IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIX, 2017, Numero 3, Pagina 281

  

  

Il federalismo tra visione e metodo*

 

 SERGIO FABBRINI

 

 

Introduzione.

 La visione federale è stata sconfitta in Europa negli anni Cinquanta del secolo scorso. Lo sviluppo dell’Unione europea ha seguito una strada diversa rispetto a quella prevista dall’approccio federale. Tuttavia, le crisi del secondo decennio degli anni Duemila ripropongono con forza tale visione. Come spiegarci questo sviluppo? Qui procederò nel modo seguente. Primo, descriverò il processo di costruzione sovranazionale del mercato comune. Poi ricostruirò la svolta intergovernativa degli anni Novanta. Quindi, discuterò le conseguenze delle crisi multiple dell’ultimo decennio. Per concludere infine con alcune considerazioni sul ritorno del federalismo nel dibattito pubblico sollecitato da quelle crisi. Un federalismo che qui propongo come un metodo per risolvere i dilemmi aperti da quelle crisi.

 

L’origine funzionalista dell’integrazione.

L’unione europea è un patto per la pace, senza il quale l’Europa non avrebbe potuto risorgere, economicamente e democraticamente, dopo la Seconda guerra mondiale. E’ la risposta istituzionale a quella drammatica situazione che l’Europa visse nella prima metà del secolo scorso. Ragionare sul futuro dell’Unione europea significa discutere sulla sostenibilità del suo modello istituzionale, modello che è oggi messo in discussione sia all’interno dei paesi dell’Europa occidentale che da parte dei paesi dell’Europa orientale. Per capire come si è sviluppata l’Unione europea è utile usare il concetto (che deriva dall’analisi della politica comparata) di congiuntura critica. Ci sono delle fasi nella storia (di un’organizzazione, di un sistema, di un paese) in cui si aprono finestre di opportunità, momenti in cui è possibile prendere percorsi non previsti, in cui i leader politici o coloro dotati di potere decisionale possono fare scelte relativamente incondizionate. Tali scelte, prese in quelle congiunture critiche, definiscono a loro volta il percorso che verrà poi seguito. Una volta che si è chiusa la congiuntura critica, e le scelte si sono istituzionalizzate, si creeranno dinamiche politiche secondo una direzione prestabilita (path dependency).

La prima congiuntura critica è stata quella post-bellica. Dopo la Seconda guerra mondiale si aprì una discussione tra le leadership politiche dei paesi responsabili di quel conflitto, una discussione in cui un ruolo importante venne giocato anche da tecnici o comunque non-politici. In quel dibattito emersero due visioni: la visione federalista promossa (tra gli altri) da Altiero Spinelli e la visione funzionalista promossa (tra gli altri) da Jean Monnet. Per la visione federalista (per dirla con Mario Albertini), occorreva creare il “momento politico” per avviare l’integrazione europea. La visione federalista camminava su due gambe: la gamba economica (rappresentata dalla Comunità economica del carbone e dell’acciaio o CECA) e la gamba politica (rappresentata dalla Comunità europea della difesa o CED). I due Trattati (CECA e CED) sono infatti coevi e derivano dalla stessa aspirazione, così sintetizzata dalla Dichiarazione di Robert Schuman del 9 maggio 1950: occorre creare “le fondazioni di uno sviluppo economico come primo passo verso la federazione dell’Europa”. In particolare, una volta creata la CED, si sarebbe posto il problema di creare un governo comune della sicurezza europea.

