IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVIII, 1996, Numero 1, Pagina 27

 

 

IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE LATINO-AMERICANA
 
 
L’ideale dell’unità fra gli Stati dell’America latina ha le sue radici nell’800,[1] ma solo nel nostro secolo questo ideale è diventato un progetto politico perseguibile.
Così come è avvenuto in Europa, i primi passi verso l’unificazione sono andati nella direzione dell’integrazione economica, attraverso progetti a livello regionale e subregionale, e il modello europeo ha avuto e ha tuttora un ruolo importante nelle scelte degli obiettivi e dei percorsi per raggiungerli.
Le maggiori difficoltà incontrate dagli Stati latino-americani, ben evidenziate da una accentuata frammentazione delle iniziative e dei progetti, sono legate alle diverse condizioni economiche e politiche di partenza rispetto all’Europa. Ma il processo è stato avviato e, dagli anni Sessanta, ha visto la nascita di Associazioni, Patti, Comunità economiche che, tra difficoltà e rilanci, costituiscono una risposta alla necessità di superare la divisione in Stati nazionali sovrani come premessa per la pace, lo sviluppo economico e il consolidamento della democrazia.
 
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Prima di passare in rassegna i vari organismi del processo d’integrazione nelle diverse varianti subregionali,[2] è necessario tratteggiare le diverse tappe percorse negli ultimi quattro decenni dall’America latina (costituita oggi da 18 paesi, se consideriamo anche il Messico, con un totale di 400 milioni di abitanti).
Prima della seconda guerra mondiale, la strategia economica dominante negli Stati dell’America latina è stata quella dell’autarchia e dell’intervento statale. La depressione del 1929 e la conseguente chiusura di alcuni mercati e sbocchi nazionali hanno accelerato in modo decisivo questo duplice processo di ripiegamento verso l’interno e di interventismo statale. Contemporaneamente si sono affermati regimi politici populisti e spesso ai limiti dell’esaltazione nazionalistica, anche se ufficialmente professavano, a parole, una volontà di unificazione continentale.
Questa strategia economica ha consentito di mantenere un discreto livello di attività economica fino alla seconda guerra mondiale — soprattutto se paragonata alla relativa debolezza di quella dei paesi più sviluppati di allora — e questa congiuntura relativamente favorevole si è mantenuta anche nel secondo dopoguerra, permettendo così alla regione di raggiungere un tasso medio di crescita annua dell’ordine del 5% fino alla fine degli anni Cinquanta.
Solo all’inizio degli anni Settanta la maggioranza dei paesi latino-americani, e quelli del triangolo meridionale in maniera più decisa, hanno cercato di recuperare il tempo perduto e di aprire la propria economia al resto del mondo, cosa che ha permesso di approfittare delle opportunità che si presentavano a livello internazionale, ma ha imposto rapide e profonde trasformazioni delle strutture produttive, fino a quel momento al riparo dalla concorrenza internazionale.
Il decennio degli anni Ottanta è stato contraddistinto dalla crisi del debito internazionale e ha segnato la fine delle politiche di sviluppo interno e dell’autarchia. Proprio alla fine di questo decennio, quando diventava chiaro che il prodotto interno lordo della maggior parte degli Stati non avrebbe raggiunto quello del 1980, e questo malgrado un’inflazione assai più elevata, fece la sua comparsa l’espressione di «decennio perduto».
