IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 1, Pagina 25

 

 

INDIRIZZO DI ROY JENKINS
AL PARLAMENTO EUROPEO RIUNITO AL LUSSEMBURGO IL 17 GENNAIO 1978
 
 
Sono lieto di iniziare questo nuovo anno di cooperazione tra il Parlamento e la Commissione europea con un dibattito su una questione veramente fondamentale: quella dell’unione economica e monetaria. Ritengo che vi siano pochi temi più importanti di questo per il futuro della nostra Comunità. Esso trova il suo posto naturale accanto agli altri due che stanno al centro dei nostro pensieri: le elezioni dirette di questo Parlamento e la prospettiva dell’ampliamento della Comunità.
Unione monetaria europea, democrazia diretta europea e inclusione nella Comunità di tre Stati nazionali europei che tanto hanno dato alla nostra comune civiltà, rappresentano una sfida per le nostre istituzioni, che può consolidarle definitivamente o distruggerle. Può darsi che questa sfida sia diversa da quelle affrontate dai «padri fondatori»; ma è altrettanto reale, e se ci riveleremo incapaci di fronteggiarla o di resistere alla tentazione di negarne l’esistenza, come talvolta accade, allora temo seriamente per il futuro della Comunità. Perché la Comunità, se non sarà in grado di progredire, col tempo finirà inevitabilmente per regredire.
Le connessioni tra unione monetaria, elezioni dirette e allargamento della Comunità sono evidenti. L’unione monetaria richiede un rafforzamento della nostra democrazia a livello comunitario. Un Parlamento direttamente eletto dovrà chiaramente impegnarsi su un problema di così grande portata, sia per i cittadini europei, sia per le altre istituzioni comunitarie. Per quanto riguarda l’allargamento della Comunità, uno dei suoi obiettivi principali è quello di rafforzare le istituzioni democratiche in paesi dove, in tempi recenti, esse sono state fragili. Non vi è via migliore per perseguire questo obiettivo che quella di includere questi paesi nel Parlamento comunitario eletto direttamente. Inoltre siamo quasi tutti d’accordo, credo, sull’esigenza che l’allargamento della Comunità non debba avere l’effetto di diluirla e di indebolirla. E non vi è via più sicura per prevenire questo pericolo che quella di inquadrare questo processo nell’ambito della unione monetaria.
Ma il fatto che questi problemi siano tra loro collegati, non impedisce di discuterli separatamente, purché non si perda di vista la prospettiva generale. Oggi vorrei parlare dell’unione monetaria, che ha un suo rilievo autonomo.
Nel prendere questa iniziativa, la Commissione ha sempre riconosciuto che, sebbene il primo passo debba consistere nel definire con maggior chiarezza l’obiettivo e quindi la direzione nella quale muoverci, il passo successivo deve consistere nel riorientare le attuali responsabilità operative della Comunità. Ciò significa riesaminare i nostri sforzi per migliorare il coordinamento delle politiche economiche, per ampliare e fare un uso migliore degli strumenti finanziari a nostra disposizione e per sviluppare la nostra politica industriale e le altre politiche settoriali. Questi punti, così come l’obiettivo di fondo, sono stati esposti nella Comunicazione presentata lo scorso dicembre dalla Commissione al Consiglio europeo.
Allora la Commissione cercò di dimostrare che il progredire verso l’unione economico-monetaria rappresenterebbe un contributo decisivo per lo sviluppo e la stabilità. Abbiamo anche affermato che ciò rafforzerebbe la coesione della Comunità in un momento in cui questo è di vitale importanza, e rappresenterebbe al tempo stesso un fattore essenziale per il riordinamento del sistema monetario internazionale. Come già sapete, abbiamo ricevuto dal Consiglio europeo l’incoraggiamento che chiedevamo. Varie istituzioni comunitarie, come il Comitato monetario, il Comitato per la politica economica, ed il Gruppo dei governatori delle Banche centrali devono ora riesaminare le nostre proposte. Sarà anche nostra cura presentare le nostre idee sugli obiettivi che dovrebbero essere raggiunti nel primo anno del nostro piano quinquennale. Naturalmente durante questo processo il Parlamento sarà pienamente informato e consultato.
