IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno L, 2008, Numero 2, Pagina 99

 

  

La pace e la nuova dimensione del rischio nucleare
 
 
Il destino dell’umanità è ancora ostaggio dell’incubo nucleare. Questa minaccia non è stata eliminata con la fine della guerra fredda, anzi, la logica della deterrenza nucleare, non più limitata solo al confronto tra USA e Russia, contribuisce a rendere sempre più incerto ed instabile l’intreccio degli equilibri regionali e globali. Per questo oggi è ancora più urgente abolire la possibilità della guerra nucleare di quanto non lo fosse in passato, negli anni Ottanta, quando USA e URSS avviarono il più concreto tentativo di pacificazione dell’era atomica e quando milioni di cittadini scesero nelle piazze di tutto il mondo per chiedere lo smantellamento degli arsenali nucleari.
Eppure, in questi ultimi anni questo obiettivo non sembra essere al centro delle preoccupazioni della politica, dei governi e della stessa opinione pubblica. Senza dubbio molte altre sfide, come quelle del cambiamento climatico, della crisi energetica, dell’esaurimento delle materie prime e del terrorismo internazionale incombono sul destino dell’umanità. Ma è un’illusione pensare, come molti fanno, di poter affrontare efficacemente queste crisi in un mondo sul quale continua a pendere, da quasi settant’anni, la spada di Damocle di una escalation nucleare fra gli Stati e in cui ingenti risorse continuano, per questa ragione, ad essere sottratte alla promozione di uno sviluppo compatibile con i limiti ecologici del nostro pianeta e con la necessità di migliorare le condizioni di vita di miliardi di individui. Analogamente, è semplicemente privo di senso immaginare, come sembrano fare alcuni governi, di poter confinare il rischio nucleare ad un eventuale e occasionale uso limitato delle armi atomiche tra Stati in conflitto, nella speranza di poter controllare tale uso e fingendo di ignorare le drammatiche conseguenze che un fatto del genere avrebbe per il mondo intero. Oltretutto in un clima internazionale in cui mentre si cerca di impedire ad alcuni Stati, come l’Iran, di dotarsi delle armi nucleari, si incentivano altri, come l’India, a svilupparle.
Questi atteggiamenti mentali possono forse aiutare ad esorcizzare il pericolo nucleare, ma, proprio per questo, costituiscono un ostacolo rispetto alla presa di coscienza della gravità del problema e delle sue cause, le cui radici affondano nella divisione del mondo in Stati sovrani. E’ cruciale, invece, per uscire dalla passiva accettazione politica e dall’assuefazione culturale e psicologica rispetto alla situazione di anarchia nucleare che si sta radicando nel mondo, pensare e riaffermare i criteri dai quali non si può prescindere per inquadrare il problema della pace e sviluppare analisi in grado di spiegare lo sviluppo reale dei fatti. Le riflessioni che seguono vogliono essere un contributo in questa direzione.
 
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Il primo punto da ribadire è che non si può eliminare il rischio dell’impiego delle armi nucleari se non si abolisce il pericolo della guerra. Ciò è pensabile, come ha spiegato Kant, solo sostituendo il sistema degli Stati sovrani con un sistema federale mondiale «nel quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza e dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da questa grande federazione di popoli, da una forza collettiva e dalle deliberazioni secondo leggi della volontà comune». Questa è l’unica possibilità di risolvere definitivamente il problema della pace e della guerra. Ma per orientare l’azione in questa fase, in cui   una simile meta non è ancora immediatamente perseguibile e rappresenta solo un criterio di orientamento, occorre individuare, come ha precisato sempre Kant negli Articoli preliminari alla pace perpetua, le condizioni minime necessarie per far sì che gli Stati possano da un lato rinunciare all’accrescimento continuo della loro potenza e, dall’altro, avviarsi verso la promozione dell’unità politica del genere umano. La difficoltà maggiore, infatti, come ha messo bene in evidenza Mario Albertini «consiste nella necessità di usare i poteri creati dal bisogno della potenza — gli Stati — per conseguire la sicurezza senza la potenza e con il solo diritto — la federazione».
In questi ultimi decenni, nonostante la crescente interazione e interdipendenza in campo economico, commerciale, ecologico, il mondo non si è incamminato sulla strada che porta verso l’unificazione politica. Anzi, si è assistito ad un aumento della frammentazione e si è toccata con mano la fragilità dell’ONU e degli altri organismi a livello mondiale; neppure il più avanzato esperimento di integrazione su scala regionale, l’Unione europea, ha dimostrato di saper offrire delle valide alternative sul terreno della soluzione pratica del problema o su quello della definizione di un modello di governo sovranazionale adeguato. Eppure mai come oggi appare chiaro che senza l’unità, l’umanità rischia la catastrofe.
