IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIX, 2017, Numero 1, Pagina 73

 

 

LE RAGIONI DELL’EUROPA

 

Pubblichiamo gli interventi alla sessione su Presente e futuro dell’Europa svoltasi nel quadro della giornata Le ragioni dell’Europa organizzata il 4 febbraio 2017 dalla Scuola di cittadinanza e partecipazione di Pavia in collaborazione con il Movimento federalista europeo. Alla sessione hanno preso parte: Mons. Corrado Sanguineti, Vescovo di Pavia, Marta Cartabia, vice-Presidente della Corte Costituzionale, Alberto Majocchi, Professore emerito di Scienza delle finanze dell’Università di Pavia, e Giulia Rossolillo, Professore di Diritto dell’Unione europea dell’Università di Pavia.

 

PRESENTE E FUTURO DELL’EUROPA.
UNA CONVERSAZIONE
*

 

1. Le crisi dell’Europa.

“Che cosa ti è successo Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e delle libertà?” Con queste parole, che ci sono state ricordate dall’intervento di monsignor Sanguineti, è risuonata la domanda di papa Francesco nella Sala regia del Palazzo apostolico vaticano in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno[1] il 6 maggio 2016.

“Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e delle libertà”, o “Europa nonna e non più fertile e vivace”,[2] come incalzava lo stesso papa Francesco davanti al Parlamento europeo a Strasburgo il 25 novembre 2014?

Un’altra voce, quella di Giorgio Napolitano, amante dell’Europa e convinto sostenitore del progetto europeista, estimatore di Altiero Spinelli, uno dei padri fondatori, ha detto recentemente: “L’Europa è in un turbine di problemi e di tensioni al suo interno e nell’impatto con l’esterno, di sfide e di interrogativi”.[3] Prestando attenzione alle parole, non può non colpirci il loro orientamento semantico: turbine, problemi, sfide, tensioni, interrogativi.

Non sono solo due tra i più grandi osservatori del fenomeno europeo ad accusare un senso di stanchezza e difficoltà di questa nostra Europa, ma la stessa opinione pubblica, la gente comune. Per gli studenti che assiepano questa sala, che cos’è l’Europa? La sentono parte della loro quotidianità? La sentono vicina, incidente sul loro modo di vivere, di lavorare, di studiare, di portare benessere alla loro vita quotidiana?

Osservatori di alto rango, la gente comune, i giovani, gli stessi studiosi dell’Europa non fanno che parlare di crisi. Negli ultimi tempi, le riviste scientifiche che si occupano di Europa sono infarcite di studi su ogni tipologia di crisi che investe l’Unione europea. Solo per ricordare uno dei più recenti contributi dell’accademia italiana, il terzo volume del 2016 della Rivista trimestrale di diritto pubblico[4] ha raccolto una serie di articoli molto interessanti incentrati sulla crisi europea e introdotti dalle acute note di Luisa Torchia, In crisi per sempre? L’Europa tra ideali e realtà, che spaziano con un ampio spettro di analisi su argomenti come la crisi economica e sociale, l’immigrazione, i diritti fondamentali, la sicurezza e la crisi politica e amministrativa.[5]

Sono passati solo quindici anni dall’inizio del secolo, quando l’Europa era stata investita da un’ondata di passione e di vitalità. Era il momento in cui si scriveva la Carta dei diritti dell’Unione europea, si elaborava il progetto di Trattato per una costituzione dell’Europa, si affrontava con entusiasmo quel grande allargamento che improvvisamente ha portato dieci paesi dell’Europa centro-orientale a unirsi finalmente, a ricongiungere quei due polmoni, abbattendo un muro che sembrava incrollabile. Era l’inizio del secolo.

