IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIX, 1987, Numero 3, Pagina 247

 

 

LUIGI EINAUDI
 
 
Lo scoppio della prima bomba atomica ha cambiato per sempre la natura della guerra ed ha aperto un interrogativo angoscioso sul destino dell’uomo. Fra i pochi che si resero subito conto di come fosse mutata la condizione umana e di come fossero inadeguati i criteri con i quali giudicava abitualmente il mondo, ci fu Luigi Einaudi. Economista di fama internazionale, attento commentatore dei maggiori avvenimenti politici del suo tempo, ministro del bilancio e infine Presidente della Repubblica italiana, Einaudi pubblicò sul Corriere della Sera del 29 marzo e del 4 aprile 1948 due articoli significativamente intitolati «Chi vuole la pace?» e «Chi vuole la bomba atomica?» per costringere i pacifisti a liberarsi degli orpelli ideologici e a riflettere sulle condizioni che potevano assicurare una pace duratura.
In quel momento gli articoli di Einaudi non ebbero molta eco. La convinzione che la pace e la guerra dipendessero dalla natura del regime politico o dall’organizzazione capitalistica dell’economia occidentale era troppo radicata per lasciar spazio ad un esame razionale del problema. Ma era pur necessario che qualcuno si assumesse il compito di difendere i principi della ragione. E Luigi Einaudi aveva molti titoli per farlo.
Fin dal 1897 aveva intravisto il carattere unitario del processo storico europeo e, in un articolo pubblicato su La Stampa del 20 agosto di quell’anno, osservava che la collaborazione che si era instaurata fra gli Stati del vecchio continente poteva considerarsi l’alba dell’unità europea. Egli riteneva allora che la semplice volontà di cooperazione fra Stati sovrani e il dichiarato intento di prevenire nuove guerre, fossero sufficienti per instaurare una pace duratura. In quel breve scritto, il giudizio del giovane Einaudi sui risultati della collaborazione fra le potenze europee era in palese contraddizione con l’esperienza storica. Esso aveva comunque il merito di affrontare il problema della pace sul terreno giusto, quello europeo.
Nel corso degli anni il pensiero di Einaudi si sarebbe precisato con molta nettezza. Nel 1918, quando le immani distruzioni provocate dalla prima guerra mondiale avevano mostrato che le intese fra potenze sovrane non erano sufficienti a scongiurare conflitti armati, non esitò a criticare aspramente il progetto di Società delle Nazioni lanciato da Wilson, perché quella istituzione non avrebbe rappresentato uno strumento di pace, bensì il paravento dietro il quale potevano agire indisturbati i fautori della guerra. In due articoli pubblicati sul Corriere della Sera del 5 gennaio e del 28 dicembre 1918, Einaudi poté facilmente dimostrare che tutte le coalizioni di Stati create nel corso dei secoli si erano dissolte non appena era emerso qualche contrasto, e che la loro presenza non era riuscita ad evitare neppure una guerra.
Così era stato anche per il primo conflitto mondiale. Esso affondava le sue radici nella divisione dell’Europa che non aveva saputo darsi un assetto politico coerente con il grado di unità raggiunto sulla spinta dei progressi realizzati dalla rivoluzione industriale. Se questa contraddizione non fosse stata risolta creando anche nel vecchio continente una federazione di Stati modellata sull’esempio americano, le controversie fra le nazioni europee avrebbero innescato un nuovo e più drammatico conflitto.
Einaudi aveva visto giusto e nel 1945 poté riprendere, senza cambiare una virgola, lo scritto del 1918, mettendo di nuovo in guardia gli Europei contro il mito funesto dello Stato nazionale. Nel frattempo il problema della pace era diventato ancora più assillante perché, con lo scoppio della bomba atomica, l’uomo aveva acquistato la capacità di mettere a repentaglio non solo la sopravvivenza della civiltà ma addirittura quella della specie umana.
Questa svolta, che aggiungeva una nuova barbarie alla barbarie della guerra, aveva indotto Einaudi a tornare sul problema dei mezzi più efficaci per bandire dalla faccia della Terra ogni conflitto armato. A tale scopo non era sufficiente scagliarsi contro la bomba atomica, sottoscrivere solenni convenzioni contro il suo impiego, scrivere sui giornali e testimoniare nelle piazze il proprio orrore di fronte alla nuova arma. Per bandire davvero la guerra non c’era che un mezzo: «la rinuncia alla sovranità militare da parte dei singoli Stati». Questa era la pietra di paragone con cui misurare la sincerità delle intenzioni di chi propugnava la pace.
A conclusione dell’articolo «Chi vuole la pace?» scriveva: «Quando noi dobbiamo distinguere gli amici dai nemici della pace, non fermiamoci… alle professioni di fede, tanto più clamorose quanto più mendaci. Chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello Stato nel quale vivete? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dare il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace. Il resto è menzogna».
 
