IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XXVIII, 1986, Numero 2-3, Pagina 81

 

 

L’economia mondiale e il modo di produzione scientifico
 
GUIDO MONTANI
 
 
 
1. La nuova economia e la crisi dell’economia internazionale.
 
Sono ormai in molti a riconoscere che la crisi che investe la maggior parte dei paesi industrializzati, senza risparmiare quelli del Terzo mondo, affonda le sue radici in una cattiva regolamentazione dell’economia internazionale. Tuttavia, quasi tutti gli economisti continuano a pensare che si possa uscire da questa situazione con semplici misure di politica economica prese al livello nazionale o tutt’al più con politiche elaborate nel quadro della cooperazione intergovernativa. La questione è molto più complessa. Siamo di fronte ad un mutamento radicale del sistema economico mondiale che può ormai essere governato solo con strumenti del tutto nuovi di politica economica, in sostanza con la creazione di vere e proprie istituzioni statali sovrannazionali.
Il disorientamento dell’economia e della politica internazionale è il risultato di una mancata comprensione della nuova realtà. Esiste un mercato mondiale ed esiste un sistema economico strettamente interdipendente che si sviluppa su scala planetaria. Eppure sono veramente pochi gli economisti che mettono in dubbio l’affermazione di Keynes, secondo cui: «È il perseguimento simultaneo [di una politica nazionale dell’occupazione] da parte di tutti i paesi assieme che è atto a restaurare nel campo internazionale la salute e la forza economica, siano queste misurate alla stregua del livello di occupazione interna, o di quello del volume del commercio internazionale».[1] L’esperienza avrebbe dovuto ormai insegnare che non è affatto vero che tutti i paesi agiscono, come Keynes ipotizza, «simultaneamente ed assieme» in vista di obiettivi comuni, per tacere poi sul fatto che, sulla base di questa concezione ingenua dei rapporti internazionali, non si sa assolutamente cosa suggerire quando un paese decide di far pagare agli altri il costo del suo sviluppo con politiche del tipo beggar my neighbour. In verità, nel mondo delle sovranità nazionali, l’anarchia è una situazione molto più frequente della immaginaria armonia postulata dagli economisti. Ma, poiché non si vogliono trarre le lezioni necessarie dall’esperienza, si continua a governare l’economia con le categorie stantie dell’internazionalismo, elaborate nel corso dei secoli XVIII e XIX, in un mondo in cui l’interdipendenza economica al livello internazionale non incideva ancora in modo decisivo sulle prospettive di sviluppo di ogni singola nazione. Mai come ai nostri giorni è evidente la subordinazione degli obiettivi nazionali di politica economica ad un mitico soggetto, definito dagli economisti «congiuntura internazionale». E questa la miglior prova della bancarotta del pensiero economico.
Il nuovo, tuttavia, si sta facendo strada nella ricerca economica attraverso l’esame di quel fenomeno che può venir definito mondializzazione del processo economico. In particolare, nel quadro degli studi promossi dalle organizzazioni internazionali, come le varie agenzie dell’ONU, l’OCSE, la Comunità europea, ecc., si è obbligati dai fatti stessi a considerare il mondo, o almeno alcune grandi aree continentali, come un tutto interdipendente. L’analisi input-output, ad esempio, come ha mostrato Leontief,[2] può già essere utilmente impiegata per esaminare la struttura dell’economia mondiale e trarre indicazioni di politica economica al fine di diminuire il divario fra paesi ricchi e paesi poveri. Anche fra gli economisti keynesiani, che sino ad ora non sono riusciti a concepire i problemi internazionali che come una somma algebrica di problemi nazionali, si comincia ad ammettere l’esistenza di una domanda aggregata a livello mondiale e la conseguente necessità di creare strumenti mondiali di politica economica.[3] Infine, sul terreno della riforma del sistema monetario internazionale, dopo la fase del disordine generale causato dalla politica dei cambi flessibili, sta finalmente riemergendo il punto di vista favorevole ai cambi fissi e, in questo contesto, anche la più coraggiosa opinione di economisti come Triffin, a cui va il merito di aver difeso con tenacia la necessità di giungere ad una moneta mondiale e ad una banca centrale mondiale, a partire dalla creazione di monete internazionali regionali, come lo scudo europeo, e la progressiva estensione di questo metodo al livello mondiale.
Nonostante questi avanzamenti, resta aperto il problema di indagare, con strumenti concettuali adeguati, le leggi di sviluppo, se vi sono, dell’economia mondiale contemporanea, nella sua unità e specificità. È questo ad esempio l’indirizzo già seguito da alcuni storici dell’economia, quali Braudel e Wallerstein. La loro ricostruzione dell’economia moderna alla luce della dinamica centro-periferia, che dalla originaria economia-mondo degli Stati italiani del Rinascimento si sviluppa sino all’attuale economia-mondo planetaria, costituisce un punto di riferimento prezioso ed irrinunciabile per qualsiasi analisi scientifica del sistema economico contemporaneo. Come non vedere, ad esempio, che moltissimi aspetti del tanto celebrato «miracolo giapponese», in verità non sono altro che l’epifenomeno della più generale dialettica fra «polo del Pacifico» e «polo dell’Atlantico», che sta riproducendo su scala più vasta uno dei famosi décentrages di cui parla Braudel?
L’evidente utilità di questo approccio non deve tuttavia nascondere l’insufficiente attenzione sino ad ora dedicata alla relazione tra il sistema dell’economia mondiale e il sistema mondiale degli Stati, in sostanza, il rapporto fra economia e politica internazionale. Wallerstein è l’autore contemporaneo che più a lungo ha esaminato questi aspetti,[4] e vale forse la pena di riassumere rapidamente l’essenza del suo metodo di analisi, che peraltro è comune a molti studiosi che si richiamano alla tradizione marxista. Per Wallerstein il sistema dell’economia-mondo è per sua natura capitalistico, anche se una parte rilevante degli Stati esistenti pretende di aver realizzato dei regimi socialisti. Il socialismo non può essere altro che il governo consapevole degli uomini sul processo produttivo. Giustamente, afferma Wallerstein, non vi può essere socialismo senza un «governo mondiale socialista».[5] La logica più generale che regge il sistema produttivo planetario è dunque quella del « modo di produzione capitalistico», vale a dire la ricerca da parte delle forze produttive della massima appropriazione del sovrappiù mondiale. Anche gli Stati, che sono strumenti nelle mani delle classi dominanti, dunque della borghesia, dove prevalgono i regimi fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, non si potranno sottrarre a questa logica generale: «Uno Stato è tanto più forte di un altro Stato — afferma Wallerstein — quanto più esso può massimizzare le occasioni per consentire alle proprie imprese (comprese quelle di Stato) di acquisire profitti nell’economia-mondo».[6]
Si potrebbe subito osservare che Wallerstein, pur tentando di tener conto dell’idea di sistema mondiale degli Stati, finisce per impoverirne il concetto subordinandolo alla logica del «capitalismo mondiale». La sua fondamentale tripartizione fra centro, semiperiferia e periferia lo obbliga, ad esempio, a collocare l’Unione Sovietica fra gli Stati semiperiferici, sullo stesso piano, pertanto, degli altri Stati socialisti dell’Europa orientale. Anche un riferimento grossolano alla dottrina della ragion di Stato può bastare per sostenere che sembra molto più aderente alla realtà politica internazionale parlare di bipolarismo — o governo bipolare del mondo — e collocare l’Unione Sovietica fra le superpotenze, sullo stesso piano degli Stati Uniti, ed i paesi europei, dell’Est e dell’Ovest, nel campo dei paesi satelliti delle superpotenze.
Anche se lo scopo di questo articolo non è quello di approfondire la dinamica del sistema mondiale degli Stati, come sistema politico, è stato inevitabile accennarvi perché, a nostro avviso, un esame corretto del processo storico deve prendere in considerazione l’esistenza di una relativa autonomia dei fatti politici rispetto alla più vasta e profonda dinamica che sta progressivamente trasformando il sistema produttivo e la società mondiale. Lo sviluppo delle principali tecnologie d’avanguardia (come l’energia da fusione nucleare, l’esplorazione degli spazi, l’informatica, ecc.), che hanno una notevole influenza sull’evoluzione stessa del sistema economico, non dipende dalla forma della proprietà dei mezzi di produzione. Si vuole cioè sostenere che è in corso una profonda modificazione del sistema produttivo che investe nella stessa misura i paesi occidentali ad economia di mercato ed i paesi orientali con proprietà di Stato dei mezzi di produzione. Si può succintamente affermare che la società mondiale contemporanea sta vivendo la fase di transizione «dal modo di produzione industriale al modo di produzione scientifico», oppure, da un modo di produzione in cui l’operaio e la fabbrica (organizzata dal padrone o dal direttore del piano) rappresentavano la principale forza produttiva ad un modo di produzione in cui l’automazione ed il lavoro intelligente rappresentano la nuova forza propulsiva del progresso economico-sociale.
Non si tratta solo di una innovazione terminologica rispetto a chi privilegia l’idea di «modo di produzione capitalistico». È in gioco la individuazione delle forze del progresso e degli obiettivi che di volta in volta devono essere perseguiti per renderlo possibile. Wallerstein sostiene che il compito delle «forze antisistemiche» è quello di superare la forma capitalistica di produzione, e include fra di esse anche i paesi socialisti. La tesi che qui si vuole difendere è invece quella secondo cui il principale ostacolo allo sviluppo delle forze produttive, nella nostra epoca, risiede nell’organizzazione in Stati nazionali sovrani dell’economia mondiale. Lo sviluppo della scienza e della tecnologia moderna lasciano intravvedere la possibilità di liberare l’uomo dalla fatica fisica del lavoro e di accelerare considerevolmente la marcia del Terzo mondo verso condizioni di vita dignitose. Ma queste potenzialità non si traducono in realtà per l’impossibilità di pianificare un uso razionale delle risorse su scala planetaria, attraverso un piano mondiale di sviluppo. La realizzazione di questo piano richiederebbe, come suo presupposto naturale, la libera e consapevole partecipazione di tutti i popoli e di tutti gli Stati, vale a dire la democrazia internazionale. Ma la presente condizione di anarchia internazionale, in cui gli Stati più forti dettano le condizioni a cui deve adeguarsi il resto dell’umanità, comporta lo sfruttamento delle risorse della scienza e dell’economia, «patrimonio comune del genere umano», non alfine di migliorare la condizione umana nella sua totalità, ma per rafforzare questa o quella ragion di Stato. La corsa agli armamenti, il disordine monetario internazionale, le condizioni miserevoli a cui è abbandonato il Terzo mondo non sono altro che il risultato di un ordine internazionale che accetta come legge suprema il rispetto feticistico delle sovranità nazionali. Chi si oppone al superamento della sovranità assoluta degli Stati — dunque, eventualmente, anche gli Stati socialisti e tutte le forze che, pur definendosi progressiste, non hanno il coraggio di mettere in discussione questo atavico postulato del pensiero politico — si oppone allo sviluppo delle forze produttive.
La nuova economia sarà il risultato del progressivo superamento delle politiche economiche organizzate su scala nazionale. La scienza economica deve cominciare a concepire la possibilità di organizzare la finanza pubblica, le politiche per l’occupazione, per lo sviluppo, per il superamento degli squilibri territoriali, ecc. a differenti livelli di governo, da quello locale a quello nazionale, continentale e mondiale. In questo articolo non sarà possibile affrontare tutti questi problemi della nuova economia, ma ci si limiterà a discuterne, dal punto di vista rilevante per l’economista, il presupposto: l’evoluzione del modo di produzione verso il nuovo stadio di sviluppo post-industriale.
 