Quindici anni dopo, guardiamo all’Europa con uno sguardo preoccupato di fronte a una crisi che è innegabile. Ci sono fattori oggettivi che stanno mettendo una grande pressione al fenomeno europeo. Ne citiamo solo alcuni, tra cui, innanzitutto, non possiamo non menzionare il debito pubblico e la crisi economica e finanziaria che dal 2008 ha investito la maggior parte dei paesi occidentali colpendo così duramente l’Europa, da mettere in moto una serie di misure che hanno inciso in profondità sulle politiche economiche dei paesi membri. La crisi del debito sovrano della Grecia è stato forse il punto più acuto, ma anche il nostro paese è stato aspramente investito da queste problematiche. Il 5 agosto 2011, Trichet e Draghi hanno inviato un’importante lettera al nostro paese, che ha dettato un cambio di rotta nelle politiche economiche, imponendo severe misure di tagli alle spese, di austerità e anche di compressione delle prestazioni sociali.

È sotto gli occhi di tutti la grande crisi demografica con il forte impatto dovuto all’immigrazione. Il fenomeno migratorio non è certamente nuovo, non è da oggi che l’Europa è interessata dall’afflusso di grandi masse migratorie che arrivano in Europa cercando lavoro, cercando benessere e sollievo da situazioni economicamente e socialmente insostenibili. Da molto tempo, approdano dall’Africa sui nostri lidi persone che cercano semplicemente condizioni accettabili di vita. Anche in questo caso, è emerso un punto particolarmente acuto: nell’estate del 2015, la grande crisi medio-orientale della Siria, ha causato un enorme afflusso improvviso di persone che puntavano al nostro continente, mettendo in crisi le misure e le strutture fino ad allora allestite per gestire il fenomeno migratorio.

Un terzo aspetto di crisi è sicuramente legato al terrorismo: Charlie Hebdo, il Bataclan, Bruxelles, Nizza, le metropolitane, i camion impazziti che uccidono le persone senza una ragione e tutti gli altri eventi a cui la cronaca, purtroppo, non manca di esporci negli ultimi mesi. Questi fatti sono fatti innegabili e stanno mettendo a dura prova la nostra sicurezza in Europa. Dal punto di vista di uno studioso delle strutture istituzionali e costituzionali, ciò su cui ci si interroga è il nuovo e diverso livello di crisi che questi cambiamenti storico-sociali stanno introducendo e che si colloca significativamente su un piano istituzionale, mostrando un’imprevista debolezza delle strutture dell’Unione europea così come le abbiamo conosciute e come ci sono state consegnate.
 

2. Quale idea di crisi?

Vorrei sottolineare due livelli, uno più profondo dell’altro, di crisi istituzionale a cui stiamo assistendo. Innanzitutto, di fronte alla pressione di fatti così intensi e gravi, che stanno cambiando il nostro modo di vivere, assistiamo a significative e dirompenti forze centrifughe che creano distanze e allentano i legami fra i paesi dell’Unione europea. Per esempio, è palpabile la distanza culturale che genera diffidenza tra i paesi debitori, prevalentemente concentrati nel sud dell’Europa, e i paesi creditori, che sembrano avere una superiorità morale nei confronti dei primi. La stessa struttura dell’Unione, di fronte alle questioni economiche che si sono dovute affrontare ha utilizzato organismi diversi dalle istituzioni comunitarie. Il Fiscal compact e le altre misure contro la crisi economica sono stati assunti nell’ambito di un livello di cooperazione intergovernativa fra Stati estranei alla Commissione, al Consiglio e al Parlamento europeo.

Per quanto riguarda l’immigrazione, immediatamente, di fronte alle pressioni del 2015, un numero cospicuo di Stati ha sospeso l’accordo di Schengen — che magari non conosciamo o non sappiamo esattamente che cosa riguardi, ma di cui beneficiamo ogni giorno — che ci permette di muoverci all’interno del continente europeo senza essere fermati alla frontiera. Di fronte alla pressione improvvisa dell’immigrazione e degli attacchi terroristici — spesso si sono confusi i due piani — sono state rapidamente sospese quelle misure che ci hanno permesso di beneficiare di una grande libertà di circolazione grazie a cui — ne siamo coscienti o meno — di fatto ci muoviamo sul continente come cittadini europei.