Il tentativo di distensione avviato dal presidente degli USA Ronald Reagan e dal Segretario del PCUS Michail Gorbaciov con i colloqui di Ginevra e Reykjavik nel 1985-86 aiuta a capire sia la natura della difficoltà di mettere il potere degli Stati al servizio della costruzione della pace, sia quanto quest’ultima sia legata all’evoluzione del quadro di potere internazionale. I memoranda of conversation di questi incontri, ormai liberamente consultabili su Internet — ampiamente commentati da Jonathan Schell nel suo ultimo libro The Seventh Decade, e Richard Rhodes in Arsenals of Folly —, smentiscono clamorosamente l’idea che la politica internazionale dipenda solo dalla libera scelta e dalla buona volontà delle parti, e confermano quanto stretti siano per gli Stati i margini per agire a favore della pace in un mondo in cui vige la legge della forza. Da un lato questi memoranda sono una testimonianza di come la logica nucleare conduca gli Stati prima a dotarsi dell’arma atomica per conseguire più sicurezza o più potenza e, successivamente, a cercare di ridurre il rischio di usarla per paura di subire danni gravissimi. Dall’altro lato mostrano quanto la balance of power mondiale condizioni in ogni momento l’andamento e l’esito delle trattative tra gli Stati.
A proposito del primo aspetto, bisogna ricordare che uno degli scopi dei colloqui di Ginevra e Reykjavik consisteva proprio nel cercare di ridurre il rischio di una guerra nucleare (anche accidentale). Infatti né il governo di Washington, né quello di Mosca avevano più fiducia nella possibilità di controllare razionalmente i rispettivi arsenali. Fu dunque la dialettica della logica nucleare ad indurre Reagan e Gorbaciov a passare dalle «negotiating minutiae» degli esperti, che erano ormai giunte ad un punto morto, alla «big politics», come si legge nei memoranda. Abbandonati i toni propagandistici ed ideologici del confronto bipolare, i due governi dovettero ripartire obtorto collo dal riconoscimento di aver raggiunto la parità strategica sia sul fronte della capacità di offesa che su quello della difesa militare. Sul piano pratico, al di là delle minutiae sulle quali si accapigliavano i rispettivi falchi e colombe, gli USA e l’URSS possedevano un potenziale distruttivo che ormai non poteva più essere usato in modo credibile nel confronto bipolare. Oggi si tende a dimenticare, nonostante siano trascorsi solo due decenni, che la delegazione americana e quella sovietica — compresi i rispettivi vertici militari — nel tentativo di risolvere questo problema, si spinsero fino ad esplorare l’ipotesi estrema della completa abolizione delle armi nucleari in dieci anni.
Il secondo aspetto, quello legato alle valutazioni sulla dinamica di sviluppo della balance of power, spiega invece il nulla di fatto con cui si chiuse il vertice in Islanda. Un nulla di fatto che in ultima istanza non fu causato dalla mancanza di fiducia reciproca sulla possibilità di ridurre gli arsenali già esistenti, ma piuttosto dalla diffidenza, rivelatasi insuperabile, verso i rispettivi piani di sviluppo delle forze strategiche di difesa e offesa nucleare. Una diffidenza alimentata dall’assenza di regole ed istituzioni al di sopra delle parti per condividere lo sfruttamento delle nuove tecnologie ma, soprattutto, dall’incertezza che regnava su due fronti cruciali per la sicurezza degli USA e dell’URSS, cioè quello europeo e quello asiatico. In Europa, la preoccupazione principale non era certamente rappresentata dagli arsenali nucleari di Francia e Gran Bretagna. Il governo sovietico, come del resto quello americano, erano ben consapevoli del fatto che la stabilizzazione del continente dipendeva dalla possibilità di neutralizzare il confronto militare tra Mosca e Washington, e non si curavano molto di ciò che le forze nucleari nazionali europee rappresentavano sul piano quantitativo e qualitativo. «Credete davvero che il Primo Ministro Thatcher e il Presidente Mitterrand, o chi succederà loro, potrà, in qualsiasi circostanza immaginabile, premere il bottone nucleare contro di noi? Può la nostra strategia nei confronti dell’Europa basarsi su una simile ipotesi?» chiedevano infatti i sovietici nel loro memorandum interno preparatorio all’incontro di Reykjavik. Ma proprio questa debolezza europea costituiva un problema sia per il governo sovietico sia per quello americano, consapevoli di poter garantire una stabilizzazione solo temporanea e non definitiva dei loro rapporti di forza in un continente così esposto ai venti delle crisi internazionali e regionali, così dipendente sul piano commerciale ed energetico dal resto del mondo e al tempo stesso così debole sul piano militare. L’incognita, o meglio lo spettro, che proprio questo vuoto di potere in Europa potesse acuire la tensione tra le due superpotenze e spingerle ad aumentare il livello del confronto reciproco sul continente, non era eliminabile dal tavolo delle trattative.