La bocciatura da parte dell’Assemblea nazionale francese del progetto di CED (nell’agosto del 1954) lasciò sul campo solamente il progetto di integrazione economica. Ed è allora che la visione funzionalista si è affermata. Per Jean Monnet, il progetto di integrazione avrebbe dovuto ripartire dal basso (dal mercato) piuttosto che dall’alto (dalle istituzioni). Per lui, occorreva favorire la cooperazione interstatale su questioni economiche concrete, cooperazione che avrebbe a sua volta rafforzato il ruolo delle istituzioni europee funzionali, come la Commissione e la Corte di giustizia. La sconfitta dell’agosto del 1954, naturalmente, fu causata da ragioni di politica interna alla Francia, non già dal merito del progetto. Con il voto dell’Assemblea nazionale francese si chiuse la finestra delle opportunità apertasi dopo la guerra. La visione federalista di Altiero Spinelli (secondo la quale bisognava creare le istituzioni per poter avviare la federalizzazione dell’Europa) venne così sostituita dalla visione funzionalista di Jean Monnet (secondo la quale bisognava partire dalle policies per giungere, attraverso il loro spill-over, alle istituzioni comunitarie). I Trattati di Roma del 1957 costituiscono la celebrazione della visione funzionalista. Abbandonando la visione federalista (la parola federazione non compare in nessuna pagina dei Trattati), i paesi che sottoscrissero i Trattati si impegnarono a costruire un mercato comune, inteso come progetto funzionalista di integrare l’Europa attraverso l’economia. Certamente, il Preambolo ai Trattati impegnava i paesi sottoscrittori a perseguire l’obiettivo di “un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa”, ma tale impegno sembrava avere una natura simbolica piuttosto che operativa.

Dal 1957 al 1989-1990 il processo di costruzione di un mercato comune continentale procede con efficacia, anche in virtù dell’allargamento a nuovi paesi dell’Europa occidentale e quindi meridionale. Il processo di market-making venne quindi prepotentemente costituzionalizzato dalla Corte di giustizia europea che, attraverso importanti decisioni degli anni Sessanta e Settanta, trasformò il Trattati in documenti quasi-costituzionali. Inoltre, poiché l’integrazione economica produceva benefici diffusi nei paesi che partecipavano al progetto integrativo, l’integrazione potette procedere attraverso uno stabile consenso, definito permissivo o passivo. Intorno alla formazione del mercato comune, divenuto quindi mercato singolo con il Trattato dell’Atto unico europeo del 1986, si vennero a consolidare le istituzioni che costituiranno il modello comunitario: la Commissione, il Consiglio dei Ministri e quindi (in particolare a partire dall’elezione diretta del 1979) il Parlamento europeo. Si può dire che l’Europa del mercato ha potuto consolidarsi perché ha integrato policies di bassa salienza politica interna agli Stati.

 

La creazione di un regime intergovernativo.

Le cose cambiano con la seconda congiuntura critica, quella del periodo 1989-1991, congiuntura connotata dalla fine della Guerra fredda, dall’implosione dell’Unione sovietica e dalla riunificazione delle due Germanie (o meglio dall’annessione della Germania dell’est nella Germania dell’ovest). Con la riunificazione della Germania ricompare di nuovo il problema storico dell’Europa, l’asimmetria tedesca. Ovvero come bilanciare l’influenza o il potere della Germania ritornata ad essere il paese più grande dell’Europa, collocato al centro del continente e dotato di una forza economica e politica non più bilanciabile dalla Francia. Se fino all’ottobre del 1990 (data della riunificazione tedesca), la Germania dell’ovest era demograficamente simmetrica con la Francia, dopo l’ottobre del 1990 quella simmetria salta irrimediabilmente. La Germania supera gli 81 milioni di abitanti, la Francia rimane ai suoi 58 milioni. L’alterazione della precedente simmetria creò grandi preoccupazioni a Parigi (tant’è che il presidente francese di quel periodo, Francois Mitterand, non nascose la sua contrarietà alla riunificazione accelerata delle due Germanie). La Francia temette che la nuova superiorità della Germania si traducesse in condizionamento politico nelle istituzioni comunitarie, a partire dal Parlamento europeo, dove la delegazione dei parlamentari tedeschi era superiore a quella dei parlamentari francesi (oggi, su 751 membri, 96 sono eletti in Germania e 74 in Francia).

