposte coalizioni. Le prime erano dotate di competenze di carattere puramente tecnico, e quindi non limitavano nessuno dei poteri fondamentali dello Stato.
Le seconde disponevano di poteri più ampi nel campo economico e militare, ma li esercitavano nell’ambito delle direttive politiche prese dai governi nazionali e, cessato lo scopo per il quale erano state istituite, furono smantellate.
In definitiva, i sostenitori della teoria funzionalistica ritengono di poter superare gradualmente lo scoglio della sovranità nazionale nell’organizzazione dell’ordine internazionale, limitando la cooperazione tra gli Stati al terreno tecnico, che per sua natura non è suscettibile di creare i conflitti e le divisioni che si formano nel campo della politica, ed estendendo la rete delle relazioni internazionali su questo terreno. L’effetto di tale processo sarebbe lo svuotamento progressivo della sovranità degli Stati o almeno la graduale neutralizzazione della loro conflittualità e la limitazione della loro libertà di azione.
Il metodo funzionale, che originariamente non era stato concepito come un metodo adatto a far progredire le integrazioni regionali, fu applicato e adattato all’integrazione europea da Jean Monnet, l’ideatore della prima Comunità europea, la C.E.C.A.
L’invenzione del metodo comunitario si innesta sul terreno della lunga esperienza, che Monnet aveva acquisito fin dalla prima guerra mondiale, del funzionamento delle istituzioni internazionali. La sua novità consiste nella creazione di istituzioni europee con il compito di realizzare non più soltanto delle vaghe forme di cooperazione internazionale (come l’O.E.C.E. o il Consiglio d’Europa), ma una vera e propria integrazione.
La teoria funzionalistica riflette un fenomeno nuovo nel campo della cooperazione tra gli Stati, la nascita di organizzazioni internazionali dotate di veri e propri apparati burocratici necessari a risolvere i problemi posti dalla sempre più stretta interdipendenza degli Stati.
Mentre in passato la collaborazione tra gli Stati si era espressa in termini istituzionali attraverso le confederazioni, le quali erano organi di carattere diplomatico, oggi, sotto la spinta della rivoluzione industriale, che ha determinato una crescente integrazione al di là delle frontiere degli Stati di numerosi aspetti della vita sociale, assistiamo a una proliferazione di organizzazioni internazionali specializzate dotate di complessi apparati burocratici con compiti simili a quelli che la pubblica amministrazione ha all’interno degli Stati.
Il funzionalismo non è che una variante della concezione tecnocratica della politica applicata alle relazioni internazionali. Il suo limite più grave consiste nella pretesa di risolvere con mezzi tecnici questioni di natura politica, di ridurre i problemi della convivenza politica ai bisogni funzionali di autoriproduzione della società.
La realtà politica è conflittuale e i valori che muovono le forze politiche sono contraddittori. Di conseguenza, le decisioni e le istituzioni politiche non sono mai neutrali. La politica è lotta per il potere e uso del potere. Questo significa, da una parte, oppressione e dominio di certe classi su altre ed egemonia e imperialismo di determinati Stati su altri e, d’altra parte, affermazione di certi valori a scapito di altri.
Ora, il modo in cui i funzionalisti si propongono di realizzare la pace e l’ordine internazionale è conservatore e inefficace perché pretende di raggiungere tali obiettivi mettendo tra parentesi la lotta tra le classi e tra le nazioni, che la trasformazione della struttura dei rapporti di potere costituiti e dell’ideologia che li giustifica inevitabilmente comporta.
La dimensione politica e quindi il carattere conflittuale del problema del mutamento della struttura delle relazioni internazionali è ineliminabile. La trasformazione delle relazioni internazionali da rapporti fondati sulla forza in rapporti regolati dal diritto, la nascita di nuove forme di organizzazione politica, l’allargamento della dimensione della comunità politica, la limitazione della sovranità nazionale e il trasferimento di alcune competenze fondamentali dello Stato a un governo supernazionale, sono trasformazioni storiche così rilevanti che è illusorio possano avvenire quasi in modo clandestino senza la partecipazione delle forze politiche e sociali e dei popoli.
Il campo di validità della teoria funzionalistica è dunque limitato al funzionamento delle organizzazioni internazionali di tipo tecnico, che da tempo operano con buoni risultati.
Il metodo funzionalistico durante il periodo transitorio del Mercato comune ha garantito effettivi progressi sul terreno economico e ha avuto un indubbio significato di preparazione della unificazione politica, in quanto ha creato un tessuto di relazioni e di interessi tra gli individui, gli operatori economici, i gruppi politici e sociali (che non si limitano alle istituzioni comunitarie, ma che vanno ben oltre, assumendo il rilievo di un imponente fenomeno di integrazione delle economie e delle società), che diventa sempre più difficile disfare.
