IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIX, 1987, Numero 2, Pagina 99

 

 

Due possibilità per la difesa europea
 
 
Le trattative sovietico-americane in vista dell’obiettivo della doppia opzione zero hanno rimesso in primo piano il problema della difesa europea. Il fatto è che dopo Reykjavik si sta delineando con contorni sempre più realistici la prospettiva di un disimpegno americano — anche se parziale e graduale — dal teatro europeo, del quale la doppia opzione zero non configura che il risvolto nucleare, ma che investirà a termine anche gli armamenti convenzionali.
Gli Europei sono quindi posti dall’evolvere degli avvenimenti di fronte alle loro responsabilità, ed è inevitabile che l’aspettativa di un indebolimento dell’ombrello americano evochi la risposta — quantomeno verbale — della difesa europea. L’atteggiamento degli Europei presenta però una singolare cecità, che trascina alcuni su una via reazionaria, e condanna gli altri all’impotenza. E’ un fatto: a) che l’esigenza della difesa europea viene sottolineata soprattutto in certi ambienti conservatori che non nascondono la loro avversione per il processo di disgelo in corso tra le due superpotenze e per la prospettiva del ritiro dei missili a medio e a corto raggio dal continente e che conducono battaglie di retroguardia come quella dei Pershing 1; b) che la sinistra, anche quando parla di difesa europea, non sa indicare alternative credibili ed efficaci. La cecità sta in ciò: si parla della difesa europea, ma non si tiene presente che le possibilità sono due: 1) una difesa europea che resta nel quadro del bipolarismo, 2) una difesa europea che, per il solo fatto di costituirsi, lo supera.
La difesa europea che resta nel quadro del bipolarismo e ne alimenta e subisce il carattere egemonico, è quella dell’Europa non ancora unita politicamente (Stati nazionali che conservano la sovranità militare, loro debolezza e incapacità di difendersi da soli, bisogno della protezione americana). La difesa europea che supera il bipolarismo è quella del senso letterale del termine: una difesa europea nelle mani di un governo europeo. Questa Europa (la Comunità a 12), con i suoi 320 milioni di abitanti e le sue risorse culturali, non avrebbe bisogno né della protezione americana, né di una corsa agli armamenti per bilanciare la forza dell’URSS.
Questa possibilità resta inesplorata perché il problema della difesa europea viene sempre inquadrato sia dai politici che dagli osservatori nella cornice dell’equilibrio bipolare, cioè in uno scenario internazionale nel quale l’equilibrio delle forze e la natura dell’equazione strategica rimangono sostanzialmente invariati. In quest’ottica, difesa europea significa soltanto maggior contributo europeo alla difesa americana dell’Europa e quindi, per l’Europa, maggiori spese militari e crescente militarizzazione della società. E’ evidente che, se si mantiene la prospettiva bipolare e si accrescono le responsabilità europee in questo quadro, l’Europa è destinata a diventare, in quanto regione più esposta del Patto Atlantico, l’area più interessata a rafforzare gli armamenti di teatro sia nucleari che convenzionali (nell’illusione di ricostituire un deterrente che ha ormai perso la sua credibilità) e quindi a ostacolare il consolidamento della distensione. E questa tendenza, si noti bene, sarebbe tanto più forte in quanto, permanendo in ipotesi la divisione dell’Europa, e quindi la sua debolezza politica di fondo, la soluzione del problema della sicurezza non potrebbe essere vista che in termini esclusivamente militari.
 
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Questo solo fatto è sufficiente a mostrare l’inconsistenza della realtà che si nasconde dietro l’idea di difesa europea quale essa appare negli slogans degli uomini di governo europei. Il fatto è che un ipotetico esercito europeo senza un governo europeo significherebbe semplicemente una dittatura militare (o la sottomissione di fatto delle forze armate europee al governo americano). D’altra parte, è impensabile che un esecutivo europeo, dotato della pienezza delle competenze di un vero e proprio governo, venga creato de toutes pièces da un giorno all’altro. Ne consegue che la formula della difesa europea copre soltanto, nei discorsi dei politici e nelle elucubrazioni dei giornalisti, il disegno più o meno consapevole di una alleanza tradizionale — verosimilmente dietro il paravento dell’UEO — con tutte le sue inefficienze e le sue debolezze. Si tratterebbe quindi di una soluzione che non farebbe che peggiorare la situazione attuale in quanto a) costituirebbe soltanto un complemento della difesa americana dell’Europa, e quindi ricadrebbe nella logica della contrapposizione tra blocchi, perpetuandone i rischi e le tensioni, b) sarebbe meno integrata del sistema difensivo attuale perché il maggior grado di autonomia, per quanto piccolo, dei governi europei rispetto a quello americano e nei loro rapporti reciproci comporterebbe un appesantimento del processo decisionale e c) sarebbe costretta a compensare la sua minore efficienza politica e organizzativa con un maggiore impegno militare, soprattutto nel settore convenzionale, che riguarda direttamente tutta la società (con il servizio militare obbligatorio) e sviluppa pertanto più il bellicismo che il pacifismo nel modo di sentire della popolazione.
 
