IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVII, 1995, Numero 2, Pagina 89

 

 

Crisi della democrazia e crisi della politica estera
 
 
Oggi si va diffondendo sempre più la coscienza che il mondo industrializzato sta vivendo una fase di crisi della democrazia, di crescente distacco dei cittadini dalla classe politica che dovrebbe rappresentarli. Si tratta di un fenomeno che si manifesta nei tassi di astensione alle elezioni, nella proliferazione della corruzione, nello strapotere delle lobbies, nel rafforzamento delle formazioni estremistiche o qualunquistiche che fondano il loro potere sulle indifferenziate reazioni di rigetto per la politica che si vanno estendendo tra gli elettori.
Qualcuno si è spinto addirittura fino a prevedere la fine della democrazia; mentre tra coloro che rifiutano questa fosca prospettiva, molti pensano che si possa dare una risposta puramente istituzionale alla crisi, avvalendosi in particolare delle risorse messe a disposizione degli uomini dai progressi della tecnologia. Si sostiene che, in un mondo nel quale le informazioni circolano con una rapidità ed in una quantità senza precedenti, e dove il cittadino dispone di dati infinitamente più numerosi che in passato per farsi un’opinione sui problemi che i politici devono affrontare, una partecipazione limitata ad un voto che si ripete a distanza di anni è insufficiente per dare a ciascuno la sensazione di contare qualcosa nel processo di presa delle decisioni politiche e quindi provoca il distacco tra gli elettori e i loro rappresentanti. Si tratterebbe quindi di interrogare con più frequenza, avvalendosi degli strumenti della telematica, i cittadini sul contenuto delle scelte concrete sul tappeto, raffinando le tecniche in modo da eliminare il più possibile le semplificazioni eccessive e le contrapposizioni artificiali. L’obiettivo sarebbe quello di eliminare progressivamente la distanza che separa il sondaggio dal referendum e di estendere sempre più l’uso di quest’ultimo strumento in modo da rendere tendenzialmente superfluo l’istituto della rappresentanza e di realizzare forme di democrazia semi-diretta.
 
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Che esista un nesso tra grado di sviluppo della tecnica e struttura del potere è un dato di fatto. E’ stato grazie alle innovazioni che hanno consentito alle persone, alle merci, ai capitali, alle informazioni e alle immagini di spostarsi e di essere trasmesse sempre più rapidamente da un punto all’altro del territorio che la democrazia ha potuto diventare, da tecnica di governo di una città, come nell’antica Grecia, una tecnica di governo di un continente, come oggi negli Stati Uniti. Ma le stesse considerazioni si possono fare a proposito della dittatura. Il fatto è che la tecnologia in quanto tale è neutrale rispetto alle forme di governo, perché gli stessi strumenti possono essere usati dai governanti per opprimere e manipolare i governati e dai governati per controllare i governanti, o per estrometterli dal potere.
 
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La democrazia non è soltanto una tecnica di governo. Essa si fonda sull’idea di cittadinanza. E la cittadinanza, vissuta come valore positivo e non come fatto puramente giuridico, è prima di tutto la coscienza di appartenere ad una comunità politica capace di perseguire un grande disegno dal quale dipendano la sicurezza di ciascuno e la realizzazione delle condizioni di base dell’affermazione dei grandi valori della convivenza civile. Ciò è accaduto, anche se in misura assai imperfetta, nella storia recente, sia in Occidente che in Oriente, nella fase più acuta della Guerra fredda, quando la contrapposizione tra democrazia e comunismo e la minaccia della guerra nucleare davano un contenuto ideale alla politica ed una giustificazione al consenso dei cittadini nei confronti del potere; ed è accaduto ancora quando Gorbaciov ha suscitato tra gli uomini per una breve stagione la speranza che il mondo fosse avviato verso una pace duratura garantita da una Organizzazione delle Nazioni Unite capace di assumere la funzione di un vero e proprio embrione di governo mondiale grazie alla collaborazione degli Stati che ne facevano parte.
Ma questa stagione è finita e nessun grande disegno è oggi più visibile sulla scena della politica mondiale. Gli Stati Uniti sono ormai privati del loro ruolo storico di difensori della democrazia contro la minaccia del comunismo. Essi sono manifestamente impari al compito di garantire da soli il governo del mondo e sono condizionati nella loro politica estera da pressioni sempre più forti per un crescente disimpegno internazionale. L’ONU è indebolita da una grave crisi finanziaria e di prestigio. La Federazione russa, abbandonata l’ideologia internazionalistica, è percorsa da inquietanti tentazioni imperialistiche. L’Europa occidentale non trova la forza per affrontare da sola i problemi della propria sicurezza e della propria stabilità e rischia di sprofondare di nuovo nella logica suicida dello scontro tra divergenti interessi nazionali, mentre la parte orientale del continente è scossa da sussulti nazionalistici e dalla guerra interetnica che lacera l’ex-Jugoslavia. L’alleanza tra Stati Uniti e Giappone è in crisi e ciò, oltre a provocare gravi tensioni commerciali tra i due paesi, mette il Giappone di fronte alla responsabilità, mai affrontata in questo dopoguerra, di darsi una propria politica estera e di sicurezza, con la prospettiva di trasformare radicalmente il quadro politico estremo-orientale e di risvegliare negli altri paesi della regione paure e riflessi di difesa che sembravano definitivamente superati.
Certo nel mondo non mancano segnali positivi, come l’abolizione dell’apartheid in Sud-Africa, il faticoso processo di pacificazione fra Israele, il popolo palestinese e la Siria, la probabile fine della sanguinosa guerra civile nell’Irlanda nel Nord. Ma rimane il fatto che questi avvenimenti non sono iscritti in un disegno mondiale orientato al perseguimento di un grande obiettivo, capace di mobilitare speranze e di suscitare energie. E in assenza di esso le forze che si battono per la pace e per l’emancipazione degli uomini nei diversi contesti regionali in cui sono in corso difficili tentativi di superare secolari ingiustizie e odi profondi rischiano l’isolamento e la sconfitta.
 