Ancora, i recentissimi sviluppi nelle vicende politiche dei paesi occidentali hanno mostrato un netto distacco, di cui Brexit è solo la più evidente espressione. Una delle grandi potenze europee ha deciso di lasciare l’Unione e, almeno dai pronunciamenti inziali dei due nuovi leader del Regno Unito e degli Stati Uniti d’America, di creare un’alleanza alternativa che intende porsi come una nuova leadership, quasi a emarginare tutto ciò che avviene nel vecchio continente.

Ci troviamo dunque di fronte a un declino dell’Europa e dell’Unione europea, in particolare? C’è ancora qualcosa che richiede di essere guardato senza edulcorazioni. L’Europa ha anche rappresentato la possibilità di riportare libertà e democratizzazione in tutti quei paesi che per lungo tempo hanno invece vissuto all’ombra dell’Unione sovietica. Ora, la percezione del declino dell’Europa e dell’Unione europea che abbiamo descritto porta con sé delle spinte ancora più radicali che pongono in discussione non soltanto la struttura dell’Unione con le sue istituzioni, ma gli stessi valori politici della democrazia liberale che l’Europa ha rappresentato e nutrito nei vari Stati che la compongono. Mi riferisco al cosiddetto sovranismo, cioè il richiamo alla riconquista della sovranità da parte degli Stati nazionali espresso da quei partiti populisti e nazionalisti che si sono diffusi negli ultimi anni, stanno avendo un certo consenso nel nostro e in diversi paesi europei e sembrano attaccare non soltanto l’Europa intesa come Unione europea, ma l’idea stessa della democrazia liberale. Un osservatore attento come Ezio Mauro, in un editoriale apparso su Repubblica nello scorso febbraio, indirizzando pesanti parole nei confronti di questo attacco alla liberal-democrazia, sosteneva che “è qui che si spezza il secolo, e finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi — il comunismo e il nazismo — e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza”.[6]

Queste osservazioni aggravano ancora di più il quadro: declino dell’Unione europea o addirittura declino dell’Occidente in quanto tale? Il momento è serio e grave.

Quali conclusioni possiamo trarre da queste osservazioni? È lecito sostenere che sia finita l’epoca d’oro di un’Europa fiorente mentre ora siamo di fronte all’inesorabile fine della storia? Io non credo a questo tipo di narrazione che tende a guardare al passato come a un vertice di splendore, di compimento, di realizzazione da cui si scivola a un oggi in regressione, difficile, pesante, pessimistico. Non è così, perché guardando alla storia non si scorgono solo momenti fulgidi e non siamo legittimati a vedere nel presente soltanto momenti foschi.
 

3. Il significato della storia.

Se riguardiamo al passato, l’Europa come la conosciamo nasce in un periodo che, probabilmente, agli occhi delle persone che l’hanno vissuto, dei contemporanei dei padri fondatori, non era meno grave di quello che stiamo vivendo oggi e sul quale ho appositamente insistito con toni drammatici. L’Europa nasce dalla crisi della Seconda guerra mondiale che innanzitutto, sul piano oggettivo della vita delle persone, è stata una grandissima carneficina: tra i settanta e gli ottantacinque milioni di morti, non solo tra gli eserciti che si scontravano, ma anche tra le popolazioni civili, massacrate dai bombardamenti aerei, deportate in massa, continuamente assoggettate al rischio di rastrellamenti, rappresaglie, deportazioni. Nell’immediato dopoguerra, la mappa del mondo è cambiata improvvisamente con il grande declino delle potenze europee, la fine del colonialismo e la nascita di nuove superpotenze, i due grandi blocchi che si contrapponevano dal punto di vista ideologico e si combattevano per ottenere la preminenza sull’ordine mondiale. È stata una sconfitta culturale del romanticismo e del nazionalismo; hanno incominciato a realizzarsi il marxismo e il socialismo reale; ha preso avvio la grande trasformazione dei costumi di vita a livello individuale e collettivo, che si sarebbe consolidata con lo sviluppo della tecnologia, con i suoi aspetti positivi e negativi, con il miglioramento delle condizioni di vita di ampi settori della popolazione, ma anche lo sviluppo delle testate nucleari, che, dal loro utilizzo alla fine della guerra in poi, ha sconvolto moralmente e militarmente tutto il mondo.

