IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 1, Pagina 11

 

 

LE SFIDE ATTUALI E
LE POSSIBILITÀ FUTURE DELL’EUROPA*
 
 
Vorrei dedicare questa conferenza in onore di Monnet, nel ventesimo anniversario della Comunità, ad un unico grande problema, le cui ramificazioni toccano però ogni aspetto della vita europea. Il nucleo centrale dell’argomento che mi propongo di trattare verte sul problema dell’unione monetaria. Questo è un argomento familiare, non certo nuovo; tuttavia, nonostante la sua familiarità, questo problema non è né popolare, né ben compreso. Ma anche per coloro per i quali la questione fa parte dell’abituale orizzonte di teoria e politica economica, occorre sottolineare come lo stato della economia europea e mondiale e la situazione dell’ordine monetario internazionale siano molto mutati rispetto all’ultima volta in cui la Comunità ha discusso il problema in un modo organico. Dobbiamo anche riconsiderare il modo in cui l’unione monetaria debba collegarsi con le politiche comunitarie e, in termini più generali, come sia possibile rendere compatibile il progetto di unione monetaria con la suddivisione delle competenze tra Comunità e Stati membri.
Questa scelta dell’argomento non significa una angusta visione economica delle funzioni della Comunità. Essa è dovuta al fatto patente che la debolezza più rilevante della Comunità è costituita oggi dal suo meccanismo economico centrale. Naturalmente la Comunità ha anche altre funzioni di primaria importanza. Da un lato, essa è fautrice di un certo tipo di società democratica e politica in Europa; dall’altro lato, essa si pone come una entità politica in grado di trattare tutta una ampia gamma di relazioni esterne.
Su questi due fronti, molto resta ancora da fare. Ma nonostante le scosse e le difficoltà del recente passato, le prospettive sono promettenti. Siamo impegnati a consolidare i nostri valori politici democratici, non solo preparando le prime elezioni dirette di un nuovo Parlamento europeo, ma anche affrontando con atteggiamento favorevole, benché non disgiunto da realismo, la possibile adesione di tre nuovi Stati membri — tre Stati che recentemente hanno compiuto lo storico passo che dalla dittatura militare li ha portati alla democrazia parlamentare. Abbiamo visto nelle ultime due settimane una grande nazione europea combattere con efficacia e capacità un grave attentato portato dai terroristi alla libertà individuale e allo stato di diritto, a quei valori fondamentali per il rafforzamento dei quali i nuovi paesi candidati si rivolgono all’Europa per trovarvi sostegno.
Anche nel mondo esterno la Comunità ha al suo attivo solide realizzazioni: la convenzione di Lomé, gli accordi mediterranei e la nostra risposta al dialogo Nord-Sud. Durante gli ultimi sei mesi, la Comunità ha continuato a compiere progressi nell’ambito dei principali negoziati mondiali. E, in verità, i progressi sono stati tali che attualmente ci troviamo di fronte allo spettacolo piuttosto paradossale di un’Europa che viene presa maggiormente sul serio nel mondo esterno che all’interno. Questo è un paradosso che, a mio modo di vedere, non può essere sostenuto indefinitamente. La nostra dimensione di grande blocco commerciale nasconde le nostre divisioni e le nostre disparità sul terreno economico, piuttosto che superarle. Questo non può durare a lungo. Se le debolezze economiche dell’Europa dovessero persistere, impediranno il rafforzamento e forse persino la conservazione della nostra coesione verso l’esterno. Inoltre, la prospettiva dell’allargamento ci porrà di fronte ad una scelta chiara: o rafforzare la Comunità, o accettare tacitamente una debole unione doganale ben lontana dalle speranze dei suoi fondatori e senza molte speranze di riprendere lo slancio di una volta.
Alcuni commentatori pensano che i tempi non siano propizi per nuove idee avventurose. Io non sono d’accordo. L’idea e la stessa politica dell’unione monetaria segnano il passo in un clima di scetticismo subentrato con l’accantonamento del piano Werner, il cui meccanismo relativo ai tassi di cambio è stato sconvolto dai turbolenti eventi monetari degli ultimi anni. La conseguenza è stata un comprensibile spostamento delle opzioni. L’idea del gradualismo è venuta a soppiantare progetti più ambiziosi. Alcuni sembrano credere che sia possibile continuare il cammino verso l’unione monetaria; altri pensano che sia sufficiente un migliore coordinamento. Temo che nessuna di queste due opinioni sia corretta. Gli ultimi anni hanno registrato un regresso piuttosto che un progresso. Comunque, l’idea di un’antitesi fra evoluzione graduale e progresso drammatico è sbagliata. L’evoluzione è un processo che una volta cominciato si svolge sia gradualmente sia per salti. Vi è uno spazio sia per un migliore coordinamento domani, sia per discussioni oggi, circa un piano più ambizioso per dopodomani. Il processo deve essere visto come un tutt’uno. Gli esempi sono il ruolo che la Comunità svolge nel contribuire alla ristrutturazione di industrie di base che versano attualmente in gravi difficoltà economiche e alle misure tendenti ad abolire le residue frontiere, tuttora esistenti, che si frappongono alla libertà di movimento dei beni e dei servizi.