 
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CHI VUOLE LA BOMBA ATOMICA?
 
Alla domanda: «Sei contro l’uso della bomba atomica?» non c’è uomo al mondo che non risponda: «Sì!». Le incertezze ed i dissidi sorgono soltanto quando si continua domandando: «Quale mezzo efficace proponi contro quell’uso?». Il mero divieto accettato e sottoscritto da tutti gli Stati sovrani in una solenne convenzione internazionale sarebbe quel mezzo? Suppongo che tutti si sia d’accordo nel ritenere che un patto internazionale, il quale puramente e semplicemente facesse divieto agli Stati contraenti di ricorrere all’uso della bomba atomica, sarebbe uno dei tanti pezzi di carta destinati, quando sorgesse la necessità di applicarli, a finire nel cestino della carta straccia. Un rinnovato patto Kellogg il quale mettesse al bando dell’umanità gli Stati e gli uomini rei di fabbricare e di usare la bomba atomica sarebbe senza esitanza sottoscritto da tutti gli Stati; ma non scemerebbe affatto la inquietudine da cui i popoli sono pervasi al solo pensiero che, nonostante il divieto, la fabbricazione del micidiale congegno continui, ed anzi crescerebbe il sospetto che taluno Stato malintenzionato, fiducioso nella buona fede altrui, si prepari ad assaltare inopinatamente l’avversario. Non si distinguono cioè i fautori dagli avversari dell’uso della bomba atomica per ciò solo che gli uni si rifiutino e gli altri accettino di sottoscrivere una convenzione di messa al bando dell’arma atomica. Chi abbia per avventura sottoscritto un manifesto contro l’uso della bomba atomica non ha alcuna ragione di tacciare colui che abbia rifiutato di sottoscrivere quel manifesto come nemico dell’umanità e propugnatore nefando dell’uso di questa micidialissima tra le armi. Potrebbe essere vero l’opposto: che cioè il sottoscrittore dei manifesti di bando sia, consapevolmente o no, appunto colui il quale, negando i mezzi per far osservare il divieto, di fatto è il più efficace banditore dell’uso della bomba. In questa materia, come in tante altre politiche e sociali, quel che non si vede è assai più importante di quel che si vede. Non basta scrivere sui giornali e gridare sulle piazze il proprio abbominio contro la bomba atomica. Scritture e discorsi non servono a nulla, finché non si siano chiaramente indicati i mezzi sufficienti a fare osservare il divieto.
Vi è un criterio in base al quale soltanto si può giudicare se alle parole corrispondano intenzioni serie, propositi decisi veramente ad allontanare dall’umanità il grande flagello. Il dilemma è: si vuole che il divieto agisca entro l’ambito della piena sovranità degli Stati rinunciatari (all’uso della bomba atomica) ovvero si riconosce che il divieto presuppone una rinuncia alla sovranità medesima? Questa è la cote alla quale fa d’uopo saggiare la serietà e la sincerità dei propositi di coloro i quali affermano di essere contrari all’uso della bomba atomica.