Ma è del tutto illusorio pensare che l’unificazione politica europea possa nascere in qualche modo per contagio o per travaso (ciò che Haas chiama spill-over) dal processo di integrazione economica, cioè come una conseguenza non prevista e non voluta di decisioni precedenti prese sul terreno economico, ma tali da mettere in moto un processo di integrazione che porti gradualmente alla formazione di nuove istituzioni politiche e di un nuovo centro di potere a livello europeo e determini un corrispondente svuotamento delle sovranità nazionali. Questa concezione del passaggio dall’integrazione economica a quella politica non è che una forma di marxismo volgare.
In sostanza, il metodo funzionalistico, in quanto permetteva di approfondire la collaborazione tra gli Stati europei, senza mettere in discussione la loro sovranità e, di conseguenza, senza modificare i rapporti di forza interni e internazionali esistenti, è stato accolto favorevolmente dai governi nazionali per il suo carattere conservatore.
Non è però corretto rappresentare l’integrazione europea come un processo di sviluppo graduale lungo una linea continua. Essa è il risultato di una serie di «rilanci» ogni volta che una fase del processo si era esaurita.
Ora, in occasione di questi rilanci emerge sempre il ruolo determinante dei governi nazionali, che viceversa nei periodi di stabilità del sistema rimane in ombra.
Tutte le volte che il processo di integrazione si trova di fronte a un problema riguardante la trasformazione dell’organizzazione politica europea come il passaggio dalla C.E.C.A. alla C.E.E., o l’allargamento della Comunità alla Gran Bretagna, appare in piena luce il primato della politica sui processi economici e dei poteri nazionali sulle istituzioni europee, tanto nel primo caso in cui si è raggiunto l’accordo tra gli Stati quanto nel secondo caso in cui tale accordo è mancato per due volte a causa del veto della Francia.
In sostanza, ogni qualvolta il processo di integrazione europea investe questioni giudicate di importanza vitale per gli Stati, l’interesse nazionale e la divisione politica dell’Europa si manifestano immancabilmente.
A maggior ragione, la creazione di un potere europeo non può essere concepita come il risultato di un processo graduale di integrazione guidato dalle forze economiche. I teorici federalisti, come Spinelli e Albertini, sulla base dell’esperienza della formazione degli Stati Uniti d’America, hanno messo in luce che il problema dell’unificazione politica europea ha carattere costituzionale. Esso non consiste nel rafforzare la cooperazione politica tra gli Stati, ma nel trasferire dei poteri sovrani nei settori della politica estera e militare e negli aspetti generali della politica economica e sociale dal piano nazionale al piano europeo. In quanto teoria del governo democratico supernazionale, il governo in grado di controllare le relazioni internazionali, il federalismo si fonda sul postulato che il carattere conflittuale della vita politica internazionale dipende dalla pluralità degli Stati in cui è diviso il genere umano. Di conseguenza non ci può essere vera pace senza la subordinazione degli Stati a un potere democratico, in grado di esprimere l’interesse dell’insieme degli Stati, cioè della loro unione federale. Le organizzazioni internazionali, come la Comunità europea, non essendo dotate di un potere autonomo rispetto a quello degli Stati che le hanno create, non costituiscono un’alternativa alla sovranità nazionale esclusiva, ma riflettono i rapporti egemonici e gli equilibri costituiti e non gli interessi e le aspirazioni della società europea e del popolo europeo.
I poteri che nel corso del processo di formazione del sistema federale europeo dovranno essere trasferiti dal livello nazionale allivello europeo, in tutti gli Stati moderni sono definiti sul piano costituzionale. Essi non possono che essere attribuiti o a ciascuno dei governi nazionali o a un governo europeo. Non esistono vie di mezzo. Di conseguenza, la transizione verso il sistema federale europeo presuppone una profonda crisi politica, una rottura sul piano della continuità costituzionale e lo scatenamento, in forma più o meno aperta, di un processo costituente.
 
Le contraddizioni dell’integrazione economica.
La scelta politica che sta alla base della Comunità europea è stata una scelta di tipo confederale, che ha mantenuto l’Europa divisa dal punto di vista politico. Di conseguenza, ogni volta che si crea un conflitto di interessi con gli Stati Uniti o con un’impresa multinazionale i rapporti di forza giocano a favore di questi centri di potere internazionali, i quali si confrontano con nove paesi e non con un’unità politica rappresentativa della società dell’economia europea e degl’interessi del popolo e dei lavoratori europei. La struttura confederale dell’Europa ha privilegiato in definitiva certi interessi a spese dell’intera società, con il risultato di inasprire l’egemonia del capitale sul lavoro e di attivare l’imperialismo americano.
