IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLII, 2000, Numero 3, Pagina 212

 

 

ORTEGA Y GASSET
 
 
Ortega y Gasset (1883-1955) è certamente una figura di intellettuale molto complessa, difficile da interpretare sia per la vastità dei suoi scritti, sistematici e d’occasione, sia per le vicende della sua vita, che lo hanno visto impegnato non solo sul fronte della riflessione teorica, ma anche sul fronte della militanza politica, sia pure sui generis, non legata cioè alla normale dialettica politica fra i partiti.
Egli è stato spesso definito come un conservatore sulla base del ruolo essenziale che ha attribuito alle élites e della sua teoria dell’uomo-massa. In realtà, almeno fino a un certo punto della sua vita, egli ha dato il suo appoggio e il suo contributo ai partiti socialisti, avendo come obiettivo l’emancipazione della classe operaia.
Ma al di là delle tematiche per cui egli è diventato famoso, ciò che ci spinge a prendere in considerazione una parte del suo pensiero è la sua lungimiranza nell’indicare gli Stati Uniti d’Europa come la risposta alla crisi storica degli Stati europei. Nella Ribellione delle masse, di cui pubblichiamo alcune pagine, Ortega scrive: «L’evidente decadenza delle nazioni europee non sarebbe a priori necessaria, se un giorno dovessero essere possibili gli Stati Uniti d’Europa, la pluralità europea sostituita dalla sua formale unità?».[1]
A questa conclusione egli giunge con una analisi del concetto di nazione che è molto vicina alla critica dello Stato nazionale che fa parte del patrimonio culturale dei federalisti. A partire da una concezione dinamica dello Stato, le cui forme e le cui dimensioni sono continuamente superate attraverso un processo di progressivo allargamento della sua orbita, egli critica quelle concezioni della nazione e dello Stato nazionale che isolano e cristallizzano certe caratteristiche (razza, lingua, territorio) come se fossero immutabili. La stessa critica a Renan riguarda il fatto che il «plebiscito di tutti i giorni» si riferisce a una nazione già costituita e consolidata, e in quanto tale legittimata più dal suo passato che dalla capacità progettuale, dalla proiezione verso il futuro.
Pur mettendo l’accento sulle «imprese unificatrici» come che possono dare slancio e vitalità agli Stati, permettendo loro di superare momenti di crisi, in questo testo Ortega non si colloca nella prospettiva federalista. Egli, cioè, non si pone il problema delle istituzioni adeguate all’unione di Stati, né quello del mantenimento della loro autonomia nell’unità — pur sottolineando che «l’attuale pluralità» non deve scomparire in una Europa unita.[2] Ciò lo porta a vedere nell’unificazione un processo di inglobamento, sia pure non condotto a termine attraverso una guerra di conquista, a definire questo inglobamento come «fusione nazionale» e a considerare l’«idea nazionale» come il motore dell’unificazione stessa: «Adesso potrebbe arrivare per gli ‘Europei’ la stagione in cui l’Europa possa convertirsi in idea nazionale… Lo Stato nazionale d’Occidente, quanto più fedele rimanga alla sua autentica sostanza, dirittamente corre a rigenerarsi in un gigantesco Stato continentale».[3]
Questa «idea nazionale», chiamata anche «principio di nazionalizzazione», introduce certamente un’ambiguità nella analisi sul destino dell’Europa. Non dobbiamo però dimenticare che il suo linguaggio è legato e condizionato da un luogo comune — che è stato smentito dall’analisi e dalla critica allo Stato nazionale fatte da Albertini[4] — dall’idea cioè che si debba distinguere la nazione (e i valori insiti in essa) dal nazionalismo come degenerazione dell’idea nazionale: «Il nazionalismo, scrive Ortega, è sempre un impulso di direzione opposta al principio di nazionalizzazione».[5]
Rimane comunque il fatto che Ortega ha riconosciuto e denunciato la crisi degli Stati europei fra le due guerre mondiali, crisi che ha definito «di comando» e che coincide con l’incapacità di assumersi responsabilità e di superare quello che chiama «grave disorientamento morale». «Gli Europei non sanno vivere, egli scrive, se non sono lanciati in una grande impresa unitaria… Gli ambiti che finora si sono chiamati nazioni arrivarono un secolo fa, o poco meno, alla loro massima espansione. Ormai non si può fare più nulla con essi, se non trascenderli».[6]
 
 
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LA RIBELLIONE DELLE MASSE*
 
7. […] Ripeto ancora una volta: la realtà che chiamiamo Stato non è la spontanea convivenza di uomini che la consanguineità ha unito. Lo Stato incomincia quando si obbligano a convivere gruppi originariamente separati e distinti. Questo obbligo non è nuda violenza, ma suppone un progetto, un’impresa comune che si propone ai gruppi dispersi. Prima di tutto lo Stato è un progetto d’azione e un programma di collaborazione. Si chiamano le persone e i gruppi perché nell’unione realizzino un’impresa. Lo Stato non è consanguineità, né unità linguistica, né unità territoriale, né contiguità d’abitazione. Non è nulla di materiale, d’inerte, di prestabilito e limitato. E’ un puro dinamismo — la volontà di far qualcosa in comune — e, grazie ad esso, l’idea statale non è circoscritta da nessun confine fisico.