Voglio ora occuparmi dell’obiettivo in se stesso. Nessuno può pretendere che l’idea dell’unione economica e monetaria sia nuova. Voglio rendere omaggio qui a tutti coloro che in posizioni governative o parlamentari, e nell’ambito della Commissione, hanno svolto in passato, su questo tema, tanto lavoro. Ma penso che molti degli argomenti a favore dell’unione economico-monetaria siano relativamente nuovi e che i vecchi argomenti risultino rafforzati dagli sviluppi recenti. Permettetemi di illustrarli brevemente:
Primo: l’unione monetaria favorirebbe un più efficace ed ordinato sviluppo dell’industria e del commercio. Penso che siano pochi gli operatori economici i quali, indipendentemente dai loro dubbi sulla volontà politica, credano che l’eliminazione dei rischi di cambio e delle incertezze derivate dai processi inflazionistici tra i paesi membri non avrebbe un poderoso effetto nel ristabilire la fiducia.
Secondo: l’unione monetaria porterebbe all’Europa tutti i vantaggi connessi ad una delle più importanti monete internazionali, sostenuta da realtà economiche sufficientemente forti e diversificate, da fare di tale moneta certamente un attivo e non un onere. Gli Stati Uniti, pur con una bilancia dei pagamenti debole, traggono grandi vantaggi da una simile posizione. Per la prima volta dopo tanti anni gli Europei sarebbero liberati dalla loro eccessiva dipendenza dal dollaro, oggi ancora il solo mezzo di scambio internazionale effettivo, anche se sempre più insoddisfacente.
Terzo: l’unione ci aiuterebbe a controllare l’inflazione e ci offrirebbe le risorse per ricuperare collettivamente il controllo sui prezzi e sulla domanda, che la maggior parte dei governi ha, su base nazionale, perduto.
Quarto: l’unione creerebbe un nuovo potente stimolo allo sviluppo e quindi all’occupazione. Abbassando barriere e offrendo ai nostri popoli un maggior senso di sicurezza e maggiori opportunità, essa costituirebbe un mezzo per liberare nuove energie, in misura paragonabile a ciò che avvenne all’inizio dell’era delle ferrovie o all’aumento del tenore di vita delle masse nell’ultimo decennio. Un impulso di questo tipo è oggi assolutamente necessario se vogliamo ricuperare i livelli d’occupazione e la fiducia nello sviluppo degli anni ‘60.
Quinto: essa va combinata con iniziative dirette a realizzare una migliore distribuzione regionale del lavoro e della ricchezza in Europa attraverso interventi miranti ad accelerare il flusso di mezzi di pagamento pubblici. Le regioni più depresse della Comunità devono essere convinte che le loro difficoltà non saranno aggravate, mentre le regioni più ricche devono sapere che potranno contare su mercati più stabili e sicuri. L’Europa farà significativi progressi solo quando sarà possibile dimostrare che tali progressi portano beneficio sia alle economie forti che a quelle deboli della Comunità.
Sesto: l’unione economico-monetaria deve essere parte di un processo nell’ambito del quale cerchiamo un equilibrio tra la necessità di prendere alcune decisioni a livello più elevato di quello nazionale (sempre che si vogliano prendere delle decisioni e non semplicemente dare delle risposte a processi sui quali non abbiamo alcun controllo) e le esigenze di decentramento del potere politico ed economico. Non vi è contraddizione in ciò. Se l’unione postula ovviamente la concentrazione di poteri monetari, la nostra esperienza dalla guerra in poi suggerisce l’opportunità di un decentramento delle scelte sull’impiego della spesa pubblica. Dobbiamo proporci di attribuire alla Comunità solo quelle funzioni che essa può esercitare al meglio.
