IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVII, 1995, Numero 1, Pagina 63

 

 

TESTO DI RIFLESSIONE SULLA CONFERENZA INTERGOVERNATIVA DEL 1996 E SUL PASSAGGIO ALLA TERZA FASE DELL’UNIONE MONETARIA*
 
 
I problemi sul tappeto.
 
Il dibattito politico europeo è condizionato oggi da due elementi di fatto, che pongono una serie di complessi problemi. Si tratta da un lato della spinta all’allargamento dell’Unione e dei rischi che esso comporta per la sua sopravvivenza in assenza di un rafforzamento delle sue istituzioni; e, dall’altro, dell’imminenza di due scadenze cruciali previste dal Trattato di Maastricht: la Conferenza intergovemativa per il riesame di alcune clausole del Trattato, la cui convocazione dovrà avvenire nel corso dell’anno 1996, e la decisione, da prendersi non oltre il 31 dicembre dello stesso anno, circa l’opportunità di dare inizio alla terza fase dell’Unione monetaria prima della data ultimativa comunque fissata dal Trattato per il 10 gennaio 1999.
La complessità dei problemi che dovranno essere affrontati nei prossimi anni divide i politici e disorienta gli osservatori. Si deve però notare che essa dipende dalla debolezza della volontà politica dei primi e dall’insufficiente mobilitazione dell’opinione pubblica. Problemi di analoga complessità sono stati risolti rapidamente in occasione dell’unificazione tedesca grazie alla presenza di un potere deciso ad affrontarli e sostenuto da un forte consenso. Ma oggi in Europa non esiste nessuno che abbia il potere e la volontà di tagliare con un colpo di spada i nodi che ostacolano l’avanzata del processo. Diventa quindi necessario tentare di portare un po’ di chiarezza nel groviglio dei problemi sul tappeto e avanzare proposte di soluzione, nella consapevolezza che soltanto in questo modo si potrà dare un contributo alla maturazione della volontà politica che oggi manca o è debole e alla crescita nell’opinione pubblica di un consenso che oggi è soffocato dalla irresolutezza della classe politica e dalla insufficiente conoscenza da parte dei cittadini della natura della posta in gioco.
In via preliminare deve comunque essere sottolineato che la spinta all’allargamento corrisponde alla vocazione profonda dell’Unione e non può né deve essere fermata. Il senso storico della stessa rivoluzione del 1989 dipenderà dalla capacità dell’Unione di attrarre nella propria orbita gli Stati dell’Europa centro-orientale che bussano alla sua porta. Se ciò non accadrà, essi saranno vittime delle spinte destabilizzanti del nazionalismo. D’altra parte, l’allargamento dell’Unione verso sud sarebbe decisivo per portare stabilità in un’area sconvolta da devastanti conflitti. Basti ricordare l’esempio recente del travagliato accordo di libero scambio con la Turchia, che ha fatto balenare all’orizzonte la possibilità di avviare a soluzione, attraverso l’ingresso di Cipro nell’Unione, un problema che né l’ONU né gli Stati Uniti avevano saputo risolvere in passato. Bisogna ricordare del resto che, se l’Unione tentasse di sottrarsi alle proprie responsabilità soltanto mantenendo la sua attuale composizione, e senza dotarsi degli strumenti necessari per governare sé stessa e per essere efficacemente presente in Europa e nel mondo come forza di pace e di progresso, essa sarebbe a sua volta sopraffatta dalle forze della disgregazione. La verità è che il suo cammino non si può fermare perché l’attuale contesto internazionale non glielo consente. Essa deve scegliere tra avanzare e retrocedere. Se quindi, prima dell’ingresso di Austria, Finlandia e Svezia, poteva avere un senso cercare di bloccare l’allargamento per alcuni anni in attesa della riforma istituzionale affidata alla Conferenza intergovernativa del 1996, oggi un ripiegamento dell’Unione su sé stessa al solo scopo di preservare lo status quo non ne avrebbe più alcuno. Si tratta al contrario di favorire l’allargamento e di impedire in pari tempo che esso porti l’Unione alla dissoluzione trasformandola in una grande area di libero scambio. Questo risultato può essere ottenuto soltanto mediante il rafforzamento dell’Unione. Ed è questo un punto sul quale, con l’eccezione del governo di John Major, esiste in Europa un largo, se pur vago, consenso.
 