Acutissimo il noto blasone di Saavedra Fajardo: una freccia, e sotto «o sale o scende». Questo è lo Stato. Non già una cosa, ma un movimento. Lo Stato è in ogni istante qualcosa che viene da e va verso. Come ogni movimento, ha un terminus a quo e un terminus ad quem. Si penetri, a un momento qualsiasi, la vita d’uno Stato che lo sia veramente, e si troverà un’unità di convivenza che sembra fondata in questo o quell’attributo materiale: sangue, lingua, «frontiere naturali». L’interpretazione statica ci porterà a dire: questo è lo Stato. Però subito avvertiamo che questo organismo umano sta facendo qualcosa di comune: conquistando altri popoli, fondando colonie, confederandosi con altri Stati, cioè a ogni istante sta superando quello che sembrava il principio materiale della sua unità. E’ il terminus ad quem il vero Stato, la cui unità consiste precisamente nel superare ogni unità stabilita. Quando questo impulso verso il più oltre cessa, lo Stato automaticamente soccombe, e l’unità che già esisteva e sembrava fisicamente cementata — razza, idioma, confini naturali — non serve più a nulla: lo Stato si disgrega, si disperde, si atomizza. Soltanto questa duplicità di momenti nello Stato — l’unità che già s’è costituita e la più ampia che si progetta — permette di comprendere l’essenza dello Stato nazionale. E’ risaputo che ancora non si è riusciti a definire la «nazione», se diamo a questo termine la sua accezione moderna. Lo Stato-città era un’idea abbastanza chiara, che si vedeva immediatamente. Ma il nuovo tipo d’unità pubblica che germinava nella vita dei Galli e dei Germani, l’ispirazione politica dell’Occidente, è una cosa più vaga e precaria. Il filologo, lo storico attuale, che è, per la sua stessa mentalità, arcaicizzante, si sente dinanzi a questo formidabile fatto quasi perplesso, come Cesare o Tacito quando con la loro terminologia romana volevano dire che cosa erano quegli Stati incipienti, transalpini e ultrarenani, oppure quelli spagnoli. Li chiamano civitas, gens, natio, rendendosi conto che nessuna di queste denominazioni si adatta. Non sono civitas per la semplice ragione che non sono città. Ma neanche si può generalizzare il termine e alludere con esso a un dato territorio. I popoli nuovi cambiano con somma facilità la loro sede, o per lo meno ingrandiscono o riducono quella che occupano. E nemmeno sono unità etniche — gentes, nationes. Per quanto lontano ci spingiamo, i nuovi Stati risultano formati da gruppi all’origine indipendenti. Sono combinazioni di etnie diverse. Che è allora una nazione, giacché non è né comunità di sangue, né attaccamento a un territorio, né altra cosa di questo genere?
Come accade sempre, anche in questo caso una più intima considerazione dei fatti ce ne darà la chiave. Che cosa è che ci salta agli occhi quando ricostruiamo l’evoluzione di qualunque «nazione moderna» Francia, Spagna, Germania? Semplicemente questo: ciò che ad una certa epoca sembrava costituire la nazionalità, scompare ad una data posteriore. Prima la nazione sembra la tribù, e la non-nazione la tribù confinante. Dopo, la nazione si compone delle due tribù, più tardi è una provincia e poco dopo è già un’intera contea o ducato o «regno». La nazione è León, però non la Castiglia; poi è León e la Castiglia, però non Aragona. E’ evidente la presenza dei due principi: uno, variabile e sempre in via di superamento — tribù, provincia, ducato, «regno» con la sua lingua o dialetto; l’altro, permanente, che si eleva liberissimo sopra tutti questi limiti e postula come unità ciò che il primo considerava come radicale contrapposizione.
I filologi — chiamano così coloro che oggi pretendono di dirsi «storici» — cadono nella più deliziosa semplicità quando prendono le mosse da ciò che oggi, in questa data fuggevole, in questi due o tre secoli, sono le nazioni d’Occidente, e suppongono che Vercingetorige o il Cid Campeador volevano già una Francia da Saint-Malo a Strasburgo, o una Spagna da Finisterre a Gibilterra. Questi filologi — come l’ingenuo drammaturgo — fanno quasi sempre in modo che i loro eroi partano per la guerra dei Trent’anni. Per spiegarci come si siano formate la Francia e la Spagna, suppongono che la Francia e la Spagna preesistessero come unità nel fondo delle anime francesi e spagnole. Come se esistessero Francesi e Spagnoli originariamente, prima che la Francia e la Spagna esistessero! Come se il Francese e lo Spagnolo non fossero semplicemente una realtà che si dovette forgiare in duemila anni di fatica!
La verità è che le nazioni attuali sono soltanto la manifestazione attuale di quel principio variabile, condannato ad un perpetuo superamento. E questo principio non è adesso il sangue né il linguaggio, dato che la comunità di sangue e di lingua in Francia e in Spagna è stata effetto e non causa della unificazione statale; questo principio è adesso la «frontiera naturale».
E’ bene che un diplomatico si valga nella sua abile schermaglia di questo concetto di frontiere naturali come ultima ratio delle sue argomentazioni. Ma uno storico non può trincerarsi dietro di esso come se fosse l’estrema difesa. Non è decisivo e nemmeno sufficientemente specifico.
Non si dimentichi qual è, nei suoi rigorosi termini, la questione. Si tratta di accertare che cos’è lo Stato nazionale — quello che oggi siamo soliti chiamare nazione — a differenza di altri tipi di Stato, come lo Stato-città o, arrivando all’altro estremo, come l’Impero fondato da Augusto. Se si vuole formulare il tema in modo ancora più chiaro e preciso, si dica così: che forza reale ha prodotto siffatta convivenza di milioni d’uomini sotto una sovranità di Potere pubblico che chiamiamo Francia, o Inghilterra, o Italia, o Spagna, o Germania? Non è stata la previa comunità di sangue perché ciascuno di questi corpi collettivi è attraversato da «torrenti di sangue» molto eterogenei. Non è stata nemmeno l’unità linguistica, perché i popoli oggi riuniti in uno Stato parlavano, o parlano ancora, idiomi diversi. La relativa omogeneità di razza e di lingua di cui oggi godono — ammesso che si tratti veramente di un godimento — è il risultato dell’anteriore unificazione politica. Pertanto, né il sangue né il linguaggio costituiscono lo Stato nazionale; anzi, è lo Stato nazionale che livella le differenze originarie dei globuli rossi e dei suoni articolati. E’ sempre avvenuto così. Rare volte, per non dire mai, lo Stato ha coinciso con una previa identità di sangue o d’idioma. Né la Spagna è oggi uno Stato nazionale solo perché si parla in ogni suo luogo la lingua spagnola, né furono Stati nazionali l’Aragona e la Catalogna soltanto perché in un certo giorno, arbitrariamente coincisero i limiti territoriali della loro sovranità con quelli della lingua aragonese o catalana. Saremmo più vicini al vero se, rispettando la casistica che ogni realtà presenta, ci adeguassimo a questa proposizione: ogni unità linguistica che comprende un territorio d’una certa estensione è quasi certamente un precipitato di qualche unificazione politica anteriore. Lo Stato è stato sempre il grande turcimanno.
