IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVII, 1995, Numero 2, Pagina 108

 

 

GOVERNO MONDIALE, RISCHIO CLIMATICO E PROLIFERAZIONE NUCLEARE

  
Gli Stati sono sempre più costretti ad ammettere la loro impotenza ad affrontare da soli le grandi sfide di questo secolo. Ma non per questo rinunciano a difendere quel che resta della loro sovranità nazionale e a rallentare la marcia verso la creazione di un efficace e democratico governo mondiale. Il Mandato di Berlino definito in occasione della Conferenza sul clima e il rinnovo per un tempo indeterminato del Trattato di non proliferazione nucleare, rappresentano i più recenti esempi di questa situazione contraddittoria.
A Berlino, il 7 aprile, dopo due settimane di negoziati, i rappresentanti di 116 paesi si sono impegnati a lanciare entro il 1997 un piano mondiale per la protezione del clima. Infatti il Mandato di Berlino, nel riconoscere l’inadeguatezza della Convenzione sottoscritta a Rio nel 1992, impegna gli Stati a ridefinire gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento di quei gas, in primo luogo l’anidride carbonica, che condizionano il clima (greenhouse gases) e a fissare delle scadenze (2005, 2010 e 2020) per la stabilizzazione e la riduzione di questo tipo di inquinamento. Il Mandato, riconoscendo la necessità di ridurre le emissioni gassose e di stabilizzarle a livello mondiale, ha anche posto il problema di una più stretta collaborazione fra paesi sviluppati ed in via di sviluppo. A questo proposito sono state create tre nuove istituzioni, il Subsidiary Body for Scientific and Technological Advice (SBSTA), il Subsidiary Body for Implementation (SBI) ed un segretariato permanente che verrà insediato a Bonn nel 1996. Le ragioni per le quali si è giunti a questo Mandato sono evidenti. La Convenzione di Rio non ha definito limiti d’inquinamento vincolanti su scala mondiale e nazionale, ed ha prodotto una situazione anomala in base alla quale alcuni Stati hanno addirittura potuto interpretare la Convenzione come una scappatoia per aumentare le rispettive quote di emissioni nazionali (Francia, Giappone e USA), scegliendo anni di riferimento a loro più favorevoli per la stabilizzazione delle emissioni. La situazione globale è intanto peggiorata. Nei primi anni Novanta (1990-1994), la diminuzione dell’inquinamento di anidride carbonica da parte dell’ex-URSS ha solo in parte compensato (e nascosto) il parallelo aumento che si è registrato in altre parti del mondo: +3% nell’Europa occidentale, +5% nel Nord America, +8% in Brasile, +13% in India, +16% in Turchia. Per quanto riguarda la sola Cina, nel 1994 essa è diventata il secondo inquinatore mondiale, aumentando dell’80% le sue emissioni dal 1980 (Christopher Flavin, Worldwatch Magazine, marzo-aprile 1995). Basterebbe che la Cina continuasse a svilupparsi all’attuale ritmo di crescita, con l’impiego delle attuali tecnologie, per triplicare, da sola, la quantità di emissioni di anidride carbonica di tutti gli altri paesi entro il 2100.
Alla vigilia della Conferenza di Berlino il vice-Presidente USA Al Gore aveva invitato i governi a prendere atto del fatto che il mondo scientifico non si chiede più se, ma quando e come i gas immessi nell’atmosfera produrranno dei cambiamenti climatici. Per questo, «proprio come riconosciamo che esiste una soglia per il sistema climatico globale, proseguiva Gore, così dobbiamo riconoscere che esiste una soglia per la politica al fine di poter governare questi problemi». Secondo il vice-Presidente americano, era perciò indispensabile uscire dalla Conferenza di Berlino almeno con un Mandato internazionale per rinegoziare il controllo delle emissioni di anidride carbonica a livello globale (George Washington University, 17.3.1995).