Unione monetaria e Unione politica.
 
La spinta all’Unione monetaria e quella alla riforma delle istituzioni dell’Unione hanno avuto origini diverse. La prima è stata motivata essenzialmente dall’esigenza di eliminare l’ultimo e più grave ostacolo al funzionamento del mercato unico; la seconda dai pericoli insiti nell’allargamento e dall’esigenza di farvi fronte per non condannare l’esperienza comunitaria al fallimento. Esse sono però strettamente connesse tra di loro. E il loro legame ha portato alcuni, sia nel campo degli amici dell’Europa che in quello dei suoi nemici, ad affermare che la creazione di un vero e proprio governo europeo è una condizione dell’Unione monetaria. Costoro sostengono, peraltro con ragione, che la moneta è uno degli strumenti essenziali dell’esercizio della sovranità. Ne discenderebbe che non vi può essere moneta unica senza Unione politica, sicché la creazione di questa dovrebbe comunque accompagnare o precedere quella dell’Unione monetaria.
Che la moneta sia uno strumento politico di importanza primaria è un dato di fatto. Ed è un dato di fatto che, nel caso dell’Europa, Unione monetaria e Unione politica sono strettamente connesse. Ma il loro legame non deve essere interpretato in modo meccanico. Nel mondo industrializzato si riconosce oggi sempre più largamente la necessità dell’indipendenza delle banche centrali, anche se nell’ambito di un quadro di riferimento politico-istituzionale. E questa consapevolezza è il riflesso dell’autonomia relativa che oggi la politica monetaria possiede rispetto alla politica economica e all’insieme delle altre politiche. Da ciò consegue che un’Unione monetaria potrebbe funzionare per alcuni anni anche in assenza di un’Unione politica, se pure a prezzo di tensioni e di contraddizioni.
A ciò si aggiunga che l’Unione monetaria, sganciata, o parzialmente sganciata, dall’Unione politica, è oggi più facile da realizzare di quanto non lo sia l’Unione politica stessa. Essa è prevista dal Trattato di Maastricht, che disciplina le procedure per la sua realizzazione, prescindendo dalla condizione dell’unanimità. Ciò del resto è il riflesso del fatto che la rinuncia alla sovranità monetaria è oggi percepita in alcuni paesi come meno traumatica sia della rinuncia alla sovranità militare che di una riforma delle istituzioni europee che comporti una radicale redistribuzione del potere europeo tra Consiglio, Parlamento e Commissione in senso democratico e federale.
Resta il fatto che la moneta, in ultima istanza, è uno strumento della politica. E’ quindi vero che l’Unione monetaria europea non potrà sopravvivere a lungo senza un governo europeo.
Ciò significa che l’Unione monetaria, in assenza di un’Unione politica, provocherebbe, a medio termine, contraddizioni e squilibri tra i suoi membri e tra questi e gli Stati situati nel suo contorno. Le esigenze del suo funzionamento porrebbero con forza il problema di una politica di bilancio, di una politica regionale e di una politica di solidarietà nei confronti degli Stati esclusi, che non potrebbe essere realizzata che da un vero e proprio governo europeo. In questo modo essa rafforzerebbe lo schieramento europeo e indebolirebbe lo schieramento nazionalista, modificherebbe i comportamenti diffusi, orienterebbe le aspettative degli operatori economici e dei cittadini verso l’approfondimento e l’accelerazione del processo di unificazione non solo economica, ma anche politica, rafforzerebbe il Parlamento europeo e la Commissione e tenderebbe a spostare il confronto tra i partiti dal contesto nazionale a quello europeo. Si deve ricordare a questo proposito che la nascita dell’Europa politica non sarà soltanto un fatto istituzionale. Essa sarà segnata dalla nascita di una nuova legittimità europea, che sarà bensì legata in parte alla riforma delle istituzioni, ma che dipenderà anche dal radicamento nelle coscienze dell’idea di cittadinanza europea e dai contenuti che questa andrà assumendo. Ciò significa che, in presenza di un’Unione monetaria, un assetto istituzionale imperfetto, che al limite potrebbe non essere molto diverso dall’attuale, sarebbe profondamente modificato nel suo funzionamento quotidiano dal fatto di divenire gradualmente uno dei luoghi privilegiati del confronto tra le forze politiche e un punto di riferimento importante del consenso dei cittadini. Questa tendenza non si sostituirebbe alla riforma delle istituzioni, che rimarrebbe per sempre il punto d’arrivo del processo. Ma questa sarebbe fortemente accelerata dall’evoluzione spontanea degli orientamenti della classe politica e dei comportamenti diffusi.
Il legame tra Unione monetaria e Unione politica (al quale si aggiunge la coincidenza temporale delle Conferenze intergovernative che dovranno decidere sull’una e sull’altra) impongono dunque di considerarle nel contesto di un unico processo. D’altra parte il governo tedesco si è detto chiaramente contrario a realizzare un’Unione monetaria che non preveda un rafforzamento in senso democratico delle istituzioni dell’Unione. Di fatto quindi è impossibile isolare l’obiettivo dell’Unione monetaria e mettere tra parentesi l’Unione politica. Le due devono essere considerate come obiettivi congiunti.
Resta il fatto che, se il risultato dei grandi appuntamenti che attendono l’Unione europea nei prossimi anni fosse soltanto la creazione di un’Unione monetaria accompagnata da riforme istituzionali insufficienti, questo dovrebbe essere considerato comunque un importantissimo passo avanti. Un’Unione monetaria con questi limiti introdurrebbe nel processo un fattore di irreversibilità, creando istituzioni, come il sistema europeo di banche centrali, e una rete di rapporti di interdipendenza che non si potrebbero sopprimere senza una crisi di dimensioni catastrofiche. Essa richiederebbe certo una prosecuzione, anzi un’intensificazione, della lotta per la creazione di un governo democratico europeo, ma consentirebbe di portarla avanti su di una base più solida e ne migliorerebbe fortemente le prospettive di successo.
 
