IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 1, Pagina 1

 

 

RAPPORTO DI MARIO ALBERTINI AL COMITATO FEDERALE DELL’U.E.F. DEL 18-19 FEBBRAIO 1978* 

 

 

I

Spetta al Comitato federale di interpretare e di aggiornare, alla luce degli avvenimenti, le direttive di azione e di propaganda approvate dal Congresso di Bruxelles. Si tratta dunque di vedere se i fatti hanno confermato la validità del nostro orientamento, e se ci hanno fornito ulteriori punti di appoggio per rafforzare e sviluppare la nostra azione.

Da alcuni anni il punto centrale della nostra politica è l’elezione europea, per due ragioni. In primo luogo per rafforzare in modo permanente ed efficace la Comunità sul piano delle istituzioni e della capacità d’azione. In secondo luogo per ottenere, con la prima elezione europea, il miglior risultato possibile. E ciò dipende, evidentemente, anche dai programmi europei dei partiti. Per la prima volta nella storia della Comunità, il suo ruolo e la sua azione non dipenderanno più soltanto dai governi nazionali, ma anche, e soprattutto, se l’Europa occidentale si dimostrerà abbastanza vitale, dalla volontà dei cittadini europei, che potranno far valere con il loro voto la loro volontà europea. Va tuttavia osservato che se i programmi europei dei partiti fossero cattivi, le scelte dei cittadini, e la stessa formazione di una volontà democratica europea, ne risulterebbero gravemente condizionate. E va tenuto presente che, a differenza della politica nazionale, la politica europea — essendo l’Europa un’opera in corso di costruzione — si compone di due parti collegate ma distinte: una riguardante le politiche comuni, l’attività della Comunità nel senso di un programma di governo, l’altra riguardante la strategia della costruzione, cioè i nodi che sono venuti al pettine e che si tratta di sciogliere. È per questo che il nostro Congresso ha preso due deliberazioni collegate ma distinte. L’Europa deve darsi, con l’elezione, un serio programma di attività, di governo. E noi abbiamo, con l’adozione del Manifesto, stabilito una pietra di paragone per misurare i programmi europei dei partiti, chiarendo che non si tratta ancora di ciò che vogliono i federalisti, ma di ciò che tutti gli Europei dovrebbero volere, del minimo indispensabile per ridare una vita alla Comunità. L’Europa deve, d’altra parte, stabilire come procedere nella sua costruzione. E noi abbiamo scelto, a questo riguardo, la strategia della moneta europea.

Il tempo intercorso dal Congresso ad oggi ha dimostrato la validità delle nostre deliberazioni. Il fatto fondamentale, a questo riguardo, è che Jenkins prosegue con lucidità e tenacia la sua battaglia per la moneta europea, e la colloca proprio nel contesto dell’elezione europea. Sino a qualche mese fa, noi potevamo solo dire che la moneta europea come obiettivo strategico era una nostra posizione. Oggi possiamo dire che è l’obiettivo di Jenkins, che si tratta di dare ragione o torto a Jenkins. A noi era facile rispondere che parlavamo della moneta europea isolandola da tutto il resto, dall’economia, dalla politica e dalle istituzioni, anche se noi dicevamo proprio il contrario affermando che la moneta europea stava diventando la chiave di volta di tutte queste connessioni. Ma con Jenkins è più difficile barare al gioco. Egli sta proprio dimostrando, con la sua opera di chiarimento di cui il recente indirizzo al Parlamento europeo costituisce un altro episodio fondamentale, i nessi tra moneta europea ed unione economico-monetaria, moneta europea ed elezione europea, moneta europea e rafforzamento delle istituzioni. E ha esplicitamente ammesso la compatibilità tra la politica dei piccoli passi e quella del salto di qualità, come ha più volte ribadito che non esiste incompatibilità ma anzi complementarità tra la Communication sur les perspectives d’union économique et monétaire della Commissione al Consiglio europeo (documento Ortoli) e la sua battaglia per la moneta europea. Va infine detto che, con la messa a fuoco da parte di Jenkins della situazione della Comunità, viene anche in luce tutto ciò che di buono è stato prodotto negli ultimi anni, e in primo luogo il rapporto MacDougall.

