IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXII, 1980, Numero 1-2, Pagina 100

 

 

LA CITTADINANZA FEDERALE EUROPEA*
 
 
Con l’elezione europea del 7-10 giugno, la prima elezione sovranazionale della storia, la democrazia ha compiuto il primo passo verso la sua affermazione anche nelle relazioni tra Stati. Il conseguimento di questo obiettivo dimostrerà che i rapporti tra gli Stati possono essere regolati pacificamente, e la democrazia farà così un grandioso passo avanti verso la sua affermazione universale.
L’elezione europea non esaurisce qui il suo significato: essa farà emergere anche una nuova figura politica, quella del cittadino che, oltre ad esercitare il proprio diritto di voto a livello nazionale, voterà anche a livello europeo. Come dice lucidamente Albertini nell’antologia sul «Federalismo», circa le differenze tra Stato federale e Stato unitario: «Considerata sotto il profilo della cittadinanza, l’indipendenza di tutti i governi di una associazione di Stati comporta che ogni individuo sia cittadino due volte, o per meglio dire cittadino allo stesso titolo tanto dello Stato membro quanto della federazione senza alcuna gerarchia fra queste due posizioni. Questo fatto permette di vedere con precisione quale sia il difetto fondamentale dell’idea di nazione (l’idea di nazione che fa corpo con il fatto storico degli Stati nazionali): l’esclusività. In uno Stato nazionale, ad esempio l’Italia, non si può essere lombardi e/o europei allo stesso modo nel quale si è italiani. In questo caso alla qualità di ‘italiano’ si associa una esclusività, nel senso che non si può appartenere ad un altro gruppo allo stesso titolo, ma solo in modo subordinato. Orbene, questa esclusività — questo non volere o non potere essere cittadino tanto del proprio Stato quanto di un gruppo di Stati e al limite del mondo — non è altro che lo stato di guerra considerato sotto l’aspetto individuale. Ed è anche una deformazione della realtà profondamente lesiva della ragione. Nonostante la guerra (la politica internazionale come sfera di rapporti di forza), ogni uomo appartiene comunque, in primo luogo, al genere umano perché è come tale — come uomo — e mai come italiano o esclusivamente italiano, che può praticare non solo la scienza e la tecnica, ma anche, a ben vedere, la religione, l’arte e la filosofia (lo stesso linguaggio umano, nonostante la pretesa dello Stato nazionale di far coincidere nazione e lingua non si lascia ridurre alla situazione della Torre di Babele). Ma l’autoeducazione del genere umano non può rispecchiare limpidamente questa verità elementare fino a che l’identità personale di ogni uomo non abbia superato il rozzo esclusivismo dell’attuale forma elementare di coscienza nazionale».[1] Si cercherà qui perciò di dimostrare che il concetto di cittadino, figura politica che è stata un’importante conquista democratica (anche se non sempre abbiamo presente questo fatto visto che siamo abituati ad adoperarlo da alcuni secoli), si arricchirà di un nuovo contenuto e che l’espressione «cittadino europeo» che sempre più spesso si sente usare, è un concetto limitativo, se non addirittura ambiguo.
A questo scopo non si ritiene inutile ricordare tutte quelle tappe storiche essenziali, fino ad arrivare all’elezione europea, che hanno determinato un arricchimento del concetto di cittadino. Si giustifica così il fatto che nel corso dell’esposizione, nel richiamare i fatti storici salienti, dato l’obiettivo che ci si è proposti, si compiranno salti di diversi secoli tra un fatto storico e l’altro. D’altra parte si ritiene che vada sempre tenuto presente l’insegnamento di Galileo, secondo cui per conoscere il presente e scrutare meglio l’orizzonte, bisogna prima salire sulle spalle degli antichi, cioè di coloro che ci hanno preceduto e che hanno accumulato più esperienze di noi e dai quali molto si ha da apprendere.
 