Sul piano sociale, questo periodo è stato caratterizzato globalmente da un divario crescente fra le diverse classi relativamente alle loro possibilità di fruire dei beni e dei servizi della società dei consumi, proprio quando l’aumento del grado di istruzione e lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa le rendeva più esigenti. Di conseguenza, mentre le aspirazioni individuali e collettive tendevano ad avvicinarsi a quelle dei paesi sviluppati, si è manifestato un crescente senso di frustrazione della maggior parte della popolazione: ne sono conseguiti fra l’altro lo sviluppo della violenza e della delinquenza, il consumo e il traffico di droga, l’emigrazione verso il Nord e, a livello politico, un certo ritorno al populismo.[3]
Analizzando questo periodo, l’Istituto per l’integrazione latino-americana (INTAL) ha scritto che questa è stata «la peggiore crisi economica della regione dopo la grande depressione. Evidentemente, i piani di integrazione economica non potevano sfuggire a questo problema; di conseguenza gli scambi interregionali subirono una forte contrazione, più marcata di quella delle esportazioni a livello mondiale. Questo fenomeno rifletteva, fra l’altro, gli effetti di una profonda recessione nella regione, della mancanza di valuta pregiata e della creazione di barriere alle importazioni».[4]
Dopo la fine degli anni Ottanta, con una decisa accelerazione dopo il 1990, è iniziato un nuovo ciclo, con l’apertura progressiva delle economie latino-americane al resto del mondo, che ha favorito un energico rilancio del processo di integrazione. Anche se questo fenomeno è parte integrante di una tendenza all’integrazione dell’economia mondiale e alla creazione di grandi blocchi economici regionali di Stati, tuttavia l’INTAL ha notato giustamente che la regione è stata il quadro di un processo «probabilmente fra i più accelerati dell’economia mondiale negli ultimi anni».[5]
Questo nuovo ciclo è stato accompagnato da due nuovi fenomeni politici rilevanti e interdipendenti (che ritroveremo in tutti gli schemi di integrazione subregionali), che fanno questa volta sperare in un progresso reale del processo di integrazione latino-americana: l’impegno in suo favore delle più alte autorità politiche[6] e la democratizzazione.[7]
Il fenomeno del reinserimento delle supreme autorità politiche nel processo di integrazione era stato preparato fin dalla metà degli anni Ottanta anzitutto dalla creazione nel 1983 del Gruppo di Contadora come meccanismo per evitare i conflitti in America centrale. Questo gruppo è passato attraverso diverse fasi evolutive, prima come Gruppo degli Otto, poi, dopo il 1986, come Gruppo di Rio o Meccanismo di concertazione politica.[8] Si è riunito ogni anno fra il 1986 e il 1990 a livello dei Capi di Stato, come forum dove discutere i problemi regionali e le relative soluzioni, dando, alla conclusione delle sue riunioni, istruzioni all’ALADI (Associazione latino-americana di sviluppo, quadro istituzionale) e al SELA (Sistema economico latino-americano, quadro politico dell’integrazione) sulle «azioni che dovevano essere intraprese per raggiungere gli obiettivi definiti in ogni riunione».[9]
Infine, non è possibile parlare del nuovo dinamismo dimostrato dal processo di integrazione latino-americana, nelle sue diverse varianti, senza almeno menzionare l’Iniziativa per le Americhe, proposta al continente dal Presidente Georges Bush nel giugno 1990 e alla quale i diversi paesi si sono sforzati di dare risposte comuni, per lo più firmando degli accordi-quadro con gli Stati Uniti, talvolta in seno a schemi subregionali di integrazione, come il MERCOSUR (Mercato comune del Sud) o la CARICOM (Comunità dei Caraibi).
 
Associazione latino-americana di libero commercio (ALALC).
 
Il Trattato di Montevideo, istitutivo dell’ALALC, è stato firmato in questa città nel febbraio del 1960 (nel contesto, l’abbiamo visto, decisamente protezionista della fine degli anni Cinquanta) dai rappresentanti dell’Argentina, del Brasile, del Cile, del Messico, del Paraguay, del Perù e dell’Uruguay, al fine di istituire una zona di libero scambio fra i paesi firmatari, grazie alla soppressione graduale, nell’arco di dodici anni, dei diritti doganali e delle protezioni non tariffarie. Le istituzioni previste dal Trattato erano la Conferenza, in seno alla quale ogni delegazione nazionale aveva diritto a un voto, il Comitato, a carattere permanente e composto da un membro per ogni paese contraente e il Segretariato generale.