Dobbiamo riprendere in esame la questione dell’unione monetaria perché vi sono nuovi argomenti, nuovi bisogni, nuovi approcci da valutare che vanno al cuore dei nostri attuali problemi apparentemente insolubili, come quelli della disoccupazione, dell’inflazione e dell’equilibrio finanziario internazionale. Vi sono non meno di sette argomenti che io vorrei sottoporre alla vostra considerazione. Il primo e il settimo sono di carattere classico, ma non per questo meno validi. I restanti cinque sono tutti di ordine pratico che devono, però, essere formulati diversamente dalla maniera in cui venivano presentati al principio degli anni settanta.
Il punto cruciale di tutta la problematica è l’ineluttabile internazionalizzazione della vita economica occidentale. È stato un processo lungo e graduale, che non trova però riscontro nell’evoluzione delle istituzioni economiche della Comunità. Gli ultimi quattro anni hanno mostrato i limiti di una sia pur buona politica economica nazionale in Europa. A ciò si è sovrapposta, con i suoi effetti rivoluzionari, la crisi del petrolio — una chiara conferma della fine del vecchio ordine monetario internazionale per effetto della quale, sulla già vulnerabile economia europea, incombe la minaccia di una liquidità internazionale mal distribuita e incontrollata.
Una proposta così radicale, come l’unione monetaria europea, non può essere realizzata tutta d’un colpo. Io credo che dovremmo utilizzare il periodo immediatamente precedente le prime elezioni dirette del Parlamento europeo, per rilanciare un grande dibattito pubblico sui vantaggi dell’Unione monetaria. Cosi facendo dobbiamo tener conto dei problemi di come arrivare da dove siamo a dove vogliamo andare, e di che cosa debba necessariamente accompagnare l’unione monetaria, per apparire vantaggiosa sia alle economie forti, sia a quelle deboli, alle regioni più ricche e a quelle più povere della Comunità.
Vorrei oggi delineare i principali criteri da utilizzare per vagliare la questione. Non spero di incontrare facili consensi sui problemi che questa solleva, alcuni dei quali costituiscono la parte più controversa della teoria economica moderna o sono i più discutibili, nel senso migliore del termine, sul piano politico. Il dibattito deve ora essere riaperto e poi continuato. Non potrà essere concluso presto.
Il primo argomento è che l’unione monetaria favorisce una razionalizzazione più efficace e più avanzata dell’industria e del commercio di quanto non sia possibile con la sola unione doganale. Questo argomento è valido oggi come sempre e trova riscontro nei numerosi tentativi avvenuti nella storia europea, volti a creare unioni monetarie — per esempio: l’unione monetaria austro-germanica del 1857, l’unione monetaria latina guidata dalla Francia nel 1865 e l’unione scandinava del 1873. Un po’ più tardi la sterlina ha costituito una forma diversa di unione monetaria imperiale in una parte vastissima e disparata del globo terrestre. Ma ciò è ormai storia, anche se storia relativamente recente. Per tornare ai nostri giorni, ovunque in Europa, dalle discussioni con uomini d’affari emerge una denuncia, chiara e logica, di quanto sia difficile, quasi impossibile, procedere ad una pianificazione razionale delle loro imprese su scala europea con gli attuali rischi di cambio e con le incertezze inflazionistiche esistenti fra gli Stati membri. La stessa denuncia è spesso espressa da quegli operatori extra comunitari che desiderano incrementare i loro investimenti in Europa o commerciare con l’Europa. Ciò significa che i benefici potenziali, che la Comunità avrebbe potuto trarre dalla instaurazione di un mercato comune, sono ben lungi dall’essere una concreta realtà.