Troviamo una riflessione sul significato della Seconda guerra mondiale in un intervento del 1996 di Giuseppe Dossetti che, richiamando proprio quella crisi per ricordare la nascita della costituzione italiana, altro grande miracolo del secondo dopoguerra, affermava che essa “è nata ed è stata ispirata — come e più di altre pochissime costituzioni — da un grande fatto globale, cioè i sei anni della seconda guerra mondiale. Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla costituzione, in tutte le sue componenti oggettive ed al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme”.[7]

Da quella drammatica e gravissima crisi è nata l’Unione europea. Dunque un’epoca di crisi come la nostra non è nuova nella storia d’Europa e non è necessariamente destinata a una sconfitta, proprio come la storia della grande crisi europea del secondo dopoguerra ha portato invece ad una capacità di sprigionare quelle energie creative che hanno costruito l’Unione in quegli anni.

Tuttavia non c’è solo la crisi dell’origine. L’Unione europea ha attraversato una serie ininterrotta di crisi. Già negli anni Cinquanta, appena nata, si è subito dovuta scontrare con il fallimento del progetto della Comunità europea di difesa; negli anni Sessanta si è verificata la “crisi della sedia vuota”, in cui la Francia si rifiutava di partecipare alle riunioni della “Piccola Europa” fatta di sei Stati membri, per ragioni legate ad interessi nazionali sulla politica agricola comune; negli anni Settanta, il Parlamento si è rifiutato di approvare il bilancio della Comunità europea, e, poi, negli anni Ottanta, il fallimento del tentativo di Unione europea proposto dal Altiero Spinelli e ancora le reazioni dei primi anni Novanta al Trattato di Maastricht e il grande fallimento, negli anni Duemila, del Trattato che intendeva adottare una Costituzione per l’Europa. Insomma, per usare le parole di un altro grande osservatore, Sabino Cassese, che ha scritto recentemente su questi temi, l’Europa non solo nasce da una grande crisi, “l’Europa vive di crisi”[8] Consideriamo questa espressione: “L’Europa vive di crisi”. È una frase che può avere un duplice significato: può sottolineare il fatto che l’Europa è un progetto perennemente in crisi, caratterizzato da una sua intrinseca debolezza, ma può anche dire qualcosa di più profondo e, secondo me, più adeguato a spiegare la realtà dell’Europa che trae vitalità, sprigiona energie ed esprime una vita sempre nuova proprio a partire dalle crisi che attraversa. “L’Europa vive di crisi” può voler dire che essa è perennemente in uno stato di non compimento, ma può anche significare che le difficoltà la stimolano, le permettono di esprimere la sua vera vita. E, in effetti, una crisi è sempre un fenomeno ambiguo. Anche etimologicamente, la parola “crisi” rimanda a due aree semantiche diverse: da un lato, “crisi” attiene all’ambito del problema, della catastrofe, del disastro, della difficoltà; ma, dall’altro, “crisi” indica anche il discernimento, il giudizio, la capacità di risoluzione, il punto di svolta, di sviluppo o di cambiamento. La crisi è un crinale, di fronte al quale possiamo avere — e nessuno garantisce l’esito — una svolta verso il declino o l’inizio verso un nuovo progresso.
 

