IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno II, 1960, Numero 1, Pagina 45

 

 

DOVE APPRODA IL MERCATO COMUNE?
 
 
Ad eccezione dell’Inghilterra e del Belgio tutti gli Stati che nel secolo scorso hanno voluto modernizzare ed industrializzare le loro economie, hanno applicato un metodo divenuto ormai classico, cui ricorrono ancor oggi i paesi sottosviluppati desiderosi di raggiungere il livello dei paesi più avanzati, consistente nell’abolire vincoli e barriere nel mercato interno e nel circondare questo di una barriera protettiva rispetto al mercato internazionale. La stessa idea è stata messa alla base del Mercato Comune, il che non depone molto a favore dell’intelligenza politica ed economica dei suoi promotori, perché i paesi della Comunità Europea, lungi dall’essere un territorio sottosviluppato, costituiscono nel loro insieme il secondo centro industriale del mondo, e sono di gran lunga il primo centro commerciale mondiale.
Una provvisoria politica protezionistica poteva essere giustificata durante la fase della ricostruzione e finché durava l’anormale penuria di dollari, ma non era valida per il gigantesco complesso economico e commerciale costituito dall’economia europea. Ciononostante, sommando le paure nazionali e facendone una media, considerando come permanente una congiuntura momentanea ed ignorando del tutto la dinamica economica che mette continuamente i politici dinnanzi a nuove sorprese, i geniali costruttori del Mercato Comune hanno deciso pochi anni fa di accordarsi su una politica economica comune, destinata a durare un quindicennio, e nel corso della quale si sarebbero a passo di lumaca abolite le barriere interne e se ne sarebbe elevata una esterna comune. Se fossero stati intelligenti, i nostri governanti avrebbero costruito un vero e proprio governo europeo e gli avrebbero trasferito il potere di fare la politica economica imposta a volta a volta dall’andamento della congiuntura e dagli obiettivi politici comuni. Ma erano, diciamo pure la parola esatta, stupidi — non di una stupidità personale, ma condannati alla stupidità dalla loro condizione di uomini politici nazionali — ed hanno stabilito per la Comunità europea un piano quindicennale che sarebbe andato bene per l’America di Hamilton, per la Germania di Bismarck, per l’India di Nehru, ma che per l’Europa della metà del XX secolo era in arretrato d’almeno cento anni.
A due anni di distanza dall’inizio del Mercato Comune i suoi laudatori attribuiscono a suo merito ciò che è invece conseguenza della congiuntura economica mondiale — ripetendo il trucco propagandistico già adoperato dalla CECA, la quale ha dovuto attendere una dura crisi del carbone per scoprire la sua organica incapacità di fare una politica europea del carbone, mentre prima di allora attribuiva a sé, come il corvo della favola, le penne che appartenevano al pavone del boom carbonifero.
In realtà la politica economica iscritta nel trattato del Mercato Comune non ha potuto essere applicata e non lo potrà essere in avvenire. La prospettiva di un mercato europeo aperto a tutto il mondo avrebbe messo l’Europa al centro dell’economia mondiale e sarebbe stata salutata come un possente contributo allo sviluppo dei commerci e dell’industria di tutti i paesi. La prospettiva di un mercato europeo che si accingeva a chiudersi rispetto al resto del mondo man mano che si costituiva, ha invece generato sospetti ed inquietudini non solo nel resto del mondo, ma anche in seno alla Comunità stessa. Ha cominciato l’Inghilterra a protestare ed ha messo su l’EFTA (European Free Trade Area), che è un gruppo di pressione internazionale costituito allo scopo preciso di ottenere anno per anno gli stessi vantaggi che i sei del Mercato Comune si concedono fra loro. Ha fatto seguito l’America che, finito il dollar gap, chiede l’abolizione delle discriminazioni anti-dollaro da essa tollerate finché l’Europa era in fase di ricostruzione. Ed infine i governi dei paesi commercialmente più legati al resto del mondo — Germania, Belgio, Olanda — hanno manifestato nel seno della Comunità una inquietudine crescente dinnanzi al programma del Mercato Comune, che era sembrato ai suoi ideatori una cosa molto agile ed audace, ma che in realtà si rivela rigido, timido ed assurdamente malthusiano.
In queste circostanze il programma del trattato ha dovuto essere modificato prima ancora di essere messo in esecuzione. Alla fine del 1958 e del 1959, cioè alla vigilia delle prime due tappe, le riduzioni previste sono state estese a tutti i paesi dell’O.E.C.E. e del G.A.T.T. Faticosamente i sei governi si sono ora messi a studiare l’accelerazione del ritmo delle riduzioni doganali interne, e la riduzione delle dogane comuni verso i paesi terzi. Vale la pena di notare che questi aggiustamenti non sono decisi dalle istituzioni comunitarie, le quali si limitano a prendere atto delle decisioni dei sei governi nazionali. Questi compiono faticosamente, con ritardi, e senza alcuna prospettiva a lunga scadenza quel che un governo federale europeo farebbe facilmente, rapidamente, e con la visione del posto e del ruolo che l’economia europea occupa nel mondo. Il giorno in cui tali governi non fossero più spinti dall’alta congiuntura, non saprebbero che fare, e riemergerebbero ovunque politiche economiche nazionali e divergenti.
Ad ogni modo il fatto che i governi dei sei, contrariamente ai loro propositi iniziali, abbiano dovuto tener conto della effettiva situazione mondiale dell’economia europea, mostra che l’Europa non ha bisogno dell’unità economica nel senso di un sistema composto prevalentemente da relazioni intereuropee fortemente protetto rispetto ai paesi terzi, perché la necessità economica porta l’Europa verso un sistema nel quale le relazioni esterne sono altrettanto importanti di quelle interne. Se però l’economia europea non è, e non è conveniente che sia, economicamente separata dal contesto dell’economia mondiale, se essa può dare tutti i suoi frutti a condizione di avere il più libero accesso possibile a tutti i mercati mondiali per importare materie prime e merci finite e per esportarvi i prodotti della sua industria, ne deriva che essa poggia su sabbie mobili finché non esista un reale potere politico europeo capace di impedire ritorni di fiamma protezionistici fra i vari paesi europei e di far rispettare nel mondo l’interesse europeo alla libertà degli scambi.
Il Mercato Comune si sta lentamente ed irresistibilmente dissolvendo in una generale ma fragile liberalizzazione, mostrando così la sua inefficacia come strumento di unificazione politica. Quanti anni dovremo ancora perdere prima che il cammino giusto sia infine imboccato?
 
Altiero Spinelli

 

 

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