Il secondo argomento è basato sui vantaggi di creare una nuova moneta internazionale, sorretta dalla diversificazione e dall’ampiezza della produzione comunitaria, che sarebbe comparabile a quella degli Stati Uniti, se non esistessero le nostre divisioni e divergenze monetarie. I vantaggi di una moneta europea, quale pilastro congiunto e alternativo del sistema monetario mondiale, sarebbero cospicui e la loro necessità è resa ancor più evidente dagli attuali problemi del dollaro e dagli eventuali effetti destabilizzanti che questi possono produrre. Con un tale sviluppo la Comunità sarebbe liberata da numerosi problemi di breve periodo in materia di bilancia dei pagamenti: potrebbe reagire, in periodi di deficit della bilancia commerciale, diminuendo di qualche punto il tasso di cambio, senza per questo turbare l’equilibrio. Il capitale internazionale sarebbe più stabile in quanto i rischi di cambio sarebbero minori e l’Europa avrebbe tutto da guadagnare dal fatto di battere una moneta a corso mondiale. I problemi attualmente esistenti nei singoli Stati membri, in materia di bilancia dei pagamenti, perderebbero in gran parte la loro caratteristica di vincolo diretto alla politica economica. Molte questioni finanziarie di primaria importanza rimarrebbero da risolvere fra regioni e fra Stati membri, e ne tratterò fra breve: ma il punto essenziale è che la situazione economica europea verrebbe sensibilmente migliorata se la politica macroeconomica non fosse più esposta agli attuali rischi in materia di tassi di cambio e di movimenti finanziari esterni, vere spade di Damocle che incombono oggi su molti Stati europei.
A questo punto si potrà obiettare che, in ogni caso, per tutti gli Stati sono necessarie politiche finanziarie corrette e che non ci si può sottrarre alla necessità di certe discipline valide per tutti semplicemente dislocando a livelli diversi determinati poteri di politica economica. Io stesso sono un fautore di politiche finanziarie prudenti e, in verità, sono stato accusato in passato, quando ero Cancelliere dello scacchiere, del peccato più orrendo: l’eccesso di prudenza. Ma questo argomento non contraddice la mia tesi di fondo. Il problema importante è di vedere quale beneficio si può trarre dalle politiche sagge e anche coraggiose dei governi; oppure, in altri termini, di vedere in che modo il nostro popolo verrà penalizzato da un sistema monetario internazionale praticamente anonimo che amplifica in modo sproporzionato qualsiasi congiuntura sfavorevole di natura politica o economica. Il mio punto di vista è che noi abbiamo il potere di mutare profondamente ed a nostro vantaggio i benefici e i guadagni determinati dal disordine monetario mondiale. Noi dovremmo assumerci il compito di rifondare e restaurare in ampia misura quel sistema. La Comunità ci offre il quadro politico per realizzare una valida ed efficace alternativa a tale sistema, purché se ne abbia l’intenzione e la volontà. La Comunità costituisce l’esatta dimensione unitaria per la politica monetaria, data la particolare struttura delle nostre società, che sono altamente interdipendenti, strettamente connesse e intensamente industrializzate. A livello mondiale o intercontinentale, non esistono probabilmente reali alternative alla fluttuazione dei tassi di cambio; né questo sistema è completamente nocivo là dove i mercati sono separati dalla distanza, dalla società, dai regimi politici, dai livelli di vita, o da vari di questi fattori insieme.
Il mio terzo argomento riguarda l’inflazione. È praticamente certo che l’unione monetaria muterebbe in modo radicale l’attuale panorama, in quanto porterebbe ad un tasso comune di variazione dei prezzi. Ma, pur riconoscendo che questo punto possa essere più controverso, io vorrei anche osservare che l’unione monetaria potrebbe favorire l’aprirsi di una nuova era di stabilità dei prezzi in Europa, provocando una rottura decisiva con l’attuale disordine inflazionistico, ormai cronico. Naturalmente le fonti dell’attuale inflazione sono varie, e la prima di esse, in ordine di importanza, è costituita dalle lotte per la distribuzione del reddito, che possono sembrare di natura essenzialmente nazionale e prettamente politica. Ma supponiamo che ad un certo punto intervenga una riforma monetaria: l’emissione di una nuova unica moneta da parte di un’autorità monetaria europea e l’adozione, da parte di questa autorità, di una politica ferma e relativamente indipendente per quanto riguarda il controllo dell’emissione di moneta e della creazione di moneta bancaria. L’autorità fisserebbe anzitutto tassi traguardo di crescita della massa monetaria coerenti con un nuovo standard europeo di stabilità monetaria, secondo le migliori tradizioni degli Stati membri, in cui i tassi di inflazione sono più bassi. Questo naturalmente comporterebbe la sottrazione ai governi nazionali di taluni importanti controlli su certi aspetti della politica macroeconomica. Ma i governi nazionali, che non si autodisciplinano, già accettano i controlli estremamente rigorosi del Fondo monetario internazionale, un organismo che è ben più lontano da essi e meno sensibile alle loro vedute di quanto non lo sia la Comunità. Inoltre, desidero chiarire che non mi indirizzo a coloro che preferiscono naufragare da soli anziché salvarsi in unione con gli altri: atteggiamenti di questo genere, inevitabilmente, rendono sordi. Mi rivolgo invece a quanti desiderano vedere la Comunità rafforzarsi e crescere, ma al tempo stesso vogliono essere convinti dei benefici pratici di ogni passo in avanti.