Il minimo politico-istituzionale.
 
Indipendentemente dal legame che esiste tra Unione monetaria e Unione politica, è un fatto che nel dibattito politico europeo prevale l’opinione che l’allargamento dell’Unione richieda comunque qualche forma di rafforzamento delle istituzioni. La maggioranza degli uomini di governo europei è cosciente dell’importanza decisiva che ha per tutti la prosecuzione dell’esperienza comunitaria ed è favorevole ad una riforma che la renda possibile, quale che sia la disponibilità di ciascuno di essi a consentire cessioni di sovranità. Da queste posizioni si differenziano soltanto alcuni governi, e in primo luogo quello britannico, che si propone esplicitamente di sfruttare l’allargamento per annacquare l’Unione e trasformarla in un’area di libero scambio. Peraltro le formule che sono state proposte per rafforzare le istituzioni dell’Unione sono innumerevoli e in contrasto l’una con l’altra. Esse si dividono sostanzialmente in due gruppi. Alcune si prefiggono lo scopo di rafforzare la capacità di agire dell’Unione razionalizzando le istituzioni esistenti, cioè rimanendo nell’ottica intergovernativa. Altre quello di trasformare le istituzioni attuali dell’Unione in senso democratico e federale.
Prima di entrare nel merito di queste proposte bisogna denunciare la diffusa filosofia secondo la quale il carattere esclusivo della contrapposizione tra confederazione e federazione nelle Unioni di Stati è superata ed è frutto di un approccio dottrinario. Secondo questo orientamento il modello «comunitario» configurerebbe una terza via che non si lascerebbe inquadrare in nessuno dei due termini della contrapposizione. Ma questa terza via non esiste. Nell’opposizione tra federazione e confederazione, che è stata del resto al cuore del dibattito che ha accompagnato la nascita degli Stati Uniti d’America, è in gioco l’idea di sovranità, che nella federazione viene trasferita ad una nuova entità statale (e così garantisce, imponendo la regola del diritto nei rapporti tra gli Stati membri, la loro indipendenza, sottraendoli ai condizionamenti che nascono dai rapporti di potere tra Stati sovrani), mentre nella confederazione rimane una prerogativa degli Stati che la compongono. Coloro che definiscono dottrinaria l’opposizione federazione-confederazione sono in realtà soltanto difensori dello status quo, che vogliono mettere in ombra il fatto che la fondazione di una federazione è un atto radicale di rottura, e comporta conseguentemente una mobilitazione straordinaria di energie. Identificando nel modello «comunitario» una terza via, essi tentano di sottrarsi alla scelta del trasferimento della sovranità, cioè dell’adozione di una nuova legittimità.
Va da sé che ciò non comporta la negazione della specificità del modello comunitario, né della presenza, nelle istituzioni dell’Unione, di elementi potenzialmente federali. Ma si deve sottolineare con forza che l’unificazione europea, fino a che non sarà giunta al suo esito federale, è destinata a rimanere un processo di transizione, le cui configurazioni istituzionali sono provvisorie e instabili. L’attuale struttura istituzionale dell’Unione è una di queste configurazioni, e la presenza in essa di elementi federali è indubbiamente il segno della sua vocazione federale. Ma deve essere chiaro che si tratta di una vocazione non realizzata, in quanto la sovranità appartiene tuttora inequivocabilmente agli Stati membri, anche se si tratta di una sovranità in crisi in quanto è la prerogativa di poteri ormai incapaci di tutelare la sicurezza dei cittadini e di promuoverne il benessere, e quindi di legare stabilmente a sé il loro consenso.