Settimo: io credo che nessuna proposta di unione politica abbia significato pratico senza il fondamento dell’unione economico-monetaria. E, senza di ciò, l’allargamento comporterà, quasi inevitabilmente, un indebolimento di ciò che abbiamo già conseguito.
Dei sette argomenti da me indicati, solo il primo e l’ultimo sembrano avere lo stesso significato che avevano dieci anni fa. Inoltre lo stesso approccio generale è mutato. Sette anni fa la via da percorrere sembrava quella dei progressivi restringimenti dei margini di oscillazione dei tassi di cambio sino ad arrivare alla fissità dei cambi. Ora invece dobbiamo gestire un sistema di tassi fluttuanti con un gruppo di paesi raggruppati intorno alla moneta che è, attualmente, la più forte della Comunità. Evidentemente l’approccio deve essere diverso.
Ma non è questa la sede per analizzare in dettaglio come si sono modificati gli approcci all’unione monetaria o gli argomenti tecnici a suo favore. Penso che sia utile piuttosto concentrare il mio discorso su tre aree di particolare interesse per il Parlamento, anzi, a proposito delle quali gli orientamenti del Parlamento saranno della massima importanza: in primo luogo l’aspetto dell’ordine monetario internazionale, in secondo luogo la connessioni tra sviluppo, inflazione ed occupazione e, terzo, gli aspetti istituzionali a livello comunitario.
Soffermiamoci, in primo luogo, sul sistema monetario internazionale. Il sistema nato a Bretton Woods ha reso ottimi servizi a tutti noi per una generazione. Nel 1968 si è incrinato. Nel 1971 è sostanzialmente crollato. Da allora non vi è stato, in realtà, alcun sistema. E in questo campo, come in altri, senza un «sistema» (e talora, perfino con un «sistema») il potere va dove ci sono grandi risorse. Poche cose sono più frustranti per chi crede nell’Europa quanto il vedere che noi, che pure abbiamo grandi risorse, sembriamo incapaci di organizzarle, di impiegarle, e di porle sotto un controllo centrale. Senza un riordinamento del sistema monetario europeo, gli Stati membri continueranno ad essere sottoposti a tutti i rischi a breve termine legati ai mutamenti dei tassi di cambio — rischi che colpiscono sia i paesi con bilance dei pagamenti forti che quelli con bilance dei pagamenti deboli — con le profonde implicazioni sulla politica economica interna dei singoli paesi che ne derivano. In una unione monetaria problemi di questo tipo possono essere affrontati con un ben diverso grado di equilibrio in una più ampia prospettiva. Ho già citato i vantaggi della creazione di una nuova e forte moneta internazionale. In tal modo contribuiremmo a creare ordine dall’attuale disordine internazionale. La Comunità ha la dimensione giusta per perseguire questo obiettivo, ed è in condizione, con il suo stesso peso, di dare al sistema monetario internazionale un nuovo grado di stabilità.
Piuttosto che ripetere i discorsi generali ormai a tutti familiari sui temi di «sviluppo, inflazione ed occupazione», vorrei rovesciare l’impostazione suggerendo di metterei nei panni dei singoli Ministri delle finanze che devono fronteggiare i problemi quotidiani della politica economica.
Dovremmo far fronte a livelli record di disoccupazione. Non intravvederemmo prospettive immediate per un mutamento di tendenza. Sapremmo che tra oggi e il 1985 il numero dei giovani che prevedibilmente si aggiungerà alla forza di lavoro potenziale della Comunità supererà di 9 milioni il numero degli anziani che, nello stesso periodo, lasceranno il loro posto di lavoro. Secondo le regole di gestione dell’economia tradizionalmente adottate nel dopoguerra, questo sarebbe il momento di iniettare nell’economia potere d’acquisto addizionale, così da portare la disoccupazione ad un livello più tollerabile. La nostra prima reazione di ministri consapevoli dei costi umani e sociali della disoccupazione sarebbe esattamente questa.