Se si parte dalla premessa di conservare la sovranità piena degli Stati firmatari, è inutile procedere oltre. Quel patto sarebbe ipocrita e servirebbe soltanto ad alimentare sospetti e ad accelerare il fatale cammino verso la distruzione della civiltà umana. Inutile far seguire al bando la promessa di ogni singolo Stato di non fabbricare l’arma vietata; vanissima la cerimonia della distruzione delle bombe esistenti; arcivana la obbligazione sottoscritta di lasciar ispezionare le proprie fabbriche da commissioni di periti internazionali incaricati di andar cercando sospette fabbricazioni di prodotti atti ad essere poi insieme combinati per ottenere la deprecata arma. Pattuizioni, promesse, obbligazioni cosiffatte furono già sperimentate dopo la prima grande guerra contro la Germania vinta e non impedirono che dieci anni fa la Germania si presentasse al mondo formidabilmente armata, anzi armatissima, in mezzo a nazioni quasi disarmate. Quale speranza v’ha di impedire ricerche, sperimenti, successi e fabbricazioni nei territori, talvolta vastissimi, spesso inaccessibili di taluni dei grandi Stati moderni? Quale probabilità avrebbero quei disgraziati investigatori di avere effettivo accesso agli stabilimenti produttori contro le mille arti, con le quali uno Stato sovrano può impedire che lo straniero sul serio indaghi, verifichi, si accorga in tempo del pericolo e lo denunci? Farebbe d’uopo immaginare che lo Stato sovrano effettivamente rinunci, per convinzione unanime dei suoi cittadini, all’idea di servirsi di quell’arma; ma subito si vede trattarsi di una farneticazione irreale. Si può forse evitare che non sia universalmente riconosciuta ed affermata la necessità di proseguire e perfezionare gli studi sull’atomo a scopi scientifici ed industriali? Troppo promettenti sono le indagini e le scoperte in tal campo, perché dappertutto non si cerchi di non rimanere ultimi nella stupenda gara. Ma la gara volta a beneficio degli uomini è fatalmente congiunta con quella volta al loro sterminio. Come sarebbe possibile ai futuri ispettori dell’ONU o di altro consimile consesso di accertare, arrivando improvvisi sul luogo del meditato delitto, se un processo, se un impianto volto a fin di bene, non sia usato nascostamente a scopi bellici? Farebbe d’uopo che gli ispettori fossero essi stessi fabbricanti di bombe atomiche; appartenessero cioè ad organizzazioni segretamente mantenute da Stati malfattori ed intese a produrre bombe distruttive invece di energie benefiche. Soltanto coloro che fabbricano il prodotto proibito ne conoscono i segreti di fabbricazione; laddove gli ispettori internazionali conoscerebbero solo i processi leciti, quelli che conducono ad ottenere prodotti vantaggiosi all’avanzamento industriale. Vi ha qualche minima probabilità che lo Stato contravventore impresti i propri tecnici periti nelle fabbricazioni proibite al corpo di ispettori internazionali incaricati di reprimere l’illecito?
Giuocoforza è riconoscere che, finché si rimanga nei confini del concetto degli Stati sovrani, la proibizione dell’arma atomica è pura utopia. Poiché ogni Stato sovrano ha il diritto, ha il dovere di vivere e di difendersi: proibizioni ed ispezioni servirebbero solo a tessere reciproci inganni, ad accelerare ricerche, a moltiplicare sperimenti, allo scopo di essere i primi a possedere le bombe sufficienti per prendere alla sprovveduta il nemico.
Il problema non si supera se non con la rinuncia alla sovranità militare da parte dei singoli Stati. Vi è forse qualcuno dei venticinque cantoni e mezzi cantoni svizzeri o dei quarantotto Stati nord-americani il quale abbia la menoma preoccupazione per l’uso eventuale della bomba atomica da parte di uno dei confederati? No; perché nessuno dei cantoni svizzeri o degli Stati nord-americani ha una qualsiasi potestà militare, la quale spetta unicamente alla confederazione. Le armi, siano palesi o segrete, sono studiate perfezionate fabbricate conservate dall’unico governo federale; ed i cantoni e gli Stati, privi di organizzazione militare propria, non hanno la possibilità di meditare ed attuare disegni contro altri cantoni o Stati facenti parte del medesimo corpo sovrano.