1. La città-Stato e il concetto di cittadino.
La prima affermazione significativa della figura del cittadino la troviamo nell’esperienza greca della città-Stato, cioè nel contesto di una situazione per alcuni aspetti particolarmente fortunata, in cui la gestione della cosa pubblica e la discussione dei principali problemi era affidata, almeno nel caso di Atene, e di altre città «democratiche» della Confederazione di Delo, direttamente ai membri della comunità politica.
La qualifica di cittadino e di membro della società politica in Atene, e perciò il diritto a partecipare alla vita politica della città, come ricorda il Sabine, era un privilegio della nascita: si era cittadini della città cui appartenevano i propri genitori. E il termine cittadino aveva allora un significato diverso da quello che riveste oggi. Mentre l’idea moderna del cittadino è quella di un uomo a cui certi diritti sono giuridicamente garantiti, il greco non pensava tanto alla cittadinanza come ad un possesso di diritti, ma ad un insieme di doveri verso la città cui si apparteneva e tale fatto si configurava, in sostanza, come un sentimento non dissimile da quello di sentirsi membro di una famiglia.
La città, ed è questa una testimonianza che si trova riportata in maniera mirabile nei discorsi di Pericle, raccolti da Tucidide nella «Guerra del Peloponneso», era considerata come il bene supremo e come l’interesse più alto a cui i cittadini potevano votarsi. Quindi la città era di fatto la totalità, la patria, dio, etc., per la quale bisognava essere pronti a sacrificare la propria vita.
La concezione della città, nell’esperienza ateniese, era dunque quella di un «organismo vivente» — teoria rievocata molti secoli più tardi, con conseguenze catastrofiche, per giustificare la coincidenza tra Stato e nazione — di cui il cittadino è la cellula e nel quale trova il senso della propria vita. Questa concezione della città era inoltre agevolata dal fatto che le osservazioni empiriche riguardanti diversi aspetti della vita sociale dei membri della comunità, come quelli linguistici, culturali, il possesso di un territorio, i costumi, erano in gran misura imputabili a quelli della città di appartenenza. Nella città-Stato, che costituiva la forma più compiuta di organizzazione del potere politico del tempo, quindi, il concetto di cittadinanza era assimilabile al concetto di nazionalità spontanea così come lo intendono i federalisti.
Tuttavia l’esperienza politica della città-Stato comportava alcuni limiti fondamentali. Il primo limite era dovuto al fatto che la nazionalità spontanea, in questo caso, coincideva con uno Stato che era uno Stato sovrano tra Stati sovrani. La conseguenza ultima di ciò, vale a dire della coincidenza tra Stato e nazione, era che il valore primo da rispettare era il sentimento di fedeltà alla propria città, valore al quale tutti gli altri valori (rispetto per la vita in sé, per tutti i consimili delle altre città-Stato, per la famiglia, etc.) erano subordinati. Tale tendenza, come appare chiaramente dalla storia di Atene, era evidentemente alimentata dalla tensione con Sparta, l’altra importante città-Stato greca che le contendeva il ruolo di leader del mondo ellenico.
Il secondo limite dell’esperienza ateniese, da mettere in evidenza, era il fatto che la comunità ateniese era divisa in tre classi ben distinte, conseguenza del livello allora raggiunto dall’evoluzione del modo di produrre. In primo luogo vi erano gli schiavi, che non avevano alcuna importanza politica nella città-Stato, nel senso che non godevano di alcun diritto. In secondo luogo vi erano i «meteci», cioè gli uomini che pur essendo uomini liberi e avendo il diritto di residenza, e pur non essendovi discriminazioni sociali a loro carico, non potevano partecipare alla vita politica della città. In terzo luogo vi era la massa dei cittadini, cioè di coloro che costituivano la classe politica della città, ed erano i soli ad occuparsi della città.
È quindi evidente che l’esperienza politica della città-Stato, per tutta questa serie di motivi, coinvolgeva solo una parte della società greca e comportava inaccettabili discriminazioni nei confronti degli uomini di altre città oltre che degli schiavi e dei meteci.
 