Ma, così come stanno le cose ora, non saremmo in grado di seguire il nostro istinto. Prima di intraprendere una qualsiasi azione, dovremmo chiedere a noi stessi ed ai nostri consulenti: un intervento espansionistico di questo tipo quali effetti produrrebbe sui prezzi e sull’attività dell’economia reale? Le risposte sarebbero scoraggianti.
Negli Stati membri con monete deboli o vulnerabili, la risposta sarebbe più o meno la seguente. Una significativa espansione del deficit pubblico o della domanda aggregata rischierebbe di provocare una crisi valutaria. Una brusca caduta dei tassi di cambio indurrebbe una nuova accelerazione nel tasso d’inflazione. Farebbe anche aumentare le attese inflazionistiche cosicché il negoziato salariale diventerebbe più difficile. E da ultimo, ma non certo meno importante, destabilizzerebbe il clima finanziario generale, con effetti negativi sia sui consumi che sugli investimenti. In breve, l’espansione della domanda aggregata produrrebbe molto probabilmente un rapido effetto negativo sul livello dei prezzi, accompagnato solo da conseguenze dubbie ed in ogni caso ritardate sulla produzione e sull’occupazione.
Tanto basti sulla possibile diagnosi della situazione nei paesi a moneta debole. Ma in paesi con moneta forte la situazione non è molto migliore. Le economie forti europee — a differenza degli Stati Uniti — dipendono in grande misura dalle esportazioni per stare a galla. Ciò significa che i loro livelli di investimenti sono determinati dall’andamento della domanda al di là delle loro frontiere perlomeno nella stessa misura che dall’andamento della loro domanda interna. Perciò misure per stimolare la domanda interna non possono probabilmente che avere un effetto limitato sull’occupazione. Perciò persino nelle economie forti i governi sono scoraggiati dal prendere misure per l’espansione dell’economia — sia attraverso un aumento della spesa pubblica che agevolando l’offerta di credito — dal timore che gli effetti sull’occupazione restino comunque incerti e lenti mentre gli effetti sui prezzi saranno rapidi e dannosi.
Non è perché i governi siano indifferenti ad elevati tassi di disoccupazione che la Comunità è ancora nella morsa della recessione. Il fatto è che, nella Comunità come è ora, ogni Ministro delle finanze si sente chiuso in una trappola che, almeno in parte, è un problema di dimensioni. Se i Ministri dei paesi con economie più deboli potessero superare una crisi valutaria e se quelli dei paesi più forti sapessero di poter contare su una domanda sostenuta in altri paesi della Comunità, allora ognuno si sentirebbe in grado di prendere quelle misure che sa essere le migliori a lungo termine. L’unione monetaria non offre una via per uscire automaticamente da questa trappola, ma sono convinto che rappresenti la soluzione migliore per far saltare la trappola.
Ed infine vorrei toccare alcuni aspetti istituzionali che l’unione economico-monetaria comporta per la Comunità. È chiaro che l’unione monetaria comporta necessariamente un bilancio comunitario più ampio e redistributivo. Secondo il rapporto sul ruolo della finanza pubblica nel processo di integrazione economica europea, redatto dal gruppo di economisti noto come «Gruppo McDougall», l’unione monetaria richiederebbe un volume di spesa a livello comunitario pari a circa il 5-7% del prodotto nazionale lordo della Comunità, in paragone con l’attuale bilancio della Comunità che è meno dell’1% del prodotto nazionale lordo totale della Comunità stessa. La maggior parte della spesa addizionale avrebbe natura ridistributiva. Il suo scopo sarebbe di indirizzare risorse verso le regioni più povere della Comunità non tanto per perseguire un’uguaglianza di sviluppo economico quanto per assicurare una ragionevole distribuzione del grande incremento di ricchezza che l’unione monetaria renderebbe disponibile. I processi ridistributivi già esistenti, attraverso i quali i singoli Stati membri ridistribuiscono risorse tra le loro regioni più forti e quelle più deboli, sarebbero così realizzati su scala più vasta a livello comunitario.