Questo schema organizzativo è stato modificato nel dicembre 1966 dal Protocollo di Montevideo, con l’istituzione del Consiglio dei Ministri degli affari esteri, organo supremo, accanto alla Conferenza e al Comitato esecutivo permanente. Queste riforme non sono bastate a mascherare il clamoroso fallimento dell’ALALC, nonostante la buona volontà manifestata dagli Stati membri, a causa degli obiettivi troppo ambiziosi dell’Associazione rispetto ai mezzi dei quali era stata dotata, non avendo adeguatamente modificato le clausole del Trattato.
Miguel A. Ekmedjian analizza così il fallimento del primo tentativo organico d’integrazione latino-americana: «Se lo scopo era davvero quello di costituire una zona di libero scambio e un mercato comune, sono mancati però strumenti adeguati e, probabilmente, un meccanismo reale ed efficace di concertazione degli interessi nazionali in gioco, poiché la convinzione dei paesi firmatari che il processo di integrazione soddisfi il loro interesse nazionale (anche se colpisce determinati interessi settoriali) è un elemento indispensabile del suo consolidamento».[10]
 
Associazione latino-americana di sviluppo (ALADI).
 
L’ALADI è stata creata nell’agosto 1980 in, seguito al fallimento conclamato dell’ALALC (anche se quest’ultima aveva visto la creazione nel suo seno, nel 1969, del Gruppo Andino - GRAN) con obiettivi ancora più ambiziosi.
Il nuovo Trattato di Montevideo, firmato questa volta da Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Messico, Paraguay, Perù, Uruguay e Venezuela, mirava a «rivitalizzare il processo di integrazione latino-americana e a stabilire degli obiettivi e dei meccanismi compatibili con la realtà regionale», «promuovendo un processo convergente che porti alla fondazione di un mercato comune regionale».[11] L’articolo 1 specificava che «le parti contraenti sostengono il processo di integrazione destinato a promuovere uno sviluppo economico e sociale armonioso ed equilibrato della regione… Questo processo avrà per obiettivo a lungo termine la creazione, in modo graduale e progressivo, di un mercato comune latino-americano».[12]
Come organi istituzionali dell’ALADI erano previsti il Consiglio dei Ministri degli affari esteri, organo supremo, la Conferenza di valutazione e convergenza, il Comitato dei rappresentanti permanenti e il Segretariato generale come organo tecnico.
Miguel A. Ekmedjian sottolinea nel suo studio alcune somiglianze con le istituzioni delle Comunità europee (precedenti al Trattato di Maastricht), pur evidenziando i limiti di queste analogie: il Consiglio poteva essere paragonato al Consiglio dei Ministri della CEE, la Conferenza all’Assemblea parlamentare (ora Parlamento europeo), in quanto la sua funzione fondamentale era il controllo politico del funzionamento delle istituzioni. Ekmedjian segnala a questo proposito che la Conferenza, contrariamente all’Assemblea europea, non aveva il potere di stabilire l’ammontare dei contributi degli Stati membri né quello di stabilire il bilancio dell’organizzazione, attribuzioni che implicano «un potere rilevante, il quale ha permesso al Parlamento europeo di ampliare col tempo il campo delle sue competenze, possibilità che invece non aveva evidentemente la Conferenza dell’ALADI».[13] Ekmedjian sottolinea anche che «il Comitato ha certe somiglianze, in quanto organo permanente ed esecutivo, con la Commissione delle Comunità europee, pur non avendo il potere di applicare sanzioni ai responsabili di infrazioni ai testi normativi comunitari».[14]
Due dei principali limiti del Trattato di Montevideo del 1980 erano peraltro il non aver previsto l’applicazione diretta e immediata delle decisioni degli organi comunitari agli abitanti degli Stati membri e il non aver istituito un potere giudiziario comunitario al di sopra delle giurisdizioni nazionali. Da qui sono derivate le numerose difficoltà dell’ALADI nel rendere esecutivi accordi di portata regionale, come, per esempio, il Programma di sostegno ed espansione del commercio, lanciato nel 1985, o i testi sulla preferenza doganale regionale.