2. L’avvento dell’ellenismo e la crisi del concetto di cittadino.
Il fatto politico che comincia a mettere in crisi il concetto greco di cittadinanza e quindi le basi del consenso dell’individuo attorno al valore rappresentato dalla fedeltà assoluta alla propria città, è la proposta di Alessandro, successiva alla creazione dell’impero macedone, della creazione di un’unica comunità persiano-macedone, cioè «un’unione dei cuori» (homonoia).
Con Alessandro si scopre l’individuo in quanto tale, che deve cominciare a badare a sé stesso, da solo (e non contare più sull’aiuto paternalistico della propria città) e deve altresì cominciare ad imparare a vivere insieme agli altri uomini nell’ambito di una comunità politica che supera i confini della città-Stato e abbraccia uno spazio geografico ben più vasto.
Questa proposta non poteva non avere impatto sul pensiero politico di allora, che veniva chiamato a dare una risposta ai problemi posti dal nuovo evento.
A livello filosofico, dunque, la crisi morale che coinvolge gli abitanti della città-Stato trova le sue più significative espressioni nell’epicureismo e nello stoicismo.
Queste due correnti di pensiero trovavano d’altro canto fondamento, oltre che nella proposta alessandrina, nel fatto che ormai l’ideale della città-Stato autosufficiente si presentava sempre più impraticabile. Il benessere dei suoi cittadini, infatti, dipendeva non tanto dalla saggezza con cui la città trattava dei suoi problemi ma soprattutto dai rapporti che essa sapeva instaurare con il resto del mondo. Da questo punto di vista il conflitto tra Atene e Sparta e i loro alleati è esemplare, in quanto mette in luce i condizionamenti sull’assetto politico interno delle due città (l’esperienza della tirannia in Atene, la creazione di uno Stato militarista in Sparta) derivante dalla politica internazionale. Quando poi Alessandro adottò il sistema di fondere insieme i suoi sudditi, greci ed orientali, questo mito, come si è detto, subì il colpo definitivo.
In questo contesto, la filosofia epicurea cominciò a sostenere che il governo della città non era più un’occupazione così importante come allora si riteneva, che la carriera politica e l’impegno attivo per la città era solo fonte di continue apprensioni e così via. La preoccupazione principale degli uomini doveva essere quella di evitare tutte le pene, le noie, le inutili preoccupazioni della vita pubblica.
Con l’epicureismo vennero introdotti così, per la prima volta, nella cultura di quei tempi, gli ideali di carattere personale e di felicità privata, cioè un modo di concepire la propria esistenza in maniera completamente diversa da quella concepita fino ad allora che esaltava il dovere assoluto verso la città.
Di impostazione differente fu lo stoicismo. Con il procedere del tempo, in seguito alla abolizione delle barriere tra Greci e Barbari e in seguito all’uso sempre più diffuso di ottenere la cittadinanza contemporaneamente in più città (una volta ottenuta solo per diritto di nascita), si tentò di spiegare in maniera diversa questo nuovo fenomeno.
Lo stoicismo si assunse questo compito e sviluppò due idee: quella dell’individuo come membro distinto dell’umanità, con la sua vita puramente privata e personale, e quella dell’universalità, cioè di un’umanità ampia come il mondo, in cui tutti sono dotati di una comune natura umana. La nuova concezione sul piano ideale implicava dunque l’uguaglianza di tutti gli uomini, quindi anche dello schiavo, del barbaro e dello straniero di fronte alla legge. Ci doveva essere dunque una legge universale valida per tutto il mondo civile, accanto alla legge vigente nelle singole città.
Lo stoicismo, tuttavia, da aspirazione ideale, diventa fatto, istituzione, solo con il concetto romano di cittadinanza, cioè con l’attribuzione agli individui, in quanto tali, di diritti che debbono venire difesi dallo Stato.
Nell’80 a.C. la cittadinanza viene estesa a tutti gli abitanti della penisola italica e nel 212 d.C., con la Constitutio Antoniniana (l’editto di Caracalla), la cittadinanza viene estesa a tutti i membri dell’impero.
La cittadinanza, con l’impero romano, diventa, contrariamente all’esperienza della città-Stato, un attributo estraneo alla personalità dei membri dell’impero, diventa una titolarità di diritti indipendentemente dal luogo di nascita. La conseguenza è però che la cittadinanza non coincide più con la nazionalità spontanea e l’orizzonte spaziale della nuova comunità, che esige il lealismo dei suoi membri, non coincide più con l’orizzonte spaziale in cui è possibile la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica. Si diventa cioè membri di una comunità che il singolo individuo non è in grado di controllare, in cui cioè la effettiva partecipazione politica dei cittadini non è possibile. L’impero romano si configura dunque come un’entità ideologica. Pur riconoscendo, infatti, parità di diritti tra tutti i popoli dell’impero, superando così alcuni limiti dell’esperienza greca, nella misura in cui la partecipazione politica dei cittadini alla gestione del potere non è praticamente possibile, la sola forma di governo che, di fatto, può funzionare è quella puramente imperiale. Deve, a questo proposito, essere evidentemente messo in luce che l’antichità non conosceva ancora il sistema della democrazia rappresentativa, cosa del resto impossibile a realizzarsi pienamente, dato il grado di sviluppo allora raggiunto dai mezzi di produzione.
Con la frattura dell’impero romano, la scomparsa di quello occidentale e le invasioni barbariche, crolla l’accentramento del potere e quindi scompare l’ordinamento giuridico unitario, realizzato a livello continentale, che garantiva l’unitarietà della cittadinanza. A partire da questo momento la sovranità viene progressivamente diluita in numerose comunità politiche di dimensioni inferiori a quelle dell’impero.
L’idea dell’uguaglianza tra gli uomini, che sul piano istituzionale si traduce nel riconoscimento ad essi della dignità di cittadini, sopravvisse ispirandosi agli ideali religiosi, all’universalismo della res publica christiana. Limitandosi, però, a questo livello, escludendo perciò la sfera politica, l’ideale dell’uguaglianza tra gli uomini assumeva un connotato sempre più astratto.
La crisi dei poteri universalistici aprì la strada all’esperienza comunale e con essa al tentativo di ritorno alla città-Stato. Ma il potere politico comunale non traeva origine dalla volontà dei cittadini del comune, ma era bensì l’espressione dell’influenza dei ceti e degli ordini in cui questa comunità politica era suddivisa.
Né questi limiti poterono essere superati e dar luogo ad una esperienza autenticamente democratica, perché il comune evolse verso le forme autoritarie delle signorie e del principato, le forme politiche degli Stati regionali del ‘400, che furono la prefigurazione degli Stati europei che diedero vita all’equilibrio europeo degli Stati. Questo, pur essendo caratterizzato da permanenti tensioni, non cancellò mai l’idea di una comune appartenenza ad una comunità che andava al di là delle frontiere degli Stati, ma questa idea concerneva le corti (il Congresso di Vienna fu l’ultima ed ormai anacronistica espressione di questa società ormai fatiscente) ed al massimo alcune sparute avanguardie sociali (un esempio classico è costituito dalla res publica europea literatorum).
Solo la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese introdurranno trasformazioni tali nella società europea, da esigere profondi cambiamenti nell’organizzazione del potere politico in Europa, che si accompagneranno anche a significativi arricchimenti del concetto di cittadino.
 