Dobbiamo tener presente la novità che il problema dell’inflazione presenta rispetto al fenomeno al quale ci eravamo abituati negli anni cinquanta e sessanta. I tassi di cambio fluttuanti trasmettono impulsi inflazionistici violenti ed improvvisi, che possono colpire uno Stato in qualunque momento, magari proprio quando datori di lavoro, sindacati e governo stanno tentando di mettere a punto o rispettare un coraggioso e delicato programma di stabilizzazione.
Ogni nuovo impulso rimette in moto il processo inflazionistico. L’aumento dei prezzi nel paese che svaluta è molto più sensibile della riduzione dei prezzi nel paese la cui moneta si rivaluta, poiché i salari, e quindi gran parte dei costi di produzione, non possono essere ridotti in termini nominali.
I tassi di cambio possono aumentare e decrescere, mentre il livello dei prezzi tende unicamente al rialzo, come dimostrano tutte le recenti esperienze. Il problema dei tassi di cambio alimenta a sua volta la psicosi dell’inflazione. Il fatto è che l’elevato livello delle attese inflazionistiche, ora endemico in molti dei nostri paesi, genera il rischio, avvertito solo di recente in alcuni Stati membri, dell’iperinflazione, per cui, quasi quasi nel tempo che si impiega per recarsi dalla banca al negozio, il prodotto che si voleva acquistare è diventato troppo caro. È chiaro che esistono i rimedi tradizionali per tentare di contenere e ridurre le pressioni inflazionistiche. Ma l’unione e la riforma monetaria rappresentano il rimedio radicale a questo male. Non dico con questo che la cura sarebbe completa: ad esempio dovremmo pur sempre fare i conti con gli effetti inflazionistici provocati dall’esigenza di conciliare rivendicazioni concorrenti che si indirizzano verso risorse limitate. Ma la disciplina che l’unione monetaria imporrà sarà più rigorosa, non certo meno. Il mutamento del comportamento inflazionistico non dovrebbe essere più pronunciato di quello osservato in alcune recenti politiche di stabilizzazione, ma sarà necessario che esso divenga permanente. Si dovrebbe venire incontro ai legittimi bisogni delle regioni più deboli ben più efficacemente di quanto non si faccia attualmente; ma su questo punto vorrei ritornare fra breve. D’altra parte, i salari dovranno mantenersi, in tutti i paesi, in un rapporto ragionevole con la produttività: a questo riguardo si dovrebbe anche tener conto delle legittime aspettative delle regioni più forti e degli Stati meno inflazionisti.
Il quarto punto riguarda l’occupazione: qualsiasi rimedio anti-inflazionistico a medio termine, che non abbia effetti benefici sull’occupazione, appare oggi inaccettabile. Gli attuali livelli di disoccupazione rappresentano il problema sociale più grave e pericoloso sul tappeto. Nella migliore delle ipotesi, essi producono sterili reazioni nazionalistiche di difesa e immobilismo. Nella peggiore, essi minacciano la stabilità dei nostri sistemi sociali e politici. La Comunità conta attualmente sei milioni di disoccupati: molti sono rimasti sorpresi dell’apparente capacità delle nostre popolazioni di sopportare una tale sciagura. Specialmente nei nostri Stati membri di maggiori dimensioni il tetto di un milione di disoccupati è stato nel dopoguerra a lungo considerato come un livello politicamente invalicabile. Ogni limite immaginabile è stato superato, senza che si verificasse la catastrofe, almeno fino a questo momento. Ma si guardino gli ottimisti dal pensare che questo stato di cose possa persistere a lungo senza arrecare danni irreparabili al benessere di milioni di famiglie direttamente toccate dalla disoccupazione, al morale e alle motivazioni di una intera generazione di giovani, alla stabilità e al consenso nelle nostre società.
In termini economici, ritengo che il problema della nostra disoccupazione sia essenzialmente un problema di flessione della domanda, determinata dai fattori che limitano la nostra capacità di produrre nuovamente un aumento della domanda progressivo, intenso e sostenuto.