E’ da molto tempo che si ha coscienza di ciò, e risulta assai strana l’ostinazione con cui, tuttavia, si persiste ad attribuire alla nazionalità come fondamenti il sangue e la lingua. Nel che io vedo tanta ingratitudine quanta incongruenza. Perché il Francese deve la sua Francia, e lo Spagnolo la sua Spagna attuale, ad un principio, il cui impulso consistette precisamente nel superare l’angusta comunità di sangue e d’idioma. Di modo che la Francia e la Spagna consisterebbero, oggi, nel contrario di ciò che le rese possibili.
Analoga incongruenza si commette nel voler fondare l’idea di nazione in una grande configurazione territoriale, scoprendo il principio d’unità, che tanto il sangue quanto la lingua non danno, nel misticismo geografico delle «frontiere naturali». C’imbattiamo qui nello stesso errore di prospettiva. La data attuale ci presenta le cosiddette nazioni stabilite in ampi territori del continente o nelle isole adiacenti. Di questi limiti attuali si vorrebbe fare qualcosa di definitivo e spirituale. Sono, si dice, «frontiere naturali», e con la loro «naturalità» si vuole simboleggiare come una quasi magica predeterminazione della storia per la forma tellurica. Ma questo mito si volatilizza immediatamente, appena lo si sottopone allo stesso ragionamento che non riconobbe valida la comunità di sangue e di idioma come fonti della nazione. Anche qui, se andiamo a ritroso di qualche secolo, sorprenderemo la Francia e la Spagna divise ciascuna in nazioni minori, con le loro inevitabili «frontiere naturali». La montagna di confine sarebbe stata meno importante dei Pirenei o delle e la barriera liquida meno abbondante del Reno, del passo di Calais o dello stretto di Gibilterra. Ma tutto questo dimostra solamente che la «naturalità» delle frontiere è veramente relativa. Dipende dai mezzi economici e bellici dell’epoca.
La realtà storica della famosa «frontiera naturale» consiste semplicemente nel creare una difficoltà all’espansione del popolo A sul B. Perché è una difficoltà — di convivenza o di guerra — per A ed è una difesa per B. L’idea di «frontiera naturale» implica quindi, ingenuamente, come più naturale anche della frontiera, la possibilità di espansione e fusione illimitata tra i popoli. Infine, soltanto un ostacolo materiale pone un freno. Le frontiere di ieri e di avantieri non ci sembrano oggi fondamenti della nazione francese o spagnola, ma anzi l’inverso: ostacoli che l’idea nazionale incontrò nel suo processo d’unificazione. Nonostante tutto questo, pretendiamo di conferire un carattere definitivo e fondamentale alle frontiere odierne, malgrado che i nuovi mezzi di traffico e di guerra abbiano annullato la loro efficacia come ostacoli. Quale è stata allora la funzione delle frontiere nella formazione delle nazionalità, giacché non ne sono state il fondamento positivo? La questione è chiara e di somma importanza per intendere l’autentica aspirazione dello Stato nazionale di fronte allo Stato-città. Le frontiere sono servite a consolidare in ogni momento l’unificazione politica già acquisita. Non sono state, dunque, principio della nazione, ma il contrario: in principio furono d’ostacolo, e, in seguito, una volta acquisita, furono un mezzo materiale per mantenere l’unità.
Ebbene, dunque, la stessa funzione corrisponde esattamente alla razza e alla lingua. Non è la comunità nativa dell’una o dell’altra che costituì la nazione, tutt’altro: lo Stato nazionale si trovò sempre, nel suo desiderio d’unificazione, di fronte alle molte razze e alle molte lingue, come con altrettanti ostacoli. Dominati questi energicamente, produsse una relativa unificazione di sangue e d’idiomi che servì a consolidare l’unità.
Non c’è dunque altra via che abbandonare l’incongruenza tradizionale sofferta dall’idea di Stato nazionale e abituarsi a considerare come ostacoli primari per la nazionalità precisamente i tre aspetti in cui si credeva che essa consistesse. E’ chiaro che nello sciogliere questo dilemma sembra che sia proprio io a commettere una incongruenza.
E’ necessario risolversi a cercare il segreto dello Stato nazionale nella sua peculiare ispirazione, nella sua stessa politica, e non in principi estranei di carattere biologico e geografico.
Perché in definitiva si credette necessario ricorrere alla razza, alla lingua e al territorio nativo per comprendere il fatto meraviglioso delle nazioni moderne? Semplicemente perché in queste troviamo una intimità e una fondamentale solidarietà degli individui con il potere pubblico sconosciute nello Stato antico. In Atene e a Roma soltanto alcuni uomini erano lo Stato; gli altri — schiavi, alleati, provinciali, coloni — erano soltanto sudditi. In Inghilterra, in Francia, in Spagna, nessuno è stato mai soltanto suddito dello Stato, ma è stato sempre partecipe d’esso, una stessa cosa con esso. La forma, soprattutto giuridica, di questa unione nello Stato e con lo Stato è stata molto diversa secondo le epoche. Ci sono state grandi differenze di rango e di condizione personale, classi relativamente privilegiate e classi relativamente mortificate; però, se si interpreta la realtà effettiva della situazione politica in ciascuna epoca e se ne rivive lo spirito, appare evidente che ogni individuo si sentiva soggetto attivo dello Stato, partecipe e collaboratore. La nazione — nel senso che questo vocabolo ha in Occidente da più di un secolo — significa l’«unione ipostatica» del potere pubblico e della collettività retta da quello.
