IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 2-3, Pagina 97

 

 

«L’EUROPA NELLE FRONTIERE
DELLA SUA CIVILTÀ E DELLA SUA STORIA»
 
 
L’ordine internazionale affermatosi dopo il 1945 è prossimo alla sua dissoluzione e l’Unione monetaria europea è la protagonista credibile di questa svolta storica.
Questo è il significato che si ricava dalla intervista concessa a Le Monde dal Presidente francese Giscard d’Estaing e questa è anche la tesi che per anni hanno sostenuto i federalisti.
Le analisi di Giscard d’Estaing ci danno ragione, mettendo in evidenza che la crisi che attraversiamo, se ha manifestazioni economiche, trova la sua base nella mancanza di assunzione da parte dei paesi aderenti alla Comunità delle loro responsabilità politiche. Certamente il Presidente francese non può rendere esplicito per intero il suo pensiero, dati i vincoli cui lo sottopongono gli equilibri politici del suo paese. Infatti, conformemente al voto espresso dall’Assemblea nazionale sulla legge elettorale europea, egli riafferma il principio che il Parlamento europeo dovrà mantenersi nelle competenze affidategli dal Trattato di Roma. Tuttavia, afferma che «l’Europa dovrà organizzarsi nelle frontiere della sua civiltà e della sua storia» facendo così comprendere il vasto respiro del suo disegno che, occorre riconoscere, persegue con coerenza da quando nel 1974 pose il problema dell’elezione diretta del Parlamento europeo.
Probabilmente, come Debré, nemico intelligente dell’integrazione europea, anche Giscard d’Estaing sa benissimo che il Parlamento europeo eletto a suffragio universale costituisce l’embrione dell’unificazione politica dell’Europa e del trasferimento della sovranità dagli Stati nazionali alla Comunità. Contrariamente, però, ai gollisti rimasti ancorati ad una concezione irrealistica del ruolo della Francia nel mondo, egli guarda ai problemi mondiali di oggi e mette in evidenza il ruolo dell’Europa. Egli avverte che al confronto Est-Ovest va sostituendosi la divisione Nord-Sud[1] e che per il superamento di entrambe, l’Europa rappresenta il nodo da sciogliere.
L’analisi condotta nel corso dell’intervista del 13 luglio a Le Monde può essere sintetizzata nei seguenti punti.
1: Il carattere della crisi internazionale. Il diverso andamento dei tassi di sviluppo e di disoccupazione tra Stati Uniti, Giappone e paesi europei indica che «c’è un problema europeo accanto a quello americano e giapponese». Infatti, «le zone che non hanno sofferto di instabilità [monetaria] interna, Stati Uniti e Giappone, ad esempio, hanno conosciuto una crescita più forte di quella della Comunità».
2: Il nuovo ordine internazionale. La ricomposizione di un quadro mondiale equilibrato delle relazioni economiche mondiali deve fondarsi sul riassorbimento del deficit petrolifero americano e dell’avanzo commerciale giapponese nei confronti degli altri paesi industriali. Inoltre, occorre operare un trasferimento di risorse verso i paesi in via di sviluppo non produttori di petrolio. A questo trasferimento debbono cooperare tutti i grandi poli del mondo industrializzato (Stati Uniti, Europa, Giappone e paesi socialisti). La Cina, essendo un’economia a scarse relazioni esterne, è attualmente in posizione neutra rispetto ai grandi equilibri. Le relazioni tra i sette poli indicati nello schema che egli traccia ai suoi intervistatori riguardano rispettivamente gli scambi commerciali, i pagamenti correnti, i trasferimenti di capitale e la concessione di aiuti.
3: Il disordine monetario europeo. L’Europa è un’area in equilibrio nei rapporti esterni con un lieve deficit commerciale e un modesto avanzo a livello delle partite correnti. Essa poi opera il più ampio trasferimento di risorse a favore del mondo in sviluppo. Tuttavia, pur avendo un equilibrio esterno, «delle quattro zone industrializzate del Nord, essa è la sola ad avere una instabilità monetaria interna». Il disordine monetario interno risulta estremamente dannoso in quanto una gran parte (la metà) del commercio estero dei paesi C.E.E. (pari al 50% del loro P.I.L.) è commercio infracomunitario. Questo non si verifica in America del Nord che gode di un sistema monetario stabile, né nei paesi socialisti. «Creando una zona di stabilità monetaria, dice Giscard d’Estaing, noi mettiamo al riparo dalle fluttuazioni monetarie la metà degli scambi della zona più importante del mondo dal punto di vista del commercio estero e creiamo uno stimolo supplementare alla loro espansione».
4: Il sistema monetario europeo. Il sistema a cambi fissi fondato a Bretton Woods ha operato dal 1945 al 1971 in presenza di differenze assai sensibili nei tassi di inflazione e nei ritmi di crescita economica. «A mio avviso, prosegue il Presidente francese, senza dubbio, questo sistema (quello europeo) non imporrà una disciplina maggiore di quella che noi abbiamo conosciuto allora».
Il problema è di creare un sistema a cambi fissi tra i paesi europei con rapporti di cambio flessibili con i paesi terzi. Rispetto al sistema di fluttuazione congiunta, altrimenti noto come «serpente monetario europeo» e che costituiva solo un sistema di intervento sui mercati valutari, il progetto discusso a Brema è un vero sistema monetario. Esso sarà provvisto di istituzioni con mobilizzazione delle risorse per l’insieme del gruppo, fondato sulla convergenza delle politiche economiche e con possibilità di mutamento della parità centrale in presenza di circostanze eccezionali.
