IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 1, Pagina 33

 

 

IL BILANCIO DELLA COMUNITÀ
NELLA FASE DELL’INTEGRAZIONE PRE-FEDERALE*
 
 
Fra le conclusioni del Comitato Marjolin due meritano di essere richiamate per la loro importanza e la loro attualità. La prima sottolineava che l’unione monetaria era ancora un obiettivo molto lontano e che si sarebbe realizzata soltanto quando vi fosse stato un bilancio della Comunità molto più ampio di quello attuale: a) per favorire una maggiore convergenza nei risultati economici fra gli Stati membri; b) per fornire un meccanismo automatico di riaggiustamento, adeguato per compensare le fluttuazioni di breve periodo nella bilancia dei pagamenti dei paesi membri.
La seconda conclusione del Comitato era che, mentre vi era stata un’enorme quantità di discussioni sull’unione doganale e sull’unione monetaria, si era prestata scarsissima attenzione ad un altro aspetto molto importante dell’unione economica, e cioè alla finanza pubblica — in altre parole, alla spesa pubblica ed alle imposte.
La Commissione ha pertanto deciso, alla fine del 1974, di affidare ad un piccolo gruppo l’incarico di studiare il ruolo futuro della finanza pubblica nell’integrazione economica europea. Ho avuto l’onore di essere chiamato a presiedere questo gruppo (che includeva tre studiosi, fra cui io, che avevano già fatto parte del Comitato Marjolin), composto da professori di economia provenienti dalla Repubblica Federale Tedesca, il Regno Unito, l’Italia, la Francia, l’Irlanda e il Belgio. Abbiamo anche usufruito della validissima collaborazione di due consulenti, molto informati nel settore del «federalismo fiscale», provenienti dall’Australia e dagli Stati Uniti. Siamo stati inoltre assistiti da un segretariato di prim’ordine proveniente dalla Direzione generale per gli affari economici e finanziari della Commissione, guidato da Michael Emerson, che ora lavora nel Gabinetto di Roy Jenkins. In larga misura il nostro gruppo ha avuto la natura di un comitato di coordinamento di numerosi ricercatori molto qualificati, senza il cui lavoro il nostro Rapporto non avrebbe mai visto la luce.
Il Rapporto si divide in due parti: un primo volume, il Rapporto generale, di circa 70 pagine; e un secondo volume di circa 500 pagine. Il Rapporto generale contiene un sommario di 8 pagine per il lettore che desidera avere una rapida informazione sulle nostre conclusioni. Questo sommario attinge ampiamente al Rapporto generale, che entra molto più in dettaglio nella valutazione del materiale disponibile e nell’analisi. Il Rapporto generale, a sua volta, attinge ampiamente al volume II, che contiene 17 lavori originali preparati da membri del gruppo, dai nostri due consulenti statunitense ed australiano e, infine, dal segretariato.
Io spero che questi documenti rappresentino negli anni prossimi una miniera di informazioni e di analisi per i funzionari, i commissari, i parlamentari europei e nazionali, e per tutti coloro che sono interessati ai problemi della finanza pubblica di una Comunità europea in via di sviluppo.
Abbiamo deciso di iniziare da un esame delle unioni economiche esistenti: cinque federazioni (Germania occidentale, Stati Uniti, Canada, Australia e Svizzera) e tre Stati unitari (Francia, Italia e Regno Unito) — otto paesi in tutto.
Abbiamo naturalmente ritenuto assai improbabile che nei prossimi anni la Comunità possa raggiungere nel settore della finanza pubblica un’integrazione pari a quella delle unioni economiche esistenti che abbiamo studiato. Ciò nonostante, pensiamo che la nostra analisi aiuti a chiarire in che modo le attività fiscali della Comunità potrebbero essere ampliate e migliorate durante, ad esempio, il prossimo decennio.
 