4. Da dove è possibile ripartire.

Che cosa può fare la differenza? Che cosa può aiutarci a sbilanciare l’orientamento di questo momento di crisi verso un nuovo sviluppo piuttosto che verso un regresso? Riprendiamo ancora le parole di papa Francesco nel discorso in occasione del Premio Carlo Magno, dove aveva davanti a sé tutti i vertici dell’Unione europea. Dopo aver strigliato l’Europa con gli interrogativi che abbiamo ricordato all’inizio, egli richiama innanzitutto la necessità di “fare memoria”. Richiamando le parole di Elie Wiesel dice che “oggi è capitale realizzare una ‘trasfusione di memoria’” e ci invita a guardare quello che hanno fatto i padri fondatori. La memoria non è un mero rito, anche se talvolta può correre il rischio di scadere in un vuoto esercizio retorico. Tuttavia, fare memoria significa imparare dall’esperienza, apprendere dal vissuto, cercare il valore universale in un accadimento singolare, già attraversato dalla storia europea. Lucian Hölscher, allievo di Reinhart Koselleck, autore di importanti riflessioni sul tema della crisi, commemorando il suo maestro scrive: “La storia comincia nel ricordo. […] Essa trova la sua autenticazione sempre nella singola vita”.[9] Qualcuno pensa che dalla storia non si possa imparare, ma io ritengo che da essa sia possibile ricavare degli insegnamenti senza l’obiettivo di ripetere gli stessi passi — che, dato il contesto completamente diverso, sarebbero irripetibili — ma per cercare di trarre quel valore universale che può ingenerare nel presente qualcosa di nuovo.

Guardando alla storia dei padri fondatori dal punto di vista che mi compete, l’istituzione dell’Unione europea è stata un’iniziativa veramente originale, tanto che per decenni — come sottolineato dagli studiosi — non si sono trovati gli strumenti adeguati per definirla. Non si trattava di un’organizzazione internazionale come le altre, non era di certo uno Stato nazionale, ma nemmeno uno Stato federale sul modello degli Stati Uniti d’America. Per definire l’Unione europea, si è dovuto inventare una parola nuova, utilizzando l’aggettivo “sovranazionale”. Uno dei suoi più grandi studiosi, Josef Weiler, ha utilizzato la parola tedesca sonderweg[10] per segnalare che l’Unione europea, dal punto di vista istituzionale, aveva iniziato a percorrere una via diversa e originale, un nuovo itinerario ancora indefinibile, non riconducibile a nessun modello già noto, ma con tratti già molto ben marcati tra i quali vorrei sottolinearne due.

La prima espressione con la quale definiamo spesso l’Unione europea e l’integrazione che avviene sul nostro continente è “Unita nelle diversità”. Questa espressione si contrappone volutamente al diverso motto con cui si definiscono gli Stati Uniti d’America e che si trova anche su tutte le banconote americane: “E pluribus unum”. “Unita nelle diversità”, “E pluribus unum”. Sembrano espressioni simili, perché parlano entrambe di pluralità e unità, ma indicano in realtà condizioni molto diverse. “E pluribus unum” significa che all’inizio c’è una divisione — le colonie americane — che diventano un’unica cosa. “Unita nelle diversità” invece rappresenta delle diversità che permangono: si realizza un’unione che non assorbe o sopprime le entità originarie. L’Unione europea persegue un tipo di unità che ama il pluralismo. Osserviamo la diversità dal punto di vista linguistico: negli Stati Uniti d’America si parla tutti la stessa lingua; in Europa, si parlano lingue comuni, ma permangono ventiquattro lingue ufficiali, tanto che tutti i documenti dell’Unione europea, con un impegno economico non da poco, vengono tradotti in tutte le lingue ufficiali. Il primo carattere è, dunque, un’integrazione che mantiene e nutre il pluralismo delle lingue, delle culture, delle tradizioni, delle religioni che caratterizzano l’Unione sul continente europeo.