5: La costruzione dell’Europa nelle frontiere della sua civiltà e della sua storia. Il Presidente francese respinge l’idea di un’Europa dei paesi ricchi. Senza l’allargamento alla Gran Bretagna, la Comunità a sei avrebbe fatto certamente maggiori progressi verso l’integrazione, ma non sarebbe stata l’Europa. «Si sarebbe trattato sia di un accordo franco tedesco sia di un accordo esteso al Benelux. La domanda fondamentale che dobbiamo porci è la seguente: occorre cercare un accordo limitato ad alcuni paesi? Occorre, al contrario, organizzare l’Europa nelle frontiere della sua civiltà e della sua storia?». Per la stessa ragione il Presidente francese è per l’allargamento della Comunità ai paesi dell’Europa mediterranea e lo considera un’occasione per migliorare le istituzioni comunitarie.
Questo è il senso dell’intervista dalla quale possono trarsi le seguenti conclusioni.
Nell’ambito dell’equilibrio bipolare in dissoluzione, i rapporti U.S.A.-Europa non possono più fondarsi sull’egemonia americana. I paesi europei rifiutano di essere confinati in ruoli a carattere regionale. Essi aspirano ad un rapporto di equal-partnership nell’ambito del mondo occidentale e chiedono agli Stati Uniti di contribuire agli oneri della crisi energetica.
I nove paesi aderenti alla C.E.E. hanno complessivamente ridotto le loro importazioni di greggio dai paesi O.P.E.C., mentre l’America, che nel 1973 ne importava per 161 milioni di tonnellate, nel 1978 ne importerà 340 milioni con un deficit energetico che nello stesso periodo è cresciuto da 8 a 40 milioni di dollari. Si tratta di una pressione considerevole sulle risorse energetiche mondiali e di una valvola di destabilizzazione monetaria per i dollari erogati in pagamento che vanno ad alimentare la crescita della liquidità mondiale. Se gli americani non conterranno il loro deficit petrolifero, le pressioni al deprezzamento sul dollaro non saranno arrestate e conseguentemente non potrà tornare ordine nei rapporti valutari mondiali.
Le Cancellerie europee, in particolare il governo tedesco e francese (ma gli altri vanno loro di seguito), hanno compreso che nei rapporti internazionali debbono presentarsi a «ranghi serrati». La politica del «ciascuno per sé» sembra superata. La ritrovata convergenza delle ragioni di Stato non è un fatto casuale, è il frutto di una situazione interna ed internazionale che non offre altre scelte, pena l’arresto della crescita economica e sociale e l’emarginazione dalle grandi decisioni internazionali.
Se il dopo-Suez ha consentito l’attivazione del Mercato comune, che costituiva la ripresa dell’integrazione dopo la battuta di arresto della C.E.D., la nuova convergenza sta apportando strumenti potenti di unione monetaria articolati sulla costituzione di un Fondo monetario europeo le cui disponibilità sono quasi doppie di quelle del Fondo monetario internazionale. L’Europa da sola può aprire la nuova fase che succede a quella apertasi a Bretton Woods.
Alla lucidità della iniziativa franco-tedesca, sufficientemente compresa dagli altri governi, corrisponde l’opacità delle forze politiche in tutta Europa che a tutt’oggi non hanno dato ancora contributi degni di rilievo al dibattito monetario e a quello relativo al Parlamento europeo da eleggere tra il 7 e il 10 giugno 1979.
Finora solo i federalisti, il Presidente della Commissione esecutiva Jenkins e il leader gollista Debré hanno messo in chiaro il nesso tra Parlamento europeo e moneta europea. Debré, nemico del processo di unificazione ha, però, capito che l’integrazione monetaria opera nel senso del rafforzamento dei poteri del Parlamento e perciò la combatte. Le forze europeistiche dei partiti non hanno ancora operato il collegamento e continuano a ragionare, pur nella preparazione alle elezioni europee, in termini di rapporti di potere nazionali. Lo si è visto nei vari paesi in occasione dei dibattiti sulle leggi elettorali per le elezioni europee e oggi in occasione del progetto di sistema monetario europeo.
I federalisti che hanno saputo lanciare per tempo le parole d’ordine delle elezioni europee e della moneta europea, acquisite le elezioni europee, sono coscienti che siamo nella fase decisiva della lotta in cui chi è contro la moneta europea è per la conservazione delle sovranità nazionali.
 
Alfonso Sabatino
(luglio 1978)


[1] Il Presidente Giscard d’Estaing contrappone il Nord industrializzato (America del nord, Europa, Giappone, paesi socialisti) al Sud in via di sviluppo (paesi produttori di petrolio e paesi non produttori di petrolio). A cavallo della linea di demarcazione delle due zone vi sono i paesi in via di industrializzazione (ad esempio Iran, Brasile, ecc.). Gli squilibri da correggere riguardano i rapporti del Giappone con l’America del nord e l’Europa, gli approvvigionamenti di petrolio dell’Europa e dell’America del nord dai paesi medio orientali e l’insufficiente flusso di aiuti verso i paesi in via di sviluppo.

 

 

 

 

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