La sfida dell’allargamento impone all’Unione europea di dotarsi di istituzioni che la rendano democratica e capace di agire. Ora, molte delle proposte che sono state avanzate nel dibattito europeo si fondano sull’illusione — o vogliono dare l’illusione — che questi obiettivi siano raggiungibili senza sacrificare la sovranità degli Stati. E’ il caso, per quanto riguarda il requisito della democraticità, della proposta di rafforzare il controllo dei parlamenti nazionali sulla politica dell’Unione. Questa proposta in realtà non è che la mascheratura democratica della volontà dei poteri nazionali di non cedere la loro sovranità. Un governo democratico dell’Europa deve esprimere una volontà politica che si è formata a livello europeo e che ha per oggetto l’interesse del popolo europeo. Se al contrario le decisioni prese a livello europeo sono soltanto il risultato di un compromesso tra volontà che si sono formate a livello nazionale e che rappresentano interessi nazionali, per loro natura diversi, esse rimangono soltanto accordi diplomatici, che in quanto tali non hanno nulla di democratico. A ciò si deve aggiungere che, se le divergenti volontà nazionali si formassero e solidificassero attraverso il canale di un dibattito e di un voto parlamentari, il compromesso ne risulterebbe ulteriormente ostacolato, perché i rappresentanti degli interessi nazionali sarebbero legati, nelle sedi decisionali, da una sorta di mandato imperativo, che impedirebbe loro di sacrificare l’interesse nazionale a breve termine in nome dell’interesse europeo a lungo termine anche nei casi in cui questo sarebbe possibile con le procedure discrete della diplomazia. Va da sé che queste considerazioni non sminuiscono il ruolo che possono giocare, in alcuni momenti nodali del processo costituente dell’Unione, riunioni interparlamentari (le «Assise»), nelle quali siano presenti insieme parlamentari nazionali e parlamentari europei, e nel cui quadro i parlamentari nazionali avrebbero la funzione decisiva di coinvolgere nel processo costituente le forze politiche nazionali e, per il loro tramite, i cittadini.
Altre proposte vengono avanzate con l’obiettivo di rafforzare la capacità di agire dell’Unione, per impedire che essa, con l’allargamento, venga diluita in un’entità del tutto incapace di prendere decisioni, ma senza sacrificare per questo la sovranità degli Stati. E’ così che si è parlato di un nuovo Trattato dell’Eliseo, di un rafforzamento dell’Eurocorpo, di limitare il numero dei membri della Commissione facendo ruotare i Commissari dei piccoli paesi, di modificare in favore dei grandi Stati la ponderazione dei voti in seno al Consiglio, di modificare la composizione della «troika» in modo che in essa sia sempre presente il rappresentante di un grande Stato, di realizzare una maggiore proporzionalità, in seno al Parlamento europeo, delle rappresentanze nazionali rispetto alla popolazione, ecc. Tutte queste proposte di fatto mirano a modificare i meccanismi decisionali dell’Unione in modo da consentire la formazione, all’interno dell’Europa allargata, di un direttorio formato dagli Stati più importanti, che abbiano di fatto il potere di decidere in nome di tutti. Ora, è evidente che questa soluzione sarebbe, oltre che antidemocratica, del tutto inefficiente. In Europa esiste già un direttorio, anche se informale: ed è stata proprio la sua palese incapacità di decidere, apparsa in modo drammaticamente esemplare in occasione della tragedia della ex Jugoslavia, che ha generato la richiesta di riforma delle istituzioni dell’Unione. Pretendere di riproporre, nel contesto di un’Europa che si avvia ad avere dai venti ai trenta membri, una formula così spettacolarmente fallita nel contesto dell’Europa a Dodici significa chiudere gli occhi davanti all’evidenza.