Per dare una risposta alla asimmetria tedesca, con il Trattato di Maastricht del 1992 si riprese il progetto di costruire una moneta comune (progetto elaborato nella seconda metà degli anni Ottanta), così da contenere la forza economica tedesca all’interno di un nuovo framework decisionale (la cosiddetta eurozona). Un’eurozona sovranazionale nella politica monetaria (attraverso la creazione di un’istituzione quasi-federale come la Banca centrale europea), ma intergovernativa nella politica economica (attraverso il controllo delle decisioni da parte dei governi nazionali, coordinati all’interno del Consiglio dei ministri e sempre di più nel Consiglio europeo). Venne quindi estesa alla politica economica dell’eurozona la logica decisionale di tipo intergovernativo che era stata istituzionalizzata (dal Trattato di Maastricht sotto forma di pilastri distinti) per quei settori di policy (la politica estera, di difesa, dell’ordine interno, della giustizia) tradizionalmente vicini al cuore delle sovranità nazionali (i cosiddetti core state powers). Mentre la logica sovranazionale adottata per decidere le politiche regolative del mercato unico si basa sul voto di maggioranza (qualificato nel Consiglio dei ministri e assoluto nel Parlamento europeo), la logica intergovernativa per decidere le nuove politiche (chiamate anche strategiche) si basa invece sul voto all’unanimità (sia nel Consiglio dei ministri che nel Consiglio europeo), con relativo potere di veto riconosciuto ad ogni governo nazionale. Inoltre, mentre l’integrazione del mercato unico procede attraverso l’approvazione di leggi (principalmente direttive e regolamenti), l’integrazione nelle politiche strategiche avviene attraverso il coordinamento volontario dei governi nazionali. Ne consegue che la Corte europea di giustizia, che ha esercitato ed esercita il cruciale ruolo di supervisione delle leggi relative al mercato unico, è invece ridimensionata in un regime decisionale (come quello intergovernativo) che non si basa sull’approvazione delle leggi ma su decisioni politiche da parte dei governi nazionali. Ne consegue anche che, nel regime decisionale intergovernativo, sia il Parlamento europeo che la Commissione, organi collegati al processo legislativo, hanno visto ridimensionati i loro poteri e il loro ruolo.

Si può concettualizzare il Trattato di Maastricht del 1992 come l’istituzionalizzazione di due modelli costituzionali (ovvero regimi decisionali), sovranazionale per il mercato unico e intergovernativo per le politiche strategiche. Il Trattato di Maastricht del 1992 chiude la seconda congiuntura critica istituzionalizzando una costituzione intergovernativa per decidere le politiche che hanno una grande salienza politica interna. Con quel Trattato si afferma un’unione intergovernativa, un’unione che non sostituisce quella sovranazionale in quanto organizza la decisione su politiche diverse da quelle oggetto di regolazione da parte di quest’ultima. Maastricht celebra un compromesso tra gli Stati che sostengono le due costituzioni. Dopo tutto, un’unione di Stati si basa necessariamente su compromessi interstatali. Tuttavia, nel caso dell’Unione europea, questi compromessi si sono realizzati in assenza di guidelines costituzionali formalmente prestabilite. Basti pensare che, oltre al compromesso tra sovranazionalisti e intergovernativi, all’interno dell’eurozona si realizzò un compromesso tra chi partecipa alla moneta comune e chi è autorizzato a rimanerne fuori (attraverso la formula dell’opt-out), come il Regno Unito e quindi Danimarca e di fatto Svezia. Peraltro, con gli allargamenti successivi, l’area dell’opt-out si è estesa, anche se formalmente i nuovi paesi sono tenuti a convergere economicamente verso gli standard della moneta comune. E naturalmente, non bisogna dimenticare il compromesso realizzato all’interno dell’eurozona tra la Germania (che ha voluto la centralizzazione della politica monetaria nella Banca centrale europea) e la Francia che ha imposto la decentralizzazione della politica economica.

 

Le crisi multiple del dopo-2008.