2. Modo di produzione, economia e politica.
 
La pretesa di parlare di una «nuova economia» deve avere un fondamento razionale, si deve cioè cercare di definire in che senso compaiono oggi fenomeni economici nuovi rispetto al passato. È il problema della identificazione delle fasi o degli stadi dello sviluppo economico, che ormai raramente costituisce oggetto di discussione nella scienza economica, al contrario di quanto avveniva agli albori del pensiero economico moderno. Vale dunque la pena di accennare alle caratteristiche di un metodo di analisi che appare indispensabile ad una comprensione approfondita dell’economia contemporanea.
In effetti, nella Ricchezza delle nazioni sono sparsi frequenti ed illuminanti confronti fra ciò che accade nel mondo europeo incivilito e «quello stadio primitivo e rozzo della società» che lo ha preceduto. Questo metodo per l’esame dei fatti sociali, attraverso il confronto fra differenti stadi di sviluppo, Adam Smith lo aveva ereditato da una vasta letteratura fiorita agli albori del moderno sistema di produzione industriale, in seguito alle esplorazioni geografiche e alla naturale curiosità di confrontare e valutare pregi e difetti della società europea rispetto a quelle appena scoperte. Si venne così formando, attraverso l’apporto di numerosi commentatori, la teoria dei quattro stadi, che lo stesso Smith aveva ampiamente discusso nelle sue lezioni di filosofia morale, in cui distingueva l’età dei cacciatori, l’età dei pastori, l’età dell’agricoltura e quella del commercio.[7]
Con il procedere dell’industrializzazione, l’economia si concentrò sempre più sui problemi della crescita relativi al sistema industriale (o di fabbrica, come veniva denominato allora) ed in particolare al nuovo ruolo assunto dalla borghesia imprenditrice e dal proletariato. Ricardo non esitò a sostenere che la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del reddito fra salari, profitti e rendite è il problema fondamentale dell’economia politica. In questa ottica, era dunque inevitabile che la teoria dei quattro stadi perdesse progressivamente di importanza nell’economia classica inglese.
Questa dottrina venne vigorosamente riproposta ed approfondita quando i paesi del continente europeo si posero il problema di tenere il passo con l’Inghilterra. Un contributo teorico decisivo venne da Friedrich List, che con Il sistema nazionale di economia politica, pubblicato nel 1841, si propose di intervenire a favore dei sostenitori dell’unione doganale tedesca (Zollverein) che chiedevano protezione doganale nei confronti della più forte ed affermata industria inglese. Le misure di politica economica in favore delle industrie nascenti vennero giustificate da List sulla base: a) di una teoria dello sviluppo delle forze produttive; b) di una concezione dell’ordine internazionale che avrebbe progressivamente potuto evolvere verso una condizione di eguale sviluppo fra tutte le nazioni, in cui sarebbero stati possibili la pace universale ed il libero scambio. «L’unione futura di tutti i popoli — afferma List — e l’introduzione della pace perpetua e della libertà generale di commercio devono costituire l’obiettivo verso il quale mirano tutti i popoli e al quale devono avvicinarsi sempre di più».[8]
Il problema centrale dell’economia politica (o Nationalökonomie) è dunque quello di definire le condizioni che rendono possibile alle nazioni il passaggio da uno stadio di sviluppo primitivo ad uno stadio più avanzato. I principali stadi di sviluppo sono, secondo List, quello selvaggio, il pastorizio, l’agricolo, quello agricolo e manifatturiero insieme e, infine, lo stadio agricolo-industriale-commerciale.[9] Ad ogni stadio di sviluppo raggiunto dalle nazioni, si manifesteranno certe potenzialità produttive. È il grado di sviluppo delle forze produttive a decidere del benessere e della ricchezza di un popolo. Le forze produttive di una nazione non dipendono, tuttavia, solo da fattori materiali quali il possesso delle risorse naturali o la quantità di manodopera disponibile, ma «anche dalle leggi e dalle istituzioni sociali, politiche e civili e soprattutto dalle condizioni che garantiscono la continuità, l’autonomia e la potenza delle nazioni… La produttività, difatti, non dipende soltanto dalla suddivisione, nell’industria, delle diverse fasi di lavoro fra i vari individui, ma soprattutto dalla loro associazione morale e materiale in vista di uno scopo comune».[10]
Gli economisti classici, o la Scuola, come la definisce polemicamente List, avevano commesso due errori: il primo consisteva nella pretesa che fosse conveniente per ogni nazione realizzare una politica di libero scambio, indipendentemente dal suo grado di sviluppo; il secondo, nel definire una teoria dei valori di scambio senza preoccuparsi di metterla in relazione col problema dello sviluppo delle forze produttive. L’economia si riduce così alla scienza che spiega come «le ricchezze, o valori di scambio, vengono prodotte, distribuite e consumate». Al contrario, sostiene List, «una teoria dei valori deve essere accompagnata da una teoria indipendente delle forze produttive per poter spiegare i fenomeni economici».[11] Secondo List, è necessario sapere che vi è un impiego produttivo delle risorse non solo quando ci si propone di estendere quantitativamente le forze produttive esistenti. È questo sostanzialmente il fenomeno che si definisce accumulazione, nel sistema industriale. Ma devono essere considerati produttivi anche gli investimenti che si propongono di «risvegliare» le forze produttive, per avviare la transizione da uno stadio di sviluppo all’altro. Sono pertanto produttive le spese per l’istruzione, al contrario di quanto sosteneva Smith, se vogliamo promuovere lo sviluppo industriale di una nazione agricola, ecc. Ecco perché le misure doganali protettive sono giustificate per una nazione che si proponga «l’educazione industriale» del proprio popolo al fine di raggiungere il più elevato stadio di sviluppo industriale già conseguito dalle nazioni più fortunate.
Il pensiero di List influenzò certamente Marx. È ovviamente inesatto sostenere che Marx fu indotto ad elaborare il concetto di «modo di produzione», di cui parla per la prima volta nella Ideologia tedesca (1845-46), sospinto solo dalla esigenza di List di formulare una «teoria delle forze produttive», ma è certo che in quel periodo si stava interessando attivamente ad una critica del sistema di List ed i suoi manoscritti[12] lasciano intravvedere alcuni aspetti significativi del pensiero marxiano che qui vale la pena di discutere. Nella Ideologia tedesca, Marx estende di gran lunga l’idea dei quattro stadi di sviluppo nella formulazione più generale di «modo di produzione», che consiste nell’esame delle condizioni in cui l’uomo riproduce la sua vita materiale; è cioè l’esame, per usare l’espressione di Marx, di un modo di vita determinato. Ma in molte espressioni la derivazione da List è quasi letterale. Ad esempio, Marx afferma che «i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui…»; e poco più avanti che «i rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le sue forze produttive… Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro».[13]
Il mutamento di terminologia, da stadi di sviluppo, a modo di produzione, come si è detto, corrisponde ad un avanzamento sostanziale delle scienze storico-sociali. La fondamentale importanza del concetto di modo di produzione risiede nel fatto che ogni società deve primariamente assicurarsi la sua sopravvivenza, cioè la sua riproduzione. L’esame di tutte le funzioni che assicurano la riproduzione della vita associata individua quell’insieme di comportamenti umani, indispensabili o necessari, che possono venir definiti come strutturali (e che sono oggetto di studio, in specie, da parte degli storici della «lunga durata», per usare l’espressione di Braudel). Ogni società può garantire la sua riproduzione solo a patto di realizzare un equilibrio esterno con la natura (che subisce quasi interamente nei primi stadi di sviluppo, ma che via via impara a dominare) e interno, fra le differenti forze di produzione.[14] Le forze di produzione entrano tra loro in rapporti definiti al fine di assicurare alla società la quantità di merci e servizi di cui necessita. Ogni modo di produzione determina dunque le forme della produzione associata, le sue potenzialità, la dimensione massima della popolazione, le modalità della distribuzione del reddito e, infine, una serie di caratteri specifici della vita associata (nella famiglia, nella città, nello Stato, ecc.). L’individuazione dei ruoli che ciascun individuo deve svolgere nel contesto di un determinato modo di produzione viene effettuata mediante l’analisi della divisione sociale del lavoro. Il modo di produzione è il punto di vista più generale per la comprensione dell’uomo in quanto lavoratore, ovvero per lo studio dell’azione umana in quanto agire orientato alla riproduzione della vita sociale.[15]
Sulla base di questo schizzo del concetto, è possibile anche indicare, come fa Marx, una sommaria periodizzazione della storia. In un’età primitiva, l’uomo cacciatore e pescatore viveva rapinando la natura. Con la pastorizia e l’agricoltura l’umanità ha imparato a rigenerare le risorse naturali utilizzate per la sua esistenza: sono nate le città, si è sviluppato il sapere scritto, ecc. Con l’artigianato, l’uomo ha cominciato a trasformare, con l’aiuto di semplici attrezzi, le materie prime nei manufatti richiesti dal limitato mercato locale. Da ultimo, con la rivoluzione industriale, l’uomo, sulla base delle prime conoscenze scientifiche, ha costruito macchine capaci di sfruttare le energie naturali, potenziando il lavoro manuale e riuscendo così ad ottenere facilmente dalle materie prime i beni di cui necessita in grande quantità (produzione di massa).
È in questo senso generalissimo che è qui sembrato legittimo parlare di «nuova economia». Si tenterà cioè di delineare i principali aspetti economici di un nuovo modo di produzione, il modo di produzione scientifico. In prima approssimazione, si potrebbe infatti sostenere che con il modo di produzione scientifico l’uomo sta finalmente realizzando le condizioni per far svolgere alle macchine interamente il lavoro necessario alla riproduzione fisica della società. Il modo di produzione industriale si fondava sul lavoro operaio e sul capitale industriale come forze produttive. Con il nuovo modo di produzione è la scienza stessa a diventare la principale forza produttiva.
Tuttavia, prima di addentrarci nell’analisi del modo di produzione scientifico, è bene discutere di alcune ambiguità che la letteratura sul concetto di modo di produzione non ha ancora chiarito del tutto. La prima concerne la confusione fra la nozione di modo di produzione, come concetto tipico delle scienze storico-sociali e il materialismo storico, inteso come filosofia della storia. È nota la disputa tra filosofi marxisti e liberali sul determinismo e sul ruolo da assegnare nella storia alla libertà. Per quanto è possibile, si tenterà qui di superare questa difficoltà precisando che il concetto di modo di produzione appena delineato deve essere inteso come un «tipo ideale» nel senso precisato da Max Weber. Nelle scienze storico-sociali è ovviamente indispensabile parlare di azione umana determinata: in caso contrario non avrebbe nemmeno senso porci l’obiettivo di giungere alla formulazione di modelli di comportamento e di leggi sociali. Ma ciò non implica affatto sostenere che tutta l’azione umana sia determinata. Per questo, le scienze sociali non pretendono di fornire una spiegazione esaustiva dell’azione umana ed il tipo-ideale è una costruzione concettuale che non intende essere una rappresentazione fedele della realtà. Esso si ottiene attraverso «l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista… in un quadro concettuale in sé unitario». La tipologia costruita dallo scienziato sociale è ideale solo in senso logico, è una utopia, un concetto limite «a cui la realtà deve essere misurata e comparata».[16] I tipi-ideali sono strumenti ausiliari della conoscenza. In sostanza, allo scienziato sociale è sufficiente l’assunto che l’azione umana sia in parte determinata. È questa la sfera della realtà sociale che costituisce il suo oggetto di studio.[17]
Una seconda precisazione deve essere fatta in merito al rapporto esistente fra modo di produzione e politica. È questa una connessione che List pone al centro della sua analisi con un metodo che è stato in seguito ingiustamente trascurato nelle scienze sociali, in particolare nell’economia. List deve infatti essere considerato come il primo teorico dell’ordine economico internazionale. Sulla base dell’evoluzione delle forze produttive attraverso i differenti stadi e del ruolo dello Stato nella politica internazionale (l’idea di ragion di Stato è spesso implicita nei suoi ragionamenti), egli riesce ad esempio a compiere la stupefacente previsione (si noti, nel 1841) del declino storico della potenza imperiale inglese nei confronti degli Stati Uniti e della necessità per l’Europa di trovare forme di unione politica continentale per sostenere la sfida della potenza d’oltre Atlantico.[18] Questo felice intreccio fra evoluzione delle forze produttive ed evoluzione della politica internazionale viene completamente offuscato nel pensiero di Marx, il cui campo di osservazione si dilata al livello strutturale concentrandosi sull’idea di forze produttive, mentre si sfoca sul concetto di Stato e di politica internazionale. Già nelle pagine di critica a List questa tendenza emerge molto chiaramente. L’appartenenza degli individui alla propria classe sociale costituisce il fattore determinante di ogni rapporto sociale. La nazionalità viene cosi completamente sommersa ed assorbita nei rapporti di classe. «La nazionalità dell’operaio — afferma ad esempio Marx — non è francese, né inglese, né tedesca… Il suo governo non è francese, né inglese, né tedesco, è il capitale… È il denaro la patria dell’industriale».[19] La storia del nostro secolo ha tragicamente mostrato la falsità di queste affermazioni: dopo il crollo della II Internazionale nei confronti del nazionalismo e due conflitti mondiali non vi è certamente più molto bisogno di argomentare che i lealismi nazionali si sono rivelati, in alcune circostanze, molto più profondi e decisivi dei lealismi di classe, tanto per la borghesia che per il proletariato. Ma se nella prima metà del secolo scorso era difficile prevedere a quali tragiche conseguenze avrebbe condotto la politica di potenza quando fosse stata combinata con l’ideologia nazionalista (e questo non lo seppe prevedere nemmeno List), non si sarebbe per ciò dovuto ridurre lo Stato, sia nei suoi rapporti interni che esterni, a mera appendice della società civile. Eppure, nel pensiero marxiano lo Stato non svolge nessun ruolo particolare al di là di quello di difensore degli interessi del capitale, come «comitato d’affari» della borghesia.[20] Le ragioni di questa concezione riduttiva del ruolo dello Stato vanno probabilmente ricercate nella convinzione di Marx che le istituzioni della società civile, come la famiglia e le classi, svolgono un ruolo ben più determinante nel condizionare l’azione ed il pensiero degli individui, di quanto non lo svolgano le «sovrastrutture» statuali. La distinzione introdotta da Hegel fra Stato e società civile viene in Marx riassorbita nella dottrina del determinismo storico, in cui compaiono come attori primari le forze produttive ed i rapporti di produzione.[21]
Le conseguenze pratiche e teoriche di questa concezione dello Stato sono rilevantissime (si pensi solo alle successive teorie dell’imperialismo e alla ricerca, spesso cervellotica, delle cause economiche della guerra) e non possono essere qui discusse. Ma ci importa mettere in evidenza due aspetti dell’approccio di List che rischiano di cadere nell’oblio, se si accetta acriticamente la metodologia del modo di produzione. Il primo riguarda il ruolo dello Stato come forza produttiva. List ripete in continuazione che non è possibile la divisione del lavoro senza una sua coordinazione e che la coordinazione viene fatta attraverso il mercato e lo Stato come supremo organizzatore delle energie materiali e spirituali della nazione. In secondo luogo, va tenuto presente che lo sviluppo dell’economia internazionale dipende sia dall’evoluzione del modo di produzione dominante (è possibile la coesistenza nel tempo e nello spazio di più modi di produzione: in tal caso vanno esaminati i loro rapporti), sia dalle leggi che regolano il sistema mondiale degli Stati. Anche il sistema mondiale degli Stati può essere esaminato con l’ausilio di modelli o tipi-ideali weberiani. Ma è naturale che, a questo punto, ci si ponga il problema di quali relazioni specifiche istituire fra evoluzione del modo di produzione ed evoluzione del sistema mondiale degli Stati. Già List ha mostrato che è possibile influire, mediante il sistema politico, sullo sviluppo delle forze produttive. Il problema non può certamente essere affrontato in questa sede.[22] Ci accontenteremo di una analogia. Le acque disciolte del ghiacciaio raggiungeranno certamente il mare, magari attraverso cunicoli sotterranei e la formazione di mille rivoli. Non saremo mai in grado di definire a priori e con precisione quale percorso seguiranno a valle. Moltissimi ed in continuo mutamento sono i fattori che determinano l’andamento di un fiume. Così l’evoluzione del modo di produzione genera un processo di diffusione a macchia d’olio dai paesi più progrediti verso le società più arretrate che modifica progressivamente gli equilibri internazionali fra gli Stati. I dettagli di questo processo ci sfuggono. Ma possiamo ragionevolmente prevedere il punto di arrivo e qualche importante tappa intermedia.
Il terzo ed ultimo punto sul quale è necessario soffermarci, riguarda la pretesa identificazione fra modo di produzione ed economia. Di ciò è responsabile lo stesso Marx. Infatti, nella Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica afferma testualmente che «l’anatomia della società civile è da ricercare nell’economia politica».[23] Questa riduzione della società civile ad economia venne ampiamente ripresa dagli epigoni di Marx e persino teorizzata in una concezione filosofica del mondo, il cosiddetto materialismo economico, cioè una versione riduttiva e volgarizzata del materialismo storico.
In verità, il materialismo storico è il punto di vista più generale con il quale analizzare i fatti sociali: esso determina i ruoli sociali attraverso l’analisi della divisione del lavoro e delle forze produttive. Esso ci consente, come si è già affermato, di studiare l’azione umana in quanto agire orientato alla riproduzione della vita sociale. È a partire dal modo di produzione che si potranno individuare certe forme di vita associata nella famiglia (famiglia patriarcale, monogamica, ecc.), nel villaggio, nella città, ecc. Il punto di vista dell’economia è più limitato. L’economista assume come un fatto esterno alla sua disciplina la divisione in ruoli della società (che viene per l’appunto esaminata dal sociologo o dall’antropologo) mentre si preoccupa di definire, su questa base, come può essere efficientemente organizzato il lavoro. La forma più generale di organizzazione del lavoro è il mercato. L’oggetto della economia è il comportamento degli individui nel mercato ed il funzionamento del sistema economico nel quadro statuale (il piano). Ma poiché nessuno Stato è una monade isolata dagli altri Stati è sempre indispensabile, quando si vuole prendere in esame il processo economico nella sua totalità, assumere come quadro di riferimento il sistema mondiale degli Stati.
 
