IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 2, Pagina 131

 

 

APERTURA IN CAMPIDOGLIO
DELLA CAMPAGNA DI INFORMAZIONE E DIBATTITO
SULL’ELEZIONE EUROPEA E L’UNIONE EUROPEA*
 
 
RELAZIONE INTRODUTTIVA
DI GIUSEPPE PETRILLI
 
 
La mia presenza a questo tavolo in qualità di relatore, non costituisce un atto di cortesia formale verso gli amici federalisti che hanno promosso l’odierna manifestazione, ma un’esplicita assunzione di corresponsabilità politica, nella quale sento di poter coinvolgere, al di là di ogni formalismo, l’intero Movimento europeo. Vorrete quindi consentirmi di entrare senza preamboli nel vivo del discorso, chiarendo a quanti hanno voluto onorarci stamani della loro presenza e della loro attenzione il senso di questa iniziativa, cui l’augusto ambiente capitolino potrebbe a torto attribuire un significato prevalentemente celebrativo. In realtà, noi siamo qui per compiere un atto politico la cui rilevanza non può essere misurata esclusivamente dall’autorevolezza delle adesioni ricevute e dalla quantità e qualità delle presenze. Siamo qui, dicevo, per assumerci le nostre responsabilità e per porre, così facendo, anche gli altri di fronte alle loro; per richiamare l’attenzione di tutti — governo, classe politica e intera opinione pubblica nazionale — sulla singolarità del momento, decisivo e forse irripetibile, che oggi attraversa la causa dell’unità europea alla quale dedichiamo da tanti anni il nostro impegno concorde.
Tutti oggi avvertono che qualcosa si è mosso, o meglio si è messo in moto, sia pur faticosamente, sulla via dell’integrazione europea. Anche nel nostro Paese, i giornali e le riviste non mancano di dedicare maggiore spazio alle vicende della Comunità che, nonostante la strutturale debolezza dei suoi meccanismi decisionali, sembra aver riacquistato, da qualche mese a questa parte, un maggiore mordente. Manca tuttavia pressoché ovunque una seria analisi della nuova situazione e delle prospettive che le si aprono. A livello della classe politica, continua per di più a regnare un diffuso scetticismo, da cui sembra assente ogni reale percezione delle possibilità offerte dall’attuale momento storico e dell’entità della posta in gioco. Tale scetticismo è indubbiamente correlato ad una larga prevalenza di contingenti preoccupazioni di politica interna che fanno velo ad una visione storica di più ampio respiro. Mi si consenta di dire che esso è anche percepibile nella sostanziale indifferenza con cui da parte di molti è stata accolta anche l’odierna iniziativa dei federalisti.
Questo stato di cose contraddittorio, che certo non facilita il nostro impegno, lo rende ancor più necessario. Per chi, come noi, è reduce da una lunga marcia nel deserto ed è abituato ad un’indifferenza malamente rivestita di auspici generici e di giaculatorie di circostanza, è già molto sapere che vi siano oggi contraddizioni oggettive su cui sia possibile far leva. Da molti anni a questa parte, infatti, non si era data una situazione storica che offrisse all’iniziativa europea possibilità comparabili a quelle che oggi si potrebbero cogliere in presenza di una volontà politica adeguata. E diciamo questo senza trionfalismo, perché sappiamo per esperienza che le occasioni storiche possono anche essere perdute e che la coscienza più lucida non può mai costituire una garanzia per il successo dell’azione. Quanti pensano che i soliti fanatici dell’Europa si siano entusiasmati puerilmente per gli obiettivi ambiziosi definiti dall’ultimo Vertice di Parigi, senza tener conto delle difficoltà reali, hanno preso un grave abbaglio per quanto ci riguarda. La nostra fiducia nella possibilità — e soltanto nella possibilità — di un vero rilancio europeo non si fonda in primo luogo su questo o quel passo del comunicato finale, ma sull’emergenza di circostanze storiche che, al di là delle stesse presumibili intenzioni dei protagonisti, hanno conferito nuova attualità al discorso centrale dell’integrazione europea: quello degli strumenti istituzionali.