I testi di Jenkins, il rapporto MacDougall, e lo stesso documento Ortoli, sono dunque ormai delle armi della nostra battaglia per buoni programmi europei dei partiti e per una svolta strategica della Comunità.

 

II

Io credo che queste siano le considerazioni essenziali per discutere il modo con il quale si pone oggi il problema della nostra azione. A questo riguardo, mi pare che tre siano le questioni da esaminare: a) l’elezione europea, b) la necessità assoluta di associare l’allargamento e il rafforzamento, senza ripetere l’errore commesso nel passato, c) i vuoti da colmare per schierare attorno alla posizione di Jenkins il massimo di forze politiche e sociali.

La situazione dell’elezione europea può essere esaminata rapidamente. È vero che abbiamo un ritardo. Ma è anche vero che nel Regno Unito c’erano difficoltà reali da superare, e che sono state superate. Abbiamo un ritardo rispetto alla data di maggio-giugno 1978, ma sempre che ciascuno faccia il suo dovere possiamo considerare ormai certa l’elezione europea. Dunque, senza perdere tempo in lamenti, o in inutili e ingenerose critiche al Regno Unito, bisogna usare bene il tempo che sta davanti a noi. La prima cosa da fare è evidente. Dobbiamo fare il possibile perché il Consiglio europeo di aprile fissi la data definitiva. Anche la seconda cosa da fare è evidente. Allo stadio attuale di elaborazione, i programmi europei dei partiti sono ancora inadeguati alla natura dei problemi da risolvere, tant’è che sono molto lontani dalle posizioni di Jenkins e non solo di Jenkins. Noi dobbiamo perciò fare quanto sta in noi per colmare questo distacco, tenendo presente che a partire dal momento della certezza della elezione europea gli uomini politici più responsabili si occuperanno con maggiore impegno, rispetto al passato anche recente, dei problemi della politica europea del loro partito. L’elezione europea ha in sé, a questo riguardo, una forza virtuale che molti ancora sottovalutano: ma è chiaro, ad esempio, che senza la prospettiva dell’elezione europea non avremmo la battaglia di Jenkins per la moneta europea. È egli stesso, in effetti, che sottolinea il rapporto tra queste due cose. Si può dunque agire, e si deve agire, per migliorare i programmi europei dei partiti. Ciò è necessario sia per mobilitare gli elettori, sia per dar luogo alla formazione di una volontà politica europea concreta ed efficace.

Anche la questione dello stretto legame da stabilire tra l’allargamento e il rafforzamento può essere esaminata in breve. Basta tener presente la situazione dell’Italia per capire che l’allargamento senza il rafforzamento provocherebbe certamente il fallimento del Mercato comune, non solo e non tanto perché sorgono problemi istituzionali, ma anche e soprattutto perché finirebbe col disgregarsi la stessa base economica sulla quale sinora il Mercato comune si è retto. È per questo che il problema dell’unione economico-monetaria acquista una importanza drammatica. Con le parità fisse, anche i governi dei paesi più poveri dovevano fare di necessità virtù, cioè contenere il debito pubblico e il costo del lavoro. Ma con la fluttuazione delle monete (che non avrebbe certo permesso la creazione del Mercato comune) diventa quasi impossibile, per i paesi più poveri, di fronte alle difficoltà dei partiti e alle richieste dei sindacati, non fare ricorso all’aumento della base monetaria, anche se ciò comporta la caduta nella spirale della stagflazione. Questa politica in pochi anni ha allontanato l’Italia dall’Europa, e creato l’Europa a due velocità. Tra qualche anno, renderebbe impossibile il riaggancio dell’Italia alla Europa. E ciò che si dice dell’Italia vale ovviamente per la Spagna, per la Grecia e per il Portogallo, dunque per tutta l’Europa mediterranea, che è però una parte indispensabile di un’Europa che voglia davvero unirsi per provvedere a sé stessa. Va anche detto che non basta predicare il rigore. La virtù umana ha dei limiti. In Europa bisogna creare, con la moneta europea, una situazione nella quale l’esercizio della virtù, anche nei paesi più poveri e deboli, non risulti troppo difficile.