La seconda caratteristica dell’Unione europea è definita da un’altra frase che si trova nei trattati fondativi, che viene spesso ripetuta per esprimere l’anima del progetto europeo e parla di una “unione sempre più stretta tra i popoli europei”. Anche in questo caso, abbiamo un’unione e poi una pluralità. Non si parla di un popolo europeo al singolare, ma dei popoli europei, al plurale. Soprattutto, si introduce qui un aspetto dinamico ed evolutivo a proposito di un’idea che Schuman, nella nota Dichiarazione del 1950, definì come un’unione che non si sarebbe fatta d’un tratto, come un progetto sempre aperto, che si sarebbe sostanziato di piccole realizzazioni concrete, ininterrotte, incessanti, sempre in movimento. Ho apprezzato moltissimo il riferimento che monsignor Sanguineti ha fatto all’idea che l’Europa è nata da un pellegrinare. Non solo è nata da un pellegrinare, ancora oggi è un continuo pellegrinare, in cui lo scopo del processo e del progetto non è finire la casa, ma continuare a costruirla. In questo senso, l’Europa è moderna. Paolo Prodi, un grande studioso d’Europa, definisce l’homo europaeus come un uomo moderno:[11] nella parola “modernità” è inclusa l’idea della storia come movimento sulla base dell’origine latina della parola: modus-modo-modernus.

Per questo le crisi non fanno paura all’Europa, perché la crisi è un fattore dinamizzante e mantenere in movimento la storia dell’Europa significa rimanere fedeli alle sue origini e facendole mantenere lo status di pellegrino che si stanca, ma riprende incessantemente il cammino.
 

5. Avviare i processi di cambiamento.

Poiché io in questo momento ho la veste del giudice costituzionale e vedo queste dinamiche dall’angolatura che è pertinente al mandato che ho ricevuto, voglio dire che, sul piano giuridico, queste idee possono avere delle ricadute anche sul modo di utilizzare gli strumenti del proprio lavoro. La Corte costituzionale è il giudice delle leggi e non giudica casi o persone, non risolve le controversie fra i singoli, ma giudica le leggi, per assicurare che queste siano sempre rispettose dei valori della Costituzione e soprattutto dei diritti individuali da essa garantiti. Spesso accade che, proprio per il livello di integrazione anche giuridica che si è realizzato nel continente europeo, decisioni e orientamenti delle istituzioni europee entrino in conflitto con le scelte che si effettuano a livello nazionale. Da quando svolgo il mio incarico presso la Corte, ormai cinque anni, ho visto passare molti nodi che possono essere dirompenti sotto diversi profili. In questi casi, possono essere prese diverse decisioni: si può ignorare quello che accade a livello europeo, decidendo di far esplodere una tensione, ma possiamo anche prendere in considerazione il diverso punto di vista dell’Unione europea e innescare un processo di dialogo, di nuova comprensione, di riformazione dei principi nazionali ed europei in una forma di cooperazione.

Questo è già accaduto in due distinte occasioni che voglio brevemente raccontare. La prima riguarda il mondo della scuola. Qualche anno fa, la Corte italiana si è trovata di fronte a un problema gravissimo, legato alla situazione dei cosiddetti insegnanti precari nella scuola, per i quali, da molti anni, non venivano banditi i concorsi per l’entrata in ruolo. I docenti venivano assunti con contratti a termine ripetutamente rinnovati e con garanzie che erano direttamente in contrasto con le tutele stabilite per i lavoratori dall’Unione proprio per evitare gli abusi dei contratti a tempo determinato. Era una situazione difficilissima, perché l’Unione europea aveva ragione a sottolineare come l’Italia stesse violando i diritti dei lavoratori e le direttive dell’Unione europea. Tuttavia, il contesto legislativo italiano non prevede che, per i dipendenti pubblici, si possano semplicemente trasformare dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Inoltre, poiché erano interessate dal problema decine di migliaia di persone, la conseguenza di una decisione a favore della trasformazione diretta e immediata della forma di assunzione avrebbe creato gravi problemi anche di natura economica sul bilancio dello Stato, che già pativa gli effetti della crisi economica in atto.

