IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXIII, 1991, Numero 1 - Pagina 3

 

 

Guerra giusta?

 

 

Il tragico conflitto del Golfo ha fatto riemergere nel dibattito politico il problema della «guerra giusta». Si tratta di un problema che sarebbe sbagliato accantonare come puramente filosofico. Al contrario esso ha una forte rilevanza politica, ed è destinato ad acquistarne una sempre crescente in un mondo nel quale l’aumento vertiginoso dell’interdipendenza estende le superfici di attrito tra gli Stati e quindi moltiplica i motivi di conflitto. In questo mondo tutti coloro che vogliono la pace, ma sono consapevoli del fatto che la pace perpetua non è un obiettivo di domani, sentono un acuto bisogno di un criterio di giudizio e di orientamento dell’azione politica che consenta loro di lottare per la pace senza cadere nell’irresponsabilità del pacifismo come pura affermazione di principio. Del resto che il problema abbia una forte rilevanza politica è testimoniato dal fatto che è stato proprio su di esso che nel corso della guerra si è divisa l’opinione pubblica mondiale.

Ci occuperemo qui soltanto del problema se sia stato giusto fare la guerra, e lasceremo da parte quello se sia stato giusto farla come è stata fatta. E daremo per scontato che l’embargo non sarebbe servito a raggiungere lo scopo e che quindi il ricorso alle armi sia stato una soluzione obbligata, se si voleva che lo scopo fosse raggiunto. Lasciando da parte e dando per scontato tutto ciò, è stato giusto scatenare la guerra del Golfo? E’ noto che l’argomento normalmente addotto per giustificare una risposta affermativa a questa domanda è quello della necessità di ripristinare il diritto internazionale violato con l’annessione del Kuwait, e in particolare di dare esecuzione alle risoluzioni delle Nazioni Unite. La necessaria premessa all’esame del problema è quindi il tentativo di definire la natura dell’ONU come custode e fonte del diritto internazionale e il suo ruolo in questa tragica vicenda e in generale nell’attuale equilibrio mondiale.

Parlare di giustizia nei rapporti tra gli uomini e tra gli Stati ha, in prima approssimazione, un senso soltanto quando al di sopra delle parti in conflitto vi sia un giudice che abbia il potere di dirimere le controversie con lo strumento del diritto e di imporre il rispetto della sua decisione con l’impiego delle sole forze di polizia giudiziaria. L’esistenza di questo giudice, nel mondo moderno, non può essere garantita che dallo Stato. L’idea di giustizia potrà quindi avere pieno diritto di cittadinanza nei rapporti internazionali soltanto quando tutti gli Stati avranno accettato di sottomettersi a loro volta ad un potere statale superiore contraendo tra loro un vincolo federale. Ora, è un dato di fatto che l’ONU non è il governo federale mondiale. Ciò significa che oggi gli Stati si trovano ancora nei loro rapporti reciproci nello stato di natura, nel quale non vi sono guerre giuste in quanto, per riprendere una frase di Kant, «lo stato di natura è esso stesso una condizione di ingiustizia». L’ONU anzi, nella misura in cui evoca l’immagine e la speranza dello Stato mondiale e di un ordine giuridico universale senza realizzarli, ha addirittura una funzione mistificatoria, e in quanto tale promuove l’esercizio della violenza anziché la pace. Nel corso della guerra del Golfo, in particolare, la sua funzione è stata quella di fare da copertura al dominio militare degli Stati Uniti sul resto del mondo. Le sue risoluzioni nei confronti dell’Iraq sono state prese per iniziativa degli Stati Uniti e son state fatte valere con lo strumento della guerra, la cui esecuzione è stata delegata agli stessi Stati Uniti e ai loro alleati.