Su questa via sta l’unica speranza di salvezza. E’ una via lunga; ma occorre cominciare a percorrerla, se non si vuoi perdere tempo in diatribe inutili od in camuffamenti ipocriti di propositi malevoli. Non giova delegare ad ispettori internazionali compiti assurdi; importa che gli ispettori siano anche i soli produttori. La prima esigenza è quella del trasferimento ad un corpo internazionale, ad un vero super-Stato, sia pure per il momento limitato. nei suoi scopi, del possesso di tutte le materie prime, di tutti i giacimenti di minerali atti alla produzione della bomba atomica. Nessuna fabbrica dovrebbe esistere fuori di quelle appartenenti all’ente internazionale atomico, il quale dovrebbe trarre il suo personale da tutti gli Stati aderenti in condizioni di parità. Ma gli uomini appartenenti al corpo non sarebbero più funzionari americani o russi o inglesi od italiani o francesi ecc.; sarebbero funzionari dell’ente e legati da vincoli di fedeltà ad esso solo. Costoro, essendo parte di un ente produttore della bomba atomica e necessariamente periti nella conoscenza del punto nel quale la fabbricazione cessa di essere industriale e lecita e diventa bellica (sembra che un siffatto momento o punto esista e sia accertabile), non sarebbero dei meri ispettori spesso incapaci a penetrare nei segreti altrui; ma autori e partecipanti dei nuovissimi procedimenti tecnici, dei segreti più impensati e sarebbero in grado, in quanto ciò si possa sperare, di comprendere se in uno degli Stati consociati si proceda oltre il punto lecito, sì da poter denunciate alla società degli Stati firmatari il pericolo e dar tempo ad essa di reprimerlo. E poiché tra il momento in cui nella fabbricazione si valica il punto lecito e quello in cui la maledetta bomba atomica è perfetta pare intercorra oggi un tempo abbastanza lungo, gli Stati innocenti, avvertiti della minaccia proveniente dallo Stato malvagio, avrebbero il tempo di accingersi essi stessi alla produzione di bombe adatte alla controffesa.
Chi darà la forza al corpo internazionale monopolista dei giacimenti di materie atte a fabbricare bombe atomiche, monopolista della utilizzazione a scopi industriali di quella materia, od almeno controllore di quella utilizzazione? Chi vieterà ai singoli Stati sovrani di impadronirsi delle fabbriche atomiche esistenti sul loro territorio e di nascondere l’esistenza di giacimenti atti a produrre le necessarie materie prime?
Ardue domande; che occorre candidamente porci se vogliamo risolvere il problema della pace. Per ora ho cercato solo di dimostrare che un patto internazionale di bando della bomba atomica è proposito vano e probabilmente ipocrita; che altrettanto vano sarebbe un patto che, conservando la sovranità militare dei singoli Stati, facesse ingenuo affidamento su un corpo di ispettori internazionali; e che condizione necessaria per la repressione dell’uso della bomba atomica è il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla sua produzione ad un ente internazionale superiore ai singoli Stati.
Ma è condizione possibile ed è essa sufficiente?
 