A Berlino non è stato però sciolto il nodo cruciale che costituirà anche il principale elemento di scontro fra paesi sviluppati e non nella prossima Conferenza mondiale sul clima del 1997: l’avvio di una efficace joint implementation, cioè di una attuazione congiunta di politiche ambientali, auspicata nella Convenzione sul clima sottoscritta a Rio, ma mai entrata in vigore. In base a questo principio i paesi sviluppati potrebbero far fronte a parte dei loro futuri obblighi di riduzione di quote di emissioni di anidride carbonica investendo nelle riduzioni di emissioni dei paesi in via di sviluppo. Ma gli Stati che hanno più attivamente sostenuto a Rio l’introduzione di questo principio, in primo luogo gli USA, si sono poi opposti alla fissazione di limiti precisi e vincolanti di emissione. Sul fronte dei paesi meno sviluppati, Brasile, Cina ed India hanno manifestato le loro perplessità verso l’attuazione della joint implementation: consentire ai paesi sviluppati di investire a livello internazionale equivarrebbe ad autorizzarli all’acquisto di diritti di emissione sul mercato mondiale per mantenere invariati i propri livelli di emissione. Da parte loro, i paesi più poveri, temendo di diventare le maggiori vittime dei possibili effetti del cambiamento di clima, insistono invece per ottenere al più presto dei finanziamenti diretti che li mettano in grado di promuovere l’introduzione e la diffusione di sistemi di produzione di energia più pulita; altrimenti, ha ammonito il direttore dell’Institute for Advanced Studies del Bangladesh, Atig Rahman, «quando si manifesteranno gli effetti del cambiamento di clima marceremo con i nostri piedi bagnati verso le vostre case». Il fatto è che senza accordi che implichino limiti vincolanti e sanzioni, la joint implementation resta un principio la cui realizzazione resta affidata alla buona volontà dei singoli Stati.
L’approfondimento della cooperazione internazionale, a cui mira il Mandato, non basta più in campo ecologico per prevenire i rischi di un prossimo cambiamento di clima. Alla Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici di Berlino il Cancelliere Kohl ha ricordato come l’umanità debba ormai non solo assicurare la pace fra gli uomini, ma anche con la natura. Il Mandato di Berlino si pone in questa ottica, e ribadisce che le risorse naturali non possono più essere considerate dei beni a cui possono accedere liberamente gli Stati e le generazioni attuali, ma dei beni comuni che devono essere consumati con parsimonia e che hanno un prezzo. Del resto i mari, l’atmosfera, la diversità genetica stanno entrando a far parte di quei beni che gli Stati, attraverso una serie di Convenzioni e Trattati, incominciano a riconoscere come patrimonio comune dell’umanità. Ma il problema è proprio costituito dal fatto che gli strumenti per assicurare la pace fra gli uomini non sono diversi da quelli per assicurare la pace con la natura. I tempi di ratifica degli accordi ecologici e la loro incerta applicazione, non sempre verificabile a causa delle resistenze opposte dagli Stati, non offrono alcuna garanzia sulla capacità della comunità internazionale di tutelare i beni naturali essenziali per le future generazioni. Proprio come i Trattati di pace non garantiscono la pace fra gli uomini. Occorre allora mettersi nell’ottica di fondare, nel quadro dell’ONU, una Comunità ecologica mondiale il cui scopo finale sia la Federazione mondiale. Si tratta cioè di ripetere, su scala mondiale, il salto di qualità compiuto dall’Europa negli anni Cinquanta quando, con la creazione della Comunità europea, si è definito un primo quadro istituzionale comune per le diverse Comunità che erano nate, o stavano nascendo, la CECA, l’EURATOM e il Mercato comune, con un embrione di governo e di Parlamento sovranazionali. Solo muovendosi in questa prospettiva il Mandato di Berlino può diventare un importante tassello del quadro in costruzione di un efficace governo mondiale.
 