Un approccio puramente illuministico porta a questa conclusione. Ma non ci si può fermare qui perché, per riprendere un’altra frase di Kant, «lo stato di natura dei popoli, come quello dei singoli uomini, è una condizione dalla quale si deve uscire per entrare in una condizione giuridica». E parlare di dovere nella storia ha un senso soltanto in quanto si creda che gli sforzi fatti per realizzare gli ideali ai quali il dovere si riferisce sono destinati a trovare una consonanza via via più diffusa nelle aspirazioni e nelle attese degli altri uomini e quindi a conseguire i loro obiettivi nel corso del processo. In questa prospettiva, il fatto che l’ONU evochi l’immagine del governo mondiale non è una mistificazione, ma una prefigurazione, alla quale la crescente interdipendenza dei rapporti tra gli uomini a livello mondiale attribuisce una crescente concretezza. Essa è un embrione di Stato mondiale, e le sue risoluzioni un embrione di diritto cosmopolitico. Vero è che la forma dell’embrione è lontanissima da quella dell’istituzione matura nella quale è destinato a trasformarsi. Ma è altrettanto vero che la consapevolezza di essere coinvolti nel processo di formazione dello Stato mondiale – anche se soltanto ai suoi inizi – fornisce criteri per giudicare gli avvenimenti e suggerisce agli uomini di governo e a tutti gli uomini di buona volontà orientamenti d’azione. Un’azione politica sarà giusta o ingiusta a seconda che essa avvicini o allontani, acceleri o rallenti, l’unificazione politica del genere umano e quindi l’ingresso della comunità internazionale nella condizione giuridica di Kant.

Tutto ciò dovrebbe suggerire la conclusione che il problema se quella del Golfo sia stata o non una guerra giusta dipende dagli esiti di un processo che non è ancora concluso. In ogni caso la risposta non potrà venire che dal modo in cui sarà organizzata la pace. Se la fine della guerra porterà con sé un incancrenimento delle divisioni ed un maggiore dispiegamento di eserciti e di armamenti sul territorio dei paesi del Medio Oriente, e quindi un maggior pericolo che il flagello della guerra si scateni ancora, la guerra del Golfo sarà stata ingiusta; se porterà con sé la distensione, una maggiore stabilità e l’attesa di una crescente unità, sarà stata giusta, anche se di quella giustizia terribile e primitiva che è la sola che ancor oggi sappia amministrare il tribunale della storia.

Perché questa seconda direzione possa essere imboccata, bisogna che coloro che hanno il potere di decidere il futuro assetto della regione e più in generale tutti coloro che possono poco o tanto influire sull’opinione pubblica araba ed europea siano consapevoli di alcuni dati fondamentali:

1) la causa prima della guerra del Golfo è stata la divisione politica della regione ereditata dal Trattato di Versailles. Essa ha avuto l’effetto di ripartire le sue immense ricchezze petrolifere in un modo totalmente arbitrario, concentrandole quasi esclusivamente in alcuni Stati di piccole o piccolissime dimensioni, o comunque assai poco popolati, e lasciandone privi gli Stati grandi e densamente popolati, che ne avrebbero un acuto bisogno per promuovere il loro sviluppo economico e civile. Ma essa ha anche impedito la nascita nella regione di una moderna economia di mercato, che richiede spazi di dimensione continentale, e ha favorito invece il mantenimento di regimi arretrati, dittatoriali e corrotti e la diffusione della piaga del fondamentalismo, alimentata dalla miseria e dalle ingiustizie sociali. Per «vincere la pace» bisogna quindi creare strutture che favoriscano l’unità araba prendendo come modello le istituzioni della CEE, attraverso la creazione di un grande mercato e di un’autorità che abbia il potere di redistribuire le royalties petrolifere in funzione dei bisogni di sviluppo degli Stati della regione, e che insieme indichi l’obiettivo di una grande federazione laica, democratica e pluralistica, nella quale possano trovar posto, a fianco dei Palestinesi e di tutto il popolo arabo, Israele e le popolazioni non arabe del Medio Oriente e del Maghreb. Vero è che l’obiettivo finale di una federazione araba non potrà essere raggiunto che tra Stati che abbiano a loro volta instaurato alloro interno la democrazia. Ma è altrettanto vero che la spinta verso l’unità è essa stessa una condizione perché il processo di democratizzazione si avvii. E’ soltanto nell’unità che il popolo arabo potrà ridare vigore alle sue millenarie tradizioni culturali, fondate sulla ragione e la tolleranza, e superare definitivamente la rovinosa commistione tra politica e religione che oggi ne soffoca lo sviluppo economico e civile.