 
CHI VUOLE LA PACE?
 
 
Il grido: «Vogliamo la pace!» è troppo umano, troppo bello, troppo naturale per una umanità uscita da due spaventose guerre mondiali e minacciata da una terza guerra sterminatrice, perché ad esso non debbano far eco e dar plauso gli uomini i quali non abbiano cuor di belva feroce.
Ma, subito, all’intelletto dell’uomo ragionante si presenta l’ovvia domanda: «Come attuare l’umano, il cristiano proposito?».
Non giova far appello ad ideali nuovi, a trasformazioni religiose o sociali. Unica guida sono l’esperienza storica ed il ragionamento. Questo ci dice che non può essere reputato mezzo sicuro per impedire le guerre quello che, pur esistendo, non le ha sinora impedite. Non è un mezzo sicuro una religione piuttosto che un’altra; perché le guerre si accompagnano alle religioni più disparate; e neppure la religione cristiana proibisce di difendere il proprio paese contro l’aggressione ingiusta. Sempre accadde, contro i comandamenti divini, che taluni uomini siano dediti al furto, all’ozio, al vagabondaggio, all’omicidio ed alle guerre; sicché ai buoni non resta che difendersi con la forza contro i malvagi.
Non sono un mezzo sicuro le trasformazioni sociali; ché si combatterono guerre cruente in tutti i regimi sociali: tra pastori ed agricoltori, in regime di proprietà collettive delle tribù e delle genti, durante il feudalesimo e la servitù della gleba, prima e dopo il sorgere le il fiorire della borghesia. La teoria dello spazio vitale imperversò prima e durante il nazismo; ed oggi pare guidare i comunisti russi. Eredi dei millenni in cui gli uomini conducevano vita belluina ed antropofaga, gli uomini talvolta immaginano, sotto la guida di falsi profeti, di arricchire spogliando altrui. Gli uomini pacifici del mondo contemporaneo, i quali sapevano o facilmente intuivano che la guerra non doveva recare se non morte e rovina, si lasciarono ingannare dai pochi frenetici di dominio a guerreggiare a vicenda; ed i risparmiatori videro sfumati i loro risparmi, gli imprenditori minacciato il possesso delle fabbriche e delle terre ed i lavoratori ridotto il compenso della fatica.
Se un paragone si deve fare tra opposti sistemi di organizzazione sociale come fomentatori di guerre, la conclusione è una sola: tanto più facile è conservare la pace quanto più numerose sono le forze economiche esistenti in un paese che siano indipendenti dallo Stato (cosiddetta volontà collettiva) e tanto più è agevole scendere in guerra quanto più l’economia è accentrata sotto la direzione di un’unica volontà. Una società di milioni di proprietari indipendenti, di numerosi industriali e commercianti è una società la quale intende agli scambi con i paesi stranieri, per vendere sui mercati migliori i propri prodotti ed acquistare a buon mercato i desiderati prodotti esteri. I molti che desiderano migliorare la propria fortuna hanno bisogno della pace ed aborrono dalla guerra. Nei paesi dove il potere economico è invece accentrato nello Stato, ivi nascono i monopolisti, ivi si ottiene ricchezza cercando i favori dei governanti ed ivi gli ideali di vittoria e di gloria dei capi alimentano la sete di guadagni improvvisi e grossi degli avventurieri i quali stanno attorno al potere. Le società borghesi dove i privilegiati monopolisti concessionari di favori statali sono potenti, sono avventurose e bellicose.
Agli amatori di preda a danno dello straniero si possono opporre le sole armi che valgono contro i predoni della roba altrui a danno del compaesano e del concittadino. Quando non esisteva e là dove oggi non esiste uno Stato bene organizzato, spesseggiano furti ed assassini. Che cosa hanno inventato gli uomini per tenere a segno ladri ed assassini? Poliziotti, giudici e prigioni. Se non esiste lo Stato, l’uomo giusto e buono deve difendersi da sé, con grande fatica e scarso risultato. Viene meno in lui la voglia di lavorare, di produrre e di risparmiare; e l’intera società immiserisce. Lo Stato ha perciò assunto su di sé il compito di scegliere e stipendiare poliziotti, giudici e guardie carcerarie; sì che i buoni possano respirare, lavorare e contribuire a ridurre la miseria ed a crescere il benessere universale.
Contro le carneficine ed i latrocini all’ingrosso compiuti col nome di guerre da un popolo contro un altro popolo non esiste rimedio diverso da quello di cui l’esperienza antichissima ed universale ha dimostrato l’efficacia contro gli assassini ed i furti compiuti ad uno ad uno dall’uomo contro l’uomo: la forza. Come lo Stato con i poliziotti, i giudici ed i carcerieri fa stare a segno ladri ed assassini, così è necessario che una forza superiore allo Stato, un super-Stato, faccia stare a segno gli Stati intesi ad aggredire, violentare e depredare altrui.