 

III

La questione del vuoto da colmare per schierare sulla posizione di Jenkins forze sufficienti per vincere la battaglia è più complessa, e va forse divisa in tre parti. Ma prima vorrei spiegare come si pone, a mio parere, la questione. La posizione di Jenkins ha guadagnato terreno, ma per ora troppo poco e troppo lentamente. Orbene, la cosa più importante da rilevare, dal nostro punto di vista, è che molti si schierano contro Jenkins, o restano scettici, solo perché credono che le sue proposte non siano tecnicamente realizzabili (sul piano monetario, economico e politico). Si tratta di un errore; ma questo errore fa sì che si trovino contro le proposte di Jenkins, o non a favore, persone e forze che le accetterebbero se si convincessero che sono tecnicamente giuste. È per questo che nel momento presente la conoscenza seria e rigorosa, cioè teorica, diventa una necessità politica ed un vero e proprio mezzo di potere; e che tutti i federalisti dovrebbero occuparsi in prima persona dell’unione economico-monetaria, senza lasciare questo terreno ai soli esperti che quando si tratta dell’Europa vedono troppo spesso tutto nero e difficile, con la conseguenza che gli uomini politici finiscono col credere impossibile ciò che invece è possibile. Io vorrei ora affrontare, sia pure sommariamente, la questione, distinguendo, come ho detto, tre problemi.

Il primo problema è quello del costo dell’unione economico-monetaria e della moneta europea. Tutta la disputa sulla possibilità o l’impossibilità viene fatta senza mai dire quale sarebbe il costo dell’operazione. Eppure nel rapporto MacDougall l’ordine di grandezza di questo costo è stato preso in seria considerazione, e lo stesso MacDougall ha riassunto le conclusioni di questo esame in un articolo molto agile e chiaro pubblicato recentemente da New Europe.

Devo premettere che per costo dell’unione si intende ovviamente il costo della politica economica necessaria per sostenerla. Il rapporto prende in esame tre casi: quello di una federazione europea con una spesa pubblica pari a quella di federazioni esistenti, quello di una federazione europea con una spesa pubblica minore, e quello di un «pre-federation integration period». Il primo caso non è in questione ed è considerato solo a scopi comparativi. Nel secondo caso la spesa è in relazione ad un’attività che si concentri sul «raggiungimento dell’eguaglianza della produttività, degli standards di vita nell’area della Comunità, e il controllo delle fluttuazioni cicliche» sulla base dell’ipotesi che ciò basti per sostenere l’unione monetaria in una federazione nella quale la politica sociale sia anche e soprattutto nelle mani degli Stati membri. Nel terzo caso la spesa è in relazione ad un processo «durante il quale si sta costruendo la struttura della Comunità, anche grazie all’elezione diretta del Parlamento europeo». Va notato che il terzo caso corrisponde a ciò che ha finito col ricevere, anche da noi, il nome di «preunione», mentre il secondo caso corrisponde esattamente a quello dell’unione monetaria realizzata nel quadro della Comunità europea, che è una Comunità nella quale la politica sociale, sul piano quantitativo, si è già sviluppata pienamente nell’ambito degli Stati membri.

Vediamo i costi. Nel secondo caso l’ordine di grandezza è il 5-7% del prodotto interno lordo (7,5-10% includendo la difesa). Nel terzo caso, il 2-2,5%. Con questa spesa il rapporto ritiene che sia possibile ottenere una correzione di circa il 10% della diseguaglianza dei redditi, una correzione pari al 65% della «fiscal capacity» dei paesi più poveri rispetto alla media europea, una politica regionale significativa e schemi di intervento per impedire che la convergenza tra i paesi membri venga resa impossibile da problemi ciclici acuti. È quanto si richiede, in effetti, ad una «preunione», sia perché ciò basta per sostenerla, sia per la modestia della spesa (la Comunità spende già lo 0,7%, circa l’1% potrebbe essere coperto col trasferimento di spese nazionali, quindi la spesa effettiva supplementare si riduce in realtà all’1%), sia perché per una spesa di questa entità basterebbero le forme di finanziamento attuali (MacDougall riprende il suggerimento del rapporto Marjolin per un Fondo comunitario per l’occupazione, ma ciò non altera le proporzioni della cosa).

