IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXI, 1979, Numero 1, Pagina 32

 

 

INTERNAZIONALISMO E FEDERALISMO
 
 
Le guerre tra paesi comunisti hanno dato un colpo mortale alla teoria marxista dell’internazionalismo. Ci sarà, naturalmente, chi continuerà a sbandierarla come se nulla fosse accaduto, perché il mondo è sempre stato infestato da farisei disposti a smentire in pratica ciò che affermano in teoria per puntellare il loro potere. Ma in questo modo costoro non potranno certo far avanzare la causa della libertà di tutti gli uomini e di tutti i popoli, che ha ormai bisogno di una vera teoria dell’internazionalismo, cioè tale da non essere quotidianamente smentita dai fatti.
Va detto subito che non si può affermare una nuova teoria dell’internazionalismo senza discutere uno degli aspetti fondamentali del pensiero di Lenin. Il momento da riprendere in esame è quello nel quale Lenin seppe dare il carattere di una effettiva svolta politica alla sua polemica contro la resa della Seconda internazionale alla guerra e al nazionalismo. I fatti sono noti, anche se ci si rifiuta ancora di prendere atto del loro significato. Rinunziando ad impugnare l’arma dello sciopero generale per impedire o bloccare lo scoppio delle ostilità, la Seconda internazionale subordinò in ogni paese il proletariato alla borghesia, e non lasciò al proletariato di ogni paese altra scelta all’infuori di quella della alleanza con la propria borghesia nazionale contro il proletariato degli altri paesi, e della guerra fratricida. Alla catastrofe pratica si aggiungeva così una catastrofe teorica. I conflitti nazionali avevano avuto facilmente la prevalenza sui conflitti di classe, ed era stato lo stesso proletariato che aveva sancito, con la sua condotta, la prevalenza della nazione sulla classe. Ciò avrebbe potuto pertanto comportare la liquidazione dei due pilastri teorici del marxismo (come di ogni autentica concezione del socialismo): a) la idea che il proletariato è la forza storica in ascesa, tendenzialmente dominante, b) l’idea che il successo del proletariato e la eliminazione della divisione della società in classi vanno di pari passo con l’eliminazione della divisione del genere umano in nazioni antagonistiche, e con l’affermazione della pace e dell’internazionalismo.
Questa catastrofe teorica e pratica poteva essere evitata se, e solo se, la guerra mondiale si fosse trasformata davvero in guerra civile e in guerra rivoluzionaria, aprendo così la via alla riscossa del proletariato e alla sua affermazione in tutti i paesi capitalistici. È quanto si era pensato in seno alla Seconda internazionale prima della dura prova dei fatti; ed è quanto si può dire oggi riflettendo con calma su quei lontani avvenimenti. Ma ci voleva una autentica grandezza per impostare su questa base, in condizioni di isolamento quasi totale, una azione diretta verso questo obiettivo; e questo è proprio quanto fece Lenin. Egli fu tuttavia facilitato da un errore teorico che è diventato sempre più evidente col trascorrere del tempo.
Anche a questo riguardo i fatti sono noti, ma vale egualmente la pena di richiamarli per non lasciare nulla nel vago. Dopo lo scoppio della guerra, Lenin prese subito posizione contro «il tradimento della causa del socialismo» dei capi della Seconda internazionale, che «tentano di sostituire il nazionalismo al socialismo» (La guerra e la socialdemocrazia russa). In questo scritto, per sottolineare la polemica contro il nazionalismo, Lenin dice ancora testualmente: «La prossima parola d’ordine dei socialdemocratici europei deve essere la formazione degli Stati Uniti repubblicani d’Europa». Ma con il socialismo dell’Europa occidentale interamente schierato su posizioni socialscioviniste, questa parola d’ordine poteva diventare un impedimento per l’azione. Per questo nell’agosto del 1915 Lenin la analizza di nuovo e la respinge (Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa). E in questo scritto Lenin, dopo aver affermato che «gli Stati Uniti del mondo (e non d’Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni» aggiunge che «come parola d’ordine indipendente essa non sarebbe forse giusta perché potrebbe ingenerare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese».
Ma per non tirare conclusioni affrettate bisogna tener presente che la vittoria del socialismo in un solo paese non corrispondeva ancora con la costruzione del socialismo in un paese solo. Lenin non ha mai ridotto la teoria a «fraseologia» come i capi della Seconda internazionale. Al pari di molti altri socialisti, i cui principi non ressero però alla dura prova dei fatti, egli era convinto che avesse avuto inizio la fase finale del capitalismo e non mutò opinione. Prima ancora di scrivere l’Imperialismo, fase estrema del capitalismo, aveva pubblicato nel gennaio del 1916 l’articolo L’opportunismo e il crollo della Seconda internazionale, e aveva affermato: «L’epoca dell’imperialismo capitalista è l’epoca in cui il capitalismo ha raggiunto la sua maturità, è stramaturo e si trova alla vigilia del suo crollo». Orbene, è chiaro che la vittoria del socialismo in un solo paese ha un senso se si è (o si crede di essere) in prossimità della fine del capitalismo, cioè di una svolta radicale in tutti i paesi industrializzati; mentre ne ha uno diverso e addirittura opposto se il «crollo», qualunque significato esso abbia, è comunque ancora lontano. Nel primo caso l’azione rivoluzionaria si sarebbe stabilizzata solo con la creazione degli Stati Uniti del mondo (o, di fatto, almeno d’Europa), mentre nel secondo caso si sarebbe stabilizzata (come, di fatto, è avvenuto) ,con la creazione dell’Unione Sovietica come grande potenza nella politica mondiale.