L’ALADI ha vegetato per tutti gli anni Ottanta e solo nell’ottobre 1989, nel quadro del già citato Gruppo di Rio, sono state prese delle misure da parte dei Capi di Stato latino-americani per darle maggiore impulso attraverso la decisione di «trasformare sostanzialmente gli obiettivi dell’ALADI, dandole un ruolo maggiore nella guida del processo di integrazione regionale».[15] Anche se non tutti i paesi dell’ALADI erano membri del Gruppo di Rio, ciò non ha impedito a quest’ultimo di esercitare un’influenza determinante. Nella primavera del 1990, in Messico, il Consiglio dei Ministri di questa associazione ha confermato la sua aspirazione a farne «l’organismo fondamentale del processo d’integrazione regionale e il quadro della cooperazione»,[16] attraverso l’adeguamento dell’integrazione regionale ai nuovi scenari che si andavano formando a livello internazionale. Nell’ottobre 1990, a Caracas, il Gruppo di Rio ha riaffermato «la necessità ineludibile di accelerare e di approfondire gli schemi di integrazione regionali e subregionali… al fine di creare uno spazio economico latino-americano».[17]
In questo contesto, nel settembre 1990 il Segretariato dell’ALADI ha presentato un piano di azione per il triennio 1990-1992 articolato in sette grandi capitoli, ciascuno con l’indicazione dei mezzi d’azione e dei tempi di realizzazione necessari: consolidamento e riordino del mercato regionale, complementarietà produttiva e cooperazione tecnologica, cooperazione finanziaria e monetaria, cooperazione nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, nuove aree di intervento (cooperazione frontaliera, turismo, cultura, ambiente), diffusione dell’integrazione e valutazione del processo e, infine, aggiustamenti legislativi».[18]
Parallelamente si è sviluppato il ruolo motore degli operatori privati e delle diverse forze sociali, i cui «responsabili ufficiali della gestione dei diversi processi d’integrazione subregionali hanno capito che anch’essi rappresentavano, per loro natura, dei settori importanti delle comunità nazionali e che la loro partecipazione attiva era dunque necessaria».[19]
Infine, da un punto di vista più politico, la «creazione del Parlamento latino-americano, di parlamenti nel quadro del Patto andino e del Mercato comune centro-americano (MCCA), così come le azioni e i progressi compiuti sulla via della costituzione di un parlamento della CARICOM, illustrano l’importanza attribuita all’integrazione».[20]
Insieme alla rivitalizzazione dell’ALADI e dei progetti di integrazione subregionali, di cui parleremo più avanti, bisogna ricordare la tendenza all’interpenetrazione di questi ultimi e alla firma di accordi di integrazione e cooperazione che riguardavano spesso solo alcuni dei membri di questo o quel gruppo. Così nel 1988 l’Argentina e il Brasile, entrambi membri dell’ALADI, hanno firmato l’accordo bilaterale che ha poi dato origine al MERCOSUR e nel settembre 1990 la Colombia, il Messico e il Venezuela hanno creato il Gruppo dei Tre. Questo fenomeno ha fatto nascere il problema della convergenza dei diversi programmi bilaterali o multilaterali e ha fatto sì che l’ALADI assumesse un nuovo ruolo di canale di comunicazione fra i vari progetti.