In Asia invece la questione si poneva già allora in termini del tutto differenti: né gli USA, né l’URSS potevano ignorare il potenziale di sviluppo, anche nucleare, di paesi come la Cina e l’India. In realtà essi lo consideravano già un dato di fatto. Così, quando nel 1988 l’India propose provocatoriamente un piano Baruch in versione terzomondista in base al quale i paesi in via di sviluppo avrebbero rinunciato al possesso delle armi e alla possibilità di effettuare nuovi test nucleari qualora le due maggiori superpotenze si fossero impegnate a distruggere i propri arsenali entro il 2010, né gli USA di Reagan, né l’URSS di Gorbaciov — che solo due anni prima avevano preso in esame l’ipotesi di abolire le armi nucleari entro la fine del secolo — presero seriamente in considerazione l’offerta. Un episodio questo che rivelò sia la natura provocatoria della proposta indiana, sia la scarsa attendibilità del pacifismo delle due superpotenze.
Il seguito della storia dell’ultima decade del secolo scorso è noto. Mentre USA e URSS ufficialmente riducevano i loro arsenali nucleari, dietro le quinte confermavano il finanziamento dei programmi di sviluppo militare che schiettamente si erano già rivelati nel corso dei colloqui ad alto livello: i primi per allestire uno scudo spaziale che non avrebbe mai visto la luce, ma che avrebbe costituito il punto di riferimento per lo sviluppo della dottrina strategica degli USA in vista del ventunesimo secolo; la seconda per rinnovare la propria capacità di risposta strategica con una nuova generazione di missili (la cui installazione è cominciata durante la presidenza di Putin).
 
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Questa esperienza conferma come nessun tentativo di pacificazione possa rimanere a lungo sul terreno e avere il tempo di radicarsi e svilupparsi al di fuori di un quadro di relativa stabilità politica, economica e militare a livello internazionale. Nel 1985, da Ginevra, gli USA e l’URSS avevano annunciato al mondo che «una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta» e in questa ottica essi avevano rinunciato a «perseguire la superiorità militare». Meno di vent’anni dopo, il Trattato di Mosca del 2002, sanciva sul piano diplomatico quel che era ormai in atto sul piano dei rapporti di forza: la ripresa del confronto regionale e globale tra gli USA e l’erede dell’ex-URSS, la Federazione russa. Infatti, come era stato spiegato ai preoccupati senatori e congressisti americani all’indomani dell’attentato delle Torri gemelle dal rapporto del National Resources Defense Council, quel trattato non conteneva più, a differenza dei precedenti, alcuna «condizione vincolante su ciò che ognuna delle due superpotenze avrebbe potuto fare». La ricerca della superiorità militare ritornava così a dominare, anche ufficialmente, i rapporti russo-americani. Vale la pena ricordare brevemente perché e come si giunse a quel punto a partire dal quale la situazione non ha fatto che peggiorare in termini di sfiducia reciproca e di crescente confronto fra gli Stati.
La cooperazione russo-americana sul terreno del disarmo aveva cominciato ad incepparsi già quando, a partire dalla fine degli anni Ottanta, i rapporti di forza tra i due paesi erano radicalmente mutati. In seguito al crollo dell’URSS si era infatti prodotta una situazione di palese squilibrio di potere a favore degli USA. In queste condizioni gli Stati Uniti fecero il grave errore, favorito dall’assenza di altri poli di potere nel quadro mondiale, di non capire in tempo di non poter assicurare da soli la stabilità internazionale e cercarono invece di consolidare e accrescere la propria superiorità militare a discapito degli altri.