3. La rivoluzione francese e il concetto di cittadinanza.
Con l’avvento della rivoluzione francese, alla fine del 1700, viene proclamata l’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge e il cittadino diventa il fondamento della legittimità del potere. La proclamazione della uguaglianza degli individui fa piazza pulita della società divisa in caste, in ordini, in ceti e degli ultimi residui di schiavitù: gli individui non sono più sudditi che debbono obbedienza a baroni, principi e re, ma cittadini che devono obbedienza ad un potere scelto da loro stessi. Le sole differenze tra gli individui che ancora permangono sono quelle determinate dalle diverse professioni, per cui si è operai, dirigenti, avvocati, medici, ingegneri, etc.; queste distinzioni ricordano il fatto che la società è divisa in ruoli, ma solo in quanto il livello raggiunto dalla evoluzione del modo di produrre, se ha consentito il superamento degli ordini feudali non consente ancora il superamento della società industriale, caratterizzata dalla divisione in classi.
La presa di coscienza della casualità della propria posizione nella società e della non naturalità della stessa, da parte della borghesia, costituì il fatto che permise di liberare energie rivoluzionarie ed avviare una battaglia che ponesse fine ai vecchi ordini feudali per instaurare un sistema politico più egualitario. La necessità di coagulare il massimo di consenso attorno ai propri obiettivi politici, impose alla borghesia di condurre la battaglia contro il feudalesimo in nome della realizzazione universale dei valori dell’uguaglianza e della libertà e quindi di estendere in via di principio questi diritti a tutti gli uomini.
In pratica gli ideali della rivoluzione francese, che i suoi fautori pensavano di estendere anche al resto d’Europa, trovarono la loro realizzazione istituzionale in Francia e perciò gli abitanti di questo territorio divennero cittadini sì, ma cittadini francesi.
I rivoluzionari francesi ripresero le teorie di Rousseau che nel periodo della sua permanenza a Ginevra recuperò l’esperienza ateniese della città-Stato, ritenendola applicabile alla città svizzera, ma imputarono alla Francia, cioè ad una entità ideologica, il valore della fedeltà dei cittadini alla comunità politica di appartenenza. Rousseau inoltre si differenziava ulteriormente dai fautori della rivoluzione francese per il fatto che pensava ad una federazione di città-Stato come sola forma di organizzazione politica che le superasse.
L’espressione cittadino francese che voleva richiamare un’unica origine «nazionale» per tutti gli abitanti di Francia, fu introdotta e si affermò rapidamente per due ragioni. In primo luogo perché la Francia era in quel periodo inserita nell’equilibrio europeo degli Stati e in secondo luogo perché nel XVIII secolo ebbe inizio la rivoluzione industriale.
La posizione della Francia, che ne faceva uno degli Stati su cui poggiava la responsabilità di garantire l’ordine in Europa, richiedeva il massimo di lealismo nei confronti dello Stato, a scapito del lealismo nei confronti di qualunque altra istituzione, allo scopo di permettere, in caso di necessità, la mobilitazione di risorse umane e materiali nel minor tempo possibile per far fronte ad una eventuale guerra. Ma questo lealismo nei confronti dello Stato francese era ottenibile solo nella misura in cui si inculcava nell’animo dei cittadini l’idea di costituire un’unica nazione, la nazione francese, alla quale si doveva annettere il massimo di fedeltà fino al sacrificio della propria vita.
Dal canto suo l’avvento della rivoluzione industriale costituì la base materiale dell’affermazione dell’ideologia nazionale, che si radicò inizialmente in maniera virulenta in Francia e che poi si estese rapidamente a tutti gli altri Stati europei. Questa nuova fase della evoluzione del modo di produrre estese a tutto il territorio francese legami di interdipendenza tra gli individui creando un mercato ed una economia di dimensione nazionale. Di conseguenza, i vecchi ordini feudali, che avevano funzionato quando si trattava di gestire una economia di dimensione locale o regionale, si trasformarono in un pesante vincolo allo sviluppo ulteriore delle forze produttive e richiedevano perciò di venire sostituiti da un nuovo ordinamento politico adeguato alle nuove strutture produttive. Questi due fattori assieme costituirono le premesse per il successo dell’opera di omogeneizzazione dei costumi, della lingua, delle tradizioni (e quindi del soffocamento di ogni autonomia locale), da parte del governo francese. Gli strumenti di cui lo Stato francese si servì per inculcare nei cittadini francesi l’ideologia nazionale furono la coscrizione obbligatoria, la scuola di Stato e la creazione di un apparato burocratico-amministrativo centralizzato.
Il nazionalismo in Europa, nella misura in cui impose l’idea della coincidenza tra Stato e nazione, rappresenta un ritorno alla esperienza ateniese. Ma rispetto all’esperienza della città-Stato la dimensione dello Stato non coincide più con la dimensione della comunità in cui ha luogo l’esperienza politica, culturale, sociale dell’individuo, ed in cui esso avrebbe l’effettivo potere di controllo sulle decisioni che lo riguardano. Il concetto di cittadino con l’aggiunta dell’aggettivo francese diventa dunque un concetto ideologico, in quanto non esiste una nazione francese e sottolinea l’esistenza di una comunità politica ideologica esclusiva: la Francia.
Con l’esperienza francese, il concetto di cittadino vale a stabilire una gerarchia (nei limiti in cui l’esclusività del termine «cittadino francese» lasciava spazio ad altre comunità nazionali locali) nell’appartenenza del singolo individuo ad una comunità politica.
L’ideologia nazionale, allora affermatasi, è diventata storicamente una maledizione in quanto ha giustificato la differenza tra gli uomini di diverse nazioni, fino alla aberrante teoria della razza hitleriana ed è stata fonte di tremende guerre civili e di legittimazione dell’uso delle armi contro altri consimili, in Europa, soprattutto nel corso della prima e della seconda guerra mondiale.
Occorrerà infatti passare attraverso l’esperienza del primo e del secondo conflitto mondiale e che emergano nuovi equilibri di potere a livello internazionale, prima che gli europei si rendano conto che la causa delle tragedie da essi conosciute risiedeva nella divisione dell’Europa e nell’asservimento degli uomini al feticcio nazionale.
 