Le principali conclusioni emerse dallo studio degli otto paesi e della Comunità attuale.
Le pagine 12 e 13 del Rapporto generale sintetizzano i nove punti più rilevanti emersi dal nostro studio degli otto paesi posti in raffronto con la Comunità attuale. Credo che molti di questi punti siano di per sé interessanti, prescindendo dagli insegnamenti che se ne possono trarre per lo sviluppo della finanza pubblica della Comunità. Sceglierò, fra questi nove punti, i cinque più rilevanti come ordine di grandezza e per altri aspetti.
1. La spesa pubblica rappresenta nei paesi membri della Comunità circa il 45% del prodotto lordo (si tratta di una media ponderata per i singoli Stati). La spesa di tutte le istituzioni comunitarie è pari allo 0,7%. Negli Stati federali che abbiamo studiato, la spesa pubblica del solo governo federale — distinta cioè da quella dei livelli inferiori di governo — rappresenta circa il 20-25% del prodotto lordo.
2. La seconda conclusione sintetizza i risultati di un enorme lavoro statistico. Noi abbiamo oggi in Europa una Comunità in cui la diseguaglianza geografica fra Stati più ricchi e Stati più poveri è almeno altrettanto grande quanto le diseguaglianze regionali nei livelli di reddito all’interno degli otto paesi studiati, anche prima di tener conto degli effetti redistributivi della finanza pubblica.
3. Il terzo punto è costituito da un altro risultato statistico importante e originale. Negli otto paesi, la spesa pubblica e il prelievo fiscale riducono in media la diseguaglianza regionale del 40%. Questo significa che, se si tiene conto degli effetti della finanza pubblica — che aiuta le regioni più povere a spese di quelle più ricche —, vi è una diseguaglianza geografica molto minore all’interno delle otto unioni economiche che abbiamo studiato rispetto a quella esistente all’interno della Comunità attuale — che oggi fa molto poco, attraverso il bilancio comunitario, per ridurre queste diseguaglianze, in parte a causa delle ristrette dimensioni del bilancio e in parte perché le spese e le entrate della Comunità hanno un potere redistributivo territoriale per unità di conto assai limitato.
4. Analizzando i modi in cui la finanza pubblica provoca questo effetto riequilibratore negli otto paesi, abbiamo riscontrato una differenza importante fra Stati unitari Stati federali.
Negli Stati unitari una parte rilevante della redistribuzione totale fra le regioni si verifica automaticamente ed è in un certo senso «invisibile»; redditi elevati vanno di pari passo con elevati prelievi fiscali e redditi bassi con un largo godimento di servizi forniti a livello centrale e di trasferimenti.
Negli Stati federali, d’altro lato, i trasferimenti fra i diversi livelli di governo e le compartecipazioni al gettito svolgono un ruolo molto più rilevante. Questi strumenti permettono di conseguire risultati redistributivi relativamente ampi con un ammontare di spesa federale relativamente piccolo, in quanto i trasferimenti netti interregionali costituiscono, in misura più ridotta rispetto agli Stati unitari, il risultato di differenze fra pagamenti lordi di ampie dimensioni che fluiscono nelle opposte direzioni. Questa osservazione suggerisce che una larga parte della redistribuzione desiderata potrebbe essere attuata in una federazione europea con un bilancio della Comunità relativamente modesto — molto più limitato di quanto non avvenga negli Stati unitari esistenti ed anche negli Stati federali esistenti.
5. Abbiamo rilevato che, oltre a redistribuire il reddito fra le regioni in modo continuativo, la finanza pubblica giuoca un ruolo di rilievo nelle unioni economiche esistenti per bilanciare le fluttuazioni cicliche di breve periodo. Per esempio, attraverso minori pagamenti all’autorità centrale di imposte e di oneri sociali e più elevati introiti di contributi di disoccupazione e di altri benefici. In questo caso viene ripresa una delle principali conclusioni del Rapporto Marjolin, fornendo un’idea dell’ampiezza del meccanismo automatico di riaggiustamento che è necessario per sostenere un’unione monetaria.
 
