IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVI, 1994, Numero 2, Pagina 139

 

 

LA SFIDA PER L’EUROPA DELLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO
 
 
 
L’economia europea si trova ad affrontare una fase critica. Pur avendo realizzato, soprattutto nella seconda parte degli anni Ottanta, un notevole sviluppo, deve attualmente fronteggiare una gravissima crisi dell’occupazione, mentre le previsioni di crescita, anche nelle ipotesi più ottimistiche, ipotizzano per i prossimi anni tassi del 2 o 3%, insufficienti in ogni caso a creare i posti di lavoro necessari per dare una prospettiva ed un avvenire ai giovani europei.
L’economia mondiale, grazie al contributo dei paesi asiatici e di altre aree entrate in una fase di tumultuoso sviluppo, evidenzia invece una crescita sostenuta e dappertutto in Europa si cerca di individuare le vie per adeguare le strutture produttive dei paesi del vecchio continente alle nuove regole del mercato mondiale. Profonde differenze caratterizzano questa fase dell’economia rispetto alle esperienze del passato, in particolare per quanto riguarda gli effetti sulla crescita economica dell’inflazione e dei consumi privati.
 
Sviluppo e inflazione.
 
A partire dagli anni Settanta le economie avanzate, ed in particolare quelle europee, non rispondono più a quella correlazione, ipotizzata da Phillips,[1] tra inflazione e crescita economica.
L’inflazione non svolge più quel ruolo di stimolatore dell’economia che era stato osservato in passato ed un nuovo termine viene introdotto nel linguaggio economico per evidenziare la contemporaneità di inflazione e stasi o recessione economica: la stagflation.
Il cambiamento non è stato analizzato a fondo dagli economisti ed appare tuttora un soggetto marginale nella ricerca economica.
Al riapparire della recessione in Europa, molti economisti hanno riscoperto, improvvisamente, l’idea che una politica monetaria accomodante, che accetti un certo aumento del tasso di inflazione, sia la ricetta adatta per superare le attuali difficoltà, senza peraltro tener conto dell’esperienza della stagflation che ha caratterizzato recenti fasi cicliche dell’economia europea.
La mancanza di ricerche sulle cause della stagflation rende difficile analizzare i cambiamenti intervenuti nei comportamenti economici che hanno dato origine alla nuova situazione e stabilire, di conseguenza, se tali ragioni permangono. A titolo di prima ipotesi si può osservare come sia avvenuto, proprio nella fase in cui l’inflazione perdeva il suo ruolo di «volano» dell’economia, un forte spostamento della ricchezza finanziaria dalle imprese e dallo Stato a favore delle famiglie e come tale fenomeno sia più significativo in Europa rispetto agli Stati Uniti.
Le famiglie hanno iniziato a detenere quote crescenti di risparmio che hanno poi messo a disposizione delle imprese e degli Stati attraverso il mercato finanziario, che si è a sua volta sempre più integrato a livello internazionale. Se fino agli anni Sessanta i cittadini erano, nella loro maggioranza, relativamente indifferenti all’inflazione, a partire dagli anni Settanta la difesa del valore reale dei risparmi è diventata un obiettivo per un numero sempre crescente di famiglie, sino al diffondersi, in tutta Europa, di una forte richiesta di stabilità monetaria. La Deutsche Bundesbank, è stata la prima banca centrale che ha fondato — sul profondo interesse di una popolazione, la cui età media cresceva rapidamente, per la salvaguardia dei propri risparmi e soprattutto sul mantenimento del potere d’acquisto delle pensioni — una politica di stabilità monetaria che è risultata poi una condizione essenziale per realizzare la moneta europea e che ha trovato una istituzionalizzazione nel Trattato di Maastricht, con l’innovazione costituzionale dell’autonomia della futura Banca centrale europea.
Le proposte, avanzate numerose nel corso dell’estate del ‘93, soprattutto in occasione della crisi dello SME, di rilancio dell’economia europea grazie ad un allentamento della lotta all’inflazione, autorevolmente appoggiate anche da numerosi premi Nobel americani, non hanno avuto fortunatamente seguito e la presentazione del Rapporto Delors su «Crescita, competitività, occupazione» ha segnato la definitiva caduta di ogni illusione su una via facile per la ripresa dell’economia europea. Si è così consolidata l’idea che lo sviluppo economico in Europa richieda stabilità monetaria e che solo la pronta realizzazione della moneta europea può consentire una politica di bassi tassi di interesse, soprattutto quelli a lungo termine, decisivi per gli investimenti.
 