3. L’economia mondiale e la fine dei blocchi economici.
 
Il mercato mondiale non è il risultato di avvenimenti recenti. Esso ha cominciato ad esistere potenzialmente già con la fase rinascimentale delle scoperte geografiche, l’incremento degli scambi extra-mediterranei e l’avvio, nella seconda metà del secolo XVIII, del primo processo di industrializzazione. L’economia-mondo, per usare l’espressione significativa di Braudel, si è progressivamente dilatata oltre i confini della piccola Europa e nel secolo scorso non vi era praticamente alcun continente che non potesse venir considerato «periferia» del centro europeo. Già nel 1846, in effetti, Marx scriveva: «La grande industria universalizzò la concorrenza… stabilì i mezzi di comunicazione e il mercato mondiale moderno… produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni…».[24]
È tuttavia vero che ancora alla vigilia della prima guerra mondiale l’Europa monopolizzava più del 60% del commercio mondiale e che se a questo si sommava quello del Nord America la percentuale si avvicinava all’80%. Ben poca era dunque ancora l’importanza dei paesi extra-europei. Una vera svolta si ebbe solo nel secondo dopoguerra. Inizialmente le cose non cambiarono molto dal punto di vista puramente quantitativo. Anzi, sotto molti aspetti si ebbe addirittura un peggioramento. Ad esempio, la quota del commercio estero dei paesi sottosviluppati sul totale mondiale, che nel 1900 era al livello del 16% e che era progressivamente salita sino al 31% nel 1950, scese drammaticamente al 17-18% nel 1970.[25] È vero che le percentuali nascondono la fortissima crescita del commercio internazionale tra paesi sviluppati, ma ciò nonostante il trend è una chiara indicazione di quale difficoltà avessero i paesi più poveri a tenere il passo delle economie più progredite. In ogni caso, a partire dalla ricostruzione post-bellica si ebbe senza dubbio una accelerazione straordinaria dell’integrazione dell’economia mondiale, che potremmo definire integrazione «a blocchi», nel senso che i fenomeni economici hanno più o meno seguito l’orientamento della politica mondiale, la cui caratteristica fondamentale è consistita per l’appunto nel bipolarismo russo-americano, che ha generato la politica dei blocchi contrapposti.
All’interno di ciascuna area di influenza, le due superpotenze seppero garantire un ordine internazionale sufficientemente stabile ed evolutivo. Fra queste due macro-regioni del mondo, non vi è dubbio che l’Occidente registrò i maggiori successi. Gli Stati Uniti si impegnarono attivamente all’interno del FMI, del GATT e dell’ONU per assicurare la formazione di un libero mercato occidentale ed un sistema monetario di cambi fissi. Il risultato fu una crescita senza precedenti del prodotto pro-capite: circa il 5% all’anno per il periodo 1950-1970. È il tasso di crescita più elevato che l’economia mondiale abbia mai registrato (nella fase del gold standard, dal 1870 al 1913, il saggio di crescita aveva raggiunto esattamente la metà di questo valore). Non a torto alcuni economisti hanno definito il ventennio post-bellico come l’età dell’oro dell’economia mondiale.[26] I paesi del Comecon, con alla testa l’URSS, registrarono tassi di crescita anche superiori, in alcuni casi del 7%, per lo stesso periodo. Il loro livello di reddito pro-capite resta tuttavia ancora inferiore a quello dei paesi occidentali, anche se è difficile valutare il divario effettivo.
Questo modello di sviluppo «a blocchi», venne violentemente messo a soqquadro nel corso degli anni Settanta da una poderosa crisi. I principali fattori di questa crisi strutturale sembrano almeno tre: l’emergere di nuovi centri di autonomia all’interno delle rispettive aree di influenza delle superpotenze; la pretesa del Terzo mondo di partecipare al processo mondiale di industrializzazione e, infine, la progressiva apertura e integrazione tra i due blocchi.
Il primo decisivo mutamento che deve essere messo in rilievo è il declino del sistema bipolare: emergono nuovi centri di potere economico nel mondo che cominciano a giocare un ruolo autonomo negli equilibri mondiali. Sopravvive un bipolarismo militare, ma nasce al suo fianco un multipolarismo economico. Gli Stati Uniti restano la prima potenza industriale del mondo, ma la loro supremazia non è più affatto incontestabile come nell’immediato dopoguerra. In quegli anni, negli USA era infatti concentrato il 45% del potenziale produttivo mondiale. Nel 1980 esso è sceso al 31%. L’URSS è passata dal 10% al 14,8%, il Giappone dal 2,9 al 9,1%, la Cina dal 2,3 al 5%, il Terzo mondo dal 6,5 al 12% e l’Europa è scesa dal 26 al 23%, ma ciò nonostante ha conservato una posizione di rilievo.[27] Per valutare adeguatamente queste percentuali basta ricordare che nei primi trent’anni del nostro secolo, mentre la quota della produzione industriale statunitense sopravanzava decisamente quella inglese, il baricentro dell’economia mondiale si spostava ineluttabilmente da Londra a New York.
Il declino relativo della leadership economica americana ha avuto conseguenze particolarmente rilevanti sul funzionamento del mercato mondiale. Sotto l’aspetto monetario si è passati dal sistema dei cambi fissi, inaugurato a Bretton Woods, ad un sistema di cambi fluttuanti. Il dollaro resta una moneta di riferimento per gli scambi internazionali, ma certamente gli USA non hanno più una funzione di «banchiere del mondo», come nell’immediato dopoguerra, quando alla crisi provocata dal dollar shortage in Europa erano stati capaci di rispondere con il Piano Marshall. Le riserve degli USA, che nel 1949 ammontavano al 66% delle riserve mondiali, erano cadute al 27% nel 1959 ed erano addirittura negative al momento (15 agosto 1971) in cui venne presa la decisione di rendere inconvertibile il dollaro in oro. Attualmente si assiste ad un vero e proprio rovesciamento di tendenza: i capitali, in specie dall’Europa e dal Terzo mondo, sono attirati negli USA dagli elevati tassi interni di interesse. Non si era più verificato un simile fenomeno dai lontani anni della Grande depressione.
Al disordine monetario si è affiancato un progressivo smembramento della zona occidentale di libero scambio creata faticosamente dagli USA nel dopoguerra, grazie all’adozione del multilateralismo negli accordi commerciali. All’interno del GATT si stenta sempre più a trovare l’unanimità dei consensi. I paesi del Terzo mondo ne sono esclusi di fatto o di diritto. Non hanno dunque potuto far altro che creare un nuovo centro per le negoziazioni tariffarie all’interno dell’ONU (cioè l’UNCTAD). Essi chiedono un sistema generalizzato di preferenze che garantisca la protezione delle loro industrie nascenti e che consenta le esportazioni verso le economie più ricche. La Comunità europea, che è ormai decisamente la prima potenza commerciale mondiale, ha una propria tariffa esterna comune ed ha particolari rapporti commerciali con i paesi africani (Accordi di Lomé) e con quelli mediterranei. I paesi del Patto Andino in America latina e quelli dell’ASEAN, nel Sud-Est asiatico, stanno tentando di creare un proprio mercato comune. Infine, la regione del Pacifico sta ponendosi alla testa dello sviluppo economico mondiale, grazie ad una straordinaria integrazione fra le economie dei paesi di nuova industrializzazione (NIC), il Giappone e l’Australia, la quale ha ormai orientato le sue esportazioni dall’Europa verso il nord del Pacifico.[28]
Il secondo fattore della crisi internazionale concerne il nuovo ruolo che vogliono assumere i paesi del Terzo mondo nell’economia mondiale. Una volta ottenuta l’indipendenza politica è naturale che essi pensino alla propria emancipazione dalla condizione di povertà secolare a cui erano stati abbandonati nell’epoca della guerra fredda. Di fatto, in quegli anni, essi erano praticamente esclusi dall’economia internazionale. Le prime avvisaglie di un risveglio del Terzo mondo si ebbero con la formazione di un fronte dei non-allineati negli anni Cinquanta, ma le prime concrete rivendicazioni furono formulate all’interno dell’ONU a partire dalla prima Conferenza sul commercio e lo sviluppo (Ginevra, 1964) in cui il «Fronte dei 77» avanzò la nuova richiesta di «Trade not aids». Tuttavia il problema venne ben presto messo a fuoco nei suoi termini più generali: si trattava di ristrutturare l’intero ordinamento economico mondiale in modo da consentire un completo sviluppo industriale del Terzo mondo. Solo così si sarebbero potute gettare le basi per una reale uguaglianza di tutti i popoli (la Conferenza di Lima del 1975 formulò, anche un obiettivo preciso: il Terzo mondo avrebbe dovuto raggiungere la quota del 25% della produzione industriale mondiale entro il 2000).
I paesi più ricchi e fortunati non possono ignorare più a lungo questa sfida proveniente dal Terzo mondo. La crisi delle materie prime è stata un avvertimento sufficientemente efficace. Occorre cominciare a convivere con una popolazione, pari circa ai due terzi del totale mondiale, che vuole cambiare stile di vita. Gli effetti di questi mutamenti sono già visibili. I primi successi ottenuti dai cosiddetti paesi di nuova industrializzazione hanno messo in crisi alcune industrie delle economie più avanzate. Nel Terzo mondo i salari sono in effetti anche dieci o quindici volte più bassi che negli USA e in Europa e, su questa base, si capisce facilmente come i prodotti del Terzo mondo siano competitivi sul mercato internazionale. Siamo dunque di fronte a una vera e propria dislocazione mondiale dei processi produttivi con effetti depressivi sull’occupazione per quei paesi e quei settori che non sono in grado di reggere la concorrenza internazionale. Certamente, a mano a mano che i paesi più poveri avanzeranno sulla strada dell’industrializzazione, aumenteranno anche i livelli salariali e si ridurranno le minacce all’occupazione dei paesi avanzati. Ma siamo solo agli inizi di un processo che porrà fine all’antica divisione internazionale del lavoro (teorizzata da Ricardo) in cui convivono paesi esportatori di materie prime e paesi esportatori di manufatti: il commercio internazionale è destinato a diventare sempre più commercio intra-settoriale, come lo è ormai tra le economie più sviluppate.
Il terzo fattore da considerare è la crisi del modello socialista di sviluppo realizzato dai paesi del Comecon nel dopoguerra. È noto che il Comecon fu creato da Stalin nel 1949 più in funzione difensiva nei confronti dell’offerta americana di aiuti con il piano Marshall e dei primi progetti di federazione balcanica fra i paesi dell’Est europeo, che non con l’intento di realizzare un vero processo di integrazione fra le economie a regime comunista.[29] In realtà, sino alla morte di Stalin, gli effetti del Comecon furono meramente di contenimento, nel senso che, anche se la proposta del Comecon non si tradusse in nessuna istituzione di rilievo, essa fu sufficiente per interrompere gli scambi fra i paesi dell’Est europeo e quelli dell’Ovest e dirottarli verso l’URSS. Non vi era del resto bisogno di nessun organo di coordinamento nel commercio estero fra paesi socialisti. Ciascuno era incoraggiato a seguire il modello sovietico della costruzione del socialismo «in un paese solo», sviluppando principalmente l’industria pesante e gli investimenti in infrastrutture.
Verso la fine degli anni Cinquanta, sia a causa dei problemi originati dalla crescita economica interna che creava una oggettiva necessità di coordinamento (ogni paese presentava surplus o deficit di produzione nei medesimi settori), sia a causa della sfida del Mercato comune che non poteva essere ignorata, si giunse a dare una rudimentale regolamentazione al Comecon (Statuto del 1959) che, pur non prevedendo alcun organo di natura sovrannazionale, consentì di impostare un programma per la realizzazione della «divisione internazionale socialista del lavoro». In questa fase aumentarono gli scambi fra i paesi membri, ma non fu possibile raggiungere lo stesso livello di integrazione dei paesi dell’Europa occidentale (si calcola che il rapporto fra il valore totale degli scambi e il valore della produzione industriale sia di quattro volte inferiore a quello della CEE), perché gli scambi continuavano ad essere realizzati prevalentemente su una base bilaterale, non esistendo alcuna moneta comune all’area socialista (il tentativo di far adottare il rublo convertibile non ebbe successo). Anche nel contesto del più vasto mercato mondiale, il confronto con la CEE risulta nettamente a sfavore del Comecon. Mentre la Comunità europea è diventata molto presto la prima potenza commerciale mondiale, con una quota di commercio estero che supera il 30% del totale (Europa dei Nove), il Comecon è riuscito a mala pena a raggiungere il 10%, agli inizi degli anni Settanta, ma ha perso ben presto posizioni con l’esplodere della crisi delle materie prime.[30]
La crisi degli anni Settanta mise in discussione il vecchio modello di cooperazione realizzato dai paesi del Comecon. A quel momento, esso consisteva in una estensione del principio della costruzione del «socialismo in un paese solo» a tutta la comunità dei paesi socialisti: in sostanza essi avrebbero dovuto essere autosufficienti rispetto al resto dell’economia mondiale. Una eventuale crisi economica internazionale non avrebbe dunque intaccato la base di sviluppo del Comecon. E in effetti, negli anni Trenta, quando le economie occidentali erano state travolte dalla bufera del nazionalismo economico, l’URSS aveva proceduto senza esitazione sulla strada tracciata dai suoi piani quinquennali (nel periodo 1928-40 si calcola che il tasso di crescita della produzione industriale fosse dell’8,9% contro l’1,9% degli USA). All’interno del Comecon, questo risultato si sarebbe potuto ottenere grazie alla capacità dell’Unione Sovietica di fornire materie prime ed energia ai paesi europei, che le avrebbero pagate con l’esportazione di manufatti. Tuttavia, questa situazione ideale non fu mai raggiunta e venne progressivamente compromessa dalla necessità di acquistare macchinari e tecnologia avanzata dai paesi occidentali, a causa del minor dinamismo impresso dalle economie pianificate allo sviluppo dei settori d’avanguardia. L’aumento spettacolare dei prezzi delle materie prime e dell’energia obbligò inoltre l’Unione Sovietica a portare progressivamente i suoi prezzi (che erano stati mantenuti sino ad allora più bassi) al livello di quelli mondiali ed i paesi europei a cercare fonti alternative di rifornimento.[31] I paesi dell’Est europeo si trovarono dunque, nel corso della crisi, nella duplice situazione imbarazzante di non riuscire a far fronte né al deficit nei confronti dei paesi occidentali da cui acquistavano tecnologia, né a quello nei confronti dei fornitori di materie prime. È evidentemente una situazione insostenibile e che ammette una sola scelta progressiva: l’apertura al mercato mondiale su basi competitive. È una scelta difficile ma necessaria per il rinnovamento della propria base produttiva con norme di efficienza comparabili a quelle delle economie più dinamiche. L’apertura del Comecon al mercato mondiale è divenuta ormai la chiave di volta, per i paesi dell’Est europeo, di una nuova fase di sviluppo altrimenti impossibile.[32]
Alle soglie del Duemila, si può dunque affermare che non esiste più alcuna regione del mondo esclusa dal processo di sviluppo industriale. Di fatto, per la prima volta si manifestano fenomeni di integrazione che hanno veramente una dimensione mondiale, quali gli effetti dell’aumento della popolazione, l’inquinamento dei mari e dei cieli, la scarsità di certe materie prime e di alcune fonti di energia, ecc. La «mondializzazione» del processo produttivo e di sviluppo è ormai un dato imprescindibile di ogni analisi che pretenda di essere scientifica e di ogni seria politica economica.
Queste osservazioni sulla mondializzazione del processo produttivo devono tuttavia essere completate con l’esame di una decisiva modificazione strutturale in corso nelle società avanzate, indipendentemente dalla forma della proprietà dei mezzi di produzione in essa adottata: si tratta della transizione dalla società industriale a quella post-industriale o, per usare una terminologia più precisa, del passaggio dal modo di produzione industriale al modo di produzione scientifico.[33] La mondializzazione del processo produttivo non rappresenta che il risultato di una estensione geografica della divisione del lavoro causata dai nuovi rapporti di produzione. Ma è necessario ora considerare anche questi effetti sulla struttura interna di ogni società, per coglierne la dinamica profonda. È in effetti riconosciuto, sia all’Ovest che all’Est, che il vecchio modello di sviluppo, fondato sull’incentivazione dei consumi individuali e sulla produzione industriale di massa di beni di prima necessità, è ormai entrato in una fase di esaurimento. Il successo delle politiche keynesiane si è fondato sullo sfruttamento della domanda interna: più alti salari per una più elevata produzione, un maggiore reddito pro-capite, ecc. Con modalità differenti, questo modello di sviluppo si è imposto anche nei paesi dell’Est.[34] Oggi, la nuova economia deve saper rispondere alle domande di una società alla ricerca di una migliore «qualità della vita e del lavoro». È in questo senso che sarà orientata l’analisi dei paragrafi seguenti.
Prima di concludere, vale tuttavia la pena di osservare che i caratteri più generali della divisione internazionale del lavoro potrebbero essere riassunti dalla formula della doppia ristrutturazione industriale: mentre i paesi avanzati sono interessati dai fenomeni della transizione dal modo di produzione industriale a quello scientifico, i paesi del Terzo mondo stanno faticosamente avviando la loro prima industrializzazione. La formula, nella sua sinteticità, è efficace, ma nasconde alcune complicazioni da non sottovalutare. Il processo di industrializzazione nel Terzo mondo non potrà avvenire applicando pedissequamente le vecchie tecniche che sono state alla base dello sviluppo industriale europeo nell’Ottocento. Nessuno oggi può permettersi di ignorare l’elettronica o le bio-tecnologie. D’altro canto, anche nei paesi più ricchi la ristrutturazione industriale non potrà avvenire ignorando le esigenze di integrazione con il Terzo mondo. In definitiva, non è più lecito, né possibile, ignorare la stretta interdipendenza che unisce nel bene e nel male ogni popolo e ogni cittadino di questo ormai piccolo pianeta.
 