A dire la cosa in pratica, per finanziare la preunione occorrono 10 miliardi di unità di conto all’anno, cioè 12 miliardi di dollari, con benefici enormi per l’immediato (con la stabilità monetaria si potrebbero eliminare, ad esempio, i montanti compensativi), e incalcolabili per il futuro perché significherebbero il decollo dell’Europa economica e politica dopo quella dell’Europa del libero scambio. Questo è quanto possiamo ottenere aggiungendo alla spesa pubblica nazionale, che si aggira sul 45% del prodotto interno lordo, un 1% di spesa pubblica europea. Se gli Europei sapessero che questo è il costo dell’operazione, quanti direbbero di no? E come i partiti potrebbero dire che non si può, sin da ora, decidere un periodo di preunione stabilendo in anticipo la data della moneta europea? lo credo che uno dei nostri maggiori sforzi debba tendere a render noti a tutta l’opinione pubblica questi dati di fatto.

Il secondo problema riguarda l’aspetto economico, cioè la possibilità di realizzare la preunione nella presente situazione della Comunità e delle economie nazionali. A questo riguardo la scienza non può dire nulla di certo, e se lo dice, mente. In questo caso, le uniche cose certe riguardano il passato, e per questo vale lo studio dei precedenti. Vale dunque la pena di ricordare che il Mercato comune è riuscito a liberalizzare gli scambi e a realizzare l’unione doganale contro le previsioni di un buon numero di economisti, e il pessimismo e l’opposizione di molti industriali italiani e non solo italiani. E vale la pena di ricordare quel periodo perché quello che è adesso il punto debole dell’Europa, l’Italia, ne era allora uno dei punti consistenti, tanto da meritare, in uno di quegli anni, l’Oscar della moneta più stabile. Tra il 1950 e il 1960, quando si crearono i presupposti del Mercato comune e in parte tra il 1960 e il 1970, l’Italia mantenne un elevato tasso di sviluppo; un tasso costantemente più elevato, ad esempio, di quello della Francia, che faceva prevedere per l’Italia il raggiungimento in un tempo calcolabile di una situazione media europea in termini di capitale pro capite.

Orbene, l’Italia, come patrimonio storico di capacità, non è cambiata. È solo mal governata, ma tutti gli Stati deboli corrono il rischio di essere mal governati. A questo riguardo va tenuto presente che, rispetto al periodo nel quale l’Italia era ben governata, sono venuti a mancare — e sono ricostruibili solo in Europa — i solidi punti di riferimento politici (coesione Europa-U.S.A.), economici e monetari (sino alle parità fisse) che rendevano meno difficile il problema del buon governo e del controllo politico. C’è dunque una sola cosa da fare: ricostruire questi solidi punti di riferimento con l’unione economico-monetaria prima che sia troppo tardi. Il problema è acuto in Italia ma riguarda tutti. La tensione ricorrente tra la Germania federale e gli U.S.A. nel settore dell’economia dovrebbe essere considerata come un segnale di allarme; e si dovrebbe finalmente capire che non gli Stati singoli, ma solo l’Europa come una unità economica e politica è in grado di ristabilire tra gli U.S.A. e l’Europa la coesione necessaria per affrontare il futuro, e per difendere, sviluppare ed estendere la democrazia.