Sviluppo e consumi privati.
 
L’economia europea può sperare di riprendere un sostenuto tasso di sviluppo se è in grado di esportare i propri prodotti e servizi nei paesi emergenti.
La possibilità di stimolare i consumi, specialmente di beni durevoli, quali elettrodomestici, automobili, televisori e così via, trova ormai un limite, in Europa, nella saturazione del mercato che tende a stabilizzare la domanda. Il vincolo ambientale ed ecologico si manifesta poi con forza crescente e solo i servizi usufruibili collettivamente (istruzione, cultura, sport, qualità della vita) manifestano una domanda crescente così come i servizi avanzati (telecomunicazioni, trasporti).
Le tendenze alla privatizzazione degli enti e delle imprese operanti in questo campo indica come sia necessario decentrare la spesa direttamente presso le famiglie in tutti i casi in cui il mercato può funzionare, dato anche il fatto che la tecnologia ha ormai rotto le barriere del monopolio in molti settori che nel passato potevano essere gestiti solo dall’operatore pubblico. L’altra tendenza emergente in questa fase, il federalismo (in particolare fiscale), che decentra verso unità territoriali più piccole spesa pubblica in precedenza gestita centralmente, risponde alla necessità di ampliare la disponibilità da parte dei cittadini di servizi collettivi.
L’importanza assunta dalle società operanti nel campo delle public utilities rispetto alle imprese manifatturiere indica la profondità delle modifiche intervenute nel sistema economico europeo e più in generale nei paesi industrializzati.
 
Livelli occupazionali e crescita della produzione.
 
L’entrata dell’Europa nella rivoluzione scientifica e tecnologica è ormai in atto ed il processo non solo è ormai irreversibile ma tende ad accelerare. L’occupazione nei settori industriali tradizionali, come è accaduto in passato per l’agricoltura, tende a ridursi drasticamente.
In ogni fase di sviluppo un particolare aspetto della tecnologia ha profondamente influenzato il modo di produrre, come è successo con il motore a scoppio e la meccanica nel secolo scorso e l’energia elettrica e la chimica successivamente.
L’entrata nell’era dell’informatica è una vera rivoluzione per il sistema economico, come era stato con chiarezza previsto nel famoso rapporto «Nora»,[2] commissionato dal governo francese negli anni Settanta. La produzione di massa di inizio secolo aveva prodotto il «fordismo» come tecnica produttiva, con la semplificazione e la ripetitività delle mansioni svolte dai lavoratori dell’industria. Ma proprio la capacità dell’informatica di «automatizzare» tutte le operazioni semplici ha innescato quel processo di progressiva sostituzione delle macchine al lavoro ripetitivo e sta modificando profondamente le strutture del mercato del lavoro che sta passando dalle tute blu e dai colletti bianchi ai camici bianchi.
Nelle aziende, di qualsiasi dimensione, si riducono le mansioni non qualificate e predominano i tecnici e gli specialisti. Anche i servizi sono ormai toccati profondamente dalla rivoluzione scientifica e tecnologica (basti pensare alla diffusione di distributori automatici per prodotti di ogni genere).
L’occupazione, che negli anni recenti aveva trovato nell’assorbimento da parte del settore terziario una compensazione per i posti di lavoro eliminati dalle nuove tecnologie dell’industria, non cresce più e la disoccupazione supera ormai in quasi tutti i paesi europei il 10%, colpendo soprattutto i giovani e gli occupati non in grado di riconvertirsi rapidamente.
La produzione aumenta ma la maggiore produttività resa possibile dalla rivoluzione scientifica e tecnologica cambia profondamente il mercato del lavoro e riduce drasticamente i posti di lavoro tradizionali nelle fabbriche e negli uffici.
 
L’emergere del lavoro «indipendente».
 