La circostanza era veramente molto complicata. La decisione della Corte poteva andare nella direzione di ignorare i diritti dei lavoratori trascurando l’invito dell’Unione europea a sistemare la situazione della loro condizione di lavoro o, viceversa, accogliere da subito le indicazioni europee creando effetti potenzialmente dirompenti su altri diritti garantiti dallo Stato a causa dell’impatto sul bilancio dello Stato. La Corte costituzionale, facendo tesoro di una precedente esperienza minore, ha scelto una terza strada: ha sospeso il giudizio e, utilizzando un meccanismo processuale previsto nel trattato dell’Unione europea, il “rinvio pregiudiziale”, ha posto alla Corte di Giustizia dell’Unione europea una serie di interrogativi per comprendere meglio come risolvere queste esigenze contrapposte di fronte alle quali ci trovavamo.[12] Si è trattato di un atto di dialogo giurisprudenziale: un anno dopo, la Corte di Giustizia ha formulato le sue risposte,[13] ma, nel frattempo, il governo si è messo al lavoro e ha cominciato a sbloccare i concorsi e ad effettuare quelle modifiche che, con la “Buona scuola”, hanno generato nuove immissioni in ruolo. Si è così messo in moto un processo di cambiamento legislativo ed amministrativo tale che, quando la Corte ha completato la definizione della vertenza,[14] a coloro che non avevano avuto ancora una sistemazione è stato riconosciuto il risarcimento del danno, viceversa coloro che erano stati immessi nei ruoli potevano considerare riparata la loro situazione sotto quel profilo, senza creare effetti troppo dirompenti, ma anzi costruttivi, che hanno gradualmente portato al risanamento di una situazione veramente difficile.

Questa esperienza è stata molto dura e anche contrastata. La Corte costituzionale è concepita come un organo di chiusura dell’ordinamento italiano e la richiesta di una forma collaborativa con la Corte di Giustizia per giudicare una determinata situazione non è un atto scontato. È stata così segnata una nuova strada che recentissimamente è stata seguita in un’altra vicenda riguardante le frodi fiscali, in cui la Corte, proprio per il successo del rinvio precedente, ha ripetuto lo stesso schema: anziché ignorare i comandi europei ed entrare in conflitto, affermando prepotentemente la propria autorità, ha deciso di aprire un dialogo collaborativo, assumendo dei rischi — perché nel dialogo non si sa a priori dove si può arrivare — ma creando dei processi che possano gradualmente rigenerare e risanare le ferite che si sono create a livello giuridico.

Ho raccontato questi episodi perché quei tre atteggiamenti che ci ha ricordato monsignor Sanguineti richiamando Papa Francesco — integrare, cioè unire, legare, incontrare, anziché dividere, separare, ignorare; dialogare, anziché entrare in conflitto; generare e costruire, anziché meramente criticare o distruggere — sono il suggerimento di una posizione culturale che ciascuno può giocare al proprio livello. La Corte, che può sembrare imbrigliata nei suoi sistemi processuali, ha trovato il modo di farlo. Ciascun cittadino nelle scelte della vita quotidiana ha sempre di fronte questo bivio: sviluppare una cultura dell’integrazione, del dialogo e della costruzione oppure il conflitto, la distanza, l’indifferenza dell’uno rispetto all’altro.