A conclusione di questo punto si può dire che lo studio dei precedenti ci deve far concludere per la possibilità di ripetere, con l’unione economico-monetaria, ciò che fu possibile nel passato con il periodo transitorio del Mercato comune. L’esame della situazione ci dice, d’altra parte, che bisogna tentare. La «preunione» risponde proprio alla natura del problema: la necessità di tentare. Se la prova riesce — e gli Stati deboli, aiutati dall’idea del traguardo da raggiungere, tengono il passo — si avanza. Se la prova fallisce, ci si ferma. Questa è la sola prospettiva seria, mentre non è serio e finirebbe col diventare un sabotaggio dell’Europa, il rifiuto di prevedere sin da ora sbocchi come quello della moneta europea solo perché sono difficili. Nella vita dei popoli, come in quella degli uomini, i momenti difficili sono inevitabili; e la capacità di affrontarli e superarli è tanto più grande quanto più chiara è l’idea del traguardo da raggiungere. L’Europa può morire. Ma è un disertore chi non tenta di farla vivere.

Il terzo problema riguarda l’aspetto politico. Quale Europa è necessaria per la preunione? Quale Europa è necessaria per la moneta europea? Per quanto riguarda la preunione, abbiamo già visto che si tratta del potere di spendere il 2,5% del prodotto lordo europeo, restando nell’ambito dei Trattati per quanto riguarda il finanziamento della spesa europea; ma preparandosi ad attribuire nuove competenze alla Comunità, in particolare nel settore monetario, per passare alla fase dell’unione monetaria. Questi problemi devono essere studiati anche sotto gli aspetti giuridico e organizzativo, ma prima di tutto devono essere esaminati dal punto di vista politico che è il solo col quale possono essere accertate le possibilità giuridiche. E prima ancora bisogna cominciare con lo scartare alcuni errori molto diffusi. C’è persino chi afferma, anche in sede accademica, che l’elezione europea si tradurrà, di fatto, in una somma di elezioni nazionali con un po’ di folclore europeo, ma ciò sembra più l’espressione di un pio desiderio che di un esame meditato.

La confutazione di questo errore è immediata. Gli elettori, che sino ad ora si possono occupare solo di scelte nazionali, si occuperanno della scelta europea. Lo prova il fatto che i partiti, che sinora si erano organizzati solo a livello nazionale ed elaboravano programmi solo per il quadro nazionale, si stanno organizzando a livello europeo e stanno elaborando programmi europei. Tutto ciò non potrà non produrre risultati. Si tratta di vedere quali, e come. Ed è a questo punto che si fa luce un’obiezione più seria: quella della mancanza di poteri del Parlamento europeo, che rischierebbe di paralizzare la volontà degli elettori europei. Ma di solito questa obiezione viene esaminata in un contesto sbagliato. Il Parlamento europeo è spesso sottovalutato perché lo si considera isolatamente, invece che nelle sue connessioni con le altre istituzioni. A causa di ciò viene in luce la sua mancanza di poteri direttamente esercitabili, e non viene in luce l’influenza, diretta e/o indiretta, dell’attività del Parlamento sugli organi esecutivi della Comunità. E c’è di più. La vera forza di un Parlamento sta nel suo legame con il popolo. Ma questa forza non viene in luce finché non solo si isola il Parlamento dalle altre istituzioni, ma anche la Comunità nel suo insieme dal processo politico, cioè dalla sua vera base. Detto ciò si deve ribadire che in democrazia non c’è nessun potere maggiore di quello che deriva dal voto, dal consenso del popolo. In democrazia nessun interesse particolare riesce a prevalere, alla lunga, sugli interessi e sulla volontà del popolo. Ne segue che quando si parla dei poteri della Comunità e si lamenta la loro insufficienza, ma non si prende in esame il legame diretto tra il popolo europeo e il Parlamento europeo, ci si dimentica che nessun altro potere che si possa attribuire alla Comunità è più grande di quello che le si attribuisce col diritto di voto europeo, cioè col fondare la Comunità sulla volontà del popolo europeo.