Per quanto mi riguarda personalmente, io non avrei accettato di parlare in questa sede se non condividessi la tesi dell’amico Albertini e in genere dei federalisti italiani, secondo cui la ragione di fondo della ritrovata attualità del problema europeo risiede nella gravità della crisi internazionale che oggi attraversiamo, crisi comparabile soltanto a situazioni come i fatti ungheresi, la crisi coreana e la crisi di Suez, che coincisero non a caso con il compimento di rilevanti progressi sulla via dell’integrazione. Il paragone, da lui proposto con insistenza negli ultimi mesi, fra l’attuale congiuntura europea e quella determinatasi all’inizio degli anni ‘50 e in cui si collocarono le contrastate vicende del progetto di Comunità europea di difesa, può forse riuscire sgradito ai gruppi politici che allora avversarono tale progetto, come del resto fece una parte degli stessi federalisti. Esso rimane tuttavia valido a mio giudizio nella misura in cui, senza rivangare le polemiche di allora, s’intendano confrontare due situazioni nelle quali una condizione di emergenza internazionale costituisce una spinta obiettiva alla ricerca di soluzioni specificamente europee, in alternativa ai rischi di un isolamento che può significare emarginazione o addirittura colonizzazione.
Per quanto riguarda la situazione attuale, la concretezza di questi riferimenti mi sembra del resto di immediata evidenza. Fino ad un recente passato l’alternativa per i nostri Paesi sembrava essere quella tra un salto qualitativo, che trasformasse l’unione doganale in unione economica e monetaria, e una dispersione della stessa unione doganale in una più vasta liberalizzazione degli scambi tra i Paesi industriali dell’Atlantico e del Pacifico, proposta con insistenza dalla diplomazia americana. Di fronte all’incalzare della crisi mondiale, questa prospettiva liberoscambista ha perso ogni attualità ed è stata sostituita dal rischio indubbio che il tentativo di ristabilire nell’ambito nazionale l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, compromesso o almeno gravemente minacciato ovunque, conduca al diffondersi di pratiche commerciali e monetarie di natura protezionistica. Potrebbe così riprodursi ancora una volta una spirale fin troppo nota, conducente dall’inflazione alla recessione e da quest’ultima al protezionismo, all’autarchia e alla conseguente esasperazione nazionalistica. L’incombere di questa prospettiva catastrofica conferisce di per sé nuova urgenza al discorso dell’unione economica e monetaria, cioè allo sforzo di pervenire ad una globalizzazione della bilancia dei pagamenti comunitaria, globalizzazione impensabile in assenza di sostanziali progressi sul terreno politico-istituzionale.
Nelle presenti condizioni storiche, sarebbe peraltro illusorio ritenere che la cooperazione economica europea sia di per sé sufficiente a fare dei nostri Paesi un’isola di prosperità. In questo senso, la crisi mondiale agisce altresì come un fattore coesivo nella misura in cui fa emergere, sia pure negativamente, l’oggettiva comunanza di interessi esistente tra i nostri Paesi che, a differenza delle due massime potenze, sono esclusivamente consumatori di prodotti petroliferi e dipendono quindi dall’importazione per quanto riguarda il loro fabbisogno energetico. La peculiarità di questa situazione vale da sola a porre i nostri Paesi in una situazione intermedia tra gli interessi contrapposti, situazione che praticamente non lascia aperte alternative valide alla ricerca di nuove forme di cooperazione finanziaria e commerciale con i Paesi produttori di materie prime e in primo luogo di prodotti petroliferi. Il problema fondamentale resta quello di realizzare forme di riciclaggio delle disponibilità acquisite dai Paesi produttori, per la parte che eccede le possibilità di assorbimento delle rispettive economie, attraverso la realizzazione di programmi di sviluppo, ai quali l’industria europea possa arrecare il proprio contributo tecnologico e con i quali possa essere avviata la diversificazione economica degli stessi Paesi in via di sviluppo che non sono produttori di materie prime pregiate. Proprio a questo riguardo può presentare interesse l’analogia storica tra il progetto di conferenza tripartita elaborato dalla diplomazia francese e attualmente in via di faticosa realizzazione e il progetto della Comunità europea di difesa, dovuto anch’esso ad un’iniziativa francese, accolta non senza reticenze da parte americana. In entrambi i casi, come a mio parere ha rilevato correttamente l’amico Albertini, la diplomazia francese ha infatti interpretato, sia pure per motivi diversi, l’esigenza di ricercare soluzioni specificamente europee a problemi di interesse più generale ed è assai significativo in questo contesto che la Comunità europea sia chiamata a partecipare con una sola voce alla conferenza che si sta preparando. Oggi come allora, sia pure per ragioni di diversa natura, è infatti la sicurezza dei nostri Paesi ad essere messa in discussione ed oggi come allora appare manifesta la strutturale inadeguatezza di soluzioni soltanto nazionali. Oggi come allora, è infine presente il rischio innegabile che, in mancanza di decisivi progressi sulla via dell’integrazione istituzionale, i nostri Paesi vedano accentuata una condizione di vassallaggio, con pregiudizio della funzione equilibratrice che sono chiamati a svolgere nell’ordine internazionale in ragione dei loro stessi interessi.