Non accetto l’idea che si sia esaurita la capacità dell’Europa di produrre nuova ricchezza, creare nuovi posti di lavoro, stimolare la crescita nella giusta direzione. Fattori ambientali e crisi energetica ci devono costringere a considerare la natura della nostra crescita. In ogni caso dobbiamo produrre di più per pagare l’attuale prezzo del petrolio e per rimpiazzare o adattare processi industriali concepiti per prezzi dell’energia e standards ambientali bassi. Questi problemi strutturali e monetari concorrono a rendere l’attuale livello della disoccupazione estremamente difficile da correggere. Ma questi problemi non dovrebbero essere utilizzati per giustificare politiche disfattiste e erronee che ridurrebbero, in modo permanente, il potenziale dell’economia europea, come ad esempio, una riduzione eccessiva delle ore di lavoro od il pensionamento obbligatorio a cinquantacinque anni.
Dobbiamo inoltre inquadrare l’attuale recessione economica in una prospettiva di lungo periodo. L’estensione e la persistenza della disoccupazione non possono più essere considerate semplicemente come un punto di minimo eccezionalmente basso e prolungato del ciclo economico. Per ristabilire la piena occupazione occorre un nuovo impulso di dimensione storica. Abbiamo bisogno di una forza propulsiva comparabile con quelle che hanno sospinto i principali processi di rinnovamento degli ultimi due secoli: la rivoluzione industriale, l’inaugurazione dell’epoca delle ferrovie, l’impatto di Keynes, la necessità della ricostruzione post bellica, la diffusione fra le masse popolari dei paesi industrializzati di quel tenore di vita che prima era proprio soltanto della classe media. Ritengo che i bisogni del Terzo mondo abbiano da giocare a questo riguardo un ruolo importante. Due fonti di nuova crescita si sono talvolta combinate in passato: l’una di estensione mondiale, l’altra di portata regionale.
Possiamo contemplare la prospettiva dell’unione monetaria europea in questo contesto? Credo che possiamo e dovremmo farlo.
Vi è già un ampio consenso su quanto è necessario per una svolta fondamentale nella tendenza delle prospettive occupazionali dell’Europa: bisogna che ci sia fiducia in politiche economiche stabili e più uniformi atte a favorire gli investimenti e la espansione; bisogna che ci sia un rafforzamento della domanda su basi geografiche più ampie; se l’inflazione deve continuare, essa deve essere di tasso più basso e più uniforme di quello che l’Europa ha conosciuto in questi anni; si deve fare in modo che spasmodiche difficoltà economiche locali non siano ingigantite dai tassi di scambio e dai movimenti di capitale fino a causare una generale crisi di fiducia.
Queste quattro esigenze potrebbero sembrare abbastanza scontate. Il problema è quello di come cambiare radicalmente e in meglio le debolezze istituzionali che hanno ostacolato la possibilità da parte nostra di ristabilire elevati livelli di occupazione in condizioni di stabilità dei prezzi e di un corretto equilibrio nei conti con l’estero. Credo che l’unione monetaria possa schiudere prospettive di questo genere.
La mia tesi non è che la Comunità dovrebbe fare una nuova scelta sulla combinazione di questi obiettivi e ancor meno che noi dovremmo imporre al resto della Comunità una caricatura delle preferenze tradizionali di qualche paese. Gli economisti seguono da anni il peggioramento del rapporto inflazione-occupazione e la progressiva diminuzione dell’efficacia sul processo di aggiustamento della bilancia dei pagamenti della manovra sui tassi di cambio. Le decisioni attualmente necessarie sono politiche piuttosto che semplicemente economiche; e spero che ciò sarà negli anni a venire riconosciuto dagli economisti come una rottura nei confronti dei sistemi accettati e dei modelli correnti. In questo processo dobbiamo altresì eliminare argomenti politici fondati su una teoria economica superata, inadeguata o irrilevante: cioè che gli ostacoli all’integrazione europea discendano dalle diverse propensioni alla inflazione e alla disoccupazione fra gli Stati membri e che i tassi di cambio fluttuanti in Europa permettano a ciascun paese di raggiungere per conto suo un risultato ottimale che sia frutto delle proprie propensioni. Il mondo non è così e noi tutti lo sappiamo bene.
Il quinto argomento che mi propongo ora di esporre riguarda la distribuzione regionale dell’occupazione e del benessere economico in Europa. L’unione monetaria non potrà da sola, come una specie di mano invisibile, assicurare una omogenea distribuzione regionale dei benefici provenienti da un’accresciuta integrazione ed unione economica. Coloro che hanno criticato un modello veramente liberale dell’economia comunitaria, un modello che tende a realizzare una concorrenza perfetta e nulla più, hanno forti argomenti dalla loro parte.