Ma il limite della Comunità non consiste soltanto nella mancanza di una volontà politica unitaria, capace di salvaguardare l’indipendenza dell’Europa, ma sta anche nel carattere non democratico della sua struttura. Se la Comunità ha aperto le frontiere alla circolazione delle merci, dei capitali e della manodopera, le ha mantenute per tutto ciò che riguarda la partecipazione elettorale del popolo, l’organizzazione dei suoi strumenti di lotta politica e sindacale e la sua rappresentanza politica nelle relazioni con il resto del mondo. Il popolo e i lavoratori restano dunque completamente esclusi dalle decisioni che si prendono a livello europeo.
Ora, se è innegabile che la concentrazione della produzione e la modernizzazione delle tecniche produttive, rese possibili dal Mercato comune, hanno permesso di elevare il tenore di vita degli Europei, è anche vero che questi miglioramenti hanno interessato soltanto coloro che sono stati coinvolti nella corrente dello sviluppo.
Gli stessi meccanismi che hanno favorito la crescita nei settori avanzati e nelle regioni più favorite hanno determinato la congestione urbana e industriale in poche aree sviluppate (dove l’insufficienza degli investimenti sociali e delle infrastrutture ha fatto esplodere nuovi gravi problemi, come quello della casa, dei trasporti, della sanità, dell’inquinamento, della degradazione dell’ambiente, ecc.), la emigrazione forzata di grandi masse di popolazione, la decadenza economica di intere regioni anche nei settori tradizionalmente produttivi.
Tutto ciò dipende dal carattere liberistico del Mercato comune, il cui obiettivo era di eliminare tutti gli ostacoli alla libera concorrenza. Così le tradizionali distorsioni dello sviluppo capitalistico non solo non sono state eliminate, ma si sono aggravate. Questa contraddizione dipende dal fatto che l’integrazione economica ha permesso allo sviluppo produttivo di assumere una dimensione europea, e, per certi aspetti, mondiale, mentre gli strumenti di politica economica diretti a controllare tale sviluppo hanno conservato dimensioni nazionali. Ne è derivato un sostanziale indebolimento degli strumenti di controllo pubblico dello sviluppo economico, che è stato abbandonato al libero gioco delle forze del mercato europeo.
L’Europa capitalistica e tecnocratica del Mercato comune è un club di paesi ricchi. La sua struttura è fatta per favorire gli Stati più forti, le regioni più sviluppate, i gruppi privilegiati. Essa non ha fatto nulla per la libertà della Spagna e del Portogallo e non ha saputo evitare che la Grecia cadesse nelle mani dei colonnelli. Non ha saputo impedire l’emarginazione dei paesi e delle regioni con le strutture economiche più deboli. Non è stata in grado di evitare il dramma della povertà, della disoccupazione, dello sradicamento ai ceti sociali non privilegiati e ai lavoratori più sfruttati.
 
La fase politica dell’integrazione europea.
Lo sviluppo dell’integrazione europea è uno dei fattori che, accanto all’ingresso della Cina sulla scena politica mondiale, hanno maggiormente contribuito a mettere in crisi il sistema politico mondiale bipolare e la rigida disciplina degli Stati satelliti verso le due potenze-guida. Le crescenti tensioni in seno all’alleanza atlantica e l’aggravamento dell’anarchia internazionale hanno determinato il capovolgimento della strategia europea degli Stati Uniti. Mentre ai tempi della guerra fredda l’integrazione europea era concepita come un elemento indispensabile della politica atlantica e anticomunista degli Stati Uniti, con la distensione diventa un ostacolo al mantenimento dell’ordine internazionale e alla stabilità dell’alleanza atlantica. La sospensione della convertibilità del dollaro in oro, la sua svalutazione, le ondate della speculazione internazionale, che colpiscono ora questa, ora quella moneta europea, e lo stesso aumento del prezzo del petrolio, sono altrettanti fatti che tendono a scardinare il Mercato comune, a indebolire la competitività dell’economia europea e, in definitiva, a scalzare le basi sulle quali si fonda il relativo rafforzamento dell’Europa.
D’altra parte, la politica estera dell’Unione Sovietica ha subìto un’evoluzione parallela. Sebbene continui a opporsi a qualsiasi progetto di unificazione politica dell’Europa occidentale, che determinerebbe la formazione di una grande potenza ai propri confini e diventerebbe un pericoloso polo di attrazione per i propri satelliti dell’Europa orientale, l’Unione Sovietica oggi ha riconosciuto la Comunità, perché il suo sviluppo ha permesso di mettere in discussione l’egemonia americana e di portare in luce le tensioni e le contraddizioni che dividono il blocco occidentale.
Infine la Cina, da quando si è emancipata dall’egemonia dell’Unione Sovietica, ha rovesciato il proprio atteggiamento verso l’integrazione europea, di cui non si stanca di incoraggiare gli sviluppi nel campo politico e militare, ben sapendo che la propria ragion di Stato convergerebbe con quella della Federazione europea nella tendenza a rovesciare il predominio delle due superpotenze sul resto del mondo.