Questo è dunque il motivo per cui, nonostante delusioni ancora recenti, abbiamo ritenuto di dover prendere sul serio il discorso riaperto dal Vertice di Parigi in ordine agli aspetti istituzionali del problema europeo. Lo abbiamo fatto senza perdere di vista quella che altri chiamerebbe la politica delle cose, cioè i problemi concreti che i nostri Paesi sono chiamati a risolvere nelle presenti circostanze e che daranno in definitiva contenuti storici precisi alle forme istituzionali. Non a caso, per quanto più direttamente ci riguarda, il Movimento europeo si è occupato in un recente convegno napoletano degli squilibri economici e sociali nell’ambito nazionale, nella Comunità Europea e nel mondo. Non a caso il nostro interesse si appunta in questo momento sul problema del Mediterraneo e sulla ricuperata attualità che potrebbe trovare nella nuova situazione storica la funzione tradizionale del nostro Paese, quale tramite principale tra Europa continentale e bacino del Mediterraneo. Il problema istituzionale, tuttavia, non è un semplice corollario delle soluzioni politiche, delegabile ai cultori di questo tipo di tecnica giuridica, ma costituisce al contrario il principale presupposto di ogni possibile soluzione. Per questo motivo, riteniamo di doverci impegnare pienamente in questo tipo di battaglia, cercando di concorrere, nella misura delle nostre possibilità, a indirizzare nel senso auspicabile la pressione che, nonostante tutto, deriva in questo momento dalla stessa forza delle cose.
Certo, le indicazioni che il Vertice parigino ha fornito a questo riguardo non sono univoche e prive di contraddizioni. Tra le righe del comunicato finale traspare largamente la giustapposizione di linee contrastanti tra loro. In primo piano c’è ancora la vecchia ipotesi confederale, che si esprime attraverso l’istituzionalizzazione dei vertici, di cui abbiamo avuto in questi giorni un primo saggio nel Consiglio europeo di Dublino, e c’è il rafforzato ruolo dei rappresentanti permanenti… C’è tuttavia anche una manifesta preoccupazione di non compromettere l’equilibrio istituzionale creato dai Trattati di Parigi e di Roma, salvaguardando le connotazioni originarie del metodo comunitario, grazie in particolare al progressivo abbandono della regola dell’unanimità nelle deliberazioni del Consiglio. Ancor più lontano, e nella giusta direzione, si spingono tanto la coraggiosa riaffermazione dell’importanza da attribuirsi al sistema delle risorse proprie quanto soprattutto le decisioni relative all’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, decisioni che accolgono finalmente, almeno in linea di principio, una rivendicazione da noi ritenuta prioritaria rispetto ad ogni altra.
Sono chiari quindi i limiti e il significato del nostro consenso alle decisioni parigine. Noi constatiamo obiettivamente che in presenza della nuova situazione determinatasi nei rapporti internazionali la linea della diplomazia francese si è evoluta, e non certo a caso, in senso europeista, fino al punto di individuare, sia pure in modo non esente da contraddizioni, la necessità di una ripresa della tematica istituzionale. Rileviamo altresì che da parte tedesca i rischi di una disgregazione economica della Comunità sono stati avvertiti tanto da indurre a gesti significativi, in linea di principio più ancora che in linea di fatto, come il varo del fondo regionale europeo e che da parte britannica vi è stata una maggiore disponibilità negoziale, come le notizie più recenti sembrano confermare, nonostante l’incertezza derivante dalla prospettiva del prossimo referendum. In questo senso, riteniamo che nella nuova situazione si siano aperte prospettive reali di avanzamento della causa che ci sta a cuore.