Le imprese tendono a diminuire drasticamente il numero dei dipendenti, in relazione a due tendenze sempre più presenti: 1) investimenti crescenti con conseguente diffusione dell’automazione; 2) esternalizzazione di una serie crescente di servizi prima svolti all’interno dell’azienda.
La domanda di lavoro tende di conseguenza ad evidenziare nuove caratteristiche: a) funzioni al contempo «specializzate e manageriali» nelle imprese e negli enti; b) creatività, flessibilità, adattabilità nelle attività svolte nelle aziende di minor dimensione (artigianali, commerciali); c) diffusione di lavori precari, non qualificati, a bassa remunerazione.
L’offerta di lavoro deve, di conseguenza, modificarsi e adeguarsi attraverso: a) istruzione e preparazione avanzate per svolgere qualsiasi funzione sia nel settore «dipendente», che in quello «indipendente», o «quasi indipendente», attività queste ultime in espansione rispetto al tradizionale rapporto di lavoro; b) flessibilità, riconversione e aggiornamento permanente da parte del lavoratore.
Le modifiche già introdotte in tutti i paesi nel mercato del lavoro in tema di assunzioni, mobilità, formazione sono passi nella direzione indicata ed è evidente come in questa nuova fase la tutela del dipendente deve essere perseguita in modo diverso dal passato, puntando molto di più sulla «professionalità» del lavoratore, rispetto alla tradizionale difesa sindacale.
L’ingresso nel mercato del lavoro tende ad avvenire, come già accade negli Stati Uniti, in attività temporanee, poco qualificate e precarie, con il passaggio successivo ad attività «indipendenti» o specializzate in imprese di maggiori dimensioni, previa l’acquisizione di adeguata formazione ed esperienza.
 
La sfida del mercato mondiale.
 
Solo le imprese che possono penetrare nel mercato mondiale hanno prospettive di espansione e di sviluppo. La sola possibilità di contare sui mercati interni nazionali non garantisce più il futuro delle imprese, che possono invece vincere la sfida internazionale solo se sono competitive e possono disporre di capacità adeguate di investimento, se sviluppano la ricerca e se dispongono di dipendenti qualificati.
La pressione sul mercato del lavoro dell’integrazione mondiale avviene sia tramite la competitività indotta dal mix di salari più bassi con tecnologie di buon livello, che caratterizza i paesi di nuova industrializzazione in particolare dell’Asia, sia attraverso l’immigrazione che preme sulle possibilità di lavoro nei settori marginali e precari. Il mantenimento, e possibilmente la creazione, di posti di lavoro qualificati passa, in Europa, attraverso la capacità delle imprese di essere competitive puntando sulla ricerca e l’innovazione sia di processo che di prodotto.
 
Le proposte del Piano Delors.
 
La principale proposta del Piano Delors per rilanciare l’occupazione riguarda la riduzione dell’imposizione sul lavoro, in particolare quello meno qualificato, sostituendone il gettito attraverso un’imposta — rilanciata con forza dalla Commissione nonostante le resistenze che ancora provengono da alcuni Stati, come il Regno Unito — sul consumo di energia.
Proprio l’imposta sull’energia potrebbe consentire di passare dal vecchio al nuovo modello di sviluppo, rispettoso dei vincoli ambientali ed ecologici, stimolando la sostituzione dei beni di consumo durevole con prodotti a basso consumo di energia, il cui costo d’acquisto sarebbe ammortizzabile successivamente, da parte delle famiglie, con i minori costi di gestione. Considerazioni analoghe varrebbero per quanto riguarda nuove concezioni delle abitazioni, degli uffici e delle fabbriche per il consumo ed il risparmio energetico.
L’introduzione dell’imposta energetica avrebbe anche un effetto, forse decisivo, sulla competitività delle imprese europee, che dovendo affrontare per prime la sfida «energetica» acquisirebbero un vantaggio rilevante nei confronti delle concorrenti, come è già accaduto in passato per i paesi che per primi hanno introdotto vincoli ecologici ed ambientali (basti ricordare il caso della marmitta catalitica per l’industria automobilistica tedesca).
Più tradizionali sono le altre due principali proposte del Piano Delors per il mercato del lavoro. La prima, la flessibilità del mercato del lavoro, è una ricetta da più parti proposta come l’unica soluzione ed è già in atto in Europa, ma ha un senso — data la struttura produttiva europea — solo se serve a creare le condizioni per avere mobilità di una manodopera sempre più formata e qualificata.
La seconda riguarda la concentrazione di tutte le risorse finanziarie disponibili nei programmi di «formazione» e di «riconversione», che è certamente il miglior utilizzo che si possa fare del denaro del contribuente europeo per sostenere l’occupazione.
 
La sfida per i giovani.
 