Il Consiglio dei Ministri, il più alto organo politico dell’ALADI, ha messo a punto nel 1991 a Cartagena la definizione di un nuovo ruolo dell’organizzazione come «quadro istituzionale e normativo dell’integrazione regionale», assegnandole il compito di assicurare la convergenza dei diversi schemi subregionali, il che ha fatto di essa «un sistema elastico di integrazione, composto a sua volta di sottosistemi in zone geografiche più ristrette, come il MERCOSUR, il Patto Andino, il Gruppo dei Tre… e tutta una serie di convenzioni bilaterali sottoscritte dai paesi membri».[21]
Ma la discussione sulla necessità o meno di una incisiva riforma dell’organizzazione è proseguita. Mentre alcuni hanno riconosciuto che «l’ALADI ha costituito un quadro giuridico e istituzionale che ha reso possibile lo sviluppo di programmi di integrazione di respiro e contenuto variabile, anche se questo non è avvenuto sempre in un ambito totalmente multilaterale, come sarebbe stato augurabile», altri rilevano invece che questa associazione «non ha soddisfatto le attese che aveva creato come quadro per far decollare il commercio fra i paesi membri ed è così rimasta al di sotto delle necessità storiche dell’America latina».
Alla fine del 1992, a Buenos Aires, il Consiglio dei Ministri ha deciso di convocare un gruppo ad hoc di rappresentanti governativi degli 11 paesi membri (Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Messico, Perù, Paraguay, Uruguay e Venezuela, che rappresentano più del 90% del PIL dell’America latina e dei Caraibi) al fine di effettuare un’analisi del Trattato di Montevideo del 1980 e dei suoi meccanismi, di valutare la sua efficacia e il suo funzionamento e, se necessario, proporre «nuovi modelli per procedere al suo perfezionamento o nuovi meccanismi all’interno del Trattato».[22]
Dalla sua creazione, che ha fatto seguito a quella dell’ALALC, alla fine del 1993, l’ALADI ha costituito il quadro di più di quaranta accordi bilaterali di libero scambio, di un accordo dello stesso tipo fra quattro paesi e di più di venti accordi settoriali a geometria variabile. Più recentemente sono stati sottoscritti dei patti fra tutti i membri in favore dei paesi a minor sviluppo economico relativo oltre a un patto regionale di preferenza doganale.
Se l’instabilità macro-economica di alcuni paesi e le differenze nel loro grado di sviluppo frenano pur sempre il processo di integrazione, in questi ultimi anni è stata firmata una serie di accordi qualificati «di nuova generazione» che «riguardano larghi settori dell’universo produttivo, stabiliscono dei programmi di detassazione automatica del commercio e includono anche dei nuovi temi come la tutela dell’ambiente, la proprietà intellettuale, la garanzia degli investimenti, il commercio dei servizi, le norme tecniche».[23]
Il panorama economico regionale mostra parallelamente i rapidi progressi del MERCOSUR e del GRAN, la prosecuzione dei negoziati nel Gruppo dei Tre e la firma di diversi accordi fra questi tre paesi e quelli dell’America centrale e dei Caraibi, la negoziazione da parte del Cile di diversi accordi bilaterali in seno all’ALADI e, ai confini di questa, l’entrata in vigore, il 1° gennaio 1994, del Patto di libero scambio dell’America del Nord, fra il Canada, gli Stati Uniti e il Messico (NAFTA).
 
Gruppo andino (GRAN).
 
Il GRAN è stato istituito con il Trattato di Cartagena, firmato in Colombia nel 1969 fra Colombia, Bolivia, Cile, Ecuador e Perù, ai quali si è aggiunto nel 1973 il Venezuela, prima che il Cile del generale Pinochet se ne ritirasse nel 1977, tre anni dopo l’instaurazione della dittatura militare.
Esso è stato la risposta all’insoddisfazione degli Stati andini per il funzionamento dell’ALALC e per l’atteggiamento dei suoi tre membri più importanti (Argentina, Brasile e Messico). Nei suoi primi anni il Gruppo andino ha condotto una politica decisamente protezionistica, dato che il suo obiettivo più importante era la sostituzione delle importazioni a livello subregionale.