2) La guerra ha dimostrato che la sicurezza di Israele e di tutti gli altri Stati della regione non è più un fatto militare. Non si potrà parlare di sicurezza nel Medio Oriente e nei rapporti tra mondo arabo ed Europa fino a che non si sarà instaurato un nuovo clima. Sotto questo profilo acquista un’importanza decisiva il modello della CSCE. Essa costituisce l’esemplificazione del fatto che oggi la sicurezza dipende da un lato dal disarmo e dalla realizzazione di misure di fiducia reciproca e di trasparenza, e dall’altro dalla collaborazione economica e dalla garanzia dei diritti umani. Si tratta quindi di creare un sistema di sicurezza secondo questo modello nell’area del Mediterraneo e del Medio Oriente e di collegarlo con la CSCE, creando in questo modo una vastissima rete di rapporti di garanzia e di controllo, che coinvolgano anche Stati Uniti ed Unione Sovietica. E’ soltanto in un quadro così ampio che sarà possibile creare le condizioni perché sia garantita la sicurezza di Israele, data una patria ai Palestinesi e regolamentato in un modo rigoroso il commercio degli armamenti. Ed è soltanto in questo contesto che potrà essere lanciato, in collaborazione con i paesi petroliferi della regione, un grande piano di sviluppo del mondo arabo analogo al Piano Marshall e avviato concretamente il processo di unità araba. Certo è che l’idea dell’applicazione sia del modello CEE che di quello CSCE al Medio Oriente può oggi sembrare utopistica in considerazione della tensione permanente ed esasperata che esiste tra Israele, l’OLP ed alcuni Stati arabi. Ma non si dimentichi che cinquant’anni fa in Europa, attraverso la collaborazione e l’integrazione, è stato conseguito un obiettivo ancora più arduo: quello di superare la storica inimicizia tra Francia e Germania, tanto da rendere impensabile una guerra tra Stati membri della Comunità.

3) La possibilità che tutto questo avvenga dipende in parte dagli arabi, ma in parte dalla Comunità, che può oggi giocare rispetto al mondo arabo lo stesso ruolo che fu degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale, allorché essi, attraverso il Piano Marshall, contribuirono in modo decisivo a favorirne la ripresa economica e ad incoraggiare l’inizio del processo della sua unificazione. In questo essa è favorita dalla contiguità geografica, dalla stretta interdipendenza degli interessi economici e dal fatto che, non essendo una potenza militare, non ha partecipato in quanto tale alla guerra e non è vista come una minaccia imperialista da quella larghissima parte dell’opinione pubblica della regione che considera invece gli Stati Uniti come il principale nemico della causa araba. In realtà la diffusa impressione che gli Stati Uniti siano usciti enormemente rafforzati dalla guerra del Golfo deriva da un errore di prospettiva. Gli Stati Uniti, condizionati da un astronomico deficit di bilancio e dalla presenza sempre più drammatica, al loro interno, di gravi fenomeni di disgregazione sociale, e per di più usciti dalla guerra con un’ulteriore gravissima perdita di immagine presso l’opinione pubblica araba, sono oggi più che mai una potenza in declino, che potrà giocare un ruolo nella regione mediorientale soltanto a breve termine. A medio termine, il partner privilegiato del popolo arabo non può essere che la Comunità. Ma perché la Comunità possa assumere le relative responsabilità, essa deve potersi presentare come un soggetto capace di portare avanti una politica coerente di pacificazione e di collaborazione e di costituire un modello di convivenza civile degno di essere imitato. E ciò comporta che essa compia il passo decisivo nella riforma della sua struttura istituzionale, trasformandosi in una federazione democratica, e si doti dello strumento di una moneta unica, che possa, tra l’altro, servire come mezzo di pagamento delle forniture di petrolio, dando così un decisivo contributo alla stabilizzazione dei suoi prezzi. Unità europea e unità araba diventano in questo modo due compiti strettamente interdipendenti.

Appare evidente che questi processi sono essenziali per accelerare la trasformazione dell’ONU in un vero governo mondiale. Si tratta di una trasformazione che non si potrà compiere fino a che il mondo continuerà ad essere diviso in centottanta Stati spesso divisi gli uni dagli altri da confini arbitrari e condannati al sottosviluppo da una dimensione incompatibile con un moderno sviluppo industriale, e quindi con la democrazia. I tempi per l’unificazione politica del genere umano saranno maturi quando gli uomini si saranno uniti in poche grandi formazioni federali di dimensione continentale capaci di costituire i pilastri portanti della Federazione mondiale. L’Europa ed una «nazione araba» unita, laica e democratica sono destinate ad essere due di questi pilastri. La guerra del Golfo sarà stata «giusta» soltanto se gli orribili massacri e le immense distruzioni che essa ha provocato spingeranno gli uomini a prendere coscienza della necessità di affrettare i tempi del completamento del primo e della nascita del secondo.

 

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