4. La seconda guerra mondiale e la crisi dello Stato nazionale.
La conclusione della seconda guerra mondiale segna la fine definitiva del sistema europeo degli Stati come «governo» del mondo, e nasce il primo sistema mondiale della storia, di cui sono protagonisti gli USA e l’URSS, cioè due potenze continentali, nuovi attori della politica internazionale.
Il mondo e l’Europa vengono ripartiti in due zone di influenza sotto l’egemonia delle due grandi superpotenze. Gli Stati nazionali europei occidentali, cadendo nell’orbita americana, vengono di fatto spossessati del controllo della politica internazionale e la sicurezza dei cittadini europei non viene ormai più a dipendere dagli eserciti nazionali, ma dall’esercito americano.
D’altro lato, sull’onda dell’ininterrotto sviluppo dei mezzi materiali della produzione, che le esperienze totalitarie fra le due guerre avevano cercato di contenere, i rapporti economici ed i problemi strategici hanno raggiunto dimensioni tali da rendere sempre più inadeguate le dimensioni degli Stati europei. Essi, se erano unità politiche all’altezza dei problemi posti dalle società ottocentesche, non sono assolutamente più all’altezza di quelli posti dalla società del nostro tempo, e sono scaduti dal ruolo di principali protagonisti a poco più di semplici oggetti della politica mondiale. La loro prosperità materiale, conosciuta in questo dopoguerra, ha potuto realizzarsi, infatti, solo al prezzo di sacrificare una larga parte della loro sovranità in materia economica, con la creazione del mercato comune europeo.
Queste sono le ragioni della crisi dello Stato in Europa occidentale, di cui oggi tutti parlano senza che però la natura delle sue origini emerga con chiarezza. Considerata sotto il profilo più generale essa si manifesta come crisi di consenso, come distacco dei cittadini dallo Stato, motivato dal fatto, acutamente, anche se non del tutto coscientemente, sentito dai cittadini stessi, che lo Stato non è più un centro di decisioni capace di garantire con la sua azione la loro sicurezza e il loro benessere, oramai dipendenti da altri centri di decisione: il governo americano e il capitalismo internazionale liberamente operante nel quadro del mercato comune.
Siamo dunque ricaduti in un periodo, se si vuole fare un paragone, simile a quello verificatosi in Grecia dopo il crollo del sistema delle città-Stato e l’avvento dell’impero macedone.
La stessa crisi morale che conobbero i greci, il senso di sfiducia nei confronti della città-Stato, ritenuta ormai incapace di assicurare il benessere dei cittadini greci, pervade oggi i cittadini europei.
Ed anche in questo secondo dopoguerra, come allora, sono sorte filosofie della dimissione rispetto all’impegno civile e che collocano al centro della speculazione la problematica morale e religiosa, cioè il senso dell’esistenza, o si fenomenizzano, comunque, nella rinuncia alla filosofia sistematica, nella frammentazione del sapere, nella infantile riduzione del «vero» al «verificabile», nella riduzione della filosofia della storia a ciarlataneria. Queste ultime e squallide espressioni del decadentismo — l’espressione ideologica dell’agonia storica del sistema europeo degli Stati — che rendevano impossibile una qualsiasi concreta pensabilità dell’avvenire sono state spazzate via dalla ventata della contestazione che alla perdita del senso della patria e del senso di solidarietà tra gli uomini di uno stesso paese ad esso legati, cioè alla perdita del senso del dovere verso gli altri, hanno proposto ideali internazionalistici, senza tuttavia porsi il problema dei mezzi per realizzarli. L’incapacità dimostrata dalla contestazione di individuare nello Stato di dimensioni nazionali la radice della crisi politica e morale in Europa e quindi del modo del suo superamento con la creazione di uno Stato di dimensioni continentali, ha fatto sì che le energie di molti giovani siano state indirizzate in una sterile protesta contro le istituzioni nazionali, che con il passare degli anni è degenerata, nelle sue espressioni più deleterie, nell’estremismo delinquenziale del terrorismo.
 