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La crisi della democrazia si identifica quindi oggi con la crisi dell’equilibrio mondiale, anzi della politica estera tout court. Caduta l’illusione che la vittoria della democrazia sul comunismo coincidesse con la fine della storia, e svanita l’illusione gorbacioviana che la pace mondiale potesse essere fondata sulla buona volontà e sulla collaborazione tra i popoli, la politica ha perso la bussola e tende a degenerare in uno sterile confronto tra interessi particolari. Essa deve ritrovare un disegno globale, che restituisca agli uomini la speranza, e ridia vigore alla democrazia. Ma il superamento della crisi presuppone ormai che si traggano le conseguenze dalla consapevolezza, peraltro ormai penetrata nella coscienza collettiva, che l’umanità è oggi una sola comunità di destino.
Ciò significa che la politica estera non può più essere intesa come un’attività il cui scopo sia quello di garantire ad ogni singolo popolo le condizioni di sicurezza necessarie al perseguimento del proprio progresso, perché ormai il progresso di ogni popolo può essere perseguito soltanto nel quadro del progresso generale dell’umanità. Per questo il solo disegno, per lontano che ne sia il compimento, che possa oggi far sentire gli uomini in qualche modo partecipi di un processo globale di avanzamento dei valori della pace, della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia, e quindi rafforzi in loro il sentimento della cittadinanza e ridia slancio alla democrazia, è proprio quello della progressiva abolizione della politica estera, cioè della progressiva unificazione politica del genere umano.
 
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La cittadinanza ha una seconda dimensione, che pure è intrinsecamente legata alla democrazia. Si tratta del sentimento di appartenenza alla città. Ed è nella città che la democrazia ha il suo terreno di cultura, si radica nella presa di coscienza della natura dei problemi concreti, nell’esperienza immediata dei bisogni di ciascuno, nel dibattito ogni giorno ripreso tra uomini e donne che si conoscono; e non certo in metodi tanto sofisticati quanto impersonali di registrazione di opinioni che, in quanto non si sono formate nella discussione, sono per definizione arbitrarie. Ma questa pur fondamentale seconda dimensione della cittadinanza non può sussistere senza la prima. Nel mondo interdipendente di oggi un intenso dialogo interpersonale sui problemi della convivenza si può sviluppare nella città soltanto nella misura in cui i problemi che riguardano la qualità della vita di una singola comunità, e che sono legati alle caratteristiche di una specifica porzione del territorio, non vengono isolati dal contesto generale dei problemi che investono l’intera umanità. Il bene comune della città è quindi tale soltanto in quanto viene sentito come una componente del bene comune dell’umanità. Quando questa consapevolezza non esiste, e quindi non ne vengono tratte le conseguenze istituzionali, la riduzione dell’orizzonte politico alla comunità locale — o regionale — diventa un principio di disgregazione della vita sociale e un fattore di rottura di quelle più ampie solidarietà il cui allargamento e il cui consolidamento sono il principale vettore storico del processo di emancipazione umana.
 
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Vi sono oggi due verità la cui evidenza è così accecante da renderle invisibili ai più. La prima è che l’istituzione dello Stato nazionale è definitivamente superata dalla storia e costituisce il collo di bottiglia che è alla base della crisi della democrazia. Esso è una struttura che fonda la propria legittimità sull’egoismo tribale di nazioni chiuse nella propria pretesa naturalità e che quindi non può essere il portatore del grande disegno di unificazione del mondo, che fondi la speranza di una cittadinanza universale. E nello stesso tempo, proprio a causa della sua chiusura, esso spegne, imponendo una innaturale uniformità attraverso l’accentramento delle sue strutture amministrative, finanziarie, scolastiche e militari, ogni spinta all’autogoverno locale, e quindi al recupero dell’idea di cittadinanza come partecipazione attiva alla vita della città.
La seconda è che il superamento dello Stato nazionale può avvenire in questi anni in Europa, e non può avvenire se non in Europa, perché è solo in Europa che, attraverso il processo di integrazione, si è manifestato in termini concretamente politici il fenomeno dell’eclissi di fatto delle sovranità nazionali: e da questo dipende il destino dell’intera umanità in questa fase della sua storia. Eppure coloro che, in Europa, portano la responsabilità della gestione del potere nazionale, e con loro gli esponenti del mondo della cultura e dell’informazione, non sono nella loro quasi totalità consapevoli dell’immensa opportunità che l’Europa ha di fronte a sé e della gravità del crimine del quale i suoi uomini di governo dovrebbero rispondere davanti al tribunale della storia se questa opportunità andasse perduta. Accettando il quadro nazionale come quadro primario della lotta politica, essi consumano le loro energie in contrapposizioni fittizie su falsi fronti, in sterili battaglie per il conseguimento di obiettivi storicamente irrilevanti, e ciò proprio mentre lo stesso quadro nel quale la lotta politica si svolge si sta disgregando, aprendo per l’Europa intera la prospettiva della ricaduta nella violenza, nel disordine e nella dittatura.
 