Lo Stato è sempre, qualunque sia la sua forma — primitiva, antica, medievale o moderna —, un invito fatto da un gruppo di uomini ad altri gruppi di uomini per eseguire insieme un’impresa. Questa impresa, qualunque siano i suoi tramiti intermediari, consiste alla fine nell’organizzare un certo tipo di vita comune. Stato e programma di vita, progetto di azione o di condotta umana, sono termini inseparabili. I diversi tipi di Stato nascono dalla maniera con cui il gruppo umano che ne prende l’iniziativa stabilisce la collaborazione con gli altri. Così lo Stato antico non riesce mai a fondersi con gli altri. Roma comanda ed educa gli italici e le province; però non li innalza ad una unione con sé. Nella stessa Urbe non si ottenne la fusione politica dei cittadini. Non si dimentichi durante la Repubblica, Roma fu, a rigore, una duplice Roma: il Senato e il popolo. L’unificazione statale non superò mai il rapporto di semplice articolazione fra i gruppi che rimasero esterni ed estranei gli uni altri. Perciò l’Impero minacciato non poté contare sul patriottismo degli altri e dovette difendersi esclusivamente con i suoi mezzi burocratici di amministrazione e di guerra.
Questa incapacità di ogni gruppo greco-romano a fondersi con altri proviene da cause profonde che adesso non conviene indagare, e che in definitiva si riassumono in una sola: l’uomo antico interpretò la collaborazione — in cui, si voglia o no, consiste lo Stato — in una maniera semplice, elementare e grossolana; vale a dire: come dualità di dominanti e dominati. A Roma spettava comandare e non ubbidire; agli altri, ubbidire e non comandare. In tal modo, lo Stato si materializzava nel pomoerium, nel corpo che alcune mura delimitano topograficamente.
Però i popoli nuovi portano un’interpretazione dello Stato meno materiale. Se esso è un progetto d’impresa comune, la sua realtà è puramente dinamica, un fare, e la comunità sta nella sua attuazione. In virtù di ciò, fa parte attiva dello Stato, è soggetto politico, ciascuno che dà la sua adesione all’impresa: e razza, sangue, configurazione geografica, classe sociale rimangono in secondo piano. Non è la comunione anteriore, passata, tradizionale o antichissima — insomma totale e insostituibile — quella che assicura la convivenza politica, ma la comunione futura nell’effettivo agire. Non ciò, che fummo ieri, ma ciò che saremo domani insieme, questo è quello che ci riunisce come Stato. Da qui la facilità con cui l’unità politica supera in Occidente tutti i limiti che imprigionarono lo Stato antico. E la ragione è che l’Europeo, relativamente all’homo antiquus, si comporta come un uomo aperto al futuro, che vive coscientemente rivolto verso il futuro e che su questo misura la sua condotta presente. Una siffatta tendenza avanzerà immancabilmente verso unificazioni ogni volta più ampie, senza che ci sia nulla che per principio la trattenga. La capacità di fusione è illimitata. Non solo fra un popolo e un altro, ma anche rispetto a ciò che è più caratteristico dello Stato nazionale: la fusione di tutte le classi sociali in ogni corpo politico. Come la nazione, territorialmente ed etnicamente, si rafforza sempre di più la collaborazione interiore. Lo Stato nazionale è alla sua stessa radice democratico, in un senso più decisivo di tutte le differenze che si riscontrano nelle forme di governo.
E’ curioso notare come nel definire la nazione, fondandola sui legami d’una comunione nel passato, si finisca sempre coll’accettare come la migliore la formula di Renan, semplicemente perché in essa si aggiunge al sangue, alla lingua e alle tradizioni comuni un attributo nuovo, e si dice che è un «plebiscito quotidiano». Ma s’intende bene cosa significa questa espressione? Non possiamo darle adesso un contenuto di segno opposto a quello che vi annetteva Renan, e che è, tuttavia, molto più vero?
 
8. «Avere glorie comuni nel passato, una volontà comune nel presente; aver compiuto insieme grandi cose, volerne fare altre ancora: ecco le condizioni essenziali per essere un popolo… Nel passato, era eredità di gloria e di rimorsi; nell’avvenire, uno stesso programma da attuare… L’esistenza d’una nazione è un plebiscito quotidiano». Questa è la notissima definizione di Renan. Come si spiega la sua eccezionale fortuna? Senza dubbio, grazie alla clausola. L’idea che la nazione consiste in un plebiscito quotidiano agisce su noi come una liberazione. Sangue, lingua e passato comuni sono principi statici, fatali, rigidi, inerti: sono prigioni. Se la nazione consistesse in ciò e null’altro, la nazione sarebbe una cosa posta dietro le nostre spalle, con la quale non avremmo nulla a che fare. La nazione sarebbe qualcosa che preesiste, non già una realtà che si fa. E neppure avrebbe senso difenderla quando qualcuno l’attacca.
Si voglia o no, la vita umana è costante occuparsi del futuro. Nell’istante attuale noi ci occupiamo di ciò che s’approssima. Per queste ragioni vivere è sempre — sempre, senza pausa né riposo — agire. Come mai non è universalmente evidente che fare, tutto il nostro fare, significa realizzare il futuro? Anche quando ci affidiamo ai ricordi. Noi ci abbandoniamo alla memoria per ottenere qualcosa nell’immediato, anche se non sia altro che il piacere di rivivere il passato. Questa modesta gioia solitaria ci si presentò un momento prima come un futuro desiderabile; per questo lo facemmo. Ne consegue, perciò, che nulla, in definitiva, ha valore per l’uomo se non in funzione dell’avvenire.
Se la nazione consistesse solamente nel passato e nel presente, nessuno si occuperebbe di difenderla contro un attacco. Coloro che sostengono il contrario sono degli ipocriti o dei mentecatti. Accade invece che il passato nazionale proietta le sue lusinghe — reali o immaginarie — nel futuro. E ci pare desiderabile un avvenire in cui la nostra nazione continui ad esistere. Per questo noi ci mobilitiamo a sua difesa: non per il sangue, né per l’idioma, né per il comune passato. Nel difendere la nazione difendiamo il nostro domani, non il nostro ieri.
Questo è ciò che si irradia dall’espressione di Renan: la nazione come eccellente programma per domani. Il plebiscito decide un futuro. Che in questo caso il futuro consista in persistenza e continuazione del passato, non pregiudica affatto il nostro enunciato: solamente rivela che anche la definizione di Renan è arcaicizzante.