Fin dall’inizio i paesi firmatari hanno tentato di seguire a grandi linee il modello dei Trattati istitutivi delle Comunità europee, creando tre organi: la Giunta, di carattere tecnico, la Commissione, di carattere politico, e, dal 1976, il Tribunale andino. Ma il GRAN non ne ha recepito gli aspetti sovranazionali, giacché, mentre le decisioni del Tribunale hanno carattere vincolante per gli Stati membri, le decisioni degli altri due organi comunitari devono essere ratificate con un atto legislativo in ciascuno degli Stati prima di essere applicabili.
Esattamente come nel caso dell’ALADI, pochi anni or sono si è proceduto a un rilancio dell’integrazione andina, e a Cartagena, nel 1989, i Presidenti degli Stati membri hanno deciso di farsene carico. In seguito a ciò alle Galapagos è stato approvato il Disegno strategico per l’orientamento del Gruppo andino, nel quale sono passate in rassegna le azioni necessarie per rafforzare l’integrazione e orientare la sua evoluzione nel decennio degli anni Novanta. Questo documento pone come obiettivi il consolidamento dello spazio economico andino, il miglioramento delle relazioni internazionali del GRAN e un rinnovato sostegno all’integrazione latino-americana nel suo insieme, prendendo in considerazione anche nuovi aspetti, come lo sviluppo scientifico e tecnologico, il turismo, le relazioni esterne comuni e, naturalmente, i settori commerciali, industriali, agricoli e dei servizi.
Nel maggio 1990, a Machu-Picchu è stato istituito il Consiglio presidenziale andino incaricato «di valutare, incoraggiare e orientare l’integrazione». La riunione di Machu-Picchu ha riconosciuto la necessità di politiche economiche nazionali compatibili con gli imperativi derivanti dal processo di integrazione e di una posizione comune per ottenere una riduzione del debito estero, e ha inoltre posto in risalto i rischi connessi con iniziative unilaterali degli Stati membri nel quadro dell’Iniziativa per le Americhe e con accordi bilaterali di cooperazione economica e di liberalizzazione commerciale fra paesi latino-americani.
I Presidenti hanno poi deciso a La Paz, nel novembre 1990, la creazione di una zona di libero scambio per la fine del 1991 e l’applicazione della tariffa esterna comune per la stessa data, in modo che l’unione doganale fosse operante per il 1995. Il GRAN ha deciso, con le stesse scadenze, anche una politica agricola comune e ha preso provvedimenti per incentivare investimenti provenienti dall’esterno della regione. Infine i Presidenti hanno autorizzato i paesi membri a negoziare una preferenza doganale bilaterale con tutti gli altri membri dell’ALADI e con i paesi dell’America centrale e dei Caraibi affinché «alla fine del decennio (cioè nel 2000) sia istituita una zona di libero scambio nell’intero emisfero».[24]
A partire dal 1992 sono però sorte delle difficoltà, quando numerosi paesi hanno deciso di non farsi carico delle conseguenze derivanti dall’adozione dell’unione doganale e della zona di libero scambio. Gli avvenimenti politici sopravvenuti in Perù, con lo scioglimento del Congresso da parte del Presidente Fujimori nell’aprile 1992, e la conseguente decisione venezuelana di rompere le relazioni con questo paese, non hanno fatto che aggravare la situazione: a Quito, nel giugno del 1992, il Perù ha votato contro l’approvazione della tariffa esterna comune, la liberalizzazione del commercio regionale e l’armonizzazione delle politiche economiche (pur continuando a firmare fino all’aprile 1994 una serie di convenzioni bilaterali con altri paesi allo scopo di mantenere le correnti commerciali esistenti). Circa nello stesso periodo l’Ecuador ha comunicato a sua volta la propria impossibilità di rispettare la data prevista per l’integrazione, cosicché «i fatti menzionati concorsero a condurre, verso la metà dell’anno, il Gruppo andino in quella che alcuni osservatori hanno considerato la peggior crisi di questa organizzazione dalla sua nascita, mentre altri si sono limitati a considerarla ‘una crisi di crescita’».[25]
Nel luglio 1992 il nuovo Presidente ecuadoriano Sixto Duran Ballèn ha impresso una svolta in favore del GRAN alla politica del suo paese, nonostante le riserve di alcuni ambienti economici nazionali, fatto che ha consentito di intravedere l’uscita dalla crisi dell’integrazione andina e di far decollare il 1° ottobre la zona di libero scambio fra tutti i partecipanti, eccetto il Perù.