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Ma questa situazione non può continuare a lungo. «Nella vita delle nazioni, scriveva Luigi Einaudi alla pagina 89 dello Scrittoio del Presidente, l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile». L’opportunità per l’Europa di rendere irreversibile il suo processo di unificazione attraverso l’Unione monetaria ed una radicale riforma istituzionale si chiuderà molto probabilmente con il chiudersi del secondo millennio. Le spinte politiche all’unità dell’Europa si stanno esaurendo, e le spinte economiche da sole non basteranno a mantenere in piedi un quadro politico che, se non sarà rapidamente completato, non potrà che sfaldarsi. In ogni caso è evidente che l’attuale assetto intergovernativo dell’Europa non può durare per un tempo indefinito. Se così fosse, non vi sarebbe motivo per tentare di superarlo. Il fatto è che l’Europa è giunta di fronte alla scelta dalla quale dipende la sua sopravvivenza come soggetto politico nell’equilibrio mondiale, e con essa il destino della democrazia.
I momenti in cui si giocano le grandi scelte storiche sono momenti di crisi, in cui più grandi sono le opportunità e più grandi i pericoli, e in cui quindi la libera volontà degli uomini diventa un fattore decisivo. Perché l’Europa sappia scegliere nei prossimi anni la sua unità e imprimere così una svolta decisiva alla storia del mondo, questa volontà si deve manifestare principalmente in due sedi. Essa si deve esprimere in alcuni grandi decisori, cioè in uomini di governo che abbiano la consapevolezza delle grandi opportunità e dei gravissimi pericoli di fronte ai quali l’Europa si trova e quindi della enorme responsabilità che grava sulle loro spalle. Ma essa si deve manifestare anche direttamente nei cittadini, senza la spinta dei quali nessuna grande trasformazione storica può essere intrapresa. Gli Europei devono prendere coscienza che la cittadinanza europea, che la logica stessa del processo ha imposto ai Capi di Stato e di governo di riconoscere nel Trattato di Maastricht, non può prendere corpo, ed è destinata a risolversi in un inganno, se non si realizza nell’esercizio del primo dei diritti che danno un contenuto all’idea di cittadinanza: quello di scegliere democraticamente, a livello europeo, gli uomini che li governeranno.
Questi due luoghi nei quali la volontà europea si deve esprimere non sono indipendenti l’uno dall’altro. La consapevolezza dei cittadini aumenta drammaticamente quando i loro leaders li pongono di fronte a scelte precise, così come la capacità dei leaders di prendere decisioni cruciali dipende dal sostegno dei cittadini. Ed è soltanto dall’influenza reciproca di queste volontà, e dal loro reciproco rafforzamento, che può prendere forma il processo costituente europeo.
E’ qui che i federalisti hanno un ruolo cruciale da giocare. Essi sono oggi il solo movimento politico che è cosciente della natura dell’alternativa sul campo e dell’importanza della posta in gioco. Certo, essi non fanno parte dell’ordine politico esistente, e quindi non hanno potere. Ma essi fanno parte virtualmente di un ordine politico che non si è ancora instaurato, e questo dà loro un potere diverso, che diventa decisivo nei momenti di svolta della storia, quando l’ordine vecchio è corroso dalla corruzione, dall’impotenza e dall’ipocrisia: il potere della verità. Essi hanno la responsabilità di dirla, confidando nella sua capacità di diffondersi grazie alla sua intrinseca forza di convinzione, senza cadere nell’errore fatale di credere che la forza di un messaggio politico dipenda da quella dei mezzi dai quali è diffuso, e senza rinunziare alla coerenza delle loro posizioni in nome di un consenso puramente rituale, e quindi irrilevante. Essi devono rivendicare con orgoglio la loro diversità dai partiti, respingendo con fierezza l’idea che «fare politica» significhi scimmiottarne le parate di potere, i compromessi e gli intrighi, e rifiutando di schierarsi sui falsi fronti che fa emergere la politica nazionale. Essi devono esercitare con rigore e tenacia il loro ruolo insostituibile di avanguardia consapevole dei cittadini europei.
 
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