Pertanto lo Stato nazionale rappresenterebbe un principio statale più prossimo alla pura idea dello Stato che non l’antica polis o la «tribù» arabi, circoscritta da ragioni di sangue. Di fatto, l’idea nazionale conserva non pochi valori di adesione al passato, al territorio, alla razza, ma è sorprendente notare come in essa finisca sempre col trionfare il puro principio d’unificazione umana attorno a un incitante programma di vita. C’è di più: io direi che questo residuo di passato e questa relativa limitazione dentro i principi materiali non siano stati del tutto spontanei nelle anime dell’Occidente, ma procedono da un’interpretazione erudita, data dal romanticismo all’idea di nazione. Se fosse esistito nel Medioevo questo concetto ottocentesco di nazionalità, l’Inghilterra, la Francia, la Spagna, la Germania sarebbero rimaste abortite. Perché questa interpretazione confonde ciò che ispira e costituisce una nazione con ciò che semplicemente la consolida e la conserva. Non è il patriottismo — si dica una volta per tutte — che ha fatto le nazioni. Continuarlo a credere è un’ingenuità, a cui abbiamo già alluso e che lo stesso Renan accoglie nella sua celebre definizione. Se, perché esista una nazione, è necessario che un gruppo d’uomini si sostenga in un comune passato, io mi domando come chiameremo questo stesso gruppo d’uomini mentre viveva come realtà del presente quello che, visto oggi, appare come passato. Naturalmente era necessario che siffatta esistenza comune finisse, trascorresse, perché si potesse dire: siamo una nazione. Non si avverte qui il difetto originario del filologo, dell’archivista, la sua ottica professionale che gli impedisce di vedere la realtà quando non sia già passata? Il filologo è chi ha bisogno per essere filologo che, anzitutto, esista un passato; ma la nazione, prima di possedere un passato comune dovette creare questa comunità, e prima di crearla dovette sognarla, volerla, progettarla. E basta che abbia un programma di sé, perché la nazione esista, anche se non si realizzi, anche se l’attuazione fallisca, come è avvenuto tante volte. Parleremo in tal caso di una nazione sventurata (per esempio la Borgogna).
Con i popoli dell’America del Centro e del Sud, la Spagna ha un passato comune, un linguaggio comune, una razza comune, e, tuttavia, non forma con essi una nazione. Perché? Manca soltanto una cosa, che, in definitiva, è essenziale: il comune avvenire. La Spagna non seppe suscitare un programma per un avvenire collettivo che attraesse questi gruppi zoologicamente affini. Il plebiscito del futuro fu avverso alla Spagna e nulla le valsero allora gli archivi, le memorie, gli antenati, «la patria». Quando c’è il primo, tutto il resto serve come forza di consolidamento, ma nulla di più.
Riconosco, dunque, nello Stato nazionale una struttura storica di carattere plebiscitario. Tutto quello che sembra agire oltre questo, ha un valore transitorio e mutevole, rappresenta il contenuto, o la forma, o il consolidamento, che ad ogni momento richiede il plebiscito. Renan trovò la magica parola, che arde di luce. Essa ci permette d’intuire intimamente la profondità essenziale d’una nazione, che si compone di questi due elementi: primo, un programma di convivenza totale per una comune impresa; secondo, l’adesione degli uomini a questo programma incitatore. E questa adesione di tutti genera l’interna solidarietà che distingue lo Stato nazionale da tutti gli antichi, nei quali l’unione si determina e mantiene per una pressione esterna dello Stato sui gruppi disparati, mentre qui l’energia statale nasce dalla coesione spontanea e profonda tra i «sudditi». In realtà, i sudditi sono già lo Stato e non lo possono sentire, ed è questo l’aspetto originale e meraviglioso della nazionalità, come alcunché di estraneo a loro. E tuttavia Renan annulla o quasi la sua intuizione, dando al plebiscito un contenuto retrospettivo che si riferisce a una nazione già costituita e che ne decide la continuazione. Io preferirei mutarne il significato e farlo valere per la nazione in statu nascendi. Questa è la giusta prospettiva. Perché, in verità, una nazione non è mai costituita. In ciò si differenzia da altri tipi di Stato. La nazione moderna è sempre in procinto di farsi o disfarsi, tertium non datur. O guadagna adesioni, o le sta perdendo, secondo che il suo Stato rappresenti o no, nell’attualità, un’impresa vitale.
Perciò la cosa più istruttiva sarebbe ricostruire la serie di imprese unificatrici che successivamente hanno infiammato i gruppi umani dell’Occidente. Allora si vedrebbe come gli Europei sono vissuti di esse, non solo nella dimensione pubblica, ma perfino nella loro esistenza più intima; si vedrebbe come si sono entusiasmati o si sono demoralizzati, secondo che ci fosse o no un’impresa da realizzare.
E un’altra considerazione verrebbe a chiarire questa indagine. Le imprese statali degli antichi, per il fatto stesso che non comportavano la calda adesione dei gruppi umani a ciò che si intraprendeva, per il fatto stesso che un tale Stato rimaneva sempre legato a una fatale limitazione — tribù o urbe — erano praticamente illimitate. Un popolo — il persiano, il macedone o il romano — poteva sottomettere a una sovranità unitaria qualunque porzione del pianeta. E poiché l’unità non era autentica, né interna, né definitiva, non era soggetta ad altre condizioni che all’efficacia bellica e amministrativa del conquistatore. Ma in Occidente l’unificazione nazionale ha dovuto seguire una serie inesorabile di tappe. Dovrebbe anzi stupirci di più il fatto che in Europa non sia stato possibile nessun impero delle dimensioni che raggiunsero quello persiano, quello d’Alessandro o quello d’Augusto.