Con la crisi finanziaria del 2008 si apre una terza congiuntura critica, congiuntura che si prolunga per tutto il decennio successivo. Infatti, alla crisi finanziaria segue una crisi migratoria e una crisi della sicurezza, crisi multiple che scuotono la struttura istituzionale che si era formata nel dopo-Maastricht. Il compromesso tra l’Europa del mercato sovranazionale e l’Europa intergovernativa viene scosso a favore di quest’ultima. Il compromesso tra i paesi impegnati a creare una “ever closer union”, un’unione sempre più stretta, e i paesi interessati solamente all’unione economica si scuote talmente da attivare processi centrifughi. Tant’è che un paese dell’opt-out deciderà di lasciare la stessa Unione europea attraverso un referendum popolare (la cosiddetta Brexit del giugno 2016). Così, il compromesso realizzato all’interno dell’eurozona condurrà ad una spaccatura tra paesi del nord e del sud, anche per via dell’affermazione della Germania e della sua visione economica (l’ordo-liberalismo). La Germania era divenuta troppo forte per essere bilanciata dalla Francia all’interno dell’eurozona, potendo quindi esercitare una leadership incontrastata su quest’ultima. Una condizione così favorevole, per la Germania, da portare ad un cambiamento della sua tradizionale prospettiva sull’integrazione europea, una prospettiva sempre più intergovernativa e sempre meno sovranazionale (come nel periodo precedente all’ottobre del 1990).

La crisi di questi compromessi ha portato in superficie le diverse visioni che avevano storicamente orientato gli Stati membri dell’Unione europea verso il processo di integrazione. Non essendoci stato quel momento federale di cui ha parlato Giulia Rossolillo, momento che avrebbe dovuto costituire l’Unione europea alle sue origini, ogni Stato membro ha finito per perseguire prospettive integrative poco conciliabili. E’ così emerso un gruppo di paesi (a parte il Regno Unito, i paesi della penisola scandinava e dell’est dell’Europa) che ha reagito alle crisi multiple affermando la necessità di andare verso un’integrazione esclusivamente economica (ovvero di ritornare a prima di Maastricht). Un mercato integrato ma conciliabile con la preservazione delle sovranità nazionale e quindi compatibile con i nazionalismi che caratterizzano quei paesi. Va precisato che, nel Regno Unito o in Danimarca, il nazionalismo ha continuato ad avere un carattere democratico, mentre così non è in molti paesi dell’est dell’Europa. Basti vedere il ridimensionamento dello Stato di diritto incorso in Polonia, in Ungheria e negli altri paesi dell’area. In questi ultimi, il nazionalismo sta addirittura assumendo caratteristiche religiose, probabilmente in risposta allo svuotamento identitario imposto in quei paesi dalla dominazione sovietica. Ma contemporaneamente un altro gruppo di paesi (il core dell’Eurozona) ha reagito alla crisi rivendicando un salto in avanti nel processo di integrazione, così da giungere, per dirla con il presidente francese Emmanuel Macron (eletto nel maggio 2017), ad “un’Europa sovrana, unita e democratica”. Questo gruppo di paesi non ha rinunciato, né potrebbe rinunciare, ad un’interpretazione politica del progetto di costruire una “unione sempre più stretta”. Per questi paesi, dopo tutto, il nazionalismo è stato storicamente un rivale della democrazia. E’ stato il nazionalismo a cancellare la loro democrazia tra le due guerre mondiali. Questa divisione (tra un’Europa economica ed un’Europa politica) è emersa, come mai era avvenuto nel passato, proprio sull’onda delle crisi multiple del decennio in corso.

All’interno della visione politica si è resa evidente, nel corso delle crisi, una seconda una divisione, quella tra chi (paesi come l’Italia e la Spagna e istituzioni comunitarie come il Parlamento europeo e la Commissione) vuole dare una forma parlamentare all’unione politica e chi invece (Stati come la Francia pre-Macron, la Germania, oltre al Consiglio dei ministri e al Consiglio europeo) vuole darle una forma intergovernativa.