A ciò si aggiunga che la formalizzazione del modello del direttorio è condannata ad un fallimento pressoché certo per la prevedibile resistenza dei piccoli Stati, che mai si rassegnerebbero ad una situazione di dipendenza istituzionalizzata. Del resto è impensabile che l’Europa si costruisca con metodi autoritari, e non attraverso la libera maturazione di un’idea più avanzata del bene comune.
La verità è che, a medio termine, al di là del progresso, importante ma provvisorio, costituito dalla creazione dell’Unione monetaria, che rafforzerebbe comunque il processo anche in presenza di istituzioni politiche di natura intergovernativa, la sola risposta istituzionale effettiva alla sfida dell’allargamento sarebbe la creazione di un vero e proprio embrione di Stato federale, che realizzi insieme l’uguaglianza democratica tra tutti i cittadini dell’Unione e quella tra i suoi Stati membri. I requisiti istituzionali minimi che consentirebbero di qualificare come federale una riforma delle istituzioni dell’Unione sono in sostanza quelli che consentirebbero di redistribuire il potere europeo già esistente tra gli organi dell’Unione, superando l’attuale cumulo nelle mani del Consiglio della maggior parte delle funzioni esecutive e della maggior parte di quelle legislative. Si tratterebbe in sostanza di realizzare la codecisione legislativa in tutte le materie di competenza dell’Unione tra un Parlamento europeo che rappresenti i cittadini europei in proporzione al loro numero ed un Consiglio che rappresenti gli Stati su base paritetica o fortemente ponderata in favore dei piccoli paesi, e la trasformazione della Commissione in un vero e proprio governo, responsabile di fronte al Parlamento.
In questo quadro, l’estensione del voto a maggioranza, del controllo parlamentare e della competenza della Commissione alla politica estera e di sicurezza potrebbe essere realizzata in un secondo tempo, al termine di un periodo transitorio. A questo proposito si devono fare due osservazioni. La prima è che i principali strumenti di politica estera (e di sicurezza) dell’Unione federale europea sarebbero l’apertura al resto del mondo della sua politica commerciale e la sua vocazione all’allargamento e comunque alla creazione di legami organici di associazione e di collaborazione. La politica estera e di sicurezza in senso stretto tenderebbe a seguire gli orientamenti tracciati dalla politica commerciale e di collaborazione economica e sarebbe quindi guidata dal comune interesse europeo anche se per un periodo transitorio essa dovesse rimanere sotto il controllo degli Stati. La seconda è che la carica simbolica di cui sono investite la politica estera e di sicurezza, soprattutto in Stati come la Francia e la Gran Bretagna che dispongono dell’armamento nucleare, fanno di questa competenza il punto di riferimento privilegiato di quanto resta del sentimento nazionale e della retorica nazionalistica che l’accompagna. Quella dell’immediata attribuzione ad istituzioni federali europee della competenza della politica estera e di sicurezza come condizione sine qua non dell’accettazione di qualsiasi riforma delle istituzioni dell’Unione sarebbe quindi una richiesta estremistica, pregiudizievole al successo della battaglia per la creazione di un primo nucleo federale.
 