Il mutato atteggiamento delle grandi potenze verso l’integrazione europea è una conseguenza della crescente influenza internazionale della Comunità europea, che ha posto il problema di una distribuzione più equilibrata del potere politico nel mondo. Tuttavia, l’integrazione europea, non avendo finora trovato il suo sbocco politico, si è risolta in un rafforzamento degli Stati. Ne è derivato un inasprimento delle divergenze politiche tra i paesi dell’Europa occidentale, oltre che tra questi ultimi e gli Stati Uniti. Si tratta di difficoltà di natura strettamente politica, che non possono essere superate entro i limiti delle istituzioni comunitarie, le quali, fondandosi su strutture di tipo confederale e su procedure di decisione intergovernative, non sono in grado né di dominare i conflitti interni, né di affermare un’identità autonoma rispetto al resto del mondo. Di conseguenza, mentre la Cina dispone del potere di perseguire una politica indipendente, il processo di integrazione europea, pur modificando i rapporti di potere tra Europa e Stati Uniti, non ha finora portato alla creazione di un governo supernazionale in grado di rappresentare una reale alternativa né all’egemonia americana, né all’ordine europeo che due superpotenze si preparano a restaurare con l’accordo sulla sicurezza.
Il venir meno del ruolo motore degli Stati Uniti rispetto al processo di unificazione europea coincide con la crisi del metodo di integrazione funzionalistico.
Fino all’attuazione dell’unificazione doganale (1968), la politica comune si riduceva quasi esclusivamente a provvedimenti di carattere «negativo» relativi alle varie tappe della eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei capitali e della manodopera. Ma quando si è trattato di passare a provvedimenti di carattere positivo, cioè all’attuazione di politiche comuni nel campo regionale, sociale, energetico, monetario, ecc., si è fatta sentire la debolezza e l’inefficienza delle strutture comunitarie ed è apparso chiaro che senza progressi sul terreno politico, cioè senza il trasferimento dei poteri sovrani relativi a tali politiche a livello europeo, non è più possibile progredire nell’integrazione.
La crisi dell’integrazione europea dimostra non solo che i progressi sul piano economico non provocano progressi corrispondenti sul piano politico, ma anche che l’unificazione economica non può giungere a compimento senza un governo europeo.
Il ristagno sembra essere la premessa di un vero e proprio regresso dell’integrazione europea. Se ne possono già osservare alcuni segni allarmanti: ad esempio, il disordine monetario, che provoca una continua variazione dei cambi e impedisce l’unificazione monetaria; la conseguente paralisi del mercato agricolo, il quale è fondato su prezzi comuni fissati in unità di conto; il ripristino di discriminazioni sul terreno commerciale tra le merci dei paesi della Comunità (per esempio, la svalutazione del franco ha aumentato la competitività dei prodotti francesi), che lo smantellamento delle barriere doganali aveva eliminato; la richiesta della Gran Bretagna di rinegoziare le condizioni di adesione alla C.E.E. Il denominatore comune di questi fenomeni è la tendenza delle forze del nazionalismo a riprendere il sopravvento e dell’Europa a disgregarsi.
La limitazione della democrazia e dell’organizzazione dello Stato a livello nazionale, mentre si è formato un mercato europeo, impedisce al popolo di controllare lo sviluppo economico e di fare liberamente le sue scelte storiche nei confronti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Senza un governo europeo non si può fare né una politica economica né una politica estera comune. Occorre dunque adeguare le strutture dello Stato alle forme sempre più ampie di integrazione economica e sociale supernazionale. Questo è il limite che deve essere superato per rendere effettiva la partecipazione di tutti alla gestione del potere, per restituire allo Stato il controllo delle sue funzioni essenziali, per arrestare la crisi del consenso e la degenerazione della vita politica, che si manifestano dovunque in Europa, e per portare sul solo terreno risolutivo, quello popolare, la lotta per l’unità e l’autonomia di tutta l’Europa. Esso potrà essere superato con l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo (il «vertice» dei capi di governo della C.E.E., svoltosi a Roma il 1°-2 dicembre 1975, ha deciso, sia pure con la riserva della Gran Bretagna e della Danimarca, che tale elezione si dovrà svolgere nel 1978), la sua trasformazione in assemblea costituente, cioè con la trasformazione in senso democratico e federale della Comunità europea, o accantonato con la regressione del Mercato comune in un’area atlantica di libero scambio, la degradazione dell’Europa a zona semi-coloniale degli Stati Uniti e l’estensione dei regimi autoritari, soprattutto nei paesi che hanno gli equilibri politici ed economici più fragili.
 
 
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* Per gentile concessione della casa editrice La Nuova Italia pubblichiamo in anteprima questa voce del Dizionario critico di storia contemporanea.

 

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