4. Industria, rendimenti crescenti e occupazione.
 
L’epoca moderna è caratterizzata da una contrazione, in termini di occupazione, del settore industriale sul totale della forza lavoro attiva. Ciò costituisce una netta inversione rispetto al trend ottocentesco, che Marx definiva «proletarizzazione crescente della società».
Il problema è di grande interesse teorico, ma sino ad ora ha generato solo commenti occasionali, in particolare in relazione alla impressionante crescita del settore terziario. Come di consueto, gli Stati Uniti precedono di gran lunga tutti gli altri paesi in questa emigrazione di massa dell’occupazione verso il cosiddetto settore dei servizi. Per importanza, essa può essere paragonata all’esodo che avvenne nel corso della rivoluzione industriale europea dalla campagna alla città. Nella prima metà del secolo scorso, circa il 60-70 % della popolazione attiva nei principali paesi europei e negli USA era impiegata nell’agricoltura. Nel settore terziario l’occupazione raggiungeva o superava di poco il 15%. L’industrializzazione comportò un travaso di popolazione nel settore secondario che, in alcuni casi, nel nostro secolo, raggiunse il 45% del totale. Il trend attuale consiste in una espansione continua del settore dei servizi (privati e pubblici), che si sta avvicinando negli USA al 70% del totale, e in un continuo declino dell’occupazione nell’industria. Si prevede che entro la fine del secolo, nei principali paesi industrializzati, il 9% o ancora meno della popolazione attiva possa produrre tutte le merci manufatte di cui necessita la società. In pratica, le dimensioni dell’industria diventeranno molto simili a quelle dell’agricoltura.[35]
Questa tendenza storica era da tempo nota agli economisti come la «legge dei tre settori» di Colin Clark. Ma il pensiero tradizionale sulle cause dello sviluppo economico non consente una adeguata comprensione delle caratteristiche rivoluzionarie del modo di produzione moderno. Il settore manifatturiero, infatti, continua unanimemente ad essere considerato il vero motore dello sviluppo.
A questo proposito è interessante esaminare le vicende delle cosiddette «leggi di Kaldor» sullo sviluppo economico. Nel 1966, in un tentativo di dare una spiegazione del rallentato tasso di crescita dell’economia inglese, Kaldor ha reso esplicite, con molta precisione, alcune ipotesi su cui si regge la vetusta legge dei rendimenti crescenti, le cui origini vanno fatte risalire agli economisti classici. L’attenzione speciale dedicata a questa legge è giustificata: il suo operare è un indice della capacità delle forze produttive di aumentare la loro efficienza.
Secondo Kaldor, «gli elevati tassi di crescita economica sono associati ad elevati tassi di crescita del settore ‘secondario’ della economia, cioè il settore manifatturiero».[36] Il relativo minor dinamismo dell’economia inglese sarebbe dovuto, secondo Kaldor, al precoce raggiungimento dello stadio di maturità, cioè ad una situazione in cui, grosso modo, il reddito aumenta allo stesso ritmo nei diversi settori dell’economia. La manifattura si può sviluppare a tassi elevati sino a che può attingere manodopera dagli altri settori, principalmente dall’agricoltura. Ma quando, come è avvenuto appunto in Gran Bretagna, l’agricoltura ha ormai raggiunto tassi bassissimi di occupazione, anche le possibilità di sviluppo dell’industria vengono meno. Il maggior dinamismo dell’occupazione nel settore dei servizi viene spiegato da Kaldor con l’ipotesi che il terziario funga da settore cuscinetto, che ammortizza le fluttuazioni dell’industria: «Il relativo alto tasso di sviluppo dell’occupazione nei servizi — afferma coerentemente Kaldor — è dovuto in una certa misura all’instabilità della domanda di lavoro nella manifattura».[37] La conseguente politica economica, suggerisce Kaldor, consiste in una serie di misure che favoriscano il trasferimento di occupazione dal settore primario e terziario alla manifattura.[38]
Questa capacità del settore manifatturiero di funzionare come motore dello sviluppo deve essere ricercata negli effetti della legge dei rendimenti crescenti, che si manifesta prevalentemente nella industria. «Le origini di questa dottrina — ricorda Kaldor risalgono ai primi tre capitoli della Ricchezza delle nazioni. Qui Adam Smith afferma che il rendimento di una unità di lavoro — ciò che noi oggi chiamiamo produttività — dipende dalla divisione del lavoro, dal grado di specializzazione e divisione della produzione in molti processi differenti, come esemplificato dal suo famoso caso della fabbrica di spilli. Come spiega Smith, la divisione del lavoro dipende dall’ampiezza del mercato: quanto più vasto è il mercato, tanto maggiore è il grado a cui possono essere spinte differenziazione e specializzazione. Gli autori neoclassici, con una o due famose eccezioni, come Marshall e Allyn Young, tendono ad ignorare, o sottovalutare, questo fenomeno».[39]
Vale la pena di esaminare con cura questa affermazione, perché essa rappresenta una sintesi della saggezza acquisita dalla scienza economica nel corso dello sviluppo industriale europeo. Non vi è dubbio che sia proprio nell’operare dei rendimenti crescenti che debba ricercarsi la spiegazione delle potenzialità di crescita insite nel modo di produzione industriale. Ma se si vogliono capire le caratteristiche del mondo contemporaneo occorre cercare di spiegare perché molte economie mature, in primo luogo quella degli Stati Uniti, hanno goduto di un lungo periodo di sviluppo con un settore industriale stazionario o in contrazione ed un settore terziario in espansione.
In effetti, le «leggi di sviluppo» formulate da Kaldor sembrano più adatte a descrivere il mondo del passato che quello contemporaneo: le informazioni statistiche concordano sul fatto che non si verificano più correlazioni tra aumenti della produttività nell’industria manifatturiera e aumenti dell’occupazione.[40] È significativo in proposito il caso degli USA in cui nel periodo 1973-1981 l’occupazione è rimasta praticamente stagnante nella agricoltura e nell’industria, mentre è aumentata a tassi superiori al 2% all’anno nel settore dei servizi (pubblici e privati). D’altro canto la produttività nel settore industriale per lo stesso periodo mostra un andamento sempre positivo.[41] Per quanto riguarda la Comunità europea, i dati a disposizione non sono altrettanto omogenei, ma confermano la tendenza di fondo. In una prima fase dello sviluppo economico post-bellico (grossomodo sino alla metà degli anni Sessanta) si è avuta una crescita della produzione industriale (circa il 7% all’anno) molto più elevata della crescita dell’occupazione nel settore (circa l’1%); negli anni seguenti, invece, l’occupazione industriale o non è aumentata del tutto (anche in presenza di una crescita della produttività nell’industria), oppure è addirittura diminuita. Alcuni economisti[42] propongono, in effetti, di definire questo nuovo tipo di sviluppo «crescita senza occupazione» (Jobless Growth).
In conclusione, si può affermare che le caratteristiche salienti del nuovo modo di produzione consistono: a) nel consentire di ottenere aumenti della produzione industriale senza che si registrino aumenti dell’occupazione nel settore; b) che si manifestino aumenti della produttività nell’industria senza aumenti dell’occupazione (al limite, anche con diminuzioni dell’occupazione industriale). Sulla base di queste prime conclusioni sembrano dunque giustificate due osservazioni. In primo luogo, è necessario prendere atto che le vecchie politiche keynesiane, basate sulla incentivazione degli investimenti privati e pubblici al fine di accrescere l’occupazione, vanno via via perdendo di efficacia. Date le caratteristiche della moderna produzione di merci è possibile soddisfare volumi crescenti di domanda effettiva con un numero sempre minore di occupati. In secondo luogo, è necessario rimettere in discussione le cause o i «fattori», come li definisce la dottrina tradizionale, dello sviluppo economico: essi non sono probabilmente più un monopolio esclusivo del settore industriale.
 