In pochi anni l’inferiorità militare russa si sarebbe rivelata una situazione contingente, mentre la superiorità americana sarebbe stata rapidamente erosa dall’impetuoso succedersi di crisi militari in varie parti del mondo, dall’ascesa delle potenze asiatiche e dalle crisi monetarie e finanziarie internazionali. Ma la precoce fine dell’unipolarismo, il neologismo con il quale la politica cerca di tradurre in termini meno crudi la fine del tentativo egemonico degli USA, non ha però significato l’avvento di un nuovo equilibrio multipolare più evolutivo, nonostante l’affermarsi di nuovi poli di potere sulla scena mondiale. Anzi, nell’era della globalizzazione, le pressoché infinite occasioni di intreccio dei processi produttivi, commerciali e sociali a livello internazionale di fatto accrescono, insieme all’interdipendenza su scala globale, anche le occasioni di confronto e tensione fra i governi nazionali. Per questo oggi, sotto molti aspetti, viviamo in una situazione che, sulla base delle categorie usate da Lord Lothian per analizzare il quadro internazionale tra le due guerre mondiali del secolo scorso, si potrebbe definire di anarchia internazionale, anche se solo pochi, e timidamente, cominciano eufemisticamente a descriverla con un altro ambiguo neologismo: disordine apolare.
I rischi di deterioramento e disintegrazione del sistema internazionale sono però troppo evidenti per poter essere ignorati. Sono questi rischi che hanno indotto ex Segretari di Stato USA come Henry Kissinger e George Schultz (uno dei protagonisti ai negoziati di Ginevra e Reykjavic), o scienziati come Richard Garwin, uno dei progettisti della prima bomba all’idrogeno americana, a reiterare i loro appelli sulla stampa internazionale e su Internet, per liberare al più presto il mondo dal pericolo nucleare. Ed è sempre l’ombra di questi rischi ad aver convinto altri, come per esempio il Presidente del Council for Foreign Relations, Richard Haass, a proporre di promuovere tra «a core group of governments» una rapida transizione ad un multipolarismo cooperativo capace di scongiurare i pericoli insiti nel disordine apolare.
Quest’ultima proposta, se fosse accolta, pur indicando solo un primo passo nella giusta direzione, potrebbe avere una indubbia influenza positiva sull’evoluzione del clima internazionale. Ma chi e come dovrebbe fare il primo passo per promuovere questa transizione verso un ordine cooperativo? Da un lato, nonostante il progressivo indebolimento degli USA e l’innegabile ridimensionamento della Russia, questi due Stati sono i soli ad avere raggiunto e mantenuto il rango di superpotenze nucleari sia a livello regionale (in America, Asia ed Europa) sia a livello globale; e al tempo stesso sono gli unici a condividere la responsabilità storica e politica di aver già sperimentato tutte le possibili fasi della deterrenza — dall’opzione della mutua distruzione assicurata a quelle della risposta flessibile e della guerra limitata — come pure tutte le forme di distensione, da quella basata sull’equilibrio della forza a quella orientata alle prime embrionali forme di sicurezza reciproca. Dall’altro lato il confronto tra USA e Russia nel continente asiatico e in quello europeo mette però in evidenza una sconcertante continuità con la seconda metà del secolo scorso. Mentre in Asia gli USA e la Russia sono sempre più costretti a giocare un ruolo di potenze comprimarie rispetto alla Cina e all’India, in Europa esse continuano a giocare un ruolo primario, in quanto né i maggiori Stati europei (ivi comprese le due potenze nucleari britannica e francese) né l’Unione europea, hanno la volontà, la forza, i mezzi e la credibilità per provvedere da sé alla propria sicurezza. In queste condizioni per gli USA e per la Russia rinunciare ad esercitare un’influenza su parte dell’Europa continua a significare, come vent’anni fa, correre un rischio inaccettabile sul piano strategico.
Del resto fu proprio per cercare di scongiurare questo rischio che dopo la fine della seconda guerra mondiale gli USA e l’URSS cominciarono ad allestire e ad incrementare gli enormi arsenali nucleari sui quali si fonda tuttora il loro confronto. Vale la pena ricordare che questi arsenali, nonostante le riduzioni, insieme rappresentano ancora la quasi totalità di tutte le armi nucleari presenti nel mondo e, separatamente, sono ancora parecchie volte superiori a quelli di tutte le potenze nucleari asiatiche e di quelle europee messi insieme. Se, a causa dell’intrinseca e cronica debolezza degli europei divisi, gli americani non temessero di vedere l’Europa cadere in balia dell’influenza russa, essi non avrebbero motivo di mantenere la loro minaccia nucleare ai confini della Federazione russa. E quest’ultima, se non dovesse preoccuparsi della presenza fisica ai suoi confini della superpotenza nucleare americana avrebbe tutto l’interesse a ridurre significativamente i propri arsenali e a cooperare maggiormente con gli europei. Infatti un polo europeo, anche se dotato di una deterrenza nucleare minima, manterrebbe una sufficiente capacità di dissuasione, ma non potrebbe costituire per la superpotenza russa una minaccia offensiva neanche paragonabile a quella americana.