In questo caso l’internazionalismo diventa per la forza stessa delle cose una maschera: la maschera che copre una politica imperialistica e consente — sia pure solo a livello del rituale — di attribuire il carattere dell’internazionalismo agli interventi imperialistici, anche militari. Ma tutto ciò è diventato chiaro solo col tempo. Fino a che l’Unione Sovietica fu una grande potenza solo in germe, le conseguenze dell’errore teorico di Lenin non si manifestarono in modo visibile. È un fatto da tener presente perché spiga come il diavolo sia andato d’accordo, per tanto tempo, con l’acqua santa, congiungendo inestricabilmente l’internazionalismo (mondialismo) di Lenin con il farisaismo di Stalin e dei suoi epigoni. C’è tuttavia un paragone che mostra come sia incommensurabile la distanza tra queste due posizioni. Nel 1915, aprendo la via verso la vittoria del socialismo in un solo paese, ma sulla base della convinzione dell’imminenza del crollo del capitalismo, Lenin poté scrivere: «Il proletariato vittorioso in questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attraendo a sé le classi oppresse degli altri paesi, spingendole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati». In questo contesto, l’idea dell’intervento armato assume davvero l’aspetto della fraternità rivoluzionaria; ma basta paragonarla con l’intervento armato dell’Unione Sovietica in Cecoslovacchia per constatare come ciò si sia convertito proprio nel suo contrario: nell’intervento controrivoluzionario e imperialistico.
Molte cose sono cambiate dal tempo di Lenin. Con il linguaggio di allora non si può descrivere il mondo di oggi. Ma una cosa è rimasta eguale. Chi conquista il potere nel proprio paese, entra in un rapporto di forza con gli altri poteri nazionali. Ciò significa che tutte le classi e i ceti del paese in questione vengono a trovarsi in un rapporto di forza, e non di solidarietà, con le classi e i ceti degli altri paesi. Ciò è accaduto ai partiti della Seconda internazionale. Ciò è accaduto ai successori di Lenin. Ciò era accaduto prima alle forze liberali e a quelle democratiche, che avevano anch’esse coltivato l’illusione, della coincidenza dell’affermazione del liberalismo e della democrazia con l’affermazione della pace. E ciò accadrà sempre fino a che non si metterà nelle mani del popolo non solo la politica nazionale ma anche la politica internazionale. In ogni altro caso, non si esce dalla cittadella della ragione di Stato.
La vera indipendenza e la vera libertà delle nazioni si trovano al di là. Fino a che non si supera l’orizzonte della conquista del potere nazionale, si resta nel quadro della sovranità esclusiva degli Stati, dei rapporti di forza tra Stati armati. In questo quadro ogni nazione subisce la gerarchia stabilita dai rapporti di forza tra gli Stati, e realizza soltanto il grado di indipendenza compatibile con questa gerarchia. Nel quadro federale, invece, con l’estensione della democrazia al livello internazionale, l’indipendenza delle nazioni si difende con il diritto e con i giudici. In questo quadro, con l’abolizione degli eserciti nazionali si abolisce la causa stessa della diseguaglianza fra le nazioni, e si può promuovere la loro eguaglianza.
Dunque il vero internazionalismo è il federalismo. Ma quando si giunge a parlare di federalismo, l’intellighenzia torce il naso, diventa «realista». Bene, anche a questo riguardo le vicende che ho richiamato sono esemplari. Fino a che i rivoluzionari russi e i loro amici, coltivando la speranza del crollo imminente del capitalismo, conservarono un vero punto di vista mondiale e videro lo sviluppo storico senza paraocchi nazionali, videro anche che ciò che ostacola lo sviluppo delle forze produttive è lo Stato nazionale. Il Manifesto della Internazionale comunista al proletariato di tutto il mondo (6 marzo 1919) dice testualmente: «Lo Stato nazionale, che impartì un possente impulso allo sviluppo capitalistico, è diventato troppo angusto per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive». E allora? È utopistico il federalismo, che vuole portare in Europa occidentale le istituzioni politiche al livello nel quale si sviluppano ormai le forze produttive a causa dell’eclisse della sovranità degli Stati nazionali, o l’intellighenzia che si ostina a combattere nel quadro nazionale, senza poter vantare, nel corso di tutto il secolo, un solo successo, un successo che non sia puramente difensivo?
 
Mario Albertini
(marzo 1979)

 

 

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