Implicazioni per il ruolo futuro della finanza pubblica nella Comunità.
Il Rapporto prosegue quindi analizzando le implicazioni di questi fatti sul ruolo futuro della finanza pubblica nella Comunità. Noi distinguiamo tre situazioni possibili.
In primo luogo, abbiamo ritenuto che una federazione europea in cui la spesa pubblica federale sia all’incirca il 20-25% del prodotto lordo (pari a quella delle federazioni esistenti che abbiamo studiato) sia, in termini operativi, un obiettivo molto lontano nel tempo.
Uno stadio precedente è costituito da una federazione con una spesa pubblica federale molto più ridotta, dell’ordine del 5-7% del prodotto lordo, o di circa il 7,5-10% se si include anche la difesa.
Queste valutazioni non sono arbitrarie, e il metodo attraverso cui vi siamo giunti è illustrato nel Rapporto. Una ragione importante per cui esse sono assai inferiori al 20-25 % è che in una federazione siffatta l’offerta di servizi sociali rimarrebbe quasi totalmente a livello nazionale. Noi abbiamo cercato di definire una federazione che si concentri, per quanto possibile, sul livellamento geografico della produttività, degli standards di vita e sul controllo delle fluttuazioni temporanee. Abbiamo concluso che una soluzione di questo tipo potrebbe, se si concentrasse con sufficiente energia su questi obiettivi, sostenere un’unione monetaria, anche se fra i membri del gruppo si sono manifestati gradi diversi di consenso, in parte perché non vi è alcuna esperienza storica su cui fondarsi, dal momento che non vi è mai stata prima una federazione con questo tipo di bilancio.
Noi abbiamo scelto di concentrarci prevalentemente nel Rapporto su una terza situazione che chiamiamo «il periodo della integrazione pre-federale», durante il quale viene gradualmente sviluppata la struttura della Comunità, grazie anche all’elezione diretta del Parlamento europeo. Si può prevedere che la spesa pubblica al livello della Comunità cresca fino a circa il 2-2,5% del prodotto lordo. Anche in questo caso abbiamo giustificato la scelta di tali cifre.
Nel valutare quali funzioni potrebbero essere svolte in maniera efficiente a livello comunitario nella situazione che stiamo esaminando, abbiamo tenuto conto, oltre che dell’esperienza degli otto paesi presi in esame, della realtà politica da noi considerata, e di tre criteri principali.
La prima giustificazione per un intervento della Comunità si manifesta laddove vi sono economie di scala, incluso un maggior potere contrattuale nei confronti dei paesi terzi. Questo criterio si applica prevalentemente nelle relazioni esterne (il che è già una realtà nel commercio estero; una realtà parziale, che potrebbe essere estesa, negli aiuti ai paesi in via di sviluppo, una possibilità nel settore dell’energia e della cooperazione politica; non ancora una possibilità per quanto riguarda gli armamenti, anche se questo fatto non esclude una cooperazione ad hoc fra singoli Stati membri). Sono anche possibili economie di scala nell’attività comunitaria per quanto riguarda la tecnologia avanzata, gli standards industriali e tecnici, ecc.
Il secondo criterio si realizza quando vi sono «effetti esterni» da una parte della Comunità verso un’altra, ovvero verso tutto il resto della Comunità. Un esempio importante, durante la fase della «integrazione pre-federale», può essere rappresentato dall’attività comunitaria nell’area delle politiche strutturali e cicliche (regionale, della manodopera, contro la disoccupazione) per assicurare, nella misura del possibile, che i benefici di una integrazione più accentuata si distribuiscano fra tutti e che vi sia una crescente convergenza — o almeno una riduzione delle divergenze — nei risultati economici degli Stati membri. Queste misure dovrebbero indurre una riduzione delle diseguaglianze nei redditi pro-capite fra le varie parti della Comunità. La situazione negli otto paesi studiati conferma che questa è una componente necessaria di un’unione economica.
In terzo luogo — e io attribuisco una notevole importanza a questo fattore — noi riteniamo che oggi la maggior parte dei governi membri sia riluttante ad accrescere in modo significativo la spesa pubblica complessiva a tutti i livelli — comunitario, statale e locale — come percentuale del prodotto lordo. Su questo punto ho trovato un accordo completo da parte di tutti i miei colleghi per quanto riguarda i loro paesi di origine. Questo significa che si deve fare affidamento in larga misura su trasferimenti di spesa dal livello nazionale a quello comunitario; su risparmi, per quanto possibile, nella spesa attuale della Comunità (per esempio, nel settore agricolo, che oggi assorbe i due terzi del bilancio comunitario); per l’impiego dei metodi meno costosi per raggiungere gli obiettivi prefissati (e a questo riguardo si possono trarre utili indicazioni dalle esperienze delle federazioni esistenti); ed escludere regolamenti, armonizzazioni che non giustificano i costi burocratici addizionali e gli altri costi che essi comportano.
 