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Il Trattato di non proliferazione nucleare, stipulato nel 1968 ed entrato in vigore nel 1970 per una durata di venticinque anni, è diventato permanente l’11 maggio 1995 per consenso unanime, cioè senza un voto, dei 178 paesi aderenti al Trattato stesso. La proposta di estendere indefinitamente il Trattato è stata sostenuta da Gran Bretagna, Cina, Francia, Russia e Stati Uniti, mentre un gruppo di paesi in via di sviluppo, fra cui Iran, Nigeria, Indonesia, aveva proposto un’estensione della validità del Trattato di altri venticinque anni. Il rinnovo a tempo indeterminato sul piano simbolico rappresenta, come ha dichiarato il delegato francese alla Conferenza intervenendo anche a nome dell’Unione europea, un ulteriore passo avanti sulla strada del rafforzamento del quadro di pacificazione internazionale. Ma il quadro in cui è avvenuto rivela che non si tratta ancora del passo decisivo. Gli stessi intervenuti alla Conferenza hanno cercato di ridurne la portata commentando questo risultato. L’ambasciatore canadese ha parlato di «permanenza con responsabilità senza divisioni», mentre quello delle Filippine ha dichiarato che si è trattato di «uno zuccherino per rendere più gradevole l’estensione indefinita». Il rappresentante dell’Iran ha considerato questo accordo come «un’estensione indefinita condizionata», quello dell’Iraq invece come un’ennesima prova della tirannia della maggioranza. Il delegato della Libia ha addirittura negato di aver accettato qualsiasi estensione del Trattato. Sul fronte di coloro i quali puntano ad una ulteriore fase di trattative, la Cina ha dichiarato che l’estensione della durata del Trattato «non deve in alcun modo essere considerata come il riconoscimento agli Stati nucleari della prerogativa di possedere armi nucleari a tempo indeterminato», mentre Messico e Giappone hanno insistito sulla necessità di abolire i tests nucleari e tutte le armi nucleari. Intanto India, Pakistan, Israele e Brasile, sospettati da tempo di possedere armi nucleari, continuano a non aderire al Trattato, mentre la Corea del Nord ha sospeso il suo status di aderente al Trattato. Come giudicare allora i risultati di questa Conferenza?
Per cercare di rispondere a questa domanda è opportuno ricordare che, non appena si è rivelata la potenza distruttiva dell’arma nucleare, è stata anche proposta la soluzione adeguata al problema del suo controllo: la creazione di un governo mondiale. E’ stato Albert Einstein a indicarla per primo con chiarezza, quando ha dichiarato, all’indomani della prima esplosione nucleare su Hiroshima, che l’umanità doveva ormai porsi l’obiettivo di creare un governo mondiale in grado di garantire la sicurezza di tutti gli Stati sulla base della legge e non più della forza (New York Times, 15.9.1945). Il problema, sin dall’inizio, era rappresentato dalla creazione di un efficace sistema di controllo a livello internazionale. Ma a quell’epoca l’umanità non riuscì ad accordarsi sul controllo e sull’abolizione di una dozzina di bombe atomiche — la dimensione dell’arsenale nucleare statunitense dell’epoca. Può riuscirci oggi con migliaia di testate nucleari disseminate in tutto il mondo?
Bernard Brodie, il teorico della strategia nucleare statunitense, intravide subito i rischi della proliferazione nucleare. Brodie non negava l’obiettivo del governo mondiale, ma non avendo fiducia nella capacità degli Stati di accordarsi sull’organizzazione di un valido sistema di controllo internazionale, si pose nell’ottica di come affrontare una situazione in cui prima o poi tutti gli Stati avrebbero raggiunto la capacità di produrre anni nucleari e di usarle per minacciarsi a vicenda. In questo quadro per Brodie era indispensabile saper rispondere a delle domande cruciali, quali: la bomba atomica è un deterrente contro la guerra? E’ possibile prevenirne l’uso? E’ possibile mitigarne gli effetti terrificanti qualora venisse impiegata? L’obiettivo dell’unione federale mondiale era per Brodie un «elementary truism», non uno strumento d’azione politica. «Esiste una brutale