Ma la Comunità di oggi non ha alcun rapporto con la caricatura liberoscambista che ne fanno alcuni dei suoi critici. Né corrisponde al modello che ci dovremmo proporre, secondo me, per un’unione monetaria. Tutti i nostri Stati membri si trovano nell’obbligo di ridistribuire grandissime somme del pubblico denaro e di adottare misure di politica regionale meno forti ma più aperte al fine di assicurare una ragionevole distribuzione delle risorse nazionali e dell’occupazione.
Nella Comunità di oggi, disponiamo di tutta una batteria di strumenti finanziari, ma sono tutte armi piuttosto leggere: i Fondi regionale e sociale, i poteri finanziari della Comunità carbo-siderurgica, la Banca europea degli investimenti e la sezione orientamento del Fondo agricolo. Recentemente la Commissione ha adottato un certo numero di decisioni e di proposte per il coordinamento e l’espansione di questi strumenti. Si tratta di sviluppi in sé apprezzabili, che vanno nella direzione giusta. Ma il loro peso è scarso rispetto sia alle necessità correnti sia al sostegno finanziario che sarebbe necessario ai fini di una completa unione monetaria. Ciò costituisce un esempio di come le necessità pratiche a breve termine e le esigenze di una prospettiva a più lungo termine procedano parallelamente. Questa contraddizione non esiste in moderne economie integrate.
Il flusso della finanza pubblica fra regioni assolve a diverse funzioni essenziali: in primo luogo fa progredire le infrastrutture e promuove gli investimenti industriali nelle aree più povere; in secondo luogo, attenua le oscillazioni cicliche nella attività economica di singole regioni; in terzo luogo, assicura livelli minimi dei servizi di base; in quarto luogo consente di sopportare eccedenze e deficit nelle bilance dei pagamenti regionali di un ordine di grandezza diverso e maggiore di quelli che sarebbero causa di crisi se si verificassero tra paesi diversi.
Questo rappresenta il principale meccanismo di compensazione che agisce quando una regione o uno Stato non è in grado di condurre una propria politica monetaria o relativa ai tassi di cambio.
L’Europa deve pensare nei termini della stessa logica economica. Se la Comunità deve prendere sul serio il proprio obiettivo dichiarato di unione monetaria — e ci sono molti pericoli in obiettivi dichiarati ma non presi sul serio — è indispensabile prevedere un sistema integrato di finanza pubblica. Le regioni deboli della Comunità devono essere rassicurate in modo convincente contro la paura che l’unione monetaria aggraverebbe le loro difficoltà economiche. Le regioni forti, a loro volta, devono avere una contropartita in termini di mercati più stabili, più sicuri e più prosperi. Il loro interesse a garantire l’unità del mercato è preponderante. Nel contesto di una Comunità allargata dovrebbe essere ben chiaro che stiamo parlando dei mezzi con i quali possiamo evitare o ridurre eccessivi movimenti di popolazione dalle aree più povere verso quelle più ricche. Ciò potrebbe fin troppo facilmente condurre ad un ulteriore impoverimento delle une e ad un intollerabile congestionamento delle altre.
La Comunità deve considerare in modo realistico anche il grado di convergenza dei risultati economici che deve aspettarsi prima e dopo la creazione dell’unione monetaria. Per quanto riguarda i prezzi, l’unione monetaria ha effetti radicali. Le differenze interregionali tra i livelli di vita non possono essere trattate in modo così drastico. Ma non dobbiamo scoraggiarci. Cinquanta anni fa gli Stati Uniti presentavano un maggior grado di disparità regionale che non la Comunità di oggi. Cento anni fa esso era quasi certamente ancora più grande. Questa analogia non dovrebbe essere spinta troppo lontano, ma è non di meno di interesse considerevole.
Il sesto argomento riguarda le questioni istituzionali, il livello al quale le decisioni devono essere prese e il grado di decentramento che noi dovremmo cercare di mantenere in seno alla Comunità. L’unione monetaria implicherebbe la creazione di una nuova importante autorità per gestire il tasso di cambio, le riserve valutarie e le linee direttive della politica monetaria interna.
La finanza pubblica che deve sostenere l’unione monetaria da me appena descritta determinerebbe un incremento sostanziale dei trasferimenti di risorse tramite le istituzioni comunitarie. Si pone allora la questione: è possibile conciliare l’unione monetaria con le forti pressioni che si manifestano in quasi tutti i nostri Stati membri in favore di un governo più, anziché meno, decentrato? Io credo che la risposta può e deve essere affermativa, ma ciò esige che si preveda un modello molto particolare e originale rispetto alla divisione futura delle funzioni fra i vari livelli di governo.