5. La legge dei rendimenti crescenti, il lavoro ripetitivo ed il lavoro intelligente.
 
Dalle precedenti considerazioni si potrebbe arguire che la legge dei rendimenti crescenti avrebbe cessato di operare se, come sostiene Kaldor, la sua presenza fosse unicamente segnalata da aumenti di produttività in relazione ad aumenti di occupazione nel settore industriale. In verità, noi ci troviamo di fronte ad aumenti di produttività per occupato, ma non ad aumenti dell’occupazione. Ciò significa che dobbiamo cercare le ragioni di questi aumenti in cause differenti da quelle postulate dalla dottrina tradizionale, secondo la quale gli aumenti di produttività sono strettamente correlati alle dimensioni dell’impresa in termini di occupati.
A questo proposito va fatta una precisazione. Nella teoria economica, per rendimenti crescenti si intende solitamente indicare una situazione in cui il costo unitario di produzione di una certa merce diminuisce, nel lungo periodo, quando la sua produzione aumenta. Nel breve periodo, il costo di produzione per unità di prodotto potrebbe diminuire per il semplice fatto contabile che i costi fissi vengono ripartiti su una maggiore quantità di prodotto. Ma questa circostanza non può essere invocata per il lungo periodo, in cui tutti i fattori sono variabili. Nel lungo periodo, si possono individuare due fondamentali tipi di cause che provocano una riduzione dei costi unitari. La prima concerne i cosiddetti rendimenti di scala statici: essi dipendono dal fatto che, senza che muti la tecnologia conosciuta, si riesce a utilizzare più economicamente il materiale per quantitativi sempre maggiori di produzione (ad esempio, i costi di fabbricazione di un oleodotto diminuiscono con il crescere della sua lunghezza, a parità di impianti utilizzati e di abilità della manodopera). Il secondo caso è quello dei rendimenti di scala dinamici: i costi unitari diminuiscono perché è possibile realizzare una migliore divisione del lavoro all’aumentare della produzione. La dottrina tradizionale tende ad offuscare od ignorare questa distinzione e, sovente, vengono date spiegazioni insoddisfacenti circa le cause dei rendimenti crescenti.[43] Il problema è ovviamente decisivo ai nostri fini e merita di essere riconsiderato. Naturalmente, ci concentreremo unicamente sui cosiddetti rendimenti di scala dinamici, perché i risparmi di materiali ottenibili sulla produzione di grandi quantitativi sono relativamente indipendenti dalle modificazioni della tecnica di produzione.
Riprendiamo, a questo scopo, le osservazioni di Adam Smith secondo il quale un ampliamento del mercato avrebbe comportato la possibilità di una migliore divisione del lavoro e, dunque, di un aumento della produttività. Il processo della crescita economica, secondo Smith, ha caratteristiche prevalentemente cumulative. Gli aumenti delle quantità prodotte (l’allargamento del mercato) consentono di meglio suddividere le operazioni lavorative, ma nella misura in cui il lavoro si specializza, ne aumenta la produttività. Sono così possibili, con una data forza-lavoro impiegata, ulteriori aumenti della produzione complessiva che innescano nuovi stimoli di crescita. Il perno attorno a cui ruota tutto il firmamento economico resta pertanto la capacità dell’operaio di accrescere la sua efficienza a mano a mano che le operazioni si specializzano e si banalizzano.
La prima osservazione da fare in proposito è che il miglioramento nella produttività del lavoro non è per nulla un fatto automatico. È necessario, a questo fine, il passaggio attraverso tre fasi distinte. La prima è un semplice allargamento della base produttiva: si aggiungono cioè una o più macchine a quelle già esistenti. In questa circostanza si assumono anche nuovi lavoratori oppure entrano nuove imprese nel settore (ciascuna con proprie macchine e propri lavoratori). La tecnologia inizialmente non muta e restano immutate anche le abilità medie richieste a ciascun lavoratore. In una seconda fase, si può procedere alla riorganizzazione del lavoro, quasi sempre possibile quando aumenta il numero delle persone concentrate in un medesimo luogo, appartengano esse ad una sola impresa o a più imprese interdipendenti. È questa la fase in cui al lavoratore vengono assegnate nuove mansioni cercando di renderle massimamente semplici e ripetitive, così che il lavoratore, come afferma Smith, «non ha nessuna occasione di applicare la sua intelligenza» e, se questo lavoro assorbe gran parte della sua giornata, «in genere diventa tanto stupido e ignorante quanto può esserlo una creatura umana».[44] Il massimo perfezionamento di questa tecnica di organizzazione del lavoro di fabbrica è consistito nel taylorismo, in cui si applica una rigida divisione dei compiti fra chi organizza il lavoro, sulla base di conoscenze «scientifiche» che il lavoratore non possiede, e chi deve eseguire materialmente questi compiti, senza interloquire con chi si trova a dirigerlo. In ogni caso, si realizzano in questa fase delle economie di gestione interne all’impresa (se l’impresa si è già ingrandita in precedenza, oppure, nel caso in cui vi sia una pluralità di imprese, l’economia diventa «interna» solo dopo un processo di fusione o incorporazione) che consente di diminuire il costo per unità di prodotto. L’ultima fase riguarda quella che viene solitamente definita come innovazione tecnologica, cioè la possibilità di sostituire ad un lavoro umano già meccanizzato nei suoi movimenti una vera e propria macchina, che in genere riesce ad essere molto più efficiente del lavoratore. La legge dei rendimenti crescenti è dunque una legge di tipo essenzialmente dinamico, che implica almeno due innovazioni successive (la prima di natura organizzativa) ad un allargamento della base produttiva. Essa fornisce nel contempo una spiegazione semplice ed efficace delle ragioni che spinsero la società industriale verso le grandi concentrazioni produttive urbane e dell’intrinseca forza propulsiva dello sviluppo economico nell’età del macchinismo.
La scomposizione in fasi della legge dei rendimenti crescenti ci consente di valutare la sua efficacia nell’economia contemporanea. Con il moltiplicarsi delle applicazioni scientifiche e con l’avanzare dell’automazione del processo produttivo, si può ormai affermare che le prime due fasi non svolgono più un ruolo rilevante. Grazie alle moderne tecnologie, la progettazione e la costruzione di nuove macchine o la scoperta di interi processi produttivi non si fondano più su una preliminare «meccanizzazione» del lavoro umano, reso ripetitivo e monotono da una precedente parcellizzazione. Ciò, in parte, avveniva anche nel passato. Ma la scienza contemporanea offre ormai infinite occasioni di eliminare il lavoro umano anche quando le operazioni risultano estremamente complesse e non-ripetitive. Grazie all’elettronica e all’informatica, in particolare, è possibile la costruzione di veri e propri robot. Nell’età industriale, la macchina veniva progettata per assistere il lavoratore ed aumentarne la produttività: il lavoratore diveniva così un’appendice della macchina. Ora la macchina può venire progettata per funzioni che non consistono più in una estensione ed in un potenziamento del lavoro ripetitivo, ma in una sua completa sostituzione. I mutamenti tecnologici non sono dunque più strettamente dipendenti da aumenti della produzione e dell’occupazione. Lo dimostrano le nuove biotecnologie che stanno rivoluzionando l’agricoltura senza che in questo settore, ormai ridotto ai minimi termini in fatto di occupazione, si manifesti più da secoli (nei paesi ad economia avanzata) una tendenza alla concentrazione del lavoro e ad una sua più accentuata parcellizzazione.[45]
In definitiva, il mutamento tecnologico precede, invece di seguire, gli aumenti di produttività causati dalla seconda fase di riorganizzazione delle mansioni. La trasformazione dell’operaio in uomo-macchina non è più una necessaria premessa del lavoro creativo ed intelligente del tecnico, dell’ingegnere e dello scienziato. La mancata correlazione tra aumenti dell’occupazione (operaia) e incrementi della produttività non è dunque una semplice anomalia statistica: essa corrisponde ad una specifica potenzialità del nuovo modo di produzione scientifico.
 