Alla fine del 1993 l’INTAL poteva riassumere questo periodo cruciale scrivendo che «i cinque paesi del Gruppo andino hanno risposto alle crisi nazionali e regionali liberalizzando le loro economie, commercio estero compreso. Il nuovo Gruppo andino conduce una politica di liberalizzazione economica a livello subregionale. I principali elementi che caratterizzano questa nuova strategia sono la creazione di una zona di libero scambio dei beni, l’adozione e la prossima entrata in vigore della tariffa esterna comune e la liberalizzazione del commercio fra i paesi membri… La Colombia e il Venezuela sono stati i paesi a maggior tasso di aumento del commercio intraregionale e hanno dato impulso al processo di riorganizzazione del nuovo GRAN. La partecipazione del Perù a questo processo è stata marginale, anche se si auspica la sua piena partecipazione alla zona di libero scambio nel 1995».[26]
 
Mercato comune centro-americano (MCCA).
 
La prima presa di posizione ufficiale degli Stati dell’America centrale in favore della loro integrazione economica risale alla primavera del 1951. Nel 1958 a Tegucigalpa veniva firmato un primo Trattato fra il Guatemala, l’Honduras e El Salvador, prima che a Managua, nel maggio 1960, venisse firmato il Trattato generale d’integrazione economica fra il Guatemala, l’Honduras, il Nicaragua e El Salvador, ai quali, nel 1963, si è aggiunto il Costa Rica.
Il MCCA ha funzionato assai bene fino a quando la crisi economica degli anni Ottanta — durante la quale il commercio regionale si è ridotto a meno della metà, con un’inversione di tendenza a partire dal 1987 — e i conflitti politici o politico-militari hanno messo in dubbio il suo sviluppo.
Fin dall’ottobre 1989 i ministri responsabili dell’integrazione economica centro-americana e dello sviluppo regionale hanno chiesto ai loro collaboratori di elaborare una proposta concreta volta alla «ristrutturazione, alla riattivazione e al rafforzamento del processo d’integrazione economica e sociale centro-americana».
A partire dal 1990, attenuatosi il principale focolaio di tensioni regionali (Nicaragua) si sono manifestate condizioni più favorevoli, che hanno permesso di ricostruire le economie nazionali e di rilanciare l’integrazione. In giugno i Presidenti hanno definito i loro obiettivi e manifestato la loro intenzione di «ristrutturare, rinforzare e riattivare il processo di integrazione… adeguando o ridisegnando il suo quadro giuridico e istituzionale… e facilitando il suo riadattamento alle nuove strategie di apertura verso l’esterno e di modernizzazione dei mezzi di produzione»[27] attraverso un Piano d’azione economica centro-americana (PAECA). In dicembre gli stessi hanno lanciato da Puntarenas un appello, sollecitando l’aiuto della comunità internazionale, e hanno riaffermato il ruolo fondamentale del Vertice dei Presidenti centroamericani come «meccanismo superiore di decisione e cooperazione».
A Tegucigalpa, nel dicembre 1991, il Vertice ha analizzato «le misure necessarie per rendere dinamico lo sviluppo umano e combattere la povertà» e ha deciso la creazione della Commissione regionale degli affari sociali. Esso ha messo l’accento anche sulla necessità di associare le parti sociali al processo di integrazione e di rendere rapidamente operativa la tariffa esterna comune.