e innegabile verità: noi non sappiamo ancora se possiamo ottenere un efficace accordo internazionale su questo problema e, nel caso che sia possibile, se il nostro paese sarà disposto a sottoscriverlo… Naturalmente, la nostra politica di sicurezza nazionale non dovrebbe pregiudicare le reali opportunità di realizzare accordi che vadano nel senso della sicurezza mondiale». «Il problema della bomba atomica, osservava ancora Brodie, è inseparabile da quello della guerra, e gli strumenti per il controllo della bomba sono utili solo nella misura in cui riducono la possibilità della guerra. Il rafforzamento del sistema internazionale per il mantenimento della pace può essere accelerato dal senso di urgenza che ci pone la bomba atomica, e gli Stati Uniti non dovrebbero risparmiare alcuno sforzo a favore di questo movimento. Ma fino a quando gli Stati nazionali rimarranno sovrani e indipendenti, nessun meccanismo internazionale sarà in grado di sostituire una saggia e abile diplomazia» («The Atomic Bomb and American Security», pamphlet edito a Yale nel 1945, pubblicato in US Nuclear Strategy, A Reader, a cura di Bobbit, Freedman e Treverton, Londra, MacMillan Press, 1989).
Gli Stati Uniti in un primo tempo sostennero la soluzione federale a livello mondiale. Nel 1946 il Segretario di Stato americano Byrnes pronunciava all’Assemblea generale delle Nazioni Unite un discorso in cui affermava che i problemi della produzione e dell’uso dell’energia nucleare non potevano essere risolti da nessuna nazione da sola, «essi costituiscono una responsabilità comune di tutti gli Stati». A questo scopo Bernard Baruch, il rappresentante USA in seno alla Commissione per l’energia atomica dell’ONU, nel giugno 1946 presentava la proposta americana di istituire un’Autorità mondiale alla quale affidare «il controllo o la proprietà di tutte le attività in campo nucleare potenzialmente pericolose per la sicurezza mondiale; il potere di controllo, ispezione, e licenza di tutte le attività nucleari; il compito di promuovere l’uso pacifico dell’energia atomica; la ricerca e lo sviluppo in campo nucleare in modo da porre l’Autorità all’avanguardia delle conoscenze in quel settore e quindi nella condizione di comprendere per tempo e prevenire un cattivo uso dell’energia atomica». L’Autorità doveva anche avere un potere sanzionatorio nei confronti di tutti quegli Stati che avessero violato gli accordi o sfidato l’Autorità stessa: «Non dovrà esserci nessun diritto di veto a proteggere coloro i quali violeranno il solenne impegno a non sviluppare e/o usare l’energia atomica per scopi distruttivi», terminava Baruch nel suo intervento di fronte alla Commissione. Il piano Baruch, sebbene approvato dalla Commissione, non vide mai la luce, a causa dei veti incrociati di USA e URSS e dell’atteggiamento ambiguo di medie potenze come la Gran Bretagna, che aspiravano a diventare anch’esse potenze nucleari. Negli anni Sessanta Baruch commentava amaramente nelle sue memorie i frutti di quella sconfitta: «La bomba atomica ha reso le nazioni uguali, ma uguali come i pistoleri del Far West… Il controllo dell’energia atomica resta uno dei punti cruciali per rendere duratura la pace. Fino a quando sul mondo penderà la minaccia nucleare, non ci sarà pace».
Einstein, Brodie e Baruch hanno dunque indicato da tempo all’umanità l’obiettivo finale e le difficoltà di fronte alle quali si sarebbero trovati gli Stati ogniqualvolta avessero trascurato di sciogliere il nodo della sovranità. Il rinnovo per un tempo indeterminato del Trattato di non proliferazione nucleare, come ha commentato un noto giornalista italiano, Arrigo Levi (Corriere della Sera, 15.5.1995), è pertanto una medaglia a due facce: da un lato esso riconosce che non è possibile porre dei limiti di tempo agli sforzi per mettere al sicuro il mondo dall’incubo nucleare; d’altro lato ammette l’impossibilità di liberare il mondo dalle armi nucleari. E poiché da questa situazione si può uscire solo costruendo un governo mondiale, fino a quando gli Stati continueranno a perseguire una mera logica di controllo al di fuori di