IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLV, 2003, Numero 3, Pagina 137

 

 

Il ritorno del protezionismo
e le responsabilità dell’Europa
 
 
La causa principale del fallimento della conferenza del WTO di Cancun del 10-14 settembre 2003 sta nel forte contrasto di interessi che ha opposto l’uno all’altro i diversi paesi o blocchi di paesi che in essa si sono confrontati. Ciò significa che Cancun è stato l’effetto di una crisi del commercio mondiale che è in corso da tempo e che a sua volta è l’espressione di profondi squilibri la cui natura è insieme economica e politica.
Il commercio internazionale ha un ruolo decisivo per la crescita dell’economia mondiale, e quindi per l’aumento del benessere dei cittadini delle aree privilegiate del pianeta e per il miglioramento delle prospettive di sviluppo di quelle economicamente emarginate. Esso si espande nei periodi di stabilità politica e si contrae quando i rapporti tra gli Stati si fanno tesi e l’egoismo nazionale prevale sull’interesse alla cooperazione.
Il mercato mondiale è una realtà profondamente diversa dal mercato interno di uno Stato. Entrambi sono disciplinati da regole. Ma quelle che disciplinano il mercato interno di uno Stato — che è un mercato nel senso più pregnante del termine — sono formulate e imposte da un potere sovrano. Mentre quelle che disciplinano il mercato internazionale — che possono essere bilaterali o multilaterali — sono volontarie, in quanto risultano da trattati o da convenzioni, o comunque si basano sulla fiducia reciproca tra i contraenti. Il loro funzionamento dipende quindi essenzialmente dalla buona volontà degli Stati che le hanno accettate. Ed è inevitabile che questa buona volontà sia tanto più forte quanto più i rapporti di potere tra gli Stati coinvolti sono chiaramente delineati.
E’ vero che esistono organizzazioni (in particolare il WTO) che promuovono la formazione delle regole del commercio internazionale e hanno il compito di dirimere le controversie commerciali che nascono da divergenze nella loro interpretazione. Ma queste organizzazioni non dispongono a loro volta di un potere che non sia quello degli Stati che ne fanno parte, e quindi non fanno che rifletterne i rapporti di forza: esse funzionano quando i rapporti di forza tra gli Stati determinano un grado sufficientemente elevato di convergenza tra i loro interessi e non funzionano, o funzionano male, quando questo grado di convergenza di interessi viene a mancare.
Al lontano orizzonte della storia mondiale vi è la nascita di uno Stato federale che abbracci l’intero pianeta. Quando ciò accadrà il mercato mondiale diventerà un grande mercato interno. Ma prima di allora esso si svilupperà, come è sempre avvenuto in passato, soltanto nelle fasi in cui l’egemonia — economica e politica — di una o più potenze-guida sarà in grado di supplire, anche se in modo molto imperfetto, alla mancanza di uno Stato mondiale. Ciò è accaduto nella storia dei due ultimi secoli con l’egemonia della Gran Bretagna sul resto del mondo nel corso del 1800 e con quella esercitata, anche se in misura decrescente, dagli Stati Uniti, nei decenni che hanno fatto seguito alla fine della seconda guerra mondiale, sulla parte del mondo sottoposta al loro controllo.
Si noti che, prima d’ora, la caratteristica degli Stati che hanno fatto da motore dell’economia internazionale è stata quella di avere una bilancia delle partite correnti strutturalmente attiva, compensata da esportazioni di capitale nella forma di investimenti di portafoglio, o di investimenti diretti, o di pagamenti a fondo perduto a favore del resto del mondo, o di quella sua parte sulla quale si esercitava la loro egemonia, e quindi anche dei paesi in via di sviluppo. Si ricordino a questo proposito gli imponenti investimenti inglesi nelle colonie e il decisivo aiuto dato dagli Stati Uniti all’Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale con il Piano Marshall. Ciò significa che l’egemonia delle potenze-guida deve essere non soltanto economica, ma insieme anche politica, e creare larghe aree di interdipendenza che incoraggino la formazione e il rispetto di regole comuni.
 