L’Honduras, che si era ritirato dal MCCA nel 1969, ha firmato un accordo con i suoi partners, primo passo verso la sua reintegrazione effettiva avvenuta nel febbraio 1992, mentre il Guatemala ha firmato degli accordi bilaterali di libero scambio con El Salvador, e Panama ha manifestato il suo interesse a «inserirsi gradualmente nello schema di integrazione».
Alla fine del 1991, dieci organizzazioni internazionali e regionali, pubbliche e private, sono state chiamate a dare il loro parere con un documento dettagliato sulle grandi linee dell’integrazione e sulle tappe del passaggio alla Comunità economica centro-americana: ristrutturazione, rafforzamento e riattivazione dell’integrazione, transizione verso la Comunità economica con armonizzazione delle politiche economiche e perfezionamento dei meccanismi e degli strumenti regionali di coordinamento; infine avvio della Comunità, intesa come una struttura produttiva integrata a livello regionale con un modello di sviluppo che prevedesse un giusto equilibrio fra l’impiego delle risorse naturali e la protezione dell’ambiente, pur garantendo il progresso e la qualità della vita.[28]
Si è deciso inoltre di riattivare l’Organizzazione degli Stati centroamericani (ODECA) e, già a metà del 1991, di approvare un Piano d’azione per l’agricoltura centro-americana (PAC), mentre venivano condotti negoziati per creare una zona di libero scambio con gli Stati Uniti, nel quadro dell’Iniziativa per le Americhe e venivano firmati accordi fra diversi paesi centro-americani e altri paesi dell’America latina.
Nel 1992, El Salvador e Nicaragua proseguivano verso la normalità costituzionale e la marcia verso la pacificazione seguiva il suo corso in Guatemala. Ma il problema più grave della regione rimaneva quello del processo di stabilizzazione e di aggiustamento strutturale. Le autorità regionali erano convinte che, di fronte al pericolo che l’adesione del Messico alla zona di libero scambio dell’America del Nord (NAFTA) potesse danneggiare le esportazioni centro-americane verso il Canada e gli Stati Uniti e ostacolare il flusso di investimenti provenienti da questi due paesi, il MCCA poteva svolgere un ruolo fondamentale per lo sviluppo. Esse lanciarono dunque un vigoroso messaggio sul «debito sociale della regione» e sulla necessità di approfondire l’integrazione in particolare nel settore agricolo, sottolineando la loro volontà di allargare lo spazio geografico del MCCA con l’integrazione di Panama e invitando il Belize come osservatore a diverse riunioni.
Sul piano istituzionale, il Parlamento centro-americano (PARLACEN), insediato a Città del Guatemala nell’ottobre 1991, con il sostegno del Parlamento europeo, ha cominciato a riunirsi con la presenza dei rappresentanti di quattro dei cinque paesi membri, mentre parallelamente si progrediva verso la creazione di un sistema giudiziario comune, con la creazione di una Corte centro-americana di giustizia e si decideva l’avvio effettivo, a partire dal dicembre 1993, del Sistema di integrazione centro-americano (SICA), che ha sostituito la ODECA a partire dal dicembre 1991.
L’accordo di Nueva Otopeque, in El Salvador, del maggio 1992 ha ribadito la decisione dei Presidenti di El Salvador, del Guatemala e dell’Honduras di stabilire una zona di libero scambio, a cui è seguito l’annuncio della loro intenzione di procedere verso l’unione politica e la creazione di uno Stato federale. Qualche mese più tardi, al Vertice di Panama, è stato proposto un piano analogo per l’integrazione di tutta la regione, sotto il nome di Repubblica centro-americana,[29] ma questo progetto non ha potuto essere discusso.
Durante il 1993 in linea generale si è rafforzata la tendenza verso l’integrazione, anche se con sfumature diverse e a velocità variabile secondo gli Stati: mentre