Per la prospettiva parlamentarista (che deriva dal funzionalismo e definibile come la prospettiva dell’unione parlamentare), gli attori principali sono la Commissione e il Parlamento europeo, l’asse inter-istituzionale che ha sostenuto e deve continuare a sostenere il progetto di integrazione attraverso la legge. I sostenitori di questa prospettiva hanno quindi promosso il progetto degli Spitzenkandidatennelle elezioni del 2014 per il Parlamento europeo, un progetto che viene quindi riproposto per le elezioni del 2019. Per la prospettiva intergovernativa (che deriva dal liberal intergovernmentalism e definibile come la prospettiva dell’unione intergovernativa), gli attori principali sono invece il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri, l’asse inter-istituzionale che ha sostenuto e deve continuare a sostenere il progetto di integrazione attraverso il coordinamento volontario dei governi nazionali. Entrambe le prospettive si sono dimostrate unilaterali. Quella parlamentarista sottovaluta il ruolo dei governi nazionali, quella intergovernativa non considera il ruolo dei cittadini europei. E’ impensabile che la governance di un’unione politica (di Stati e cittadini) possa consolidarsi senza un’equilibrata ricomposizione delle due prospettive, naturalmente in un quadro istituzionale diverso e originale.

Insomma, le crisi multiple di questo decennio hanno mostrato la difficile convivenza tra la visione dell’Unione europea come comunità economica e quella che la vuole trasformare in una unione politica. Allo stesso tempo quelle crisi hanno mostrato la debolezza istituzionale delle due principali prospettive di governance, quella parlamentarista e quella intergovernativa. Per alcuni paesi, come il nostro ma anche gli altri paesi dell’Europa occidentale-continentale, la comunità economica non può bastare per mettere al sicuro la democrazia nazionale e per rispondere alle sfide di un mondo globalizzato. Per altri paesi, invece, la comunità economica è l’unica integrazione possibile, in quanto ritenuta conciliabile con le loro visioni nazionaliste. Tuttavia, anche questi paesi, debbono prendere atto che l’interdipendenza europea non può essere gestita attraverso la secessione. Le difficoltà che Theresa May sta incontrando nella gestione degli effetti della Brexit sono la dimostrazione che, in Europa, gli Stati nazionali si sono trasformati in Stati membri di un sistema interdipendente. Non è possibile uscire dall’interdipendenza per ritornare alla condizione di un secolo fa. Occorre piuttosto governare l’interdipendenza trovando soluzioni differenziate per gruppi di paesi che perseguono prospettive diverse di integrazione.

 

Verso l’unione federale.

Quali soluzioni? E qui ritorniamo al federalismo abbandonato negli anni Cinquanta del secolo scorso, interpretandolo (per seguire l’insegnamento di James Madison) come un metodo per organizzare le relazioni tra Stati che si aggregano, sulla base di asimmetrie demografiche e identità nazionali differenziate. Innanzitutto, occorre separare (distinguere) istituzionalmente la comunità economica e l’unione politica. Quindi, occorre individuare la forma che può tenere a bordo di quest’ultima Stati asimmetrici e differenziati. Bisogna quindi tornare a pensare in modo federale ad una unione di Stati, recuperando l’idea che queste ultime seguono una logica diversa dalle disaggregazioni di Stati unitari che diventano quindi federali. Il federalismo, dal punto di vista empirico, è un genere al quale appartengono specie diverse, due in particolare: uno è il federalismo per disaggregazione (che dà vita agli Stati federali) e il secondo è il federalismo per aggregazione (che dà vita alle unioni federali). Il primo è quello dell’esperienza tedesca post-bellica, esperienza che ha influenzato molti parlamentaristi europeisti, ma che non può funzionare in Europa per via delle fondamentali asimmetrie demografiche e nazionali che connotano gli Stati dell’unione.