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Oggi il mondo si trova in una situazione di anarchia. Di conseguenza il commercio mondiale attraversa una fase i cui possibili esiti sono inquietanti e in cui si intravede la rinascita del fantasma del protezionismo. E’ fuori discussione che l’attuale assetto del potere a livello planetario è caratterizzato dall’incontrastato dominio militare e tecnologico degli Stati Uniti. Ma questo dominio non si fonda sul sostanziale consenso di alleati i cui interessi convergano con quelli della potenza egemone. Esso al contrario suscita in questi, divenuti sudditi, un crescente disagio, che sempre più spesso sfocia in un atteggiamento di aperta avversione, ed è quindi fragile e instabile.
Ciò accade perché oggi la potenza egemone non è in grado di produrre al proprio interno un surplus di ricchezza, che possa essere esportato e ripartito con gli altri paesi della sua zona di influenza, promuovendo il commercio internazionale e incrementando così la ricchezza globale. Oggi gli Stati Uniti sono una potenza economica in declino. Si tratta in verità di un declino che è in corso da tempo, perché i conti con l’estero degli USA hanno cessato di essere in attivo dal 1976, e poi in modo sempre più marcato a partire dalla presidenza di Reagan. Ma, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine della guerra fredda, e in modo particolarmente drammatico con la fine della bolla speculativa degli anni ‘90, la salita al potere di Bush jr. e la guerra in Afghanistan e in Iraq, la tendenza si è accentuata di pari passo con l’estensione esponenziale delle responsabilità globali degli USA. E, contrariamente a quanto si verificò dopo la fine della prima e nei primi decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, essi sono oggi i più grandi debitori del mondo: il loro deficit della bilancia delle partite correnti supera il 5% del loro prodotto nazionale lordo e il loro debito pubblico, il cui ammontare è dello stesso ordine di grandezza, è detenuto per quasi la metà da investitori stranieri (si ricordi che la propensione al risparmio delle famiglie americane è uguale a zero). E, cosa che è ancora più preoccupante, entrambi i deficit vanno crescendo vertiginosamente. Gli USA quindi non esportano più ricchezza. Essi esportano soltanto la guerra, mentre importano ricchezza, chiedendo al resto del mondo di finanziare la loro egemonia attraverso la partecipazione alle loro imprese militari, o il loro finanziamento, o attraverso il protezionismo, o l’acquisto da parte di investitori stranieri dei loro Treasury bonds. La loro moneta è certo ancora quella con la quale si effettuano per lo più le transazioni internazionali e che viene detenuta nelle riserve delle banche centrali degli altri paesi. Ma ciò avviene soltanto perché l’euro non ha alle spalle uno Stato che dia sufficienti garanzie di stabilità all’Unione monetaria europea. Di fatto il dollaro si va deprezzando, e corrispondentemente si indebolisce la sua egemonia. E, se questa tendenza dovesse continuare, o addirittura accentuarsi, ciò determinerebbe una crisi di fiducia e perturbazioni finanziarie di incalcolabili proporzioni. La verità è che la ripresa economica americana, apparentemente così vigorosa, è estremamente labile perché si regge sulla ricchezza altrui. Non è quindi da una locomotiva americana, che non esiste più, che è lecito aspettarsi oggi un impulso decisivo al superamento della attuale fase critica dell’economia mondiale.
 