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Si tratta dunque di modificare radicalmente l’approccio al problema della sicurezza dell’Europa e di affrontarlo in primo luogo nella sua dimensione politica, anziché in quella militare. Il nocciolo della questione sta nell’accelerare e nel dare una fisionomia positiva al processo di evoluzione dell’equilibrio mondiale verso il multipolarismo. Si tratta di un processo che è già in corso, ma che per ora appare soltanto nel suo aspetto negativo di progressivo indebolimento della leadership della due superpotenze. Ciò significa che oggi un tipo di ordine si sta dissolvendo senza che si veda la prospettiva concreta della nascita di un equilibrio nuovo, più aderente ai rapporti di forza reali, non solo politico-militari, ma anche industriali, commerciali e culturali, e quindi più pacifico e progressivo dell’attuale. Il risultato di questa evoluzione è soltanto l’anarchia, il moltiplicarsi dei conflitti locali e l’aumento esasperato delle spese militari.
L’Europa è il solo luogo nel quale l’inversione di tendenza potrebbe avere inizio in tempi relativamente brevi. Nel presente stato delle cose è tuttavia impensabile che la cessione di sovranità — senza la quale un vero polo europeo non potrebbe comunque nascere — avvenga direttamente sul piano militare, cioè nel settore che costituisce il baluardo più solido delle sovranità nazionali. E’ molto più realistico pensare ad un processo graduale, il cui primo passo avvenga in un settore come quello economico-monetario, nel quale sarebbe più difficile per i governi e le forze politiche dire di no ad una sostanziale cessione di sovranità, sia perché essa è necessaria per unificare davvero il Mercato comune entro il 1992, sia perché essa sarebbe percepita come il naturale sviluppo di iniziative già avviate e di istituzioni già esistenti.
Si noti che l’approccio economico-monetario, oltre ad essere più realistico, si colloca anche, contrariamente al precedente, nella linea del processo distensivo in corso. L’Europa non si presenterebbe più come l’alleato recalcitrante degli Stati Uniti, che tenta di boicottare gli sforzi che questi ultimi e l’Unione Sovietica stanno compiendo in direzione del disarmo. Essa si presenterebbe al contrario come un grande polo economico (intrinsecamente pacifico perché militarmente meno sviluppato delle due superpotenze, e quindi interessato alla creazione di equilibri strategici a livelli di armamenti sempre più bassi) in grado di assumere precise responsabilità nel governo di settori che oggi sono una fonte permanente di grave instabilità, come quelli dell’indebitamento dei paesi del Terzo mondo, del funzionamento del sistema monetario internazionale, delle crisi regionali, a incominciare da quelle del vicino Oriente e del Golfo, alla cui soluzione pacifica gli Europei hanno un interesse immediato e vitale. La maggior parte dei commentatori del resto concorda nel ritenere che la minaccia che grava oggi sull’Europa occidentale da parte dell’Unione Sovietica non è militare ma politica: si tratta, in ultima istanza, del pericolo del distacco della Germania dal resto dell’Europa, o della «finlandizzazione» di quest’ultima. Ed è evidente che la sola risposta ad un pericolo di natura non tanto militare quanto politica debba essere essa stessa politica e non militare.
 