Questo è un tema che non è stato affatto considerato in modo sistematico nell’ambito della Comunità nel corso dei vent’anni trascorsi da quando i trattati di Parigi e di Roma hanno definito taluni settori di competenza comunitaria. La politica monetaria può venir decentrata soltanto in misura molto limitata. Per la maggior parte delle politiche per le quali è necessario un intervento finanziario dello Stato è vero invece il contrario. Il notevole incremento della spesa pubblica del periodo postbellico, che ormai quasi raggiunge il 50% del P.N.L., ha evidenziato la necessità di un governo operante, a seconda dei paesi, a vari livelli: locale, regionale, statale, nazionale, etc. Si tratta di un processo salutare e naturale, che evita una concentrazione monolitica del potere economico e politico, consente una più efficiente specializzazione per i vari livelli di governo e associa inoltre più strettamente i popoli al processo decisionale.
Il modello federale è chiaramente solo una delle possibili forme di struttura statuale a più livelli. Alcuni sono favorevoli al modello federale; altri preferirebbero una struttura confederale; altri ancora sono contrari sia all’uno che all’altra. Per parte mia ritengo che la Comunità debba escogitare una soluzione originale e che questa ben difficilmente corrisponderà ad alcun modello esistente. Dobbiamo costruire l’Europa sulla base degli Stati nazionali di questo scorcio del ventesimo secolo. Tutto ciò che dobbiamo fare è di attribuire alla Comunità quelle funzioni che, al di là di ogni ragionevole dubbio, diano risultati significativamente migliori se svolte a livello comunitario. Dobbiamo costruire una Comunità che offra ad ogni Stato membro la possibilità di conseguire risultati che non può raggiungere da solo. Dobbiamo altresì lasciare agli Stati membri quelle funzioni che essi direttamente possono espletare altrettanto bene se non meglio.
Desidererei dare un esempio che illustri per quali ragioni l’Europa dovrebbe evitare di imitare i modelli esistenti. Il governo federale degli Stati Uniti aumentò enormemente di importanza allorché accelerò lo sviluppo del sistema di sicurezza sociale, perché gli Stati non avrebbero agito con sufficiente rapidità, e perché alcuni Stati erano palesemente in ritardo. Per contro, i nostri servizi nazionali di previdenza e assistenza sociale, benché non siano né perfetti né fra di loro identici, sono, tuttavia, altamente sviluppati e presentano strutture simili. Nella maggior parte degli Stati membri la spesa di previdenza e assistenza sociale ammonta a circa il 25% del P.N.L. Ecco un esempio significativo di come il modello europeo di governo non abbia bisogno di prevedere uno sviluppo della spesa comunitaria di dimensioni pari a quelle tipiche di uno Stato federale.
Penso che si possa identificare le funzioni che sarebbero rilevanti per l’Europa: quegli aspetti delle relazioni esterne in cui occorre disporre di un potere contrattuale a livello intercontinentale; alcune attività di ricerca e sviluppo che comportano economie di scala a livello di una popolazione di duecentocinquanta milioni di abitanti; la politica industriale relativa a quei settori che, per loro stessa natura, abbiano una dimensione europea, o perché comportano rilevanti economie di scala (come l’industria aerospaziale e l’industria elettronica), o perché sono strettamente legate alla politica commerciale, come nel caso di industrie in difficoltà con capacità produttiva in eccesso (ad esempio l’industria siderurgica, quella tessile, quella cantieristica), oppure perché riguardano interessi strategici che sono indivisibili tra gli Stati membri, come nel caso della politica energetica. Infine, occorre una politica finanziaria che contribuisca a sostenere la integrazione dell’economia europea, il mantenimento dell’equilibrio regionale e quindi il funzionamento dell’unione monetaria.
Recentemente, un gruppo di economisti indipendenti, presieduto da Donald MacDougall, ha stimato l’importo complessivo della spesa pubblica a livello europeo necessaria per questo tipo di Comunità. Rispetto all’attuale spesa comunitaria, che è pari all’incirca all’uno per cento del P.N.L., essi hanno calcolato che progressi estremamente importanti sulla via dell’integrazione economica possano realizzarsi con una spesa del 2-2,5% del P.N.L.; e che un’unione monetaria nel suo stadio definitivo possa funzionare con una spesa dell’ordine del 5-7% del P.N.L. Naturalmente, si tratta di somme ingenti cui si potrà far fronte gradualmente trasferendo alcune voci di spesa dai bilanci nazionali e non introducendo nuove imposte; tuttavia queste somme sono esigue se rapportate a quelle delle federazioni tradizionali in cui il livello superiore di governo assorbe il 20-25% del P.N.L.