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Ciò non significa certo che la potenza economica (e politica) americana abbia concluso il suo ciclo storico e che essa debba essere sostituita alla guida dell’economia mondiale da un altro attore. Il sistema produttivo degli Stati Uniti resta una grande realtà, ed esso continuerà ad essere decisivo per l’aumento del benessere mondiale nei decenni a venire. Ma gli USA dovranno essere affiancati, in una dialettica insieme di collaborazione e di competizione, da uno o più altri centri mondiali di potere, le cui economie siano fortemente dinamiche e aperte nei confronti del resto del mondo e siano in grado di liberare gli Stati Uniti dall’insostenibile peso che l’esercizio solitario della loro egemonia comporta. Gli USA potrebbero in questo modo spogliarsi del ruolo di gendarme di un ordine mondiale che comunque non sono in grado di mantenere e impiegare le risorse che verrebbero così rese disponibili nella promozione della pacifica collaborazione, dell’interscambio e dello sviluppo nell’ambito di aree regionali più ristrette.
L’attore che sembra destinato a svolgere questo compito per il livello del reddito complessivo, per il grado di sviluppo tecnologico e per il grande mercato di cui dispone è l’Unione europea, e in particolare i paesi che compongono l’Unione monetaria. E’ vero che esistono oggi altre aree del mondo il cui grado di sviluppo è assai avanzato o la cui economia si sta espandendo a un ritmo vertiginoso. L’attenzione degli osservatori si appunta soprattutto sulle due grandi potenze economiche dell’Estremo Oriente, il Giappone e la Cina. Ma si tratta di due paesi che hanno entrambi grandi debolezze. Il Giappone non è ancora uscito da una fase di stagnazione che dura da più di un decennio. La Cina, che pur è in una fase di forte sviluppo, ha un prodotto interno lordo pari a circa un quarto di quello giapponese per una popolazione dieci volte superiore. Ma, soprattutto, entrambi i paesi sono grandi esportatori netti e non dispongono di vaste zone di influenza in cui investire e di cui promuovere l’espansione (anche se bisogna ricordare che le importazioni della Cina sono in aumento e che una zona di influenza cinese in Asia orientale è in via di formazione). Per Cina e Giappone quindi l’eccedenza delle esportazioni sulle importazioni è in gran parte uscita di ricchezza reale dal paese in cambio di dollari in via di deprezzamento. E questi vengono in gran parte investiti in bonds USA, e quindi servono per finanziare la potenza militare americana; e in parte vengono sterilizzati nelle enormi riserve delle banche centrali. La realtà è che sia in Cina che in Giappone, a fronte dell’attivo della bilancia dei pagamenti, esiste un vastissimo settore produttivo fortemente protetto, destinato esclusivamente a rifornire il mercato interno e che, per ragioni in parte diverse (la struttura feudale e la dipendenza dai potentati politici di una parte dell’economia, e la fragilità del sistema bancario, soffocato da enormi crediti inesigibili, nel caso del Giappone; la massiccia presenza dell’esercito e della burocrazia statale nell’economia cinese, che è ancora lontana dall’essersi liberata dalla gabbia del controllo centralizzato della produzione) ha una bassissima produttività e non può essere aperto, se non in piccola parte, alle importazioni dal mondo industrializzato. A ciò si aggiunga che, nel caso del Giappone, il mercato interno è relativamente ristretto, né può integrarsi, secondo il modello del mercato unico europeo, con quelli dei paesi vicini, dai quali il Giappone è separato da un profondo fossato di diffidenza.
 