Possibili variazioni nella spesa della Comunità.
Alla luce di queste diverse considerazioni, e al fine di stimolare la discussione fra coloro che sono responsabili dell’attività concreta (noi non avanziamo alcuna raccomandazione precisa nel nostro Rapporto), vengono indicate le principali direzioni di cambiamento della spesa della Comunità durante la fase della «integrazione pre-federale».
In primo luogo, gli aiuti allo sviluppo potrebbero in via di principio essere trasferiti integralmente al livello comunitario (sono già trasferiti in parte) e potrebbero conseguire economie di scala, da un lato riducendo i costi amministrativi sia per il paese donatore che per quello che riceve gli aiuti, e dall’altro aumentando la consistenza degli aiuti ricevuti distribuendo l’area di raccolta su uno spazio più vasto.
In secondo luogo, abbiamo un’importante conclusione negativa. Noi non riteniamo che vi sia una giustificazione, in questa fase, per un rilevante impegno della Comunità nel settore dei servizi sociali, con la possibile eccezione dell’istruzione professionale e dell’assicurazione contro la disoccupazione.
In terzo luogo, riteniamo che la maggior necessità di una spesa sostanziale da parte della Comunità nella fase della «integrazione pre-federale» si manifesti nell’area delle politiche strutturali, cicliche, regionali e dell’occupazione. Lo scopo di queste politiche dovrebbe essere prevalentemente (ma non esclusivamente) quello di aiutare a ridurre le differenze interregionali nella dotazione di capitale e nella produttività, aiutando i paesi più deboli a migliorare i loro risultati piuttosto che ad accrescere, attraverso puri e semplici sussidi, i loro livelli di consumo privato e pubblico. Noi abbiamo esaminato sei alternative.
1. Una partecipazione maggiore della Comunità negli aiuti della politica regionale.
2. Una partecipazione maggiore della Comunità nella politica del mercato del lavoro.
3. Un Fondo comunitario per la disoccupazione organizzato nel modo suggerito dal Rapporto Marjolin, con una parte dei contributi dei lavoratori che affluiscono alla Comunità e una parte dei sussidi ai disoccupati che provengono dalla Comunità. Questo non significa necessariamente che debbano aumentare la spesa pubblica totale o i contributi nella Comunità nel suo insieme. Il Fondo potrebbe avere un effetto redistributivo non insignificante e contribuirebbe anche a bilanciare le fasi recessive temporanee in singoli Stati membri, avvicinando parzialmente l’obiettivo della messa in atto di meccanismi automatici di riaggiustamento necessari per sostenere l’unione monetaria.
4. Una politica limitata di integrazioni di bilancio per gli Stati membri più deboli. Nelle federazioni esistenti come il Canada, gli Stati Uniti e la Germania sono previste politiche di integrazioni di bilancio che riportano la capacità fiscale degli Stati membri intorno alla media nazionale. Noi abbiamo suggerito una cifra molto più modesta per l’Europa, pari al 65%. Riteniamo anche che questo fatto possa essere importante nel contesto delle nuove adesioni di paesi dell’area mediterranea. (Anche la cifra ridotta che abbiamo indicato risulterebbe assai costosa rispetto al bilancio attuale della Comunità).
5. e 6. Abbiamo anche suggerito due possibili politiche anticicliche per evitare che una maggiore convergenza fra i paesi membri sia rallentata da acuti problemi congiunturali.
Abbiamo tentato una stima grossolana del costo netto derivante dalle nostre indicazioni. Riteniamo che esse non dovrebbero accrescere la spesa pubblica totale ad ogni livello di più dell’1% del prodotto reale della Comunità. Devo sottolineare che questo dato va raffrontato con quanto altrimenti si sarebbe verificato; e io spero che molti paesi saranno in grado di diminuire la loro spesa nazionale in percentuale rispetto al P.N.L. nei prossimi anni in modo da conseguire una riduzione rispetto alla situazione attuale della spesa pubblica totale a tutti i livelli. Una buona parte dell’aumento da noi suggerito nella spesa della Comunità implica trasferimenti di spesa dal livello nazionale a quello comunitario (per esempio, i programmi di aiuti e il previsto fondo per la disoccupazione), in modo che si possa avere un bilancio comunitario pari all’incirca al 2-2,5% del prodotto lordo rispetto allo 0,7% attuale accrescendo la spesa totale — netta — dell’1%, o ancor meno, del prodotto lordo (di nuovo, in riferimento a quanto altrimenti si sarebbe verificato).
 