Anche in termini formali, del resto, ci sono serie ragioni di pensare alla possibilità di progressi istituzionali importanti. Se è vero infatti che, per quanto riguarda l’Unione europea, il mandato conferito al Primo ministro belga Tindemans in vista dell’elaborazione di un rapporto di sintesi, da prepararsi sulla base dei rapporti delle istituzioni della Comunità e di consultazioni con gli ambienti rappresentativi dell’opinione pubblica comunitaria, rimane in definitiva un puro impegno di procedura, aperto ai più diversi sviluppi, è anche vero che la decisione già assunta in ordine all’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto costituisce a questo proposito un’indicazione precisa, la cui importanza non potrebbe essere sottovalutata. Non essendo pensabile che i governi possano tornare al riguardo sulla decisione già presa, quali che siano per essere gli ostacoli ed i rinvii incontrati dalla realizzazione del progetto, il documento Tindemans e il Trattato che sarà successivamente elaborato dovranno comunque prevedere una struttura istituzionale comprendente un Parlamento eletto con elezioni di primo grado. Una struttura del genere presuppone per sua natura una evoluzione di tutto il sistema verso un modello propriamente federale. Anche a questo riguardo ci soccorre del resto il precedente già più volte citato della Comunità europea di difesa, che rappresentò per la illuminata iniziativa degasperiana l’occasione ed il punto di avvio di una strategia politica grazie alla quale si sarebbe giunti alla decisione di costituire una Comunità politica e di affidare all’Assemblea allargata della C.E.C.A. l’elaborazione del relativo statuto. Ancora una volta, il riferimento a questa esperienza storica è fatto in questa sede al solo fine di indicare come le stesse contraddizioni di una struttura istituzionale manifestamente inadeguata possano essere sfruttate per compiere decisivi progressi sulla via della sua razionalizzazione. Voglio aggiungere tuttavia a questo proposito che oggi come allora la finalità ultima di un impegno di questa natura non potrebbe essere che quella di evitare i rischi di deviazioni tecnocratiche e corporative impliciti in un sistema di tipo funzionalistico, riaffermando i diritti del controllo democratico, quali possono esercitarsi in un processo di integrazione plurinazionale solo col dare vita ad istituzioni autenticamente federali.
È significativo del resto che l’importanza di questa occasione storica sia stata immediatamente percepita dallo stesso Parlamento europeo con l’approvazione, nella seduta del 14 gennaio scorso, di un progetto per la propria elezione a suffragio universale diretto, destinato ad essere sottoposto al Consiglio della Comunità. Si tratta di un progetto che offre una piattaforma realistica a tutto il problema stabilendo in particolare che, fino al momento dell’elaborazione da parte dello stesso parlamento europeo di un sistema elettorale uniforme, sia applicabile anche a questo fine il sistema elettorale previsto dalle disposizioni interne di ciascuno Stato membro. L’esistenza di questo progetto, approvato col voto contrario di due deputati danesi e con l’astensione del gruppo comunista, costituisce a mio giudizio il punto su cui far leva fin d’ora anche sul terreno nazionale per ottenere da parte del nostro governo un impegno più deciso ed esplicito a favore di soluzioni istituzionali avanzate. Se ieri non si ritenne da parte italiana di assumere una posizione di punta nel pur auspicato processo di democratizzazione delle istituzioni comunitarie attraverso l’adozione del disegno di legge di iniziativa popolare relativo all’elezione unilaterale diretta dei nostri rappresentanti a Strasburgo, sarebbe oggi molto più facile svolgere un ruolo analogo, prendendo posizione senza ulteriori indugi in sede comunitaria a favore del progetto elaborato dal Parlamento europeo e dichiarando la disponibilità del nostro governo a proporne rapidamente la ratifica nonché ad anticipare, se possibile, la data prevista per le elezioni, riferentesi alla prima domenica di maggio del 1978.