Il nucleo federale.
 
Quali che siano le posizioni circa i requisiti minimi che dovranno presentare le istituzioni dell’Unione per far fronte alla sfida dell’allargamento, è diffusa ovunque la consapevolezza che la loro riforma non potrà coinvolgere nella stessa misura tutti gli Stati membri e i paesi candidati ma che, all’interno dell’Unione, dovrà emergere un «nucleo duro», cioè un gruppo ristretto di Stati ai quali spetterà il compito di fare da battistrada.
Prima di procedere nell’analisi, deve essere sottolineato che nel dibattito politico, soprattutto in Francia, l’espressione «nucleo duro» viene spesso usata in un significato equivoco, che tenta di renderne la nozione compatibile con il mantenimento del metodo intergovernativo. In questo senso il nucleo duro dovrebbe essere costituito soltanto da un gruppo di paesi (ruotanti attorno al perno franco-tedesco) che, mantenendosi tra di loro in rapporti di concertazione particolarmente stretta, prenderebbero decisioni comuni che poi imporrebbero al resto dell’Unione, avvalendosi se del caso di nuove regole sulla determinazione delle maggioranze in seno al Consiglio. Si tratta del «direttorio» di cui si è già parlato e che (a parte l’effetto di stabilizzazione che potrebbe avere a breve termine per il fatto di agire come l’espressione politica dell’Unione monetaria) non modificherebbe sostanzialmente la situazione attuale.
In realtà l’idea del «nucleo duro» ha un senso soltanto se si fonda sulla consapevolezza che una riforma istituzionale capace di far fronte alla sfida dell’allargamento deve avere necessariamente un carattere federale, e che questa riforma sarebbe destinata a coinvolgere, in un primo tempo, soltanto una parte dei membri dell’Unione. E ciò perché, da un lato, alcuni governi, e in primo luogo la Gran Bretagna, non sarebbero disposti, pur avendone in ipotesi i requisiti, ad entrare oggi in un’Unione di natura federale, e perché, dall’altro, non potendo l’Unione politica nascere che sul terreno dell’Unione monetaria, la composizione dei due raggruppamenti dovrebbe in una certa misura coincidere, talché non potrebbero accedere all’Unione politica gli Stati, a cominciare dai paesi candidati dell’Europa centro-orientale, che non avessero i requisiti obiettivi necessari per accedere all’Unione monetaria. L’Unione politica nascerebbe quindi escludendo due distinte categorie di Stati: quelli che non vorranno e quelli che, pur volendo, non potranno aderirvi.
Peraltro il fatto che il nucleo federale non potrebbe che nascere sul terreno dell’Unione monetaria non significa che esso dovrebbe necessariamente essere composto da tutti gli Stati che ne faranno parte. E’ anzi prevedibile che soltanto una parte degli Stati membri dell’Unione monetaria entrerebbero nel nucleo federale. Nulla vieterebbe quindi che la stessa Gran Bretagna aderisse all’Unione monetaria pur continuando a mantenere un atteggiamento rigorosamente contrario a qualsiasi cessione di sovranità. E’ invece difficile immaginare che istituzioni genuinamente federali possano essere create in un quadro più vasto di quello dell’Unione monetaria, giacché gli Stati esclusi da quest’ultima disporrebbero di fatto del potere di vanificare, attraverso una politica monetaria indipendente, qualsiasi decisione in materia di politica economica presa dal governo federale.
Comunque sia di ciò, l’Unione monetaria e l’Unione politica devono essere pensate come un processo, che parta dal nucleo ristretto dei paesi politicamente ed economicamente più avanzati per estendersi gradualmente all’insieme dell’Unione. Bisogna peraltro constatare che non mancano nel dibattito voci che, pur auspicando soluzioni di tipo federale, e riconoscendo che costringere l’intera Unione a procedere alla velocità del paese più lento porterebbe il processo alla paralisi, rifiutano ogni formula del genere «Europa a due velocità» o «Europa a cerchi concentrici», sostenendo che esse porterebbero alla divisione definitiva dell’Unione in due gruppi di paesi aventi diversa dignità. Ma la presenza nel dibattito di posizioni incoerenti non rende meno decisivo né meno urgente il problema della creazione del nucleo federale.
 
La strada da percorrere.
 