5. La città-Stato, l’impero romano e la rivoluzione francese: gli aspetti positivi delle tre esperienze.
A questo punto è necessario cominciare a tirare le prime conclusioni sul concetto di cittadino, che derivano da questa breve analisi delle principali esperienze politiche del passato.
A mio avviso deve essere recuperato quanto di positivo è emerso riguardo al problema della cittadinanza nell’esperienza ateniese, romana e francese con l’avvento dello Stato nazionale, per vedere poi di quali nuovi contenuti si arricchirà il concetto di cittadino, con l’elezione europea.
L’esperienza ateniese ha legato il concetto di cittadino al dovere della partecipazione degli individui alla gestione dei problemi della città-Stato, delle comunità locali, cioè del solo livello al quale era possibile allora la democrazia diretta.
Con l’impero romano il concetto di cittadino ha assunto una dimensione strettamente giuridica ed è diventato l’attribuzione agli individui di diritti che lo Stato deve tutelare e quindi ha spossessato la cittadinanza dei suoi attributi personali legati alla nascita in una determinata città. Esso ha avuto il merito di tradurre, per primo, in istituzioni il sentimento cosmopolitico degli Stoici.
La rivoluzione francese e la dottrina di Rousseau hanno fatto piazza pulita delle ultime divisioni della società in ceti, ordini ed hanno esteso a tutti gli individui in quanto uomini, gli attributi giuridici della cittadinanza. Mentre dal canto suo il pensiero di Mazzini in Italia, sulla base dell’esperienza francese, ha dato al concetto di cittadinanza il senso della solidarietà di ognuno verso gli altri membri della comunità «nazionale».
 