Analoga consapevolezza delle possibilità offerte dal nuovo corso inaugurato dal Vertice parigino, ha manifestato dal canto suo la Commissione europea rivendicando apertamente, con la conferenza stampa del presidente Ortoli del 10 gennaio scorso, le responsabilità politiche che le incombono più che mai nel nuovo contesto. La piattaforma politica definita dalla Commissione in questa circostanza, indica, non a caso, alcune priorità, d’ordine interno e internazionale, che derivano direttamente dalla congiuntura mondiale, politica ed economica, e propone d’altra parte un impegno di più ampio respiro per il rilancio dell’Unione economica e monetaria e per l’approfondimento dei contenuti politico-istituzionali dell’Unione europea. A quest’ultimo riguardo, si ha notizia che anche uno dei governi tradizionalmente più sensibili alla tematica istituzionale, quello olandese, avrebbe affrontato fin d’ora autonomamente il problema, creando un’apposita Commissione di studio. Infine, la circostanza che il mandato conferito dal Vertice parigino al presidente Tindemans, faccia espresso riferimento alle consultazioni da condursi con gli ambienti rappresentativi dell’opinione pubblica comunitaria e che a tal fine una esplicita sollecitazione sia già stata rivolta dall’interessato al Movimento europeo, apre a tutte le forze federate del nostro ambito e in primo luogo alle associazioni a prevalente vocazione europea, come l’Unione europea dei federalisti, un’occasione anche formale di inserirsi in una situazione in movimento, al fine di esercitare ad ogni livello e nel modo più efficace la funzione di stimolo e di pressione che loro naturalmente compete.
Non è questa la sede per affrontare in modo organico il problema dei contenuti di una costituzione europea, né questo è il compito che mi è stato affidato. Il mio intervento a questa manifestazione perderebbe tuttavia molto del suo significato se tralasciassi di esprimere il mio pieno consenso personale rispetto a due rivendicazioni caratterizzanti, formulate dai federalisti, che trovano larghe adesioni anche nel più vasto ambito del Movimento europeo e nel nostro Paese più che altrove. La prima di queste rivendicazioni si riferisce al nocciolo stesso della futura costituzione europea che, in un contesto caratterizzato a priori dalla presenza di almeno una camera eletta a suffragio universale, non può a nostro giudizio non avere carattere federale. Non si può ignorare la necessità di stabilire a questo riguardo un delicato equilibrio tra esecutivo europeo e governi nazionali che, per un lungo periodo e in ogni caso nel corso della prima fase di applicazione del futuro Trattato, sarà caratterizzato, per quanto riguarda i poteri, da una netta prevalenza dei secondi sul primo, nella forma di un diritto di veto, di un parere conforme obbligatorio o di altri vincoli di questo tipo. Ma noi riteniamo essenziale che fin dall’inizio l’esecutivo europeo si presenti come espressione diretta della volontà popolare della quale il Parlamento è depositario. Se così non fosse, se cioè, come a molti appare più realistico, il futuro esecutivo europeo, o per meglio dire il governo europeo, dovesse essere nominato dai governi nazionali, poco gioverebbe a nostro modo di vedere che gli fossero riconosciuti poteri anche ampi. La stessa esperienza comunitaria sta a dimostrare che, ove manchi una reale autonomia dell’esecutivo per quanto riguarda il modo e la fonte della sua legittimazione, viene a mancare per ciò stesso anche una reale dialettica tra le istituzioni: quella dialettica che è invece indispensabile alla vita e alla crescita di un sistema federale. Solo quando tale distinzione di fondo sia rispettata ed il governo europeo sia responsabile di fronte al Parlamento che uscirà dalle elezioni europee e di cui esso stesso sarà espressione, si sarà dato vita ad una struttura vitale. In essa i legittimi interessi degli Stati membri potranno essere garantiti in un primo tempo dalla permanente centralità del ruolo attribuito al Consiglio europeo e più avanti dalla trasformazione di quest’ultimo in una Camera degli Stati, senza che ciò sia di impedimento allo svilupparsi di quella dialettica democratica senza di cui le stesse elezioni europee si ridurrebbero ad una vana parata.
La seconda rivendicazione dei federalisti, che mi sembra non meno importante della prima, riguarda invece il modo di elaborazione e di approvazione del Trattato costitutivo dell’Unione europea, cioè la fase successiva al deposito della relazione Tindemans, che dovrebbe prefigurarne i principi: informatori e le connotazioni essenziali. I federalisti ritengono, ed io ritengo con loro, che, sia pure sulla scorta delle indicazioni fornite dai governi nazionali destinatari della relazione Tindemans, la funzione di elaborazione del Trattato, cioè in definitiva la funzione costituente, debba essere attribuita al Parlamento europeo, con l’ovvia riserva della successiva ratifica da parte dei Parlamenti nazionali. Vi è a questo riguardo il precedente del progetto di Statuto della Comunità politica, la cui elaborazione fu affidata a suo tempo all’assemblea allargata della C.E.C.A. Anche se in proposito si potrà forse pensare a procedure che consentano un certo grado di associazione dei governi nazionali a questa funzione, deve rimanere fermo a nostro modo di vedere che solo sottraendo l’elaborazione del Trattato al mercanteggiamento intergovernativo e attribuendo un ruolo propulsore al Parlamento europeo si potrà sperare di conferire al testo da definirsi l’organicità necessaria a farne una piattaforma valida per la costruzione di uno Stato federale europeo.