6. Il ruolo del settore dei servizi e lo Stato come forza produttiva.
 
Questi mutamenti nell’industria sono in parte anche il frutto del grande sviluppo del settore dei servizi. Senza le attività di ricerca, progettazione, amministrazione contabile, commercializzazione, ecc. fiorite negli scorsi decenni (inizialmente all’interno della stessa impresa industriale), ben difficilmente l’industria avrebbe potuto procedere verso una sempre più massiccia automazione del processo produttivo. Si potrebbe dunque essere tentati di formulare una nuova legge dello sviluppo economico: il motore dello sviluppo è il settore dei servizi; i paesi in cui il tasso di crescita del settore dei servizi è il più elevato presentano anche tassi complessivi di crescita maggiori. La legge di Kaldor risulterebbe rovesciata nei suoi nessi causali, se si accetta il punto di vista secondo cui «i paesi con il maggiore sviluppo nel settore dei servizi hanno anche il più elevato tasso di crescita del settore manifatturiero».[46]
La possibilità di fondare una legge del genere su basi puramente empiriche resta, tuttavia, quanto mai dubbia. Si possono ricordare altre osservazioni che non vanno nella medesima direzione. Nella misura in cui è possibile (e concettualmente corretto) calcolare la produttività del settore dei servizi, risulta che essa è più bassa rispetto a quella dell’industria e dell’agricoltura.[47] Lo spostamento di forza-lavoro da agricoltura e industria al settore dei servizi dovrebbe dunque ridurre il tasso di crescita dell’economia e non aumentarlo. Questo è del resto un argomento che viene qualche volta avanzato per spiegare il minor tasso di crescita, nel dopoguerra, del PIL statunitense nei confronti di quello dell’Europa occidentale e del Giappone, anche se il livello assoluto della produttività per occupato degli USA resta il più elevato del mondo.
In verità, parlare del settore dei servizi come di un nuovo motore dello sviluppo economico è fuorviante. L’espansione del settore dei servizi è solo il sintomo di un fenomeno molto più complesso. Si calcola che circa metà delle attività del settore terziario venga fornita all’industria manifatturiera e solo l’altra metà riguardi i servizi al consumo (individuali e collettivi). L’espansione del settore dei servizi è dunque solo in parte fine a se stessa. Essa risponde a due grandi esigenze della società moderna: da un lato, una nuova divisione del lavoro in cui diventano sempre più importanti le attività «intelligenti» rispetto a quelle ripetitive e, dall’altro, un mutamento degli standards di consumo e di benessere che mirano ad una migliore «qualità della vita» e che possono essere soddisfatti solo con adeguate strutture pubbliche dei servizi (scuole, ospedali, salvaguardia del patrimonio urbano e naturale, ecc.).
Vale la pena, a questo punto, di prendere in considerazione un problema che aveva provocato accese discussioni tra gli economisti classici e che si ripropone, anche se in termini differenti, nella nuova società post-industriale: si tratta della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo. Oggi potrebbe essere infatti legittimo porsi il problema di sapere se il settore dei servizi debba considerarsi produttivo. Come è noto, Quesnay considerava produttivo solo il lavoro agricolo. Adam Smith estese la capacità di produrre reddito anche al settore industriale, ma considerava decisamente improduttivi tutti i servizi, sia pubblici che privati. Marx mantenne questa distinzione e la estese al settore commerciale che «non crea né valore, né plusvalore». La disputa non ha un semplice valore dottrinario. Nei paesi socialisti tutto il sistema di contabilità nazionale è basato su questa distinzione e dal computo del reddito sociale complessivo sono escluse le attività terziarie.
Oggi, di fronte alla impressionante esplosione della società dei servizi è necessario ammettere che la distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo non ha veramente più senso, se riferita ad interi settori della vita economica. Si può infatti sostenere, con fondate ragioni, che alla produzione del reddito netto contribuiscono tanto gli occupati direttamente nell’industria, quanto quelli impiegati «indirettamente» nel settore dei servizi, compresi i servizi di pubblica utilità e quelli al consumo, nella misura in cui il livello «naturale» dei salari ormai include una quota di questo tipo particolare di consumo, che sotto molti aspetti deve venir considerato come necessario (sono in effetti parte integrante del salario l’assistenza sociale e un minimo di servizi pubblici che garantiscano una specifica «qualità della vita»: parchi pubblici, misure anti-inquinamento, ecc.). Inoltre, molte attività terziarie, come i servizi di contabilità bancaria, di consulenza produttiva, di ricerca, ecc. si sviluppano al di fuori dell’impresa industriale, ma come parte integrante di una divisione sociale del lavoro il cui fine prioritario resta pur sempre la produzione di merci, indispensabili sia per soddisfare direttamente alcuni bisogni, sia per consentirne il soddisfacimento attraverso il settore dei servizi (gli ospedali necessitano di apparecchiature per poter curare i pazienti, ecc.). Il settore industriale è indispensabile alla produzione dei servizi, tanto quanto il settore dei servizi lo è per assicurare una elevata produttività al settore industriale. È dunque solo il frutto di una pedissequa applicazione di categorie stantie il grido di allarme che si è elevato per denunciare il cosiddetto processo di de-industrializzazione.[48] Il restringimento dell’occupazione direttamente impiegata nel settore industriale non rappresenta affatto una sciagura economica. L’espansione del settore dei servizi non è altro che una particolare forma assunta dallo sviluppo dell’industria moderna.
La discussione sul ruolo produttivo del settore dei servizi non si può tuttavia concludere senza prendere in esame anche la funzione svolta dallo Stato moderno nel promuovere la ricerca scientifica. List ha saputo individuare con chiarezza il ruolo dello Stato come forza produttiva, grazie alla sua capacità di creare le condizioni per lo sviluppo dell’imprenditorialità e della moderna produzione industriale. Da allora i compiti dello Stato nell’economia sono enormemente cresciuti. Ma la teoria economica non ha ancora saputo riconoscere che lo sviluppo della società post-industriale sarebbe impossibile senza un impegno massiccio dello Stato nell’organizzare la ricerca scientifica. Vi sono naturalmente molti livelli e differenti gradi di intervento. Un livello generalissimo che concerne la politica della ricerca, cioè l’orientamento e la dimensione della spesa per la ricerca, dipende dal ruolo internazionale dello Stato. Oggi le due superpotenze incoraggiano molto la ricerca a fini militari e per settori che possono avere importanti effetti di ricaduta ai fini dell’accrescimento della propria potenza offensiva e difensiva (si pensi all’esplorazione dei cieli). Ma anche quando non è direttamente in gioco la sicurezza militare, la dimensione mondiale del mercato impone ormai ad ogni Stato di tener conto dei successi conseguiti dagli altri Stati nella politica della ricerca d’avanguardia. I risultati conseguiti dal Giappone nell’elettronica e nell’informatica sono ad esempio divenuti il termine di paragone per misurare l’efficienza degli investimenti in questi settori.
L’intervento attivo dello Stato nella politica di ricerca è necessario perché nessuna impresa può ormai assumersi interamente i rischi di intraprendere un’attività con risultati estremamente aleatori e, in alcuni casi, lontanissimi nel tempo. Il mercato non riesce a ripagare questi costi. Le spese per la ricerca scientifica rappresentano un tipico caso di bene pubblico. Vi sono diversi modi in cui oggi si realizza l’intervento dello Stato nel campo della ricerca. Un primo metodo è quello diretto: si tratta in generale della ricerca nei settori della big science, cioè per progetti costosissimi e a lunghissima scadenza (es. fusione nucleare). Un secondo metodo è quello delle commesse pubbliche: lo Stato in questo caso diventa il committente di un certo progetto e se ne assume interamente i rischi. In terzo luogo lo Stato può finanziare parzialmente o del tutto le spese di ricerca di un’impresa per poi condividerne, nella misura stabilita, gli eventuali utili.
Ma, al di là del modo con cui lo Stato può intervenire per stimolare la ricerca scientifica, è qui necessario sottolineare che lo sviluppo delle moderne tecnologie d’avanguardia pone decisamente il problema della dimensione dello Stato. Già List osservava che non era possibile parlare di «nazioni» nei casi in cui non raggiungevano le dimensioni sufficienti all’autonomia economica e all’indipendenza politica: per List, ad esempio, la Danimarca non era una nazione. Sul fronte della ricerca di avanguardia è ormai evidente che occorre una capacità di spesa e di organizzazione che spinge persino le superpotenze a collaborare in progetti comuni (come nella fisica sub-atomica). È in ogni caso questa la ragione fondamentale del ritardo tecnologico dell’Europa nei confronti di USA e Giappone.
Infine, va osservato che sulla base del nuovo ruolo dello Stato come organizzatore della scienza è possibile spiegare l’apparente paradosso in cui ci siamo imbattuti nell’esame delle leggi di Kaldor. Le statistiche non rivelano più una stretta connessione fra aumenti della produttività e aumenti dell’occupazione perché il principale fattore di sviluppo di un’economia è ormai diventato lo Stato come organizzatore della ricerca d’avanguardia. Gli economisti si affannerebbero invano in indagini econometriche per trovare nuove cause dei rendimenti crescenti se dimenticassero di considerare lo Stato come forza produttiva. Nella nostra epoca il mercato non custodisce più il segreto dello sviluppo economico come accadeva ai tempi di Smith, Marx e Schumpeter.
 
7. L’impresa e l’autogestione.
 
Un capitolo importante delle trasformazioni economiche causate dal nuovo modo di produzione riguarda la struttura della impresa.
A questo proposito, vale la pena di esaminare, perché ancora largamente dominanti, le tesi di Schumpeter relative al progressivo declino della funzione imprenditoriale in una economia capitalistica matura. Schumpeter diagnostica una lenta agonia del sistema capitalistico a causa della sua intrinseca incapacità di proseguire nello sforzo di innovazione tecnologica, fondamentale per alimentare le iniziative imprenditoriali. La caduta del capitalismo in uno stato stazionario sarebbe causata, secondo Schumpeter, dal progressivo ingigantimento dell’impresa industriale, dalla trasformazione del mercato di concorrenza in mercato oligopolistico o monopolitistico e dalla conseguente routinizzazione della ricerca tecnologica in speciali uffici interni all’impresa. La funzione imprenditoriale, che per Schumpeter è essenzialmente individuale ed innovativa, verrebbe così mutilata dei suoi organi vitali. L’impresa, trasformandosi in un organismo burocratico, cessa di avere un ruolo dinamico nel mercato, che a sua volta si atrofizza, rimanendo dominato da pochi grandi complessi industriali che non posseggono più alcun incentivo all’innovazione perché non vi è più nulla da conquistare e nessun nemico da vincere. È una situazione paragonabile a quella in cui i metodi di produzione abbiano raggiunto uno stadio di perfezione insuperabile. «Ne seguirebbe prima o poi — conclude Schumpeter — uno stato stazionario. Il capitalismo, essendo un processo essenzialmente dinamico, si atrofizzerebbe. Non resterebbe agli imprenditori più nulla da fare. Essi si troverebbero nella medesima situazione dei generali in una società perfettamente sicura di una pace perpetua».[49]
I recenti sviluppi del progresso tecnologico e la sua capillare diffusione nell’economia sembrano contrastare radicalmente con questa visione pessimistica di Schumpeter e con la sua profezia di un declino della funzione imprenditoriale. Schumpeter si è preoccupato di definire il tipo ideale dell’imprenditore ottocentesco come un mitico demiurgo dotato della capacità di congiungere, dando loro nuova vita, il mondo della scienza con quello del lavoro. Questa funzione di organizzazione della scienza, come si è visto, è ormai largamente svolta dallo Stato. Ma ciò non significa né che il progresso tecnico si arresti, né che cessi la funzione imprenditoriale. L’esperienza, rispetto al primo punto, mostra infatti che sono proprio gli Stati capaci di organizzare ai massimi livelli la ricerca d’avanguardia a godere dei maggiori vantaggi delle ricadute del progresso tecnologico sull’economia. Ma, in secondo luogo, non è vero che la funzione imprenditoriale si debba limitare alla ricerca d’avanguardia. Nelle società moderne, fortemente scolarizzate, la conoscenza scientifico-tecnica non è più ristretta ad una piccola cerchia di iniziati. La figura dell’imprenditore-demiurgo sta scomparendo perché tutti possono diventare imprenditori. Con l’affermazione del modo di produzione scientifico la funzione innovativa sarà sempre più diffusa e «popolare». Essa infatti consiste nella capacità individuale di organizzare e coordinare efficacemente il lavoro umano in vista di uno scopo comune, assumendo — nel caso dell’impresa privata — anche il rischio del fallimento. Naturalmente, questo scopo comune continuerà ad essere il massimo profitto, che è la miglior misura della capacità concorrenziale dell’impresa nel mercato.
Su una seconda questione occorre poi rivedere la profezia di Schumpeter. La tendenza al gigantismo industriale è probabilmente un residuo del vecchio modo di produzione. È pensabile che la piccola e media impresa riescano a sopravanzare in efficienza, nel futuro, i colossi del passato. L’esistenza della grande impresa dipende fondamentalmente da due circostanze. In primo luogo, dal fattore tecnologico, cioè dall’operare della legge dei rendimenti crescenti che rende conveniente la produzione su grande scala, rispetto alla piccola dimensione, con grandi concentrazioni di operai e una esasperata parcellizzazione del lavoro. In secondo luogo, dal fattore finanziario, cioè dalla convenienza a concentrare in un’unica proprietà e direzione, anche in assenza del fattore tecnologico, più unità produttive. La tendenza alla concentrazione finanziaria si manifesta nel tentativo di controllare una quota elevata del mercato, per imporre un unico marchio e prezzi più elevati, oppure per limitare le oscillazioni della domanda ecc.
Attualmente si manifestano segni evidenti di una inversione di tendenza. Persino nel settore automobilistico, l’industria gigante per eccellenza, il fattore tecnologico non spinge più con altrettanta sicurezza che nel passato nella direzione di un ampliamento delle dimensioni. In generale si può osservare che le moderne tecnologie informatiche rendono praticamente possibile la polverizzazione del processo produttivo, sia nel senso di una maggiore diffusione territoriale, sia nel senso di una frantumazione delle unità di lavorazione. Molte operazioni che un tempo venivano svolte all’interno della fabbrica ora vengono svolte da una miriade di piccole imprese, alcune delle quali operano nel settore dei servizi. Ma la ragione fondamentale che deciderà della dimensione ottima dell’impresa sarà il tipo di lavoro che diventerà necessario associare per raggiungere gli obiettivi produttivi dell’impresa. Un tempo la dimensione dell’impianto (es. catena di montaggio) determinava a priori anche il numero dei lavoratori da impiegare. Nel futuro sarà sempre più decisiva la dimensione funzionale del gruppo di tecnici e di specialisti che decideranno di unire i loro sforzi in una attività economica comune. Poiché è ormai concepibile la fabbrica senza operai, sarà il volume dei mezzi di produzione a divenire il fattore «variabile» dell’impresa. Nell’impresa moderna l’abilità personale e la conoscenza scientifica costituiscono di gran lunga il fattore dominante rispetto all’apporto inerte e passivo del capitale e del lavoro non qualificato.[50] Naturalmente questa tendenza potrà affermarsi completamente a patto che siano rimossi tutti gli ostacoli di natura finanziaria. È a questo scopo necessario che il sistema bancario non discrimini la concessione del credito a favore delle grandi imprese già esistenti; inoltre, è indispensabile che vengano a cessare le condizioni di incertezza, rischio e disordine finanziario che spingono le imprese a formare grandi imperi multinazionali nel tentativo di sopperire alla mancanza di una regolamentazione giuridica mondiale della concorrenza e del mercato finanziario.
La caratteristica principale della nuova impresa sarà rappresentata dall’autogestione, che non deve tuttavia essere intesa nel vecchio senso ottocentesco dell’autogestione operaia. L’autogestione comporta la scomparsa della distinzione fra dirigenti e diretti. Questa dicotomia sino ad ora era fondata sulle solide basi della divisione fra lavoro intellettuale e manuale. Nel sistema tradizionale, come Taylor ha precisato, «anche se il lavoratore fosse ben predisposto allo sviluppo ed alla utilizzazione delle conoscenze scientifiche, sarebbe fisicamente impossibile per lui lavorare alla sua macchina e alla sua scrivania nel medesimo tempo. È chiaro inoltre che nella maggioranza dei casi un certo tipo di uomo è necessario per pianificare e un tipo del tutto differente per eseguire il lavoro».[51] Da allora la situazione è mutata ed oggi si può certamente affermare che lo stesso uomo può, restando seduto alla sua scrivania, far lavorare la macchina. Per questo, nella fabbrica moderna sarà sempre più consueto parlare di cooperazione e non di divisione (parcellizzazione) del lavoro. Il lavoro nell’impresa moderna non differirà molto da quello di una équipe di ricercatori in un dipartimento universitario. Il rapporto che si instaurerà fra i membri di una medesima impresa sarà infatti fondato più sul riconoscimento delle rispettive conoscenze e competenze che sul potere derivante dall’apporto di capitali. Sarà dunque indispensabile, nei paesi occidentali, adattare anche le ottocentesche forme giuridiche della proprietà dell’impresa, che conferiscono ampi poteri al capitalista, alla moderna realtà imprenditoriale a cui meglio si adattano forme giuridiche più egualitarie, come la società cooperativa. Nei paesi di tipo socialista, come quelli dell’Est europeo, è invece necessario raggiungere lo stesso risultato attraverso un cammino opposto: vale a dire, consentire a ciascun individuo di entrare a far parte di imprese cooperative attraverso l’apporto di capitali propri o a credito.
 