Rimane il problema delle strategie da seguire per giungere alla formazione del nucleo federale. Questo infatti risponde ad un’esigenza obiettiva ed urgente. Ma fino ad oggi la sua necessità è stata compresa, oltre che dai federalisti e da alcune isolate, per quanto importanti, personalità politiche francesi, soltanto dai parlamentari tedeschi del gruppo CDU/CSU che hanno elaborato l’ormai famoso documento reso pubblico il 1° settembre 1994. Per il resto le reazioni sono state in genere confuse ed incerte. Non si è ancora manifestata, nei paesi che hanno la vocazione obiettiva di costituire il nucleo federale, una chiara volontà di realizzarlo.
Come sempre accade di fronte alle scelte storiche decisive, anche in questo caso la mancanza o la debolezza della volontà politica si nascondono dietro pretese difficoltà obiettive che impedirebbero la realizzazione del progetto. Nei confronti della proposta della creazione di un nucleo federale nell’ambito dell’Unione la difficoltà che si fa valere è costituita dal fatto che esso sarebbe incompatibile con i Trattati attualmente in vigore e quindi non potrebbe essere realizzato senza violarli o senza apportarvi le profonde modificazioni necessarie per rendere le istituzioni e le competenze del nucleo federale compatibili con le istituzioni e le competenze dell’Unione. La prima di queste alternative sarebbe inaccettabile per il rispetto che è dovuto ai Trattati, e comunque irrealizzabile perché gli stessi Stati in possesso dei requisiti necessari per costituire il nucleo federale non sarebbero disposti, per realizzare questo obiettivo, a pagare il prezzo della loro denuncia. La seconda sarebbe impraticabile perché dovrebbe essere realizzata con il consenso unanime di tutti i membri dell’Unione, a norma dell’art. N del Trattato di Maastricht e dell’art. 236 del Trattato CEE, e quindi anche dai governi degli Stati che sarebbero esclusi dal nucleo federale; e questi, a cominciare dalla Gran Bretagna, rifiuterebbero un assetto che li confinerebbe in una posizione periferica, e quindi negherebbero il loro consenso.
Questo modo di affrontare il problema presuppone una concezione del diritto, e nel caso specifico dei Trattati istitutivi dell’Unione, come un insieme di norme astratte e pietrificate anziché come una realtà vivente, che l’evolvere dei rapporti politici, economici e sociali, e l’intervento della volontà umana, trasformano incessantemente per adattarla al mutare delle circostanze. Ed è un dato di fatto che, se esistesse già in alcuni paesi la volontà determinata di creare un nucleo federale all’interno dell’Unione, le forme giuridiche per realizzare questo obiettivo e per porre su nuove basi i rapporti con i paesi inizialmente esclusi sarebbero facilmente trovate, così come esse sono state facilmente trovate in tutti i tornanti decisivi del processo di integrazione europea, quando si è realmente manifestata la volontà di realizzare degli avanzamenti.
Ma oggi, se è vero che quello del nucleo federale è un problema ineludibile, che il momento nel quale esso dovrà essere affrontato si approssima e che sta quindi per manifestarsi una reale opportunità storica, è anche vero che la volontà politica dei governi, con la parziale eccezione di quello tedesco, è ancora debole e confusa. Ed è questa, e solo questa, la ragione per la quale sia la strada della rottura che quella dell’accordo appaiono così difficili da percorrere. Il problema è quindi quello di rafforzare la volontà politica là dove essa è insufficiente e di favorirne la nascita là dove essa non esiste ancora. E per questo è necessario entrare nel dibattito sulla procedura da seguire e prendere in esame più in profondità il problema della percorribilità di quelle che sembrano essere le sole due strade pensabili per giungere alla creazione del nucleo federale, non già valutandole sulla base della volontà politica esistente oggi e del grado attuale di maturazione dell’opinione pubblica, ma sapendo che queste, sempre che agli uomini politici e ai cittadini siano presentate soluzioni obiettivamente ragionevoli, maturano nel corso del processo sotto l’incalzare dei problemi; e che liquidarle entrambe pregiudizialmente come impossibili significherebbe semplicemente rinunciare alla creazione del nucleo federale, e quindi accettare che il futuro dell’Unione venga deciso dai paesi contrari a qualunque sua evoluzione in senso democratico e sopranazionale, cioè che il convoglio continui a marciare alla velocità del vagone più lento, nell’attesa — illusoria e suicida sulla sfondo della minacciosa rinascita del nazionalismo — che la volontà europea maturi lentamente in tutti i membri dell’Unione fino a portarli a decidere all’unanimità, in un futuro lontano e indeterminato, e a prezzo di chissà quali terribili prove, la creazione di una Federazione europea a venti o a venticinque.