Chi vuole la pace deve volere la federazione degli Stati, la creazione di un potere superiore a quello dei singoli Stati sovrani. Tutto il resto è pura chiacchiera, talvolta vana, e non di rado volta a mascherare le intenzioni di guerra e di conquista degli Stati che si dichiarano pacifici. Giungiamo quindi alla medesima conclusione alla quale dobbiamo giungere a proposito della bomba atomica. Non basta gridare: abbasso la bomba atomica, viva la pace! per volere sul serio l’abbasso ed il viva. Fa d’uopo volere o perlomeno conoscere qual è la condizione necessaria bastevole perché l’una e l’altra volontà non restino parole gettate al vento. Siffatta condizione si chiama forza superiore a quella degli Stati sovrani, si chiama federazione di Stati, si chiama super-Stato. Se un giudice delle malefatte deve esistere, se l’aggressore deve essere preso per il collo e costretto a desistere dalla rapina, deve esistere una forza, uno Stato superiore agli altri il quale possa farsi ubbidire dagli Stati singoli, devono anzi gli Stati singoli essere privati del diritto e della possibilità della guerra e della pace.
E, badisi bene, il super-Stato non può essere una qualunque Società delle Nazioni od anche una Organizzazione delle Nazioni Unite. Il 18 gennaio 1918, su queste stesse colonne, sostenevo la tesi che l’idea della Società delle Nazioni — allora non ancora fondata, ma già rumorosamente propugnata da molti fantasiosi idealisti, tra i quali si era cacciato, più rumoroso di tutti, quel Benito Mussolini cbe poi tanto la svillaneggiò e contribuì a distruggerla — era idea vana e destinata al fallimento. Non v’ha ragione di pensare oggi diversamente rispetto alla organizzazione che l’ha sostituita.
Come i fatti mi hanno dato ragione per la Società delle Nazioni, così oggi tutti si avvedono che l’ONU non è efficace strumento di pace per il mondo. A che cosa serve una lega, una associazione, la quale deve ricorrere al buon volere di ognuno degli Stati associati permettere a posto lo Stato malfattore recalcitrante al volere comune? Priva di forza propria militare, una società di Stati è fatalmente oggetto di ludibrio e di scherno. Sinché la Svizzera fu una semplice lega di cantoni sovrani, ognuno dei quali aveva un proprio esercito, proprie dogane e propria rappresentanza diplomatica con le potenze straniere, essa rimase soggetta ad influenze dal di fuori e non possedeva vera unità nazionale. Solo nel 1848, creato finalmente dopo le tristi esperienze della guerra intestina un governo federale, abolite le dogane interne e passati dai cantoni alla Confederazione il diritto di stabilire dazi al confine federale, il diritto di battere moneta, quello di mantenere un esercito e di avere rapporti con l’estero, sorse la Svizzera unita e federale.
Una esperienza analoga s’era fatta due terzi di secolo innanzi in quelli che diventarono poi gli Stati Uniti d’America. Se gli Stati Uniti odierni nacquero e grandeggiarono, se nessuno minaccia la pace nel territorio della repubblica stellata, ciò è dovuto soltanto al genio di Washington e dei suoi collaboratori i quali videro che lo Stato che essi avevano fondato nella guerra di liberazione era perduto se non si faceva il gran passo; se i singoli Stati non rinunciavano al diritto di circondarsi di dogane, al diritto di battere moneta, a quello di mantenere un esercito proprio e di inviare all’estero una propria rappresentanza diplomatica. Rinunciando ad una parte della sovranità, i tredici Stati confederati serbarono ed ancora posseggono il resto; che è il più, perché riguarda i beni morali e spirituali del popolo. Il gran passo fu fatto quando la Costituzione del 26 luglio 1788 ebbe cominciamento con le famose parole: We the people of the United States, noi popolo degli Stati Uniti, e cioè non noi tredici Stati, ma noi «il popolo intero degli Stati Uniti», abbiamo deciso di fondare una più perfetta unione.
Con quelle parole, e solo con quelle parole, gli Stati Uniti d’America soppressero la guerra nell’interno del loro immenso territorio: creando un nuovo Stato non composto di Stati sovrani, ma costituito direttamente da tutto il popolo degli Stati Uniti; e superiore perciò agli Stati creati dalle frazioni dello stesso popolo viventi nei territori degli Stati singoli. Vano è immaginare e farneticare soluzioni intermedie. Il solo mezzo per sopprimere le guerre entro il territorio dell’Europa è di imitare l’esempio della Costituzione americana del 1788, rinunciando totalmente alle sovranità militari ed al diritto di rappresentanza verso l’estero ed a parte della sovranità finanziaria. Se su questa via si deve e si potrà procedere gradatamente, siano benedette la unione doganale stipulata fra l’Olanda, il Belgio ed il Lussemburgo (Benelux) e quella firmata fra l’Italia e la Francia. Ma sia ben chiaro che si tratta appena di un cominciamento, oltre il quale dovrà farsi ben presto deciso e lungo cammino. Quando noi dobbiamo distinguere gli amici dai nemici della pace, non fermiamoci perciò alle professioni di fede, tanto più clamorose quanto più mendaci. Chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello Stato nel quale vivete? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dare il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace. Il resto è menzogna.
 
(a cura di Giovanni Vigo)

 

 

 

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