IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIV, 2012, Numero 3, Pagina 182

 

 

LA TRAGEDIA SIRIANA E
LE RESPONSABILITÀ DEGLI EUROPEI*
 
 
In Siria si sta consumando l’ennesima tragedia senza che né l’ONU né l’Europa, la quale avrebbe più interesse di altri continenti a garantire la sicurezza e la prosperità nel bacino del Mediterraneo e nel Medio oriente, sappiano offrire una soluzione politica al dramma umanitario che si sta compiendo e alla disintegrazione di un altro Stato nel mondo arabo.
Lo stallo è totale. Il Consiglio di sicurezza dell’ONU è bloccato dal veto di Cina e Russia a qualsiasi risoluzione di condanna della Siria. L’inviato dell’ONU, l’algerino Lakhdar Brahimi, ha dovuto dichiarare forfait nel negoziare una tregua che non è mai cominciata. Da parte loro gli USA non hanno in questo momento né l’autorità, né i mezzi, né la volontà per imporre una soluzione, come dimostrano le difficoltà nel cercare di coagulare e di far dialogare le diverse anime dell’opposizione al regime di Assad. Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha addirittura denunciato il fatto che alcune parti, come il Syrian National Council (SNA), basato all’estero, “non può arrogarsi il titolo di leader dell’opposizione. Può solo essere parte di un fronte di opposizione più largo che includa persone che vivono in Siria e altri che abbiano la necessaria legittimità per farsi ascoltare” (Reuters, 31/10/12). Tra i paesi europei, quelli con maggiori velleità in campo internazionale, come la Francia e la Gran Bretagna, sono consapevoli dei rischi che correrebbero ad intervenire in nome della difesa dei principi umanitari contro uno dei più potenti eserciti del mondo come quello siriano — oltretutto spalleggiato da Cina, Russia ed Iran —, e per questo si limitano a dichiarazioni di mera condanna verbale.
Ma è soprattutto l’Unione europea, come sempre impotente e divisa sul terreno della politica estera e di sicurezza, e in più in piena crisi economica, che non può permettersi di fare altro che esprimere sgomento per quel che sta accadendo (come è successo in occasione del Consiglio europeo di ottobre) ben sapendo di non avere né la forza, né le risorse, né la credibilità per modificare realmente la situazione. Del resto la credibilità dell’Europa, oltre ad essere stata minata dagli innumerevoli insuccessi già collezionati nella crisi medio-orientale, è stata, se possibile, ulteriormente messa in dubbio dopo le deludenti ed insufficienti politiche promosse dagli europei a favore dell’evoluzione democratica e di una nuova fase di sviluppo dopo la primavera araba.
Gli europei stanno dunque drammaticamente ripetendo gli errori che hanno già commesso negli ultimi decenni quando si è trattato di affrontare le crisi nei Balcani, in Africa e in Medio oriente.
Il fatto è che la Siria, oltre ad essere nel mezzo dell’emergenza umanitaria, è sull’orlo della disintegrazione. Sono già almeno sei le zone dove le forze che si combattono, quelle governative e quelle dei diversi fronti d’opposizione, compreso il Free Syrian Army (FSA), che ha spostato il suo centro operativo dalla Turchia in Siria, si contendono le parti vitali dello Stato siriano. Si tratta di Damasco, controllata dal regime ma non sicura (nella capitale è presente una forte opposizione sunnita); delle province orientali della Siria, Idlib ed Aleppo, per lo più già controllate dal FSA, ma sottoposte a bombardamenti; delle periferie dei grandi centri urbani, che vedono contrapposte confessioni religiose diverse, clan di interessi economici contrapposti; delle zone di confine con la Turchia, il Libano e la Giordania, e che sono già sottoposte alla pressione di centinaia di migliaia di profughi che cercano di fuggire dalle zone urbane bombardate dal regime; la regione che si affaccia sul Mediterraneo, fedele al regime (sulla costa prevalgono gli alauiti, favorevoli ad Assad); quelle da sempre contese dalla minoranza curda.
Lo spettro di una nuova balcanizzazione nel cuore del Medio oriente rischia pertanto di diventare realtà, con tutte le conseguenze e le implicazioni che ciò avrebbe in termini di sofferenze umane, danni materiali, instabilità politica e nuovi conflitti.
Per questo gli europei non possono e non devono limitarsi ad esprimere sdegno per la tragedia siriana. Essi dovrebbero al più presto farsi garanti di un preciso disegno politico di pacificazione, di transizione alla democrazia, e di avvio di un piano di cooperazione per lo sviluppo nella regione.
Il fatto è che in questo momento gli europei non sono in grado di assumersi questa responsabilità, né sul piano politico, né su quello economico né tantomeno su quello della garanzia della sicurezza militare. Ma, poiché devono uscire da una crisi, quella del debito sovrano, che rischia di far naufragare lo stesso progetto di unità europea, nelle prossime settimane dovranno dimostrare a sé stessi e al mondo se vogliono oppure no dotarsi degli strumenti per governare democraticamente la propria moneta e rilanciare lo sviluppo, realizzando la federazione europea a partire dall’eurozona, oppure se preferiscono rimanere prigionieri delle velleità nazionali e di un sistema di governo dell’euro anacronistico e contro ogni logica politica, istituzionale e di legittimità democratica, che li relega al ruolo di comparse in campo internazionale. Questo significa che nel giro di qualche settimana gli europei dovranno decidere gran parte del proprio destino. Un destino da cui dipenderà anche la scelta degli strumenti e delle risorse per contribuire a sciogliere i nodi della politica internazionale, a creare un nuovo quadro di cooperazione su scala mondiale, a rilanciare il ruolo dell’ONU, ad attuare nei fatti, e non solo a parole, una nuova politica nei confronti del Mediterraneo e dei paesi arabi.
In conclusione, gli europei che vogliono davvero aiutare i siriani a uscire dalla tragedia che stanno vivendo, devono dimostrare di essere in grado di prendere le buone decisioni sia nelle prossime riunioni dei Capi di Stato e di governo, sia attraverso le iniziative dei parlamentari europei e nazionali, al fine di realizzare quel governo federale indispensabile alla salvezza dell’euro e quindi dell’economia, del commercio e anche già di una parte significativa della politica estera —, che completi il progetto politico che fu alla base della creazione della moneta unica. Solo così potranno avviare subito:
— le politiche economiche, fiscali e di bilancio necessarie al lancio di un New Deal europeo che sia strettamente collegato alle prospettive di cooperazione con i paesi del mondo arabo che siano disposti: a) ad abbracciare la democrazia, ripudiare la violenza e liberarsi dei regimi dittatoriali; b) a condividere con gli europei quei progetti di sviluppo comuni, specialmente nel campo della produzione delle energie rinnovabili e della creazione di infrastrutture, indispensabili per ridare una prospettiva di progresso su entrambe le sponde del Mediterraneo;
— la definizione di una politica estera e di sicurezza che metta gli europei in grado di diventare dei soggetti credibili in campo internazionale: a) impegnandosi a farsi garanti della sicurezza reciproca tra i paesi che accetteranno di cooperare per lo sviluppo; b) promuovendo una nuova era di cooperazione con i poli continentali extraeuropei, per i quali l’Europa rappresenta ancora un crocevia vitale del commercio e dell’economia globali, e quindi un partner da cui non si può prescindere per governare la globalizzazione.


* Dichiarazione del Movimento federalista europeo del 12 novembre 2012.

 

 

 

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