Le nuove generazioni che si affacciano nel mondo del lavoro dovranno vincere una sfida difficile. Tutte le generazioni precedenti hanno dovuto affrontare sacrifici immani come il lavoro in fabbrica o l’emigrazione. I giovani devono oggi conseguire una preparazione avanzata che li impegnerà nello studio e nella formazione ma soprattutto devono assumere un atteggiamento positivo rispetto al «rischio».
Non vi è più, a disposizione delle nuove generazioni, il «posto» assicurato per tutta la vita, ma occorre iniziare con un lavoro «precario», per poi prepararsi ad attività più impegnative, che comunque richiederanno continuamente formazione e mobilità da una azienda ad un’altra, da mansione a mansione.
La normativa attuale sul mercato del lavoro, che si è stratificata nel corso di tutto il periodo più che secolare della rivoluzione industriale, è centrata sulla difesa e tutela del lavoro dipendente.
Nella nuova fase occorre invece costruire un sistema che faciliti l’inserimento dei giovani nelle attività indipendenti od in quelle simili, costituite da studi professionali, piccole aziende cooperative. Si tratta, in particolare, di garantire pari assistenza sia a chi entra in un’azienda che a coloro che intraprendono attività ad «alto rischio» nel senso prima ricordato mediante: a) l’estensione dell’assistenza sanitaria e del sistema pensionistico a chi si mette in proprio; b) l’introduzione di formule assicurative dirette a garantire un reddito minimo al lavoratore, anche nel caso di difficoltà nella propria attività autonoma; c) premi ed incentivi diretti a coprire parte dell’avviamento della nuova attività intrapresa.
Vi è un grande compito per le istituzioni a tutti i livelli, dall’Europa al comune, per le associazioni, per i singoli studiosi al fine di capire il nuovo e costruire un sistema economico che valorizzi il lavoro del singolo, sia all’interno di un’impresa che in crescenti ruoli autonomi.
 
Una politica «manchesteriana».
 
E’ possibile, nel breve periodo, una politica dei redditi per i lavoratori europei che preveda una sostanziale stabilità dei salari nominali, ed anche una limitata riduzione degli stessi, senza compromettere il reddito reale, dati i benefici che l’apertura dei mercati internazionali può apportare dal lato della riduzione dei prezzi, soprattutto delle derrate alimentari e dei beni di consumo durevoli. Questa è infatti la prospettiva che si è aperta con la conclusione dell’accordo sul GATT, che dovrebbe determinare l’ingresso sul mercato europeo di questi beni, provenienti dalle economie emergenti, a costi notevolmente ridotti.
La stabilità monetaria, garantita dalla moneta europea, e l’apertura dei mercati possono determinare, almeno per un lungo periodo, un contesto di prezzi decrescenti a cui non siamo abituati, data ormai una attitudine psicologica a considerare i prezzi in continua crescita come un dato immutabile del sistema economico.
Come all’inizio della rivoluzione industriale la scuola di Manchester teorizzava una diminuzione del prezzo del grano per favorire l’attività delle prime manifatture industriali che avevano bisogno di pagare bassi salari, così forse oggi, all’inizio della rivoluzione scientifica e tecnologica, ci troviamo nella situazione di poter sostenere il livello di vita acquisito dai lavoratori anche con salari più bassi.
 
La sfida per l’Europa: la riduzione dell’orario di lavoro.
 
L’immensa capacità produttiva, sviluppatasi specialmente in questo secondo dopoguerra, pone a disposizione dei consumatori beni e servizi in quantità crescente ed a costi sempre più bassi.
La possibilità di lavorare meno, pur aumentando il reddito, è una costante di tutto questo secolo ma si sta avvicinando, specialmente nella parte più avanzata del mondo e quindi in Europa, la possibilità di ridurre più sensibilmente la quantità di tempo dedicata al lavoro. Si tratta di una conquista che ci avvicina, idealmente, alla liberazione dalla schiavitù del lavoro perché, come aveva osservato Aristotele, «se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione o dietro un comando o prevedendolo in anticipo, …così anche le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi».[3]
Se l’Europa vince la sfida della competitività internazionale diffondendo ed estendendo le capacità scientifiche e tecnologiche, si rende possibile una drastica riduzione dell’orario di lavoro, mentre i bisogni da soddisfare diventeranno sempre più legati alla qualità della vita, piuttosto che alla disponibilità di beni e servizi tradizionali.
 
La riduzione dell’orario di lavoro: una rivoluzione.
 
La riduzione dell’orario di lavoro ha, nel lungo periodo, effetti profondi sull’organizzazione della vita economica e sociale.
Per la produzione e per la stessa impresa la riduzione dell’orario di lavoro impone l’adozione di modifiche alle strutture produttive, la gestione delle aziende sulla base di turni di lavoro. Il superamento della fase «fordista», già indotta dall’automazione, diventa essenziale ed una nuova filosofia dell’attività aziendale deve prendere il posto di quella che ha caratterizzato le imprese di tutto il mondo nel corso di quasi un secolo.
Cambia profondamente, con la riduzione dell’orario di lavoro, la stessa struttura urbanistica della città, data la possibilità di limitare il numero di spostamenti tra residenza e posto di lavoro con il passaggio alla città regione disegnata da Mumford,[4] la diminuzione dell’inquinamento, la riorganizzazione del traffico e così via.
Anche l’individuo, e la stessa famiglia, sono toccati in modo diretto dalla riduzione dell’orario di lavoro, che rende possibile una più equa divisione delle incombenze familiari tra tutti i membri, una più ampia disponibilità di tempo per seguire la crescita dei figli, la partecipazione alle esigenze degli anziani, dei malati, delle attività comunitarie.
 