Veniamo quindi all’esame delle due strade. La prima è quella della stipula di un nuovo Trattato che abbia come suo contenuto esclusivo la creazione di un nucleo federale tra gli Stati che hanno la volontà di realizzarlo, rimandando ad un momento successivo il problema di regolare i suoi rapporti con il resto dell’Unione. Questa linea di condotta comporterebbe la denuncia, esplicita o implicita, dei Trattati in vigore, con particolare riferimento alla procedura prevista dall’art. N del Trattato di Maastricht e dall’art. 236 del Trattato CEE. La seconda è quella dell’inserzione della costituzione del nucleo federale nel contesto di un Trattato più ampio, stipulato con il consenso di tutti i membri dell’Unione a norma dell’art. N del Trattato di Maastricht e dell’art. 236 del Trattato CEE, che disciplini, mediante i necessari adattamenti, i rapporti tra il nucleo federale e gli Stati membri che ne rimarrebbero esclusi, nonché gli strumenti e le forme del successivo allargamento del nucleo federale.
Deve essere sottolineato, e si tornerà brevemente su questo punto in conclusione, che i due approcci non sono alternativi, ma compatibili. L’obiettivo del nucleo federale potrà essere raggiunto soltanto se l’intransigenza nel tenere fermo il risultato da perseguire sarà accompagnata dalla massima disponibilità a trovare accomodamenti soddisfacenti con i paesi che rimarranno, quantomeno in un primo tempo, esclusi dal progetto. Ma è essenziale che in prima istanza la proposta del nucleo federale eviti qualsiasi accento che possa far pensare all’intenzione di introdurre in Europa un elemento permanente di divisione. La creazione del nucleo federale deve cioè essere presentata per quello che è, cioè come il solo modo possibile per dare inizio ad un processo destinato ad estendersi rapidamente al di là dei suoi confini iniziali, fino ad abbracciare l’intera Europa.
In particolare, la proposta iniziale, pur dichiarando chiaramente non negoziabile il carattere federale del «nucleo duro», dovrebbe avere tre requisiti: a) il nucleo federale dovrebbe essere presentato come parte di un accordo più ampio, che regoli fin dall’inizio i rapporti tra le sue istituzioni e quelle dell’Unione, e la ripartizione delle competenze tra i due ambiti, in modo da garantire agli altri Stati la continuità del godimento dei diritti loro derivanti dall’appartenenza all’Unione; b) i paesi del nucleo federale dovrebbero impegnarsi ad aiutare concretamente quelli tra i paesi esclusi che avessero la volontà di entrarvi a realizzare le politiche necessarie per far convergere i principali indicatori delle loro economie con quelli delle economie dei paesi del nucleo federale; c) dovrebbe essere fissato un calendario di riunioni intergovernative nelle quali la posizione dei paesi inizialmente esclusi sarebbe riesaminata periodicamente in vista di una loro futura adesione.
Mentre un approccio che scontasse fin dall’inizio una rottura spingerebbe nel campo avverso tutti gli incerti e coloro che considerano il rigoroso rispetto formale delle procedure in vigore come una priorità assoluta, una proposta di questo genere sarebbe verosimilmente accettata dalla parte non pregiudizialmente contraria dell’opinione pubblica non solo nei paesi che avranno la possibilità e la volontà di far parte del nucleo federale fin dall’inizio, ma anche in quelli che in un primo tempo vorranno o dovranno rimanerne esclusi. Essa costituirebbe quindi un importante fattore di maturazione delle coscienze, che renderebbe più facile il cammino del progetto e ne accelererebbe l’esito positivo. Ed essa non escluderebbe, ma al contrario farebbe nascere, o comunque rafforzerebbe, nel corso del negoziato, la volontà dei paesi favorevoli di giungere, in caso di necessità, alla rottura: ma questa determinazione emergerebbe al termine di una trattativa iniziata su posizioni di apertura, e apparirebbe chiaramente come il risultato della rigidità della controparte. E ne conseguirebbe in ultima istanza che alcuni degli Stati che, pur avendo i requisiti necessari per far parte del nucleo federale, vi si opponessero per motivi politici, posti di fronte alla fermezza dei governi favorevoli e acquisita quindi la consapevolezza di non essere in grado di fermare il processo sfruttando le loro divisioni, troverebbero più conveniente entrarvi fin dall’inizio anziché rimanerne esclusi.
 
Francesco Rossolillo


* Testo presentato al Comitato federale dell’Unione europea dei federalisti (UEF) tenutosi a Bruxelles l’8-9 aprile 1995.

 

 

 

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