In teoria si può pensare ad una Assemblea costituente tradizionale, ma ciò comporta che con una sola azione (i lavori, appunto, di questa Assemblea), si dovrebbe dotare la Comunità non solo di una moneta europea, ma anche di un esercito europeo e di un apparato burocratico per questi nuovi campi di attività; e che tutto ciò dovrebbe entrare in funzione subito dopo l’approvazione della costituzione. Le assemblee costituenti del passato hanno proceduto in questo modo, ma perché hanno dato forma nuova ad uno Stato che esisteva già, con una moneta, un esercito ed una burocrazia completa. Ma in Europa non si tratta di trasformare uno Stato già esistente, ma di costruirne uno ex-novo. Ciò mostra che l’espressione usata da Willy Brandt per il Parlamento europeo eletto direttamente — costituente permanente — è corretta, e descrive adeguatamente lo stato delle cose, a patto tuttavia di adoperarla come un concetto e non come un semplice slogan.

Ciò che importa, in questa prospettiva di una costruzione graduale, è stabilire che si comincia davvero, e come si comincia. Orbene, l’elezione europea è a questo riguardo la sola garanzia reale ed efficace perché col voto si affida la costruzione dello Stato europeo alla sola forza che può costruirlo davvero: il popolo europeo. Il voto, d’altra parte, non è soltanto una specie di tacito mandato costituzionale al popolo europeo, ma è anche, e senza dubbio, il primo atto costituzionale e la prima realizzazione costituzionale. E va anche detto che questi fatti non possono essere concepiti che come i primi fatti della vita dello Stato europeo: il che mostra che a partire dal primo voto europeo avrà una prima forma di esistenza proprio lo Stato europeo. Questo concetto resta oscuro, e proietta la sua incertezza su ciò che sarà la Comunità dopo l’elezione impedendo di valutarne la funzionalità, fino a che la si pensa nell’ambito dell’idea costituzionale tradizionale e dell’idea tradizionale di Stato come entità unitaria, accentrata, compatta ed esclusiva. Ma la storia ha mostrato che sono possibili vari tipi di Stato, ed in particolare il federalismo mostra che nell’ambito di una costituzione — cioè nell’ambito di uno Stato, sia pure di nuovo genere rispetto agli Stati nazionali — è possibile l’esistenza di governi indipendenti e coordinati, uno dell’Unione, gli altri degli Stati membri.

Queste considerazioni possono sembrare troppo astratte, troppo teoriche. Ma non si può affrontare un argomento di carattere costituzionale senza precisarlo, in primo luogo, sotto questo aspetto. Una volta precisato che con l’elezione europea avremo un popolo, un territorio, una volontà pubblica (cioè uno Stato), sia pure nella prima forma del loro apparire, si può esaminare la questione concreta: quale sarà la forza politica della Comunità dopo l’elezione europea? Questa domanda si converte in quest’altra: come userà il Parlamento europeo del potere di fatto che gli deriverà dal voto del popolo? Orbene, va detto che, grazie al suo rapporto diretto con i cittadini, le forze politiche e quelle sociali, il Parlamento non potrà fare a meno di far sentire energicamente la sua voce sui grandi problemi del momento. In questo contesto la Commissione, che non ha sempre potuto esprimersi al massimo delle sue competenze a causa della mancanza di sostegno politico e della scarsa volontà europea del Consiglio dei ministri, potrà esercitare in pieno le sue competenze — ciò, e non altro, è necessario per il decollo — per due motivi: a) per il sostegno del Parlamento europeo, b) perché il Consiglio dei Ministri, trovandosi sottoposto al giudizio dell’opinione pubblica europea grazie all’azione del Parlamento, non potrà prendere, sulle questioni più gravi, posizioni contrarie alle aspettative dell’opinione pubblica europea.

Su questi tre problemi: costo dell’unione economico-monetaria, condizioni economiche, condizioni politiche, possiamo, e dobbiamo, dare battaglia per chiarire le idee. La macchina della Comunità, con l’elezione, può funzionare; con il rilancio dell’unione economico-monetaria, si può arrestare la disgregazione e collegare la macchina della Comunità con i bisogni più pressanti del popolo. E se riusciremo a riguadagnare la fiducia del popolo nell’Europa, l’Europa vivrà.



* Il rapporto è stato approvato all’unanimità con 3 astensioni.

 

 

 

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