IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LVIII, 2016, Numero 1, Pagina 69

 

 

LA NECESSITA’ DI UN BILANCIO FEDERALE DELL’EUROZONA*

 

 

 La crisi finanziaria iniziata nel 2007-2008 e trasformatasi in crisi dell’euro nel 2010 ha dimostrato che un’unione monetaria non può funzionare correttamente in assenza di una politica fiscale comune. Si tratta di cosa nota almeno a partire dagli anni Settanta (rapporto McDougall) e certamente al momento dell’approvazione del Trattato di Maastricht.

Quando uno shock economico colpisce in modo disomogeneo i paesi appartenenti alla stessa unione monetaria, non ci sono per definizione né una politica monetaria, né una manovra sui tassi di cambio che possano essere messe in atto specificamente in tali paesi. Così, l’unico rimedio per stimolare la crescita economica è quello di ricorrere a una politica fiscale espansiva, aumentando la spesa pubblica e/o riducendo le tasse. Ma nell’Unione monetaria le politiche fiscali espansive nazionali sono limitate, almeno in teoria, dal Patto di stabilità e crescita al 3% di deficit e, soprattutto, dai mercati finanziari, che possono penalizzare quegli Stati membri che ricorrono eccessivamente ai prestiti per finanziare il loro deficit. Questo è esattamente quanto si è verificato nell’UEM finché la Banca centrale europea non ha lanciato il programma di acquisto di titoli, che attualmente si avvicina a 1,6 miliardi di euro. Ma va tenuto presente che la BCE ha adottato questi interventi al fine di evitare la deflazione e di stimolare l’economia dell’eurozona nel suo insieme, dal momento che la monetizzazione dei deficit di bilancio non rientra nel suo mandato (e non vi rientrerà mai).

Tutto ciò dimostra che, nel quadro di un’unione monetaria, è necessario un sistema di finanziamento dei deficit temporanei prodotti da shock esterni asimmetrici. In pratica ciò significa aiutare i paesi a finanziare l’aumento delle indennità di disoccupazione, il pagamento di pensioni e i programmi di investimento senza dover ricorrere ad ulteriori prestiti, pubblici o privati. E’ molto probabile, infatti, che i deficit temporanei non trovino finanziamenti sui mercati dei capitali (almeno a tassi di interesse ragionevoli: questo è stato uno dei fattori della crisi), mentre il ricorso a prestiti internazionali pubblici (Fondo monetario internazionale, Eurogruppo) sarebbe possibile, ma aumenterebbe i livelli del debito. Non si tratterebbe, infatti, di un gesto di solidarietà tra Stati membri, ma piuttosto un possibile buon affare per i creditori.

Anche se alcuni esperti sostengono che non c’è bisogno di un bilancio dell’eurozona – dal momento che c’è il Meccanismo europeo di stabilità (MES), una sorta di fondo monetario dotato di un capitale sottoscritto di 750 miliardi di euro – i fatti e la storia, invece, dimostrano il contrario. Il MES ha fornito assistenza finanziaria “sotto strette condizioni” a Grecia, Cipro, Irlanda e Spagna. Naturalmente, questi prestiti devono essere restituiti, e con gli interessi. E’ meglio di niente, quando un paese non può finanziarsi sul mercato dei capitali, e quindi è importante disporre del MES che può svolgere un ruolo complementare rispetto al futuro bilancio dell’eurozona. Tuttavia non ha senso finanziare un aumento improvviso dei sussidi di disoccupazione attraverso prestiti, anche se a condizioni migliori di quelle del mercato dei capitali, aumentando il livello del debito di paesi che già sono gravati da deficit di bilancio.

Una volta accertato che è necessario un bilancio dell’eurozona per un corretto funzionamento dell’Unione monetaria (e il cosiddetto Rapporto dei 5 Presidenti lo ha già sostenuto), occorre definire quali interventi questo bilancio dovrà finanziare, quali risorse lo alimenteranno, quali dimensioni dovrà avere e se sarà sottoposto a condizioni oppure no.

Chiaramente, il bilancio dell’eurozona deve finanziare i deficit fiscali temporanei, ma potrebbe anche assumere la forma del finanziamento di investimenti pubblici, di sussidi di disoccupazione, o addirittura del finanziamento di riforme strutturali o di politiche mirate alla correzione delle divergenze economiche (questo è sempre un passo delicato, perché le riforme strutturali sono tipicamente deflazionistiche). A mio parere tutte e quattro queste opzioni sono complementari e possono essere incluse nel progetto di un bilancio dell’eurozona.

L’obiettivo della convergenza è importante per evitare che nei periodi di crescita generalizzata il bilancio dell’eurozona rimanga inutilizzato (sebbene possa essere accumulato in un fondo di emergenza). La difficoltà che nasce dall’inserire la convergenza tra gli obiettivi del bilancio dell’eurozona è che, con tale inserimento, esso non rispetterebbe il principio di evitare trasferimenti permanenti, principio che, per alcuni esperti, rappresenta la condizione per ottenere il sostegno al progetto da parte degli Stati più ricchi dell’eurozona.