Esiste quindi per la Comunità un modello nuovo e realistico di unione monetaria altamente decentrata, nella quale l’erogazione pubblica di beni e servizi è principalmente devoluta al livello nazionale o regionale o locale. Le funzioni di finanza pubblica di una tale Comunità sarebbero ridotte a pochi tipi di trasferimenti finanziari molto efficaci, adempiendo a compiti specifici in settori di particolare interesse comunitario e assicurando il flusso di risorse necessario a sostenere l’unione monetaria. Date queste caratteristiche, la burocrazia centrale avrebbe un organico molto esiguo: cosa che tutti, ne sono certo, riterranno un vantaggio.
Le implicazioni politiche sarebbero invece rilevanti. Dobbiamo essere sinceri a questo proposito. Il trasferimento dei poteri di politica monetaria al livello europeo rappresenterebbe per l’attuale generazione di leaders politici europei, un passo politico altrettanto importante quanto per la passata generazione la costituzione dell’attuale Comunità. Ma dobbiamo avere il coraggio di porre il quesito fondamentale: intendiamo creare una unione europea oppure no? Di fronte alla prospettiva inevitabile e davvero auspicabile di un allargamento, intendiamo potenziare ed approfondire la Comunità, oppure no? Avrebbe senso chiedere ai popoli e ai governi d’Europa di puntare all’unione non fosse altro che per il fatto che una sovranità reale ed efficiente in materia monetaria è già sfuggita loro in larga misura. La prospettiva dell’unione monetaria dovrebbe essere considerata come parte del processo di recupero di una sovranità sostanziale. Attualmente, invece, noi cerchiamo di attaccarci alla sua ombra. Questi argomenti non sono peraltro diretti contro la cooperazione internazionale, quale ad esempio si concreta nell’O.C.S.E. o nel F.M.I. Al contrario, abbiamo bisogno di migliorare il funzionamento dell’economia internazionale perfezionandone le parti costitutive. La disunione monetaria in Europa rappresenta una delle maggiori incrinature del sistema internazionale, così come pregiudica il funzionamento dei nostri Stati di piccola e media grandezza.
Sul settimo ed ultimo argomento potrò essere molto breve perché, come il primo, è tradizionale: si tratta dell’argomentazione politica diretta secondo cui l’unione monetaria si presenta come veicolo dell’integrazione politica europea. Nel 1949 Jacques Rueff dichiarava «L’Europe se fera par la monnaie ou ne se fera pas». Non sarei necessariamente così categorico, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che una unione monetaria europea coronata da successo porterebbe l’Europa al di là della soglia politica. È altrettanto evidente che l’Europa di oggi non è preparata a perseguire l’obiettivo dell’unione monetaria unicamente per ragioni ideologiche: per muoversi in questa direzione l’Europa ha anche bisogno di argomenti persuasivi di ordine materiale. È quanto ho cercato di fare, esponendo alcuni degli argomenti di natura economica.
Riassumendo, dobbiamo cambiare la prospettiva in cui abbiamo sempre considerato l’unione monetaria. Alcuni anni fa guardavamo ad essa come si osserva la cima di una montagna con un potente binocolo: la vetta sembrava abbastanza vicina, e abbiamo tracciato, per raggiungerla, una strada relativamente accessibile, facile, graduale e breve. Ma poi è arrivata una valanga, che ha spazzato via quella strada: il contraccolpo è stato tale che negli ultimi tempi sembrava perfino che guardassimo alla vetta con il binocolo alla rovescia e sfocato.
È mia convinzione che occorra un approccio nuovo, più cogente e più remunerativo, ma ancora arduo. In linguaggio ancora metaforico pensiamo ad un saltatore in lungo che comincia con una rapida successione di passi, poi allunga la corsa, aumenta lo slancio e infine spicca il salto. La creazione di una unione monetaria sarebbe un salto di questo tipo. Le misure dirette a migliorare l’unione doganale e la libera circolazione di beni, servizi e persone sono passi importanti. Passi più lunghi sono l’elaborazione delle politiche esterne, la creazione di istituzioni più democratiche su cui fare maggiore affidamento, l’elaborazione di politiche industriali e regionali più coerenti, l’adozione di strumenti di politica finanziaria adeguati a mantenere in equilibrio l’intero movimento. Dobbiamo guardare prima di saltare e sapere quando dobbiamo atterrare. Ma, alla fine, dobbiamo pur saltare.
Non dobbiamo soltanto fare il meglio nelle circostanze contingenti: dobbiamo anche dare al nostro popolo un obiettivo al di là di quanto è immediatamente possibile. La politica non è soltanto l’arte del possibile ma è anche — come diceva Jean Monnet — l’arte di rendere possibile domani ciò che può sembrare impossibile oggi.


* Conferenza tenuta da Roy Jenkins, presidente della Commissione delle Comunità europee, presso l’Università europea di Firenze, il 27 ottobre 1977.

 

 

 

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