6. La federazione europea e il nuovo cittadino.
Da queste esperienze emerge in maniera netta l’aspetto comunitario e l’aspetto cosmopolitico che il concetto di cittadino ha rivestito, nel passato, nel pensiero politico e quindi il fatto che esso avrà una realizzazione parziale fino a quando non si sarà raggiunta l’unità del genere umano, con la creazione di uno Stato federale mondiale. L’altro rilievo che è necessario fare è che, fino ad oggi, nessun fatto storico ha tradotto in istituzioni il duplice aspetto del concetto di cittadino. Solamente a partire da quest’anno, con l’elezione europea, anche se in forma non ancora percepita in tutta la sua carica rivoluzionaria, dai cittadini e dai mass media, è stato compiuto il primo passo verso il consolidamento in istituzioni sovrannazionali di un nuovo tipo di cittadino.
La nuova dimensione di cui si arricchirà il concetto di cittadino con la nascita dell’Europa discende dalla struttura costituzionale che avrà lo Stato europeo. Questo, infatti, non potrà essere uno Stato unitario e centralizzato come lo sono gli attuali Stati continentali. Le tradizioni culturali e linguistiche dei singoli Stati sono troppo forti perché essi accettino una eventuale opera di livellamento delle particolarità nazionali a favore di un modello totalizzante europeo, sulla scia del nazionalismo europeo dell’ottocento. Questo vuol dire che l’Europa dovrà darsi una struttura federale; quindi al governo europeo verranno concesse le competenze minime necessarie per il mantenimento dell’unità dell’Europa: la moneta, il bilancio federale, la politica estera, l’esercito e la politica commerciale; mentre i poteri residui saranno di competenza degli Stati nazionali.
La ripartizione della sovranità, che così avrà luogo, tra il livello europeo ed il livello nazionale, porrà fine al mito della repubblica una ed indivisibile e quindi darà un grande impulso alle battaglie regionalistiche ed autonomistiche all’interno dei paesi europei. Diverrà dunque pensabile una articolazione del potere in Europa che consenta il recupero del valore dell’autonomia delle comunità locali ed in cui si sarà, allo stesso titolo, cittadini di Torino, del Piemonte, dell’Italia e dell’Europa, senza alcuna gerarchia predeterminata tra questi diversi livelli. In definitiva vi saranno tanti cittadini, riuniti in ciascun individuo, quanti saranno i livelli ai quali si voterà.
Albertini per primo ha prefigurato come potrà essere organizzato dal punto di vista istituzionale un simile sistema politico. Egli, infatti, avanzando la proposta del sistema elettorale a cascata ha sostenuto l’opportunità di far adottare dal futuro Stato europeo una norma che regoli l’ordine di successione ed i tempi (che devono essere brevi per garantire l’unitarietà dell’elezione) delle elezioni ai vari livelli, stabilendo che l’elezione del livello inferiore deve precedere quella del livello superiore.
Questo processo è tuttavia ai suoi inizi e sono ancora molti gli ostacoli da superare. Infatti, se è vero che agli europei è stato riconosciuto il diritto di voto europeo, non esiste ancora la figura giuridica del cittadino europeo al quale siano riconosciuti e tutelati da una Corte di giustizia europea i fondamentali diritti dell’uomo. D’altra parte è anche vero che la cittadinanza europea si trasformerà in partecipazione dei cittadini dei paesi europei alla gestione della società europea, solo se all’Europa si darà un governo, una moneta ed un bilancio. Ma non potranno essere compiuti passi decisivi in questa direzione se prima non verranno abbattute le frontiere, che ancora dividono l’Europa. È assurdo infatti che i governi europei abbiano prima deciso di creare un mercato comune europeo, in cui le persone, le merci ed i capitali potessero circolare liberamente, e poi concesso il diritto di voto agli europei, ma che continuino a mantenere in vita le dogane tra gli Stati della Comunità. È questo un fatto che va denunciato, perché il voto europeo con le frontiere che dividono gli europei rappresenta una contraddizione rispetto all’obiettivo che molti partiti politici e governi vogliono raggiungere: l’unità politica dell’Europa.
 Sulla base di quello che si è fin qui detto e per cominciare a tirare alcune conclusioni sul concetto di cittadino si possono avanzare importanti osservazioni.