Metodi di finanziamento.
Noi abbiamo anche discusso il problema del finanziamento ed esaminato tutte le alternative pensabili. La maggior parte di queste possibilità è stata scartata in quanto impraticabile in un futuro prevedibile. Fra queste, l’imposta sulle società e l’imposta sul reddito. Si potrebbe ottenere un gettito non trascurabile dal Fondo di disoccupazione, se venisse istituito. A parte questo, abbiamo ritenuto che la via più adeguata per il futuro prevedibile fosse quella fondata sull’I.V.A. come già avviene oggi, ma superando il limite attuale dell’1%. Abbiamo anche suggerito una fonte addizionale, anch’essa basata sull’I.V.A. (in modo che risulti più semplice), ma di natura progressiva: partendo dalla base attuale dell’imposta sul valore aggiunto, questa potrebbe essere modificata in relazione, per esempio, alla capacità definita ai fini dell’imposta personale sul reddito, che è basata, grosso modo, sugli standards di vita. In conseguenza di ciò, tanto per fare un esempio, il Regno Unito pagherebbe circa l’80% di quanto dovrebbe pagare secondo il sistema attualmente in vigore, mentre la Germania pagherebbe all’incirca il 130%.
 
Politica congiunturale.
Infine, abbiamo considerato le prospettive della politica congiunturale, ossia di una politica volta a controllare le fasi espansive e recessive attraverso il bilancio della Comunità. A nostro avviso non vi è molto spazio per una politica deliberata di finanziamento in deficit su larga scala — con notevoli aumenti nella spesa e notevoli riduzioni nel prelievo negli anni di recessione —, soprattutto perché si attenuerebbe in questo modo, nella mente dei politici, il legame fra spesa pubblica e necessità di finanziarla lungo un arco temporale pluriennale attraverso il prelievo fiscale. Le dimensioni limitate del bilancio della Comunità durante il periodo della «integrazione pre-federale» limiterebbero inoltre, in misura rilevante, le prospettive per un suo impiego nella politica di stabilizzazione. Abbiamo tuttavia ritenuto che, come ho ricordato sopra, vi siano prospettive per soluzioni meno audaci destinate a prevenire problemi ciclici acuti negli Stati membri più deboli, che accrescerebbero le divergenze economiche. Ma, in generale, abbiamo ritenuto che un finanziamento in deficit negli anni di recessione e un surplus di bilancio negli anni di espansione dovrebbero limitarsi a impedire comportamenti destinati ad accrescere le fluttuazioni cicliche, che si manifesterebbero se il bilancio dovesse chiudersi ogni anno esattamente in pareggio.
 
Conclusione.
Questa è una breve sintesi del contenuto del Rapporto, ed io e i miei colleghi speriamo che esso si dimostri di una qualche utilità, non soltanto come descrizione di quanto potrebbe accadere in un futuro remoto e indistinto, ma anche per aiutare a chiarire il pensiero su un rilevante numero di problemi che si presenteranno in ogni caso nei prossimi cinque o dieci anni. Noi speriamo inoltre che il Rapporto possa essere ampiamente discusso, sia all’interno che all’esterno delle istituzioni comunitarie e, per esempio, nel Comitato economico e sociale e nel Parlamento europeo.


* Si tratta di un sommario del Rapporto Mac Dougall, redatto da Mac Dougall stesso e pubblicato su New Europe.

 

 

 

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