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Solo nella prospettiva di un’ordinata transizione al multipolarismo — in vista della quale la creazione di un’Unione economico-monetaria in Europa costituirebbe un passo decisivo — diventerebbe realistico lo scenario della nascita del primo embrione di un governo positivo dell’economia mondiale, sempre più necessario, in effetti, in un quadro di crescente interdipendenza come quello attuale. E’ importante rilevare che oggi ci troviamo alla fine di un ciclo nel quale all’economia mondiale — o meglio all’economia del mondo occidentale —è stato in qualche modo garantito un ordine grazie alla leadership americana. Oggi la leadership americana è in declino, logorata dal peso del suo stesso esercizio, continuato per quarant’anni. E ciò provoca la crisi del governo dell’economia internazionale, che potrebbe essere superata soltanto con la creazione di un nuovo ordine politico, fondato sulla collaborazione tra grandi poli ugualmente autonomi e responsabili.
Non è certo questa la realtà che sta sotto i cerimoniali sempre più vuoti, ma sempre più spettacolari, dei Vertici dei capi di governo dei cinque o dei sette paesi più industrializzati del mondo. Questi Vertici (che, come tutti i Vertici, ivi compresi quelli USA-URSS, rivestono un ruolo di direttorî quando ricorrono con una certa regolarità ed esercitano un certo controllo settoriale escludendo dalle decisioni i paesi meno forti) sono il tipico mezzo di espressione dell’imperialismo contemporaneo nella fase di transizione dal bipolarismo al multipolarismo, che crea per definizione una situazione in bilico tra l’egemonismo e l’anarchia internazionale (i Vertici attivi nelle integrazioni regionali costituiscono un caso a parte). Anche a questo riguardo c’è una singolare cecità. E’ stupefacente, ad esempio, come non si veda che un eventuale ordine monetario basato sul dollaro, lo yen e il marco tedesco impedirebbe la formazione di una moneta europea, facendo prevalere una tendenza imperialistica sulla tendenza — di per sé egualitaria per i paesi coinvolti — verso l’integrazione europea.
E’ con questi Vertici-direttorî, in ogni caso, che la potenza egemone in declino tenta di compensare la propria crescente impotenza mediante il coinvolgimento dei più importanti tra i suoi satelliti nel processo decisionale, nell’intento di avvalorare l’immagine di una collaborazione o addirittura di una integrazione tra le politiche economiche (e le politiche estere) della potenza egemone e quelle dei suoi alleati. La verità è che l’arroganza dei Vertici (si ricordi il vandalico scempio di cui è stata vittima la città di Venezia) maschera di fatto il contrario dell’integrazione, in quanto si propone l’impresa impossibile di risolvere i problemi di un’economia mondiale sempre più interdipendente attraverso la rissosa «collaborazione» tra una superpotenza — gli Stati Uniti — che non è più in grado di garantire con le sue sole forze l’ordine economico mondiale, e i più importanti tra i suoi satelliti, che hanno interessi diversi da quelli degli Stati Uniti e che, approfittando dell’indebolimento di questi ultimi, hanno acquisito l’autonomia sufficiente per sottrarsi parzialmente alla loro egemonia, ma non il peso necessario per esercitare le responsabilità che gli Americani hanno dovuto abbandonare.
L’impotenza dei Vertici e il loro carattere strutturalmente imperialista emergono chiaramente dalla circostanza che essi pretendono di governare l’economia mondiale escludendo sistematicamente sia l’Unione Sovietica che l’intero Terzo mondo, cioè quella stragrande maggioranza della popolazione mondiale dal cui destino dipende il destino di tutto il pianeta, e in particolare della sua parte industrializzata. Non si tratta quindi, come fa in genere la sinistra europea, di chiedere ai Vertici decisioni diverse e di contenuto più democratico e avanzato, perché è il metodo stesso dei Vertici che costituisce la negazione della democrazia, nella misura in cui esso si identifica nel tentativo, peraltro vano, di risolvere i problemi mondiali imponendo la supremazia di un piccolo numero di Stati sugli altri e quindi rafforzando l’apparenza, se non la sostanza, della sovranità dei primi. Si tratta quindi di imboccare il cammino opposto a quello dei Vertici, e di rendersi conto che il solo modo per avviare a soluzione il problema del governo del mondo è quello della creazione di poli di integrazione regionali, a cominciare dal polo europeo. Ciò comporta che si prenda chiaramente coscienza del fatto che la politica dei Vertici è alternativa a quella dell’integrazione europea e di ogni altra forma di integrazione regionale.
 
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