 
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Sulla base delle osservazioni fatte finora, è dunque possibile mettere in luce il nesso causale che esiste tra la necessità di creare un nuovo quadro europeo, la possibilità di avviare una duratura ed effettiva riconciliazione russo-americana e l’avvio di una nuova era di disarmo nucleare. Se la Comunità europea negli anni Ottanta non ha giocato alcun ruolo per favorire il tentativo di riconciliazione guidato da Reagan e Gorbaciov; se l’Unione europea negli anni Novanta non è stata in grado di disinnescare la strisciante ripresa del confronto tra USA e Russia; se dagli inizi di questo secolo gli europei assistono passivamente alla ripresa del confronto russo americano sul loro stesso territorio, la ragione è sempre la stessa: il quadro istituzionale europeo ha dimostrato di non poter evolvere attraverso una serie infinita di piccoli passi verso un’entità statuale di dimensione continentale capace di diventare un interlocutore alla pari degli altri poli. Ad un certo punto, l’ingresso di un protagonista europeo sulla scena mondiale implica un salto federale, un atto di discontinuità con un’Unione che, nonostante i successi, resta prigioniera del potere degli Stati membri di decidere in ultima istanza sulle questioni cruciali. Occorre cioè creare finalmente uno Stato federale europeo dotato della volontà e dei mezzi minimi, anche militari, per affermare la propria indipendenza rispetto alla Russia e agli USA.
Il fatto che questa prospettiva sia tuttora osteggiata da più parti, è significativo del difficile momento storico che stanno vivendo gli europei. Da un lato i più non si arrendono di fronte all’evidente necessità di superare il quadro esistente per crearne uno nuovo e preferiscono preservare le sovranità nazionali esistenti piuttosto che creare uno Stato federale europeo. Essi negano che questo passo, per quanto difficile, rappresenti ormai la sola politica realistica e praticabile per favorire il rilancio del progetto europeo e, con esso, la transizione ad un multipolarismo internazionale più cooperativo e quindi più innovativo e pacifico. Altri, pur ammettendo la necessità di un polo europeo per stabilizzare gli equilibri mondiali, temendo che la nascita di un nuovo Stato di dimensioni continentali possa esasperare ulteriormente la competizione internazionale, negano la necessità di arrivare alla fondazione di uno Stato europeo.
E’ evidente che la creazione di uno Stato federale europeo non abolirà dall’oggi al domani il rischio della guerra tout court e neppure quello di una guerra nucleare, ma, per il solo fatto di liberare gli USA e la Russia dal vincolo di confrontarsi in Europa, costituirà un enorme passo avanti sulla strada della pacificazione del mondo. Ma c’è di più. Proprio sul terreno nucleare, il modo stesso in cui lo Stato federale europeo potrà dotarsi della sovranità nel campo di una deterrenza minima europea, rappresenterà un fatto del tutto nuovo. Infatti una sovranità europea in campo nucleare potrà ragionevolmente affermarsi se, e solo se, saranno soddisfatte due condizioni, che sono nell’ordine: a) il manifestarsi della disponibilità e della volontà della Francia a trasferire a livello sovranazionale il possesso ed il controllo del proprio deterrente nazionale e b) l’impegno in primo luogo della Germania di condividere con la Francia la responsabilità di governare la politica nucleare europea nell’ambito di un primo effettivo nucleo di Federazione europea. In questa ottica è evidente che la creazione di un polo europeo non avverrà sotto il segno dell’affermazione di un nuovo disegno di potenza o della corsa al riarmo, bensì sotto quello del primo, e per questo rivoluzionario, esempio di cessione volontaria e pacifica della sovranità nucleare da parte di uno Stato nazionale a favore di un livello di governo superiore.
Per concludere non resta che una sola via da percorrere per prevenire la degenerazione del clima di anarchia internazionale e, con ciò, per far fronte alla nuova dimensione del rischio nucleare: tentare di imprimere, a partire dall’Europa, una svolta pacifica allo sviluppo dei rapporti internazionali e del confronto tra USA e Russia. Si tratta di un tentativo difficile, ma non impossibile da fare. Un tentativo che per gli europei rappresenta forse l’ultima opportunità storica per orientare con la loro azione la politica degli altri poli mondiali verso la ripresa del cammino per la pace.
 
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