Di fronte ai grandi problemi che abbiamo evocato all’inizio, sembrano piccole cose, ma mi piace richiamare a questo punto una frase di Vaclav Havel, uno dei grandi protagonisti del crollo del muro di Berlino, un dissidente della Repubblica Ceca, prima perseguitato dalla polizia, e in seguito Presidente della prima repubblica dopo la democratizzazione del suo paese: “Nessuno sa quando una qualsiasi palla di neve può provocare una valanga”. Proviamo a concepire in questo modo la nostra vita e il nostro impegno quotidiani, ciascuno nel suo ambito. Può essere una piccola testimonianza — diceva monsignor Sanguineti — apparentemente incapace di smuovere i grandi problemi del nostro tempo, ma con la consapevolezza che la nostra piccola palla di neve, per forze che non dipendono solo da noi, può sempre trasformarsi in una valanga, come quella che nel 1989 è stata capace di abbattere un muro apparentemente indistruttibile come il muro di Berlino.

Marta Cartabia

 


* Il testo, non rivisto dall’autrice, riproduce l’intervento pronunciato in occasione dell’incontro Le ragioni dell’Europa, tenutosi il 4 febbraio 2017 presso il Collegio Cairoli a Pavia. Si è voluto mantenere il carattere orale che ha avuto la conversazione con il pubblico. Si ringrazia il dott. Alessandro Baro per la redazione e la revisione del testo.

[1] Discorso del Santo Padre Francesco al conferimento del premio Carlo Magno, Sala regia, 6 maggio 2016.

[2] Discorso del Santo Padre Francesco al Parlamento Europeo, Strasburgo, Francia, 25 novembre 2014.

[3] G. Napolitano, Europa, politica e passione, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 23.

[4] Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 3 (2016).

[5] L. Torchia, In crisi per sempre? L’Europa tra ideali e realtà, Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 3 (2016), pp. 617-620.

[6] E. Mauro, L'Occidente che va in minoranza, Repubblica, 1 febbraio 2017.

[7] G. Dossetti, I valori della Costituzione, in Id., La Costituzione. Le radici. I valori. Le riforme, Roma, EL, 1996, p. 21.

[8] Si tratta di un’espressione da uno dei discorsi di H. Schmidt, Bundestagsreden und Zeitdokumente, Bonn, Bertelsmann Verlag, 1975, p. 249 — pubblicata in italiano in B. Olivi (a cura di), Discorsi per l’Europa, Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri, s.i.d. (ma 1987), p. 246 — citata da S. Cassese, L’Europa vive di crisi, Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 3 (2016), p. 779.

[9] L. Hölscher, Abschied von Reinhart Koselleck, in H. Joas e P. Vogt (a cura di), Begriffene Geschichte. Beiträge zum Werk Reinhart Kosellecks, Berlino, Suhrkamp, 2011, p. 86.

[10] J.H.H. Weiler, Federalism without Constitutionalism: Europe’s Sonderweg, in K. Nicolaidis e R. Howse, The Federal Vision: Legitimacy and Levels of Governance in the United States and the European Union, Oxford, Oxford University Press, 2001.

[11] P. Prodi, Homo Europaeus, Bologna, il Mulino, 2015, p. 15: “L’approccio che qui presento [pone] al centro l’analisi dei processi che hanno reso l’Europa il primo laboratorio della modernità. Tale esperienza non si inscrive in un tempo unitario, come troppo a lungo ha suggerito la definizione tradizionale di un’”epoca moderna” (early modern), che andava dalle grandi scoperte geografiche fino all’età delle rivoluzioni. (…) La nozione di modernità è infatti relativa e, a sua volta, mutante. Reinhart Koselleck ci ha insegnato l’approccio più efficace per recuperarne il significato più profondo nella semantica del concetto di movimento (…); qualcosa il cui valore massimo consiste proprio nel mutamento. (…) possiamo cogliere un nuovo concetto della storia come mutamento, come cammino dell’umanità”.

[12] Ordinanza n. 207 del 2013.

[13] Cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, Raffaella Mascolo e altri contro Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e Comune di Napoli, ECLI:EU:C:2014:2401.

[14] Sentenza n. 187 del 2016.

 

 

 

 

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