Il processo creatore delle nazioni ha portato sempre in Europa questo ritmo. Primo momento. Il peculiare istinto occidentale, che fa sentire lo Stato come fusione di vari popoli in un’unità di convivenza e morale, comincia ad agire sui gruppi più vicini dal punto di vista geografico, etnico e linguistico. Non perché questa costituisca la fusione nazionale, ma perché la diversità fra vicini è facile a dominare. Secondo momento. Periodo di consolidamento, in cui gli altri popoli lontani dal nuovo Stato sono sentiti come estranei e più o meno nemici. E’ il periodo in cui il processo nazionale assume un di esclusivismo e la tendenza a chiudersi dentro lo Stato, ciò che oggi si chiama nazionalismo. Però il fatto è che, mentre si sentono gli altri politicamente estranei e rivali, si convive con loro nell’ambito economico, intellettuale e morale. Le guerre nazionaliste servono per livellare le differenze di tecnica e di spirito. I nemici abituali si vanno facendo storicamente omogenei. A poco a poco campeggia nell’orizzonte la coscienza che questi popoli nemici appartengono allo stesso circolo umano del nostro Stato. Tuttavia si continua a considerarli come estranei ed ostili. Terzo momento. Lo Stato raggiunge un completo consolidamento. Allora sorge la nuova impresa: unirsi ai popoli che fino a ieri erano considerati come nemici. Cresce la convinzione che sono affini a noi nella vita morale e negli interessi, e che uniti formiamo un circolo nazionale in contrapposizione ad altri gruppi più distanti e ancora più stranieri. E qui matura la nuova idea nazionale.
Un esempio chiarirà ciò che voglio dire: si è soliti affermare che all’epoca del Cid la Spagna — Spania — era già un’idea nazionale, e, per avvalorare la tesi, si aggiunge che già alcuni secoli prima San Isidoro parlava della «Madre Spagna». A mio giudizio, questo è un grosso errore di prospettiva storica. Al tempo del Cid si cominciava a ordire lo Stato León-Castiglia; e questa unità leonese-castigliana era l’idea nazionale di allora, l’idea politicamente efficace. La Spania, invece, era un’idea principalmente erudita: in ogni caso, una delle tante idee feconde che lasciò seminate in Occidente l’Impero romano. Gli «Spagnoli» si erano abituati ad essere uniti da Roma in un’unità amministrativa, in una diocesi del Basso Impero. Però questa nozione geografico-amministrativa era puramente ricettiva, non era un’intima ispirazione, e in nessun modo un’aspirazione.
Per quanta realtà si voglia attribuire a questa idea nazionale nel secolo XI, si riconoscerà che non giunge neanche al vigore e alla precisione che già aveva per i Greci del IV secolo l’idea dell’Ellade. E tuttavia l’Ellade non fu mai un’idea nazionale. L’effettiva corrispondenza storica sarebbe piuttosto questa: l’Ellade fu per i Greci del secolo IV, e la Spania per gli «Spagnoli» del secolo XI e anche del XIV, quello che l’Europa tutta è stata per gli «Europei» durante il secolo XIX.
Questo dimostra che le imprese d’unità nazionale giungono al loro momento, al modo dei suoni di una melodia. La mera affinità di ieri dovrà attendere fino a domani per diventare fioritura d’ispirazioni nazionali. Però, in cambio, è quasi certo che arriverà il suo momento.
Adesso arriva per gli «Europei» la stagione in cui l’Europa può convertirsi in idea nazionale. Ed è molto meno utopistico credere oggi così, di quanto lo fosse stato vaticinare nel secolo XI l’unità della Spagna e della Francia. Lo Stato nazionale d’Occidente, quanto più fedele rimane alla sua autentica sostanza, più direttamente va a rigenerarsi in un gigantesco Stato continentale.
 
9. Appena le nazioni d’Occidente perfezionano la loro attuale fisionomia, sorge attorno ad esse e al di sotto di esse, come un fondo, l’Europa. E’ questa l’unità di paesaggio in cui esse si muovono fin dal Rinascimento, e questo paesaggio europeo sono esse stesse, che, senza avvertirlo, incominciano già ad astrarsi dalla loro bellicosa pluralità. Francia, Inghilterra, Spagna, Italia, Germania, combattono fra loro, formano leghe in contrasto, le disfanno, le ricompongono. Però tutto ciò, la guerra al pari della pace, è un convivere da eguali, ciò che né in pace né in guerra poté fare mai Roma con il Celtibero, con il Gallico, con il Britanno e con il Germano. La Storia evidenziò in primo piano le contese, e in generale la politica, che è il terreno più tardivo per la pianta dell’unità; però, mentre si combatteva in una regione, in cento altre si commerciava col nemico, si scambiavano idee e forme d’arte e articoli di fede. Si direbbe che quel fragore di battaglia è stato soltanto un telone dietro il quale molto più tenacemente lavorava la pace dalle mille braccia, intrecciando la vita delle nazioni ostili. A ogni generazione l’omogeneità degli animi aumentava. Se si vuole maggiore esattezza e più cautele, si dica in questi termini: le anime francesi e inglesi e spagnole erano, sono e saranno quanto differenti si voglia; ma posseggono un medesimo piano o architettura psicologica e, soprattutto, vanno acquistando un contenuto comune. Religione, scienza, giurisprudenza, arte, valori sociali ed erotici si fanno sempre più comuni. Ebbene, dunque: queste sono le cose spirituali di cui si vive. L’omogeneità risulta, quindi, più grande che se le stesse anime fossero di sagoma identica.
Se oggi facessimo un bilancio del nostro contenuto mentale — opinioni, norme, desideri, presunzioni — noteremmo che la maggior parte di tutto questo non viene al Francese dalla sua Francia, né allo Spagnolo dalla sua Spagna, ma dal comune fondo europeo. Oggi, effettivamente, pesa molto di più in ciascuno di noi ciò che egli ha d’europeo, anziché la sua porzione differenziale di francese, spagnolo, ecc. Se si facesse un ideale esperimento di ridursi a vivere puramente con ciò che siamo come «nazionali» e con un processo di pura immaginazione si estirpasse all’uomo medio francese tutto quello che usa, pensa, sente per il tramite degli altri paesi continentali, questi sentirebbe terrore. Vedrebbe che non gli sarebbe possibile vivere di quello soltanto e che i quattro quinti del suo capitale intimo sono beni comuni europei.
Non ci si può figurare altro di superiore da fare noi, che viviamo in questo lato del pianeta, se non realizzare la promessa che da quattro secoli significa il vocabolo Europa. Soltanto vi si oppone il pregiudizio delle vecchie «nazioni», l’idea di nazione come passato. Adesso vedremo Europei sono figli anche della moglie di Loth e si ostinano a fare la storia con la testa rivolta dietro le spalle. L’allusione a Roma, e in generale, all’uomo antico, ci è servita d’ammonimento; è molto difficile che un certo tipo d’uomo abbandoni quell’idea di Stato che una volta entrò nell’intelletto. Per fortuna l’idea dello Stato nazionale che l’Europeo, rendendosene conto o no, portò alla luce del mondo non è l’idea erudita e filologica che gli si è predicata.
Riassumo adesso la tesi di questo saggio. Oggi il mondo soffre di una grave demoralizzazione, che fra i tanti sintomi si manifesta con una temeraria ribellione delle masse ed ha la sua origine nella demoralizzazione dell’Europa. Le cause di questa ultima sono tante. Una delle principali è il declino del potere che il nostro continente esercitava prima su tutto il resto del mondo e su sé stesso. L’Europa non è più sicura di comandare, né il resto del mondo di essere comandato. La sovranità storica si trova in dispersione.
Non c’è più «pienezza dei tempi» perché questa presuppone un avvenire chiaro, prestabilito, inequivocabile, come era quello del secolo XIX. Allora si credeva di sapere ciò che sarebbe accaduto l’indomani. Ma adesso si apre un’altra volta l’orizzonte verso nuove linee incognite, dato che non si sa chi potrà comandare e non si sa come si articolerà il potere sopra la Terra. Chi potrà comandare, cioè quale popolo o gruppo di popoli; e pertanto quale tipo etnico; e quindi quale ideologia, quale sistema di preferenze, di norme, di slanci vitali… Non si sa verso quale centro graviteranno in un prossimo avvenire le cose umane, e perciò la vita del mondo si abbandona a una scandalosa provvisorietà. Tutto, tutto quello che oggi si fa pubblicamente e privatamente — perfino nell’intimità — senza eccezione, se non per alcune zone di qualche scienza, è provvisorio. Fa bene chi non si fida di quanto oggi si predica, si ostenta, si tenta, si esalta. Tutto ciò tramonterà con maggiore rapidità della sua nascita. Tutto, incominciando dalla mania dello sport (la mania e non lo sport come tale) fino alla violenza in politica, dall’«arte nuova» fino ai bagni di sole nelle ridicole spiagge alla moda. Nulla di tutto questo ha radici, perché tutto è una pura invenzione, nel peggiore senso della parola, sicché tutto appare come un volubile capriccio. Non è creazione sorta dal fondo sostanziale della vita; non è affanno né bisogno autentico. Insomma: tutto questo è vitalmente falso. Si dà il caso contraddittorio d’uno stile di vita che coltiva la sincerità e nello stesso tempo è falsificazione. Soltanto c’è verità nell’esistenza allorché sentiamo i suoi atti come irrevocabilmente necessari. Non c’è oggi nessun politico che senta l’inevitabilità della sua politica, e quanto più estremo è il suo gesto, tanto più esso è frivolo e meno richiesto dal destino. Non c’è altra vita con radici proprie, non c’è altra vita autoctona, se non quella che si compone di scene ineludibili e irrevocabili. Il resto, quello che sta a noi di prendere, lasciare o sostituire è precisamente falsificazione della vita.
L’esistenza attuale è frutto d’un interregno, di un vuoto fra due organizzazioni del comando storico: quello che fu e quello che sarà. Perciò è per essenza provvisoria. E gli uomini non sanno bene a quali istituzioni veramente aderire né le donne sanno che tipo d’uomo veramente preferire.
Gli Europei non sanno vivere se non sono lanciati in una grande impresa unitaria. Quando questa manca, si avviliscono, si afflosciano, sentono disgregarsi l’anima. Un inizio di questa crisi ci si offre dinanzi agli occhi. Gli ambiti che fino ad oggi si sono chiamati nazioni, arrivarono un secolo fa, o poco meno, alla loro massima espansione. Ormai non si può fare più nulla con essi, se non trascenderli. Ora non sono più altro che passato, il quale si accumula attorno e sotto l’Europeo,  imprigionandolo, soffocandolo. Con più libertà vitale che mai, sentiamo tutti che l’aria è irrespirabile dentro a ogni popolo, è un’aria chiusa. Ciascuna nazione che prima era la grande atmosfera ventilata, è diventata provincia e «interno». Nella supernazione europea, che noi immaginiamo, non può né deve scomparire l’attuale pluralità. Mentre lo Stato antico annichiliva quanto v’era di differente nei popoli o lo lasciava al di fuori, inattivo o, al massimo, lo conservava mummificato, l’idea nazionale, più puramente dinamica, esige la permanenza attiva di questo plurale che è stato sempre la vita dell’Occidente.
Tutti percepiscono l’urgenza di un nuovo principio di vita. Ma — come sempre accade in crisi simili — alcuni tentano di salvare il momento mediante un’intensificazione, esasperata e artificiale, del principio che è entrato in crisi: questo è il senso della esplosione «nazionalista» negli anni che corrono. E sempre — ripeto — è avvenuto così. L’ultima fiamma, la più lunga; l’estremo sospiro, il più profondo. Alla vigilia di scomparire, le frontiere sono affette da iperestesia, le frontiere militari e quelle economiche.
Ma questi nazionalismi sono strade senza uscita. Si tenti di proiettarli nel futuro e si sentirà il limite. Di qua non si esce da nessuna parte. Il nazionalismo è sempre un impulso di direzione opposta al principio di nazionalizzazione. E’ esclusivista, mentre quest’ultimo è inclusivista. In epoche di consolidamento ha, certamente, un valore positivo e costituisce un’alta norma. Ma in Europa oggi tutto è consolidato e il nazionalismo non è altro che una mania, il pretesto che si fornisce per eludere il dovere di inventare grandi imprese. La semplicità dei mezzi con cui opera e la categoria degli uomini che esalta rivelano a sufficienza che è il contrario di una creazione storica.