8. Tempo di lavoro e tempo libero.
 
Le conseguenze sociali provocate dall’avvento del modo di produzione scientifico sono di grande portata e non è qui possibile prenderle in considerazione se non in minima parte. Basti ricordare che esso rende possibile una nuova concezione dell’urbanistica, in cui scompare la divisione dei ruoli tra città e campagna e la distinzione tra centro e periferia, per comprendere quanto in profondità esso potrà incidere sulle condizioni materiali di vita dell’uomo moderno. Qui è possibile accennare solo ad un aspetto più limitato, ma ciò nonostante di grande rilievo: la riduzione del tempo di lavoro.
A questo proposito occorre, tuttavia, preliminarmente respingere la tesi di chi sottovaluta o nega l’importanza della riduzione del tempo di lavoro. Ad esempio, H. Braverman[52] sostiene che il progresso tecnologico e l’automazione non portano ad una progressiva liberazione dal lavoro, ma anzi accentuano la sua degradazione e subordinazione al potere del capitale. Per Braverman, che non riesce ad abbandonare le categorie stantie del «modo di produzione capitalistico», nelle economie di mercato l’esplosione del settore dei servizi e la progressiva automazione non farebbero altro che mutare la forma, ma non la sostanza, del rapporto antagonistico tra capitale e lavoro. L’automazione non avrebbe altro effetto che quello di spogliare ulteriormente il lavoro, già devalorizzato col passaggio dall’artigianato all’industria, delle sue residue potenzialità creative.
A queste tesi di Braverman, si potrebbe in prima istanza obiettare con una constatazione. La richiesta crescente di posti di lavoro corrispondenti ai più elevati livelli di istruzione conseguiti dai giovani e la possibilità di soddisfare questa richiesta principalmente attraverso l’espansione del settore dei servizi (l’unico settore in espansione nelle moderne economie) o di impieghi comunque più «intelligenti» di quelli tradizionali mettono in dubbio l’esistenza di una continua degradazione del lavoro.
Ma il punto sostanziale è un altro. È una caratteristica congenita del marxismo volgare ridurre la realtà sociale a lotta di classe. In questo modo si reificano le categorie di capitale e lavoro e si scorgono contrasti insanabili anche dove sono in via di estinzione. L’automazione del processo produttivo elimina per definizione il lavoro «stupido» nello stesso tempo in cui crea lavoro «intelligente»: si tratta dunque di vedere se è possibile un controllo razionale di questo processo e come la società possa trarne il massimo beneficio. La prospettiva di una progressiva liberazione dell’umanità dalla fatica del lavoro manuale non può essere respinta a priori come una macchinazione diabolica del capitale che intende illudere i lavoratori per meglio sfruttarli.
Ciò che Braverman non vuole nemmeno prendere in considerazione è stato del resto già intravvisto ed analizzato dallo stesso Marx, anche se necessariamente solo nei suoi aspetti più generali ed astratti. Nei Grundrisse si trova una descrizione ante litteram della società post-industriale e della nuova condizione del lavoro liberato dalla ossessiva ripetitività della fabbrica industriale. Il grande significato dell’automazione del processo produttivo risiede nella sua capacità di ridurre ai minimi termini il fabbisogno sociale di lavoro parcellizzato e «stupido», nel senso di Smith. In questo fatto risiedono anche le immense potenzialità produttive del modo di produzione scientifico rispetto al vecchio sistema industriale. «Il risparmio del tempo di lavoro equivale all’aumento del tempo libero — osserva Marx —, ossia del tempo dedicato allo sviluppo pieno dell’individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima produttività, sulla produttività del lavoro… Il tempo libero, che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori, ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di produzione immediato».[53] Siamo così di fronte ad un vero e proprio rovesciamento delle categorie economiche. Marx osserva giustamente che, in queste circostanze, «non è più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza».[54]
Nella società dei cacciatori e pescatori le condizioni di vita degli individui sono estremamente precarie, perché soggette ai capricci della natura. Tutte le energie dell’uomo sono tese allo spasimo contro la natura esterna ostile: è una questione di vita o di morte. Con la pastorizia e l’agricoltura stanziale la condizione umana migliora nettamente. Si formano le città e inizia il lento ma costante sviluppo delle discipline scientifiche e filosofiche. In seguito, nel Medioevo, si svilupperà l’artigianato come forma economica dominante e, su questa base, sorgeranno le prime attività capitalistiche. Ma il benessere e la libertà appartengono ancora a pochi: la schiavitù è un fattore strutturale che accompagna l’umanità dall’antichità sino all’età moderna (anche se in forma mascherata, come la servitù della gleba nell’impero zarista). Con la rivoluzione industriale nasce la classe nuova del proletariato urbano. La condizione del proletariato è quella di un uomo libero giuridicamente, ma sottomesso di fatto alla dura legge del di fabbrica sotto il potere della borghesia capitalistica. La situazione che si profila all’orizzonte è profondamente differente. Con il modo di produzione scientifico le possibilità di liberazione dal lavoro ripetitivo ed alienante sono praticamente illimitate. Non vi sono ostacoli, in linea di principio, ad una automazione integrale del processo produttivo e non sussistono limiti dalla quantità di energia esistente in natura, grazie allo sfruttamento ormai ipotizzabile delle energie rinnovabili (energia solare e da fusione nucleare). Per la prima volta nella storia dunque è dunque concepibile una società senza lo sfruttamento delle classi e degli individui. «Se le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra — diceva Aristotele — i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi». Ma questa è la condizione dell’uomo moderno che può finalmente far tessere i telai e far suonare la cetra da macchine «intelligenti».
Il lavoro umano non cesserà di essere pena e fatica, perché anche lo scrivere un romanzo o scoprire una nuova formula chimica sono attività che richiedono impegno e sacrificio. Ma il romanziere ed il chimico arricchiscono la loro personalità col lavoro. Nel futuro il lavoro umano sarà produttivo ed utile alla società solo se si accompagnerà alla creatività ed auto-educazione dell’individuo. Il modo di produzione scientifico rende possibile l’emancipazione dell’uomo dalla fatica fisica del lavoro. Non dal lavoro tout court, perché, come si è detto, è lavoro anche la fatica che accompagna l’elaborazione intellettuale e che deve considerarsi parte integrante della natura umana, se è vero che le motivazioni che spingono l’uomo alla conoscenza attiva hanno un fondamento morale. Ma è importante prendere coscienza che nella nostra epoca il piano, cioè l’organizzazione razionale della vita associata, può ormai iscrivere al suo ordine del giorno l’obiettivo della emancipazione dal lavoro materiale. Siamo così alle soglie di un mondo nuovo in cui sembra davvero avverarsi il sogno della «liberazione dal bisogno» che l’uomo ha perseguito, ma sinora invano, dai lontanissimi tempi in cui ha ingaggiato la sua appassionante lotta contro la natura «avara e matrigna».