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Rimane quindi l’Europa. Ma oggi gli Stati membri dell’Unione, e più in particolare quelli dell’area dell’euro non possono assumere, in collaborazione con gli Stati Uniti, il ruolo di locomotiva dell’economia mondiale perché la compresenza in essa di un’unica moneta governata da un’unica Banca centrale e di dodici distinte politiche economiche, di cui sono responsabili i governi di dodici distinti Stati sovrani, costringe i paesi che ne fanno parte a misure che impediscono il rilancio delle loro economie. Poiché essi intendono mantenere in vita l’Unione senza un potere democratico che la governi, essi devono, da una parte, vincolare reciprocamente le loro politiche di bilancio (attraverso il «Patto di stabilità») e, dall’altra, sottoporsi ad una rigida disciplina della concorrenza, delegata alla Commissione di Bruxelles. E’ noto che sia i vincoli di bilancio che la disciplina della concorrenza sono oggetto di continui mercanteggiamenti e compromessi e vengono spesso aggirati o semplicemente disattesi dagli Stati membri. Ma è anche evidente che la loro mancata osservanza non può superare certi limiti, se non si vuole che la stessa moneta europea sia vittima dei comportamenti irresponsabili dei governi. Questi sono quindi imbrigliati da condizionamenti che costituiscono un forte freno allo sviluppo. E questo non può che impedire all’economia europea di riprendere slancio, e quindi di imprimerne all’economia mondiale. E’ così che l’Europa vegeta ai margini dell’equilibrio economico (oltre che politico) internazionale, compromettendo insieme il benessere dei suoi cittadini e lo sviluppo del commercio globale.
La crescita economica dell’Europa è impedita dalla sua divisione. Le sue enormi potenzialità sono sterilizzate dalla mancanza di un potere politico europeo che assicuri il governo dell’Unione monetaria, crei le condizioni di una politica economica espansiva e costituisca un polo attivo di un equilibrio economico e politico mondiale più stabile ed evolutivo.
L’unificazione federale dell’Europa sarebbe il più chiaro dei segnali di un’inversione radicale dell’attuale, catastrofica tendenza verso un aumento del protezionismo e dell’instabilità. E’ un dato di fatto che certe incrostazioni protezionistiche, come la politica agricola comune, non potrebbero essere eliminate da un giorno all’altro. Ma esse potrebbero compiere importanti passi verso la propria liberalizzazione. In ogni caso, la nascita di una nuova realtà statale europea, anche se inizialmente limitata ad un nucleo relativamente ristretto, darebbe un forte impulso alla nascita di un equilibrio mondiale aperto e pacifico, e quindi favorirebbe una forte crescita del commercio internazionale. In un clima improntato alla stabilità e alla cooperazione il problema rappresentato dalle eccedenze della Cina e del Giappone potrebbe essere risolto non certo restringendone le esportazioni o tentando di imporre un apprezzamento delle loro monete, ma aiutandoli a creare le condizioni interne per l’aumento delle loro importazioni, e quindi aumentando la loro ricchezza e quella globale. Un governo federale europeo potrebbe esercitare un importante ruolo di promozione dello sviluppo e dell’unità dei paesi del Medio Oriente e proporsi come attivo mediatore nel conflitto israelo-palestinese, che costituisce un permanente fattore di paralisi per l’intera regione. Si ricordi che il successo, anche se poco più che simbolico, di Chirac, Schröder e Blair nella loro missione in Iran è stato comunque una spia significativa del grande bisogno di Europa che esiste nella regione. In un equilibrio di questo genere aumenterebbe lo spazio a disposizione degli altri poli potenziali dell’economia mondiale per dare impulso alloro sviluppo produttivo e per risolvere i loro gravi problemi interni. E l’Europa, instaurando un clima di fattiva cooperazione, non potrebbe che dare un forte contributo positivo alla tutela dell’ambiente e al progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro nelle economie in sviluppo senza pregiudicarne la competitività, nonché al decollo, anche attraverso qualche forma di protezionismo asimmetrico, delle economie africane.
Ma l’attuale Unione europea è priva degli strumenti necessari per raggiungere questo obiettivo. Per liberarsi dai vincoli che la sua divisione comporta e per portare avanti un grande disegno di politica economica che abbia come scopi un forte incoraggiamento alla ricerca scientifica, un vigoroso sviluppo tecnologico e la realizzazione di una vasta rete di infrastrutture, è necessario che al centro dell’Europa si manifesti concretamente la volontà di fermare la deriva attuale dell’Unione verso l’anarchia e la crescente incapacità di agire. E’ necessario che, in luogo dell’attuale debole confederazione, paralizzata dalla necessità di ricorrere permanentemente a macchinosi e sterili compromessi, e quindi condannata alla stagnazione economica e all’arretratezza tecnologica, nasca un vero potere democratico, pacifico ma forte, capace di mobilitare le risorse della propria economia e il consenso dei propri cittadini. Si tratta di un potere che non potrà nascere che nel quadro ristretto dei paesi fondatori, ma che, a partire da questo quadro, darà slancio alle economie degli altri paesi dell’Unione nell’ambito del grande mercato unico, e si allargherà progressivamente fino a raggiungere i confini dell’Unione attuale e di quella più vasta che sta per nascere.
Non esiste altra strada per ridare vigore al commercio mondiale e per favorire lo sviluppo dei paesi poveri ed emarginati. Né esiste altra strada per fermare la spirale perversa dell’anarchia e del protezionismo, che stanno facendo riemergere i minacciosi fantasmi di un passato che si sperava definitivamente concluso.
 
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