Si tratta di posizioni che i federalisti non mancheranno di difendere, per quanto li riguarda, in sede di elaborazione del parere del Movimento europeo e che personalmente mi auguro possano essere recepite in misura sostanziale nel testo di questo ultimo. Anche al di fuori di questi canali formali, è naturale che un movimento di militanti cerchi di rivolgersi a tutti i livelli all’opinione pubblica democratica, direttamente e attraverso le sue strutture rappresentative. È nata cosi l’idea dell’appello che i federalisti lanciano in tutti i Paesi dell’Europa comunitaria a sostegno delle rivendicazioni cui mi sono già riferito (rapida indizione delle elezioni europee, statuto dell’Unione europea comprendente governo e Parlamento, funzione costituente da attribuirsi al Parlamento europeo). Questo appello, indirizzato sul piano europeo al Consiglio, alla Commissione e al Parlamento e, sul piano nazionale, ai governi, ai Parlamenti e ai partiti, è destinato ad essere sottoscritto dal maggior numero possibile di organizzazioni di base, quali amministrazioni comunali, provinciali e regionali, sezioni locali di partiti, sindacati, circoli culturali, ecc. L’obiettivo della campagna, che oggi si inaugura per quanto riguarda il nostro Paese, va manifestamente al di là del proposito di influenzare in senso federalista l’elaborazione del rapporto Tindemans. Essa guarda soprattutto a quello che accadrà dopo il deposito del rapporto, nel momento, compreso presumibilmente tra la fine dell’anno in corso e l’inizio dell’anno successivo, in cui si tratterà di decidere quale seguito riservare al rapporto stesso. Si tratta di un’azione che, nell’intenzione dei promotori, dovrebbe sfociare in una manifestazione europea analoga al Congresso dell’Aja da cui prese origine nel lontano 1948 l’intero processo di integrazione. I federalisti ricordano che nel nostro Paese furono allora con loro uomini come Einaudi, De Gasperi e Sforza, per non citare che coloro che ricoprirono in quel torno di tempo responsabilità di vertice, quali la presidenza della Repubblica, la presidenza del Consiglio e il ministero degli esteri, e ricordano altresì come si fosse trattato di un impegno non occasionale e non celebrativo, destinato a tradursi in una iniziativa internazionale tra le più coerenti e lungimiranti di cui sia mai stato capace lo Stato italiano. In una situazione storica profondamente mutata, che ha indubbiamente condotto al progressivo superamento di molte delle ragioni di dissenso manifestatesi allora nell’ambito stesso dei gruppi costituzionali, essi vorrebbero vedere ripresa quell’iniziativa attraverso una più larga convergenza di forze. Nel totale rispetto delle caratterizzazioni che legittimamente le differenziano o contrappongono oggi sul piano nazionale e altrettanto legittimamente potrebbero contrapporle domani sul piano europeo, tali forze potrebbero concorrere a definire in un senso democratico avanzato l’immagine del futuro Stato europeo, analogamente a quanto accadde in Italia nella fase costituente della nostra democrazia. Per chi, come me, considera questo obiettivo politico assolutamente prioritario rispetto ad ogni obiettivo politico nazionale, non può esservi dubbio che tale auspicio debba essere accolto e confortato dal più largo consenso, al di là di ogni preoccupazione contingente e di ogni remora d’altra natura.


* Il 15 marzo 1975 a Roma, in Campidoglio, alla presenza dei rappresentanti dei partiti dell’arco costituzionale, è stata ufficialmente presentata e proposta la campagna di informazione e dibattito sulle decisioni dell’ultimo Vertice di Parigi in materia di elezioni dirette del Parlamento europeo e di Unione europea. Diamo qui il testo della relazione ufficiale della manifestazione.

 

 

 

 

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