Il secondo è quello dell’esperienza americana, che si realizza quando Stati asimmetrici e differenziati si aggregano per ragioni diverse (generalmente per garantire la reciproca sicurezza). Se si guarda le due aggregazioni federali che hanno avuto successo sul piano democratico (quella americana e quella svizzera), si vedrà che esse si sono sviluppate a partire da un atto fondativo, un atto di natura costituzionale. Le leadership degli Stati o dei cantoni hanno fatto il salto federale, cioè hanno concordato l’atto costituzionale senza il quale l’unione non si sarebbe formata. Hanno potuto farlo perché guidati da un metodo federale, un metodo che ha consentito di risolvere il paradosso di costruire una unione sovrana di Stati sovrani. Di qui la separazione multipla dei poteri che caratterizza entrambe quelle unioni. La sovranità è stata spacchettata e divisa e barriere sono state introdotte tra il livello federale (o sovranazionale) e il livello statale (o nazionale). Unioni basate sulla separazione dei poteri non corrono il rischio, che corre invece l’Unione europea, di avere un esecutivo politico come il Consiglio europeo costituito di capi di governo nazionali eletti sulla base di idiosincrasie anti-integrazioniste (si pensi ai primi ministri dell’est europeo ovvero alla possibilità che Marine Le Pen possa diventare, prima o poi, presidente della Francia e quindi membro dell’esecutivo europeo). E’ come se George Wallace, governatore razzista dell’Alabama per ben tre volte negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, fosse entrato di conseguenza nell’esecutivo federale degli Stati Uniti e avesse quindi contribuito a definire le strategie federali.

L’Unione politica (da costruire a partire dall’eurozona) dovrà quindi essere una unione e non già uno Stato. Dovrà basarsi su una governance che rifletta la divisione della sovranità. Non si tratta di concentrare la sovranità (intesa come potere decisionale) nel Parlamento europeo oppure nel Consiglio europeo. Si tratta piuttosto di creare istituzioni separate che condividono lo stesso potere governativo. Unioni politiche di Stati asimmetrici e differenziati non possono avere né uno Stato né un governo (inteso come istituzione). Ogni processo di centralizzazione rafforzerebbe gli Stati più forti e grandi a danno di quelli più piccoli e deboli. In queste unioni, il governo è un processo e non già un organismo, un processo strutturato intorno ad istituzioni indipendenti che, proprio per questo motivo, si bilanciano reciprocamente. Allo stesso tempo, un’unione politica di Stati con diverse identità nazionali è incompatibile con l’idea di uno Stato federale che racchiuda (e quindi subordini a sé stesso) le varie identità nazionali degli Stati che lo costituiscono (un Bundesland, come nell’esperienza tedesca). Gli Stati nazionali non sono assimilabili ai Ländertedeschi o alle Province canadesi. Se non fosse così, quale identità nazionale, quello Stato federale, dovrebbe esprimere? L’identità degli Stati più forti e più grandi? Un’unione politica di Stati asimmetrici e differenziati ha bisogno di una costituzione, e non già di uno Stato, per esistere. Una costituzione che rappresenti il patto politico fondativo dell’unione, un patto privo di ogni valenza culturale, religiosa o nazionale. Le unioni politiche di Stati asimmetrici e differenziati stanno insieme attraverso la politica e non già attraverso assunti prepolitici. Stanno assieme perché accettano i basilari valori democratici e le basilari regole per decidere insieme le materie (poche) che sono di comune interesse. La divisione della sovranità e la separazione tra i livelli di governo e le istituzioni di governo consente di preservare le democrazie nazionali e contemporaneamente di creare una democrazia sovranazionale, in quanto le une e l’altra hanno politiche e responsabilità diverse da gestire e decidere. E’ la democrazia che tiene insieme le unioni politiche di Stati e cittadini che vogliono mantenere le loro identità e le loro dimensioni. Sono unioni indipendenti di Stati indipendenti, per dirla con Mario Albertini, ovvero federazioni di Stati nazionali, per dirla con Jacques Delors. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma per pensare al futuro dell’Europa, un paradigma che divida e separi i livelli e le istituzioni di governo. Abbiamo bisogno di un metodo per trovare soluzioni originali all’esperienza specifica dell’Europa. Un metodo che solamente il federalismo democratico può fornire.

 


 * Si tratta del testo dell’intervento presentato al convegno Il federalismo europeo e la politica del XXI secolo: l’attualità del pensiero di Mario Albertini, tenutosi all’Università di Pavia il 16 novembre 2017.

 

 

 

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