La transizione: il «servizio civile».
 
In una prima fase non è però possibile rendere pienamente disponibile per l’individuo tutto il tempo di lavoro liberato dallo sviluppo della rivoluzione scientifica.
Da un lato le esigenze di solidarietà personale, che si manifestano ai livelli più ristretti della convivenza civile come il comune od il quartiere, non possono essere soddisfatte, se non parzialmente, con l’intervento degli enti locali e delle altre strutture burocratiche, dato l’enorme costo che comporterebbe per i contribuenti, e rendono necessario perciò chiedere un contributo diretto dei cittadini. Lo sviluppo del volontariato è un segnale della tendenza verso la quale ci si deve orientare, ossia la necessità che tutti i cittadini contribuiscano con un «servizio civile» ad una effettiva solidarietà con i ceti più deboli e bisognosi.
D’altro lato l’esperienza fatta all’inizio del secolo quando — con la creazione delle istituzioni dell’assicurazione malattie e della pensione — fu introdotto una sorta di risparmio obbligatorio per i lavoratori, che servisse ad affrontare i momenti difficili come la malattia o il ritiro dalla vita attiva, indica come forse sia necessario, nella prima fase di riduzione dell’orario di lavoro, disporre di regole ed istituzioni che abituino gli uomini a usare in modo utile per la società il tempo libero che sarà acquisito.
Si tratta, in fondo, di stabilire che i cittadini che dispongono di una risorsa, come il tempo libero, debbano destinarne una parte alla società, in cambio dell’aiuto e dell’assistenza che da questa hanno ottenuto nelle fasi del bisogno, come l’istruzione, l’assistenza sanitaria e così via.
La prestazione di un «servizio civile» generalizzato crea indubbiamente molti problemi, ma soprattutto deve essere effettuata lasciando agli individui un ampio grado di libertà.
Il dibattito in Europa è già iniziato ed il «servizio civile» sarà sicuramente uno dei temi più discussi dei prossimi anni.
Vi sono alcune domande sull’introduzione di un servizio civile «generalizzato» che devono trovare, col tempo, una risposta: da chi ed in che misura deve essere prestato? Da quale istituzione deve essere «gestito»? Dove e come deve essere prestato?
Alcune prime indicazioni possono essere proposte: 1) il cittadino deve essere libero di scegliere dove prestare il servizio civile: nel quartiere, nella regione, nei paesi del Terzo mondo; 2) occorre individuare un livello istituzionale che sia responsabile dell’organizzazione del servizio civile: probabilmente la Regione od un ente di livello analogo; 3) la gestione deve essere affidata dal livello istituzionale prescelto ad associazioni di volontariato, istituzioni culturali, enti internazionali e così di seguito sulla base di accordi e convenzioni.
 
***
 
L’Europa si è confrontata, negli anni scorsi, con il problema di garantire la pace tra i vecchi Stati belligeranti.
La lunga strada intrapresa con l’integrazione europea ci ha portati alle soglie di una vera Unione federale europea che può essere ora portata a realizzazione con l’adozione di una Costituzione europea sulla base di un progetto elaborato dal Parlamento europeo. Per ottenere l’adesione dei cittadini occorre però che l’Europa sappia proporre ai propri cittadini dei progetti che rispondano alla sfida della rivoluzione scientifica e alla progressiva integrazione di tutti i paesi in un mercato mondiale, indicando nuovi valori alle giovani generazioni.
 
Alfonso Jozzo


[1] A.V. Phillips, «The Relation between Unemployment and the Rates of Changes in the Money Wage Rates in the U.K. 1861-1957», in Economica, vol. XXV, 1958, pp. 283-299.
[2] S. Nora e A. Minc, Convivere con il calcolatore, Milano, Bompiani, 1979.
[3] Aristotele, Politica, Bari, Laterza, 1993, ICA/4, 1253b, p. 9.
[4] Lewis Mumford, Il futuro della città, Milano, Il Saggiatore, 1971.

 

 

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