Soltanto la decisione di costruire una grande nazione con il gruppo dei popoli continentali tornerebbe a ridare ritmo alla vita europea. Tornerebbe l’Europa a credere in sé stessa e, automaticamente, a esigere molto da sé stessa, a disciplinarsi. Però la situazione è molto più pericolosa di quanto non si sappia valutare. Trascorrono gli anni e si corre il rischio che l’Europeo si abitui a questo tono di esistenza che adesso conduce e si avvezzi a non comandare né a comandarsi. In tal caso, si volatilizzeranno tutte le sue qualità e capacità superiori.
Ma all’unione d’Europa si oppongono, come è accaduto sempre nel processo di nazionalizzazione, le classi conservatrici. Questo può significare per esse una catastrofe, poiché al pericolo generico che l’Europa si demoralizzi definitivamente e perda tutta la sua energia storica se ne aggiunge un altro molto concreto e imminente. Quando il comunismo trionfò nella Russia, molti credettero che tutto l’Occidente sarebbe rimasto inondato dal torrente rosso. Io non partecipai allora a un siffatto pronostico. Al contrario: in quegli anni scrissi che il comunismo russo era una sostanza inassimilabile per gli Europei, casta che ha giocato tutti i suoi sforzi e i fervori della sua storia su un’unica carta: quella dell’individualità. Il tempo è trascorso, e oggi sono ritornati alla tranquillità i pavidi di allora. Sono ritornati alla tranquillità proprio quando arriva giustamente la stagione che gliela farà perdere. Perché adesso sì che può diffondersi sull’Europa il comunismo travolgente e vittorioso.
Il mio pensiero è questo: adesso, come prima, il contenuto del credo comunista alla russa non interessa, non attrae, non disegna un avvenire desiderabile per gli Europei. E non per le ragioni volgari che i suoi apostoli, caparbi, sordi e senza veridicità, come tutti gli apostoli, sogliono predicare. I borghesi dell’Occidente sanno benissimo che, anche senza comunismo, l’uomo che vive esclusivamente delle sue rendite e le trasmette ai suoi figli ha i giorni contati. Non è questo che immunizza l’Europa dalla fede russa, e non per questo c’è meno timore. Oggi sembrano abbastanza ridicole le arbitrarie supposizioni su cui venti anni fa Sorel fondava la sua tattica della violenza. Il borghese non è codardo, come egli credeva, e nell’attualità è più disposto alla violenza che non gli stessi operai. Nessuno ignora che, se nella Russia trionfò il bolscevismo, fu perché in Russia non c’erano borghesi. Il fascismo, che è un movimento petit bourgeois, si è rivelato più violento dell’intero movimento operaio. Non è, dunque, nulla di tutto questo che impedisce all’Europeo di gettarsi nel comunismo, ma una ragione molto più semplice e anteriore. Questa: che l’Europeo non vede nell’organizzazione comunista un aumento della felicità umana.
E, tuttavia, ripeto, mi pare oltremodo possibile che negli anni prossimi l’Europa si entusiasmi del bolscevismo. Non per sé stesso, ma malgrado esso.
S’immagini che il «piano quinquennale» perseguito con tenacia erculea dal governo sovietico attui le sue previsioni e l’enorme economia russa non sia solo restaurata, ma si sviluppi. Qualunque sia il contenuto del bolscevismo, esso rappresenta un gigantesco tentativo umana. In esso gli uomini hanno abbracciato risolutamente un destino di riforma e vivono tesi sotto l’alta disciplina che tale fede inocula nei loro spiriti. Se la materia cosmica, indocile agli entusiasmi dell’uomo, non fa rovinare gravemente l’intento, basta che gli lasci un po’ e il suo splendido carattere di magnifica impresa irradierà sull’orizzonte continentale come un’ardente e nuova costellazione. E se frattanto l’Europa persisterà nell’ignobile regime vegetativo di questi anni, con i nervi afflosciati per carenza di disciplina, senza progetti di nuova vita, come potrà evitare l’effetto contaminatore di quella impresa tanto capitale? Vuol dire non conoscere l’Europeo, se si spera che possa udire senza infiammarsi questo appello a un nuovo fare, quando egli non ha da dispiegare dinanzi a sé un’altra bandiera parimenti entusiasmante. E, pur di poter combattere per qualcosa che dia un significato alla sua vita e di poter fuggire dal vuoto della propria esistenza, non è difficile che l’Europeo arrivi ad ingoiare le proprie obiezioni al comunismo, si senta trascinato dalla sua tensione morale se non dalla sua sostanza.
Io vedo nella costruzione dell’Europa come grande Stato nazionale l’unica impresa che potrebbe contrapporsi alla vittoria del «piano quinquennale».
I tecnici dell’economia politica assicurano che questa vittoria ha molte scarse probabilità dalla sua parte. Ma sarebbe troppo vile che l’anticomunismo si fondasse esclusivamente sulle difficoltà materiali incontrate dal suo avversario. Il fallimento di questo equivarrebbe così all’universale disfatta: di tutti e di tutto, dell’uomo attuale. Il comunismo è una morale «stravagante» — qualcosa di simile a una morale. Non sembra più conveniente e fecondo opporre a questa morale slava una nuova morale occidentale, lo stimolo che darebbe un nuovo programma di vita?
 
(a cura di Nicoletta Mosconi)


[1] Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, in Scritti politici, Torino, UTET, p. 910.
[2] Cfr. infra, p. 227. (pag. 12 di questo articolo)
[3] Cfr. infra, p. 224. (pag. 10 di questo articolo)
[4] Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997.
[5] Cfr. infra, p. 227. (pag. 13 di questo articolo)
[6] Ibidem.
* Ortega y Gasset, La ribellione delle masse (Parte seconda, pp. 928-947), in Scritti politici, Torino, UTET, 1979. In alcuni punti la traduzione è stata rivista.

 

 

 

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