Il nuovo aspetto del concetto di cittadino che la realizzazione dell’Europa metterà in evidenza è l’aspetto pluralistico. E il modo più corretto per definire il nuovo tipo di cittadino è quello di cittadino federale europeo. Il concetto di cittadino europeo è infatti un concetto grossolano, giacobino perché sottolinea la cittadinanza esclusiva europea, mentre l’Europa non è una comunità esclusiva (questo fatto risulta ancora più evidente se si pensa che potranno entrare a far parte dell’Europa anche Stati non appartenenti geograficamente al continente europeo). Infatti l’Europa non è la patria, è un insieme di diritti, il diritto di voto, l’indipendenza, il diritto di risolvere il problema della disoccupazione, etc.
In questo nuovo contesto politico, in cui il concetto di cittadino avrà una dimensione pluralistica, plurinazionale e perciò virtualmente cosmopolitica, le comunità locali si caratterizzeranno come comunità autonome e disarmate e rinascerà, pertanto, l’interesse e l’amore per il territorio.
Il problema della rivoluzione federalista sarà quello di estendere a tutto il genere umano le virtualità cosmopolitiche e comunitarie che nasceranno con lo Stato federale europeo. Il compito dei cittadini in Europa sarà quello dunque di anticipare quello che sarà il modello della società di domani con la federazione mondiale iniziando la lotta nelle regioni, nelle città e nei quartieri, per la tutela del patrimonio artistico, urbano e culturale.
Secondo i federalisti, occorre cominciare a recuperare il senso del dovere verso la propria città e la propria regione, tipico dell’esperienza ateniese. L’industrialismo incontrollato ha provocato profonde devastazioni nelle città e nell’ambiente circostante, devastazioni a cui bisogna porre fine rimediando ai disastri fatti: solo chi meglio saprà organizzarsi saprà porre fine alla distruzione dell’ambiente.
Occorre dunque sviluppare questa prospettiva e studiare soluzioni che diano alla cittadinanza tutta la dignità di cui le esperienze del passato l’hanno arricchita.
Una possibile soluzione sarebbe quella di concedere il diritto di voto e quindi la qualifica di cittadino solo a quei giovani che abbiano prestato il loro servizio alla collettività e abbiano in quella circostanza, come del resto prevedeva Rousseau, assunto con un giuramento il solenne impegno di rispettare le leggi e di battersi per cambiarle solo con i mezzi previsti dalla democrazia. Chi non accettasse di adempiere a questi due doveri rimarrà un «tollerato» dal resto della comunità politica e sarà privato dei diritti politici come i meteci dell’antica Grecia.
I giovani federalisti hanno già condotto in passato la battaglia per il servizio civile in alternativa al servizio militare denunciandone gli aspetti ideologici e la inutilità.
Oggi come sostiene Albertini, le cause della vita e della morte di una comunità non concernono più solo la politica internazionale, ma dipendono anche dall’attuazione della programmazione democratica. Va subito aggiunto che con il nome di «programmazione democratica» si intende non solo il controllo pianificato degli elementi materiali (nel senso marxista) del processo storico-sociale, ma occorre comprendere anche quelli territoriali e quindi anche quelli ecologici.
Tuttavia fino ad oggi non si è ancora fatta una politica del territorio, nella misura in cui si precisi (come deve essere precisato) che questa politica «dovrebbe essere nello stesso tempo il risultato della convergenza degli obiettivi di una programmazione globale e del processo di formazione della volontà pubblica». Vale a dire, e qui si deve tenere presente quanto detto a proposito del sistema elettorale a cascata, che la programmazione dovrebbe essere la sintesi finale di un dibattito generale sugli obiettivi che si pongono a tutti i livelli a cui si svolge l’elezione. È da rilevare, però, che non ci può essere «formazione di volontà pubblica dove mancano persino gli strumenti conoscitivi attraverso i quali procedere al censimento locale e comprensoriale delle risorse per la localizzazione delle attività produttive».[2]
L’azione per il servizio civile, che la GFE dovrebbe riprendere, costituisce un ottimo punto di partenza anche per organizzare il censimento delle risorse e cominciare dunque a lavorare nella direzione dell’elaborazione di un progetto globale di riforma della società e della definizione di una nuova filosofia del lavoro.


* Si tratta di un saggio di Domenico Moro, pubblicato su Federalismo militante, n. 59, settembre-ottobre 1979.
[1] M. Albertini, Il Federalismo (Antologia e definizione), pp. 61-62, Bologna 1979.
[2] Mario Albertini, «Discorso ai giovani federalisti », Il Federalista, n. 2-3, agosto 1978.

 

 

 

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