Mutamenti di questo tipo rappresenterebbero una formidabile sfida alla nostra capacità creativa sul piano istituzionale. Con un livello di spesa pari al 5% del prodotto nazionale lordo totale, il bilancio della Comunità rimarrebbe enormemente inferiore al bilancio nazionale di ogni Stato membro, come pure al bilancio centrale di Stati a struttura federale. L’idea che l’unione monetaria comporterebbe la creazione di una federazione europea secondo il modello degli Stati Uniti o della Germania federale è sbagliata. Altrettanto sbagliata è l’idea che un tale sviluppo comporti la creazione di una nuova ed onerosa burocrazia a Bruxelles. Vale la pena di ricordare qui che una delle ragioni dell’ampiezza della macchina governativa e del bilancio federale in paesi come gli Stati Uniti è che in tali paesi fanno capo al governo federale importanti responsabilità nel settore della spesa per l’assistenza sociale. lo non vedo la necessità di centralizzare responsabilità di questo tipo in Europa.
D’altra parte, non vi è dubbio che la creazione di un’unione monetaria comporterebbe un significativo trasferimento di poteri dai governi degli Stati membri alla Comunità. Ma ciò è inevitabile, se, quando parliamo della creazione di una Unione europea, intendiamo dare alle parole il loro significato. Due delle funzioni generalmente considerate tra le più importanti di un governo moderno — il controllo sui tassi di cambio ed il controllo sull’offerta di moneta — sarebbero esercitate da un’istituzione centrale comunitaria invece che dai singoli governi. Ma val la pena di chiederci quale effettivo controllo su queste funzioni viene oggi esercitato dai singoli governi membri. Come ex-Cancelliere dello scacchiere, non posso trattenermi dal pensare che essi tendano a trovarsi nella peggiore delle condizioni possibili: l’apparenza della responsabilità senza alcun potere reale.
Ma comunque stiano le cose, la nostra proposta rappresenta indubbiamente un mutamento radicale, sia sul piano istituzionale che sul piano psicologico, e dobbiamo prenderne atto.
Nessuno di noi ha ancora sviluppato delle idee su quali istituzioni sarebbero necessarie. Dovremo studiare come dovrà essere costituita l’unione monetaria, quali debbano essere le sue relazioni con i governi membri, quali le sue relazioni con le altre istituzioni comunitarie ed in particolare con il Parlamento, nei confronti di chi dovrà essere responsabile e con quali modalità. Vi è evidentemente un ampio ventaglio di possibilità: ad un estremo si può pensare ad un organismo sotto la sorveglianza permanente dei Ministri delle finanze; all’altro a qualcosa del tipo del Federal Reserve Board statunitense che — ricordiamolo — è responsabile nei confronti del Congresso e non dell’esecutivo. È mia personale convinzione che, come la Comunità non ha paralleli in altre moderne istituzioni, così qualunque cosa noi creeremo dovrà essere disegnata «su misura» per tener conto delle nostre esigenze costituzionali.
A mio parere i due aspetti che ho discusso e cioè la dimensione e la forma del futuro bilancio comunitario, come pure la natura delle nuove istituzioni di cui avremo bisogno, sono argomenti particolarmente adatti per le analisi ed i dibattiti di questo Parlamento nel periodo che ci sta davanti. È mia viva speranza che il Parlamento vorrà esercitare il suo diritto di contribuire al dibattito. Anzi ciò è indispensabile. In questo settore, come in altri, vi deve essere uno scambio di idee più approfondito tra il parlamento e la Commissione che tra tutte le istituzioni comunitarie.
L’argomento del dibattito odierno è così vasto ed ha tante implicazioni che non pretendo di aver dato nulla più che una prima impostazione del problema. Tra breve il vicepresidente Ortoli parlerà a voi su altri aspetti del problema, ma io apro il dibattito avendo bene in mente il pensiero che ebbi modo di esprimervi un anno fa: di rivolgermi a questo Parlamento di oggi come se già fosse il Parlamento eletto direttamente di domani.

 

 

 

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