un disegno politico, l’umanità non sarà al sicuro. Il problema del controllo internazionale, come spiegava Brodie nel 1945, si può porre a tre livelli: la pubblicità su tutto ciò che attiene la produzione e la ricerca nucleare senza pretese di limitazione della produzione di armi nucleari; la limitazione della produzione del numero di armi nucleari; la soppressione della produzione di tutte quelle armi che implicano l’uso della reazione nucleare. Il primo livello è di natura pre-politica. E’ il più facilmente perseguibile, ed è stato sempre sostenuto, ma ha reso inevitabili la corsa agli armamenti e la proliferazione nucleare. Gli altri due livelli di controllo invece, non essendo pienamente realizzabili senza una rinuncia irreversibile da parte degli Stati al diritto di veto a qualsiasi ispezione sul proprio territorio da parte di una specifica Autorità internazionale, sono compatibili solo con il consolidamento di efficaci istituzioni internazionali.
Con la fine della guerra fredda, USA ed ex URSS hanno incominciato ad impegnarsi bilateralmente nel secondo livello di controllo degli armamenti nucleari. Rendendo permanente il Trattato di non proliferazione nucleare anche la grande maggioranza degli altri Stati ha timidamente iniziato ad incamminarsi su questa strada. Certo gli Stati non hanno ancora rinunciato alla loro sovranità in campo nucleare, né alla difesa del segreto militare, né alle loro prerogative di controllo, che rendono de facto volontario, e non obbligatorio, il rispetto dei vincoli del Trattato. La guerra nucleare è quindi ancora possibile e, con essa, è sempre possibile la denuncia del Trattato. D’altro lato, la mancata partecipazione di alcuni paesi a questo genere di accordi, rende impossibile la rinuncia da parte dei paesi che già detengono un arsenale nucleare del loro potere di deterrenza nucleare. Ma la fissazione di un calendario per la revisione del Trattato, prevista entro il 2000, e per la messa in atto del bando di tutti gli esperimenti nucleari, entro il 1996, è un segnale della difficoltà degli Stati, in questa fase, a resistere alla logica dell’approfondimento dei vincoli internazionali e della progressiva erosione della loro sovranità.
Fino a quando potrà durare una situazione così favorevole? Se non si affermerà al più presto un’iniziativa che riprenda gli obiettivi del piano Baruch, è facile prevedere che il Trattato di non proliferazione nucleare non potrà restare davvero permanente e non diventerà mai universale.
A differenza degli anni Quaranta, gli insuccessi collezionati dalle politiche nazionali sul fronte del controllo degli armamenti nucleari e della loro proliferazione sono tali e tanti da aver stimolato la diffusione nell’opinione pubblica mondiale e nelle forze più consapevoli della società che il problema nucleare non ha altra via d’uscita al di fuori del governo mondiale. E a chi considera questo obiettivo ancora utopistico, si può ricordare, con le parole di Einstein, che «l’unico passo reale verso un governo mondiale, è ormai il governo mondiale stesso» (Lettera aperta all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 1947).
 
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I cinque anni che ci separano dal 2000 vedranno una serie praticamente ininterrotta di Conferenze internazionali al centro delle quali ci saranno i problemi della ridefinizione delle istituzioni continentali regionali (in primo luogo nell’Unione europea e nel NAFTA) e delle istituzioni dell’ONU, per garantire una maggiore sicurezza ecologica e militare ed una maggiore democrazia internazionale. Dall’esito di queste Conferenze dipenderà l’accelerazione o il rallentamento del processo di costruzione del governo mondiale. Solo se saprà presentarsi a questi appuntamenti come un soggetto, uno Stato federale, riconosciuto a livello mondiale e capace di agire, l’Unione europea potrà contribuire a rafforzare in senso federale anche le istituzioni mondiali e a risolvere le sfide di fronte alle quali si trova l’umanità.
 
Franco Spoltore

 

 

 

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