Per quanto riguarda il reperimento delle risorse, in via di principio, per alimentare il bilancio dell’eurozona, andrebbe istituita una qualche forma di tassa europea come la tassa sulle transazioni finanziarie (il problema è che per il momento non tutti i paesi dell’eurozona hanno aderito a questa cooperazione rafforzata), la carbon tax o una parte della Common Consolidated Corporate Base Tax, se e quando verrà introdotta. D’altra parte, la tassazione non è la sola opzione per il reperimento delle risorse: si può pensare a contributi nazionali. Ma sappiamo bene che questo approccio, che è quello predominante nel caso del bilancio dell’Unione europea, ha un effetto limitante sulle dimensioni del bilancio, dal momento che i governi sono portati a ridurre i loro contributi e a cercare risultati netti. E naturalmente un bilancio in cui i paesi ricevono sotto forma di investimenti e di assistenza finanziaria esattamente gli stessi importi che hanno versato (anche se non sono mai calcolati direttamente in questo modo) non è un bilancio, è a dir poco una stupidaggine.

Ciò che potrebbe essere creato con contributi nazionali è di nuovo un “fondo di emergenza” al quale gli Stati membri potrebbero versare un ammontare fisso basato sul loro PIL, con la possibilità di prelevare liquidità in periodi di difficoltà finanziarie. Ma questo meccanismo, che potrebbe avere importanti effetti di scala e che potrebbe funzionare come una specie di fondo sovrano europeo, non farebbe una differenza sostanziale rispetto al caso in cui gli Stati membri accumulassero a livello nazionale i surplus di bilancio.

Una ovvia risorsa per il bilancio dell’eurozona, pur se certamente insufficiente, potrebbe essere rappresenta dagli introiti della BCE (corrispondenti a circa un miliardo di euro all’anno). Contro questa proposta il Parlamento europeo si è già espresso nel febbraio del 2016 a causa dell’opposizione della maggioranza dei gruppi del PPE, dell’ALDE e della GUE. Tuttavia l’idea è entrata nel documento di lavoro Böge-Berès in vista del rapporto sulla capacità fiscale dell’eurozona: è già un inizio.

Oltre all’introduzione di tasse europee, l’altra tipica possibilità di reperire entrate per il bilancio dell’eurozona è l’emissione di debito. Ma perché tale bilancio sia credibile, sono in ogni caso necessarie entrate fiscali, a meno che i titoli non siano emessi e garantiti congiuntamente dagli Stati membri (gli eurobonds). Personalmente preferisco l’emissione di titoli dell’eurozona da parte di un Tesoro europeo, finanziati da tasse europee e dagli introiti della BCE.

Per quanto riguarda le dimensioni del bilancio dell’eurozona, le stime sono comprese tra un minimo dell’1,5% e un massimo del 5% del PIL. Sotto questo aspetto, penso che, sebbene le dimensioni abbiano la loro rilevanza, sia più importante essere d’accordo sul principio, sulle risorse e sugli obiettivi. Prevedo che, per ragioni politiche, il bilancio dell’eurozona sarà inizialmente più vicino alla stima più bassa.

C’è infine il problema della condizionalità. Molti politici ed accademici europei sono preoccupati soprattutto del moral hazard, e sostengono che, se si creasse un bilancio dell’eurozona utilizzabile per attenuare gli shock economici, verrebbero adottate cattive politiche economiche, ricorrendo ad eccessivi deficit di bilancio. E’ questo il motivo per cui il Rapporto dei 5 Presidenti condiziona la capacità fiscale alla realizzazione di riforme strutturali, mentre il documento di lavoro Böge-Berès sottolinea l’idea di un Ufficio fiscale europeo che verifichi se le circostanze macroeconomiche giustificano il ricorso al bilancio dell’eurozona.

Si tratta naturalmente di un punto cruciale. Dal punto di vista politico è chiaro che sarà necessario stabilire qualche tipo di condizionalità, simile magari alla richiesta del raggiungimento di criteri di convergenza fatta per l’ingresso nell’euro, come ha proposto Pervenche Berès in occasione dell’incontro organizzato dal Gruppo Spinelli e dall’UEF al Parlamento europeo la sera del 15 marzo 2016.

Infine vi è la questione della legittimità democratica. Se vi è un bilancio comune, alimentato da tasse comuni, deve esserci un’istituzione comune che decide come tassare e come spendere. Come ha detto Domenico Moro in un passato seminario dell’UEF, se abbiamo raggiunto un’unione fiscale di questo tipo, significa che abbiamo raggiunto anche un’unione politica. Ovviamente, la difficoltà sta nel fatto che il Parlamento europeo rappresenta anche milioni di cittadini che non vivono nell’eurozona. L’emendamento sugli introiti della BCE cui facevo riferimento nelle righe precedenti, per esempio, è stato respinto anche grazie al voto di molti parlamentari europei eletti in Polonia e in Gran Bretagna.

A questo proposito, il principio di no taxation without representation implica anche no representation without taxation (altra cosa sottolineata da Domenico Moro in diverse occasioni). Perciò, o viene istituito un Parlamento dell’eurozona, oppure solo i parlamentari europei eletti nei paesi dell’eurozona hanno il potere di prendere decisioni sul bilancio dell’eurozona (insieme all’Eurogruppo). Questa seconda opzione sembra più praticabile, anche perché c’è da attendersi che la maggior parte degli Stati membri che non hanno ancora adottato la moneta unica lo farà a tempo debito. Tra l’altro, entrambe le opzioni richiedono una modifica dei trattati, per cui nel frattempo la sola soluzione è un accordo informale all’interno del Parlamento europeo, grazie al quale i parlamentari che non appartengono all’eurozona non votano sul bilancio dell’eurozona.

Domenec Ruiz Devesa

 


* Si tratta della relazione svolta al IV Federalist Training Weekend, organizzato dall’UEF e dalla JEF ad Atene il 19-20 marzo 2016.

 

 

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