[1] J.M. Keynes, The Generai Theory of Employment, Interest and Money, Macmillan, London, 1936; ora in Collected Writings of J.M. Keynes, Macmillan, London, 1973, vol. VII, p. 349; trad. it., Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, UTET, Torino, 1968, pp. 310-11.
[2] W. Leontief, «The World Economy in the Year 2000», in Scientific American, settembre 1980; trad. it. in Leontief. Antologia di scritti, Il Mulino, Bologna, 1982.
[3] A.Th. Angelopoulos, Global Plan far Employment. A New Marshall Pian, Praeger Publishers, New York, 1983.
[4] Ci riferiamo alle raccolte di saggi: The Capitalist World-Economy, Cambridge University Press, Cambridge, 1980; e The Politics of the World Economy, Cambridge University Press, Cambridge, 1984.
[5] Cfr. The Capitatist World-Economy, cit., p. 35.
[6] Cfr. The Politics of the World-Economy, cit., p. 5.
[7] Per una accurata ricostruzione storica della «teoria dei quattro stadi» si veda R.L. Meek, Social Science and the Ignoble Savage, Cambridge University Press, Cambridge, 1976; trad. it., Il cattivo selvaggio, Il Saggiatore, Milano, 1981.
[8] F. List, Il sistema nazionale di economia politica, ISEDI, Milano, 1972, p. 328.
[9] Ibidem, p. 43.
[10] Ibidem, p. 45.
[11] Ibidem, p. 163.
[12] Si tratta del manoscritto recentemente scoperto e pubblicato in tedesco sui Beiträge zur Geschichte der deutschen Arbeiterbewegung, 1972, n. 3, pp., 423-446; trad. it., «Un manoscritto inedito di Marx contro List», in Critica Marxista, 1972, vol. X, n. 44, pp. 195-209. Questo manoscritto di Marx sarebbe stato redatto negli anni 1845-46.
[13] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 9. Il corsivo è mio.
[14] Per una interessante discussione della nozione di equilibrio tra società e natura, da un lato, e tra le differenti forze sociali, dall’altro, si veda N.I. Bucharin, Teoria del materialismo storico, La Nuova Italia, Firenze, 1977 (la prima edizione in lingua russa è del 1921).
[15] Queste osservazioni dovrebbero essere sufficienti per giustificare la preferenza per la terminologia marxista rispetto a quella di uso più comune, ma meno precisa, di «stadio di sviluppo». Ad esempio W.W. Rostow (The Stages of Economic Growth, Cambridge University Press, Cambridge, 1960) parla di stadi di sviluppo sia per discutere del problema della transizione da un modo di produzione pre-industriale ad uno industriale, sia per indicare varie fasi di sviluppo all’interno di uno stesso modo di produzione.
[16] M. Weber, Gesammelte Aufsätze zur Wissenschaftlehre, Mohr, Tübingen, 1922; trad. it., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 1958, p. 108 e p. 112.
[17] In questo senso si esprime anche E. Weil, Philosophie politique, Vrin, Paris, 1966; trad. it., Filosofia politica, Guida, Napoli, 1973, cap. II. In particolare, Weil afferma a p. 90: «Soltanto una società razionalistica e meccanicistica può cercare di comprendersi in una scienza, cioè nell’analisi calcolatrice, in una descrizione che non ammette un criterio diverso dalla calcolabilità stessa, invece di comprendersi in un sistema di valori molteplici coordinati o da coordinare (una morale, un summum bonum coi suoi bona inferiori)». E più avanti, a p. 93; «…l’individuo che pone il problema della libertà, della sua libertà, non si colloca più, con la sua personale individualità, nel campo delle scienze sociali; queste scienze non si occupano di lui e non hanno nulla da dire sul suo conto».
Queste precisazioni sono forse sufficienti per evitare il riaprirsi della vecchia disputa tra sostenitori del metodo dialettico e sostenitori del metodo scientifico che tanto ha nuociuto ad una adeguata comprensione ed utilizzazione della nozione di modo di produrre anche all’interno della stessa corrente di pensiero marxista. Ad esempio, Gramsci (nella raccolta di scritti dai «Quaderni del Carcere», Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino, 1966) rimprovera aspramente Bucharin per aver tentato di ridurre la «filosofia della prassi» (il marxismo per Gramsci) ad una teoria scientifica, utilizzando il metodo delle scienze fisiche. Allo stesso modo, Gramsci critica Croce per aver tentato nella sua opera sul materialismo storico (Materialismo storico ed economia marxistica) di volerlo considerare un semplice «canone di interpretazione della storia». In verità, si potrebbe anche sostenere che questa polemica mette bene in luce come il materialismo storico, se inteso come tipo-ideale o canone di interpretazione della storia, trova consensi sulla sua utilizzazione fra studiosi appartenenti a diversi orientamenti ideologici.
[18] Questa previsione è formulata nel cap. 35, «La politica continentale», del Sistelna nazionale di economia politica, dove List, fra l’altro, afferma: «Se consideriamo tutti questi interessi che le nazioni continentali hanno in comune nei confronti della potenza che detiene la supremazia marittima, ci rendiamo conto che la prima esigenza di quelle nazioni è la loro unione, e che non c’è cosa più rovinosa delle guerre continentali». E più avanti: «Le stesse ragioni che hanno portato la Gran Bretagna al suo attuale livello porteranno — probabilmente già nel corso del prossimo secolo — gli Stati Uniti d’America ad un grado di industrializzazione, di ricchezza e di potenza che supererà a tal punto quel grado al quale si trova oggi l’Inghilterra, da uguagliare la distanza che divide attualmente l’Inghilterra dalla piccola Olanda» (op. cit., pp. 391 e 393).
[19] Critica marxista, cit., p. 202.
[20] Nel manoscritto citato di critica a List, a p. 203, Marx afferma letteralmente che «lo Stato… è assoggettato alla società borghese»; mentre sul ruolo politico dell’idea di nazione sostiene che «ciò che le nazioni hanno fatto in quanto nazioni, lo hanno fatto per la società umana, tutto il loro valore sta solo in questo, che ciascuna nazione ha sperimentato fino in fondo per le altre più nuovi punti centrali di determinazione, all’interno dei quali l’umanità ha totalmente compiuto il proprio sviluppo…». È evidente che questo è il ruolo culturale delle nazioni, quando la cultura agisce e si diffonde come un fatto spontaneo. Ma lo Stato nazionale, in quanto potenza militare, non agisce nel mondo solo attraverso la diffusione spontanea della cultura.
[21] Su questo punto si veda la convincente analisi di Z.A. Pelczynski, «Nation, Civil Society, State: Hegelian Sources of the Marxian Non-theory of Nationality», in The State and Civil Society. Studies in Political Philosophy, (ed. by Z.A. Pelczynski, Cambridge University Press, Cambridge, 1984, pp. 262-278).
[22] Sul rapporto fra modo di produzione e politica di potenza si veda l’Introduzione di S. Pistone a Politica di potenza e imperialismo (a cura di S. Pistone), F. Angeli, Milano, 1973. Fra gli studiosi che hanno tentato di chiarire il rapporto fra evoluzione del processo produttivo e ragion di Stato deve essere menzionato in particolare O. Hintze. Fra i suoi saggi più significativi, oltre a quelli contenuti nell’Antologia appena citata, si segnala: «Der moderne Kapitalismus als historisches Individuum. Ein kritischer Bericht über Sombarts Werk», in Soziologie und Geschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1964, pp. 374-426; trad. it., in Stato e società, Zanichelli, Bologna, 1980.
[23] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1969, p. 4.
[24] K. Marx, L’ideologia tedesca, cit., p. 50.
[25] P. Bairoch, The Economic Development of the Third World since 1900, Methuen & Co Ltd, London, 1975, p. 93.
[26] Le valutazioni statistiche sono tratte da A. Maddison, «Western Economic Performance in the 1970s: a Perspective and Assessment», in Banca Nazionale del Lavoro - Quarterly Review, vol. 33, September 1980, pp. 247-289.
[27] Queste stime sono tratte da P. Bairoch, «International Industrialization Levels from 1750 to 1980», in The Journal of Economic History, vol. II, n. 2, 1982, pp. 269-333.
[28] Kiyoshi Kojima, «Economic Integration in the Asian-Pacific Region», in Hitotsubashi Journal of Economics, February, 1976, pp. 1-16; e sulla stessa rivista, «Australia’s Trade with Asia: Some Policy Issues», June 1981, pp. 1-14.
[29] Le proposte per una federazione balcanica vennero formulate da Tito e Dimitrov. In una conferenza stampa a Sofia, il 21 gennaio 1948, Dimitrov propose una federazione balcanica fra Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Albania, Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria. Ma dopo le critiche della Pravda (28 gennaio), il progetto venne accantonato. Cfr. S. Leonardi, L’Europa e il movimento socialista, Adelphi, Milano, 1977, p. 98.
[30] Cfr. A. Inotai, Regional Economic lntegrations and International Division of Labour, Hungarian Scientific Council for World Economy, Budapest, 1982.
[31] Cfr. C. Coker, The Soviet Union, Eastern Europe, and the New International Economic Order, The Washington Paper, vol. XII, Praeger, New York, 1984.
[32] Cfr. J. Bognar, End-Century Crossroads of Development and Cooperation, Hungarian Scientific Council for World Economy, Budapest, 1980; in particolare il capitolo «The CMEA’s Ties with the World Economy at Time of Epochal Change in International Economic Relations». Si veda inoltre T. Palànkai, Changes in the Character of International Economic Relations, Department of World Economy, University Karl Marx, Budapest, 1985.
[33] La terminologia, come per tutti i fenomeni nuovi, è ancora incerta. I sociologi utilizzano prevalentemente il termine di «società post-industriale» (ad esempio, D. Bell, The Coming of Post-Industrial Society, Penguin Books, Harmondsworth, 1973; e A. Touraine, La société post-industrielle, Denoël, Paris, 1969), mentre nei paesi socialisti si parla prevalentemente di «Rivoluzione scientifica e tecnologica» (cfr. R. Richta, Civilizace na rozcesti, 1968; trad. it., Civiltà al bivio, F. Angeli, Milano, 1968). Entrambe queste proposte terminologiche presentano alcuni difetti. Con società postindustriale si indica con chiarezza la struttura socio-produttiva da cui ci si allontana, ma si lasciano indeterminati i caratteri della nuova formazione sociale. Con rivoluzione scientifica e tecnologica si evidenziano le cause alla origine del cambiamento, ma non si fa alcun riferimento alla natura degli stadi precedenti rispetto ai quali avviene la «rivoluzione»: così qualche volta si parla di terza rivoluzione industriale, qualche volta di quarta, ecc. La proposta terminologica qui suggerita, cioè modo di produzione scientifico, non è ambigua, sotto questo aspetto, ma presenta a sua volta alcuni inconvenienti (ad esempio, non si usa ancora dire «società scientifica» mentre si è ormai affermato il termine di «società post-industriale»).
A proposito delle conseguenze sociali che si tenterà in seguito di analizzare, va segnalato che già nel 1957, Mario Albertini aveva lucidamente previsto gli effetti sulla condizione operaia del modo di produzione postindustriale in Il modo di produzione post-industriale e la fine della condizione operaia, Roma, 1957; ristampato in Il Federalista, novembre 1976, pp. 254-61.
[34] Cfr. J. Bognar, Balance of Achievements of Twenty-five Years of Hungary’s Economic Development, Hungarian Scientific Council for Worid Econolny, Budapest, 1982.
A proposito della fine delle potenzialità di sviluppo del modello consumistico-keynesiano, si potrebbe far notare che negli anni Trenta, mentre si ebbe un forte calo del commercio internazionale, fu ciò nonostante possibile un forte incremento della produzione industriale: vi era dunque un forte potenziale interno di domanda che poteva essere sfruttato per politiche di crescita fondate su consumi e investimenti. Negli anni Settanta è invece avvenuto che ad ogni caduta del commercio internazionale corrispondesse una caduta ancora più rapida della produzione manifatturiera. Non sembra dunque più possibile pensare ad una ripresa economica che non abbia un solido fondamento nello sviluppo dell’economia mondiale (per una documentazione statistica di queste affermazioni si veda A.G. Kenwood e A.L. Lougheed, The Growth of the International Economy, George Allen & Unwin, London, 1983, cap. 14 e cap. 20).
[35] Per queste informazioni cfr. J. Fourastié, Pourquoi nous travaillons, Presses Universitaires de France, Paris, 1976; e The Economist, July 28, 1984, pp. 17-20.
[36] N. Kaldor, Causes of the Slow Rate of Economic Growth of the United Kingdom, Cambridge University Press, Cambridge, 1966, p. 3.
[37] N. Kaldor, op. cit., p. 29.
[38] Fra le misure effettivamente realizzate dal governo inglese, negli anni in cui Kaldor (allora consigliere economico del Labour Party) formulava questa strategia, vi fu la Selective Employment Tax, che aveva per l’appunto lo scopo di scoraggiare l’occupazione nei settori extra-industriali.
[39] N. Kaldor, op. cit., p. 8.
[40] I tentativi di sottoporre a verifica empirica le «leggi di sviluppo» di Kaldor non sembrano essere stati coronati da successo. In uno studio di T.F. Cripps e K.J. Tarling (Growth in Advanced Capitatist Economies 1950-1970, Cambridge University Press, Cambridge, 1973) esse vengono riassunte nel modo seguente: «a) Lo sviluppo della produzione aggregata è strettamente correlato allo sviluppo della produzione manifatturiera; b) l’aumento della produttività (prodotto per uomo) nella manifattura è strettamente correlato alla crescita dell’occupazione; c) l’aumento dell’occupazione nella manifattura è inversamente correlato a variazioni dell’occupazione nell’agricoltura e nei servizi; d) in questi ultimi settori la crescita della produzione è indipendente dalla crescita dell’occupazione» (p. 6).
Si deve subito notare che la prima affermazione (a) non è di per sé sufficiente a stabilire una legge di sviluppo. Come del resto ammette lo stesso Kaldor, potrebbe verificarsi una correlazione statistica fra aumento della produzione complessiva ed aumento della produzione manifatturiera per una semplice ragione di dimensione relativa del valore aggiunto sul totale. Cripps e Tarling, inoltre, trovano un coefficiente di correlazione per il settore commerciale altrettanto elevato di quello manifatturiero (p. 22). L’ultima affermazione (d) non riguarda invece ormai più solo i settori extra-manifatturieri. È infatti una caratteristica generale del nuovo tipo di sviluppo quella di non presentare correlazioni fra aumenti di produttività e aumenti di occupazione. E questa osservazione vale anche per il punto (c), perché è ovvio che i trasferimenti di occupazione tra un settore e l’altro sono significativi solo se vi è una correlazione tra variazioni dell’occupazione e variazioni della produttività. La questione decisiva, per una verifica empirica delle leggi di Kaldor, riguarda dunque il punto (b), cioè la correlazione tra aumenti di produttività nell’industria e aumenti dell’occupazione. Ma su questo punto Cripps e Tarling non riescono a procurare prove significative. In seguito essa è stata messa in discussione anche da altri studiosi (cfr. R.E. Rowthorn, «What Remains of Kaldor’s Law? », in Economic Journal, March 1975; e per una esauriente rassegna del problema cfr. A.T. Thirwall, «A Plain Man’s Guide to Kaldor’s Growth Laws», in Journal of Post-Keynesian Economics, Spring 1983).
[41] Per i dati sull’occupazione cfr. M. Wegner, The Employment Miracle in the United States and Stagnating Employment in the European Community, Commission of the European Communities, Economic Paper n. 17, July 1983; e per quanto riguarda la produttività cfr. A.D. Roy, «Labour Productivity in the 1980: An International Comparison», in National Institute Economic Review, 1982, n. 101, pp. 26-37.
[42] R. Rothwell e W. Zegveld, Technical Change and Employment, Francis Pinter, London, 1979.
[43] La distinzione tra formulazione statica e dinamica della legge dei rendimenti crescenti è stata praticamente abbandonata dopo l’esposizione che J. Viner («Cost Curves and Supply Curves», in Zeitschrift für Nationalökonomie, III, 1931, pp. 23-46) ha presentato delle curve marshalliane dei costi e che venne subito largamente accolta. Viner distingue accuratamente le economie derivanti dalla distribuzione sulle unità prodotte delle spese generali, e che sono principalmente un fenomeno di breve periodo, dalle economie interne per la produzione su larga scala derivanti dall’adattamento della scala dell’impianto a successive e maggiori quantità prodotte: nel lungo periodo non esistono costi fissi. In questo modo Viner può costruire una curva di offerta di lungo periodo declinante rispetto alla quantità prodotta.
Le difficoltà nascono non appena si tenti di dare una spiegazione delle «cause» dei rendimenti crescenti. Il dibattito sviluppatosi negli anni Trenta (principalmente fra J. Robinson, H. Chamberlin e N. Kaldor) ha mostrato che si è inevitabilmente tentati di estendere al lungo periodo le cause operanti nel breve, imputando alla «indivisibilità» di un fattore la causa del rendimento crescente, ma introducendo così surrettiziamente, di nuovo, la distinzione tra fattori fissi e variabili.
Una riformulazione in termini «dinamici» della legge dei rendimenti crescenti è maggiormente in accordo con la tradizione. A. Marshall, adesempio, metteva in guardia (Principles of Economics, Appendix H) contro la tentazione di introdurre il concetto di «margine di produzione» nell’analisi di lungo periodo per quelle imprese in cui si manifestano rendimenti crescenti. Egli stesso, inoltre, formulava una legge in termini essenzialmente dinamici, come dimostra il suo tentativo di tracciare una curva di offerta «irreversibile» nel caso di una contrazione della produzione. Giustamente Viner fa notare che ciò è possibile solo quando si manifestano innovazioni in funzione della scala di produzione. Ma questo è proprio il fenomeno in questione, che non può essere adeguatamente preso in considerazione da una curva «statica» di lungo periodo, ma la cui comprensione è fondamentale per una corretta formulazione della legge dei rendimenti crescenti di scala.
[44] A. Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano, p. 770.
[45] Sulle potenzialità delle nuove tecnologie nella fase di progettazione degli impianti cfr. T.G. Gunn, «La meccanizzazione di progettazione e produzione», nel fascicolo monografico di Le Scienze (Scientific American), n. 171, nov. 1982, dedicato a «Meccanizzazione del lavoro e occupazione»; sulle applicazioni delle biotecnologie cfr. F. Gros, F. Jacob, P. Royer, Sciences de la vie et société, La Documentation française, Paris, 1979.
[46] Questo è in effetti il risultato suggerito dalla correlazione statistica esalninata da J. Gershuny, After Industrial Society? The Emerging Selfservice Economy, Macmillan, London, 1978, pp. 111-12.
[47] Secondo A. Maddison («Long Run Dynamics of Productivity Growth», in Banca Nazionale del Lavoro - Quarterly Review, n. 128, March, 1979, p. 31), che esamina il caso di 16 paesi industrializzati per il periodo 1950-1976, il tasso medio annuo di crescita della produttività risulta del 5% per l’agricoltura, del 4,5% per l’industria e solo del 2,2% per i servizi. Nello stesso periodo, il tasso medio di crescita del PIL risulta del 3,9%.
[48] Cfr. ad esempio R. Bacon e W. Eltis, Britain’s Economic Problem: Too Few Producers, Macmillan, London, 1976; e F. Blackaby (ed.), De-Industrialization, Heinemann, London, 1979.
Le stesse osservazioni potrebbero naturalmente essere rivolte nei confronti di Kaldor, che non sa scorgere il carattere produttivo del settore dei servizi.
[49] J.A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Unwin University Books, London, 1970, p. 131.
[50] Per conclusioni analoghe cfr. R. Fuchs, The Service Economy, NBER, New York, 1968, p. 196.
[51] F.W. Taylor, The Principles of Scientific Management (1911), The Norton Library, New York, 1967, p. 38.
[52] H. Braverman, Labor and Monopoly Capital. The Degradation of Work in the Twentieth Century, Monthly Review Press, New York and London, 1974; trad. it., Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1978.
[53] K. Marx, Grundrisse der Kritik der
politiche Ökonomie
, Dietz Verlag, Berlin, 1953; trad. it., Lineamenti
economia politica
, La Nuova Italia, Firenze, 1970, vol. II,
p. 410.
[54] K. Marx, op. cit., p. 405. Agnes Heller, che ha ricostruito con intelligenza il mondo del lavoro liberato tratteggiato da Marx nei Grundrisse, scrive: «La vera ricchezza dell’uomo e della società si costituisce non tempo di lavoro, ma nel tempo libero. Proprio perciò la ricchezza della società dei ‘produttori associati’ non è misurabile in tempo di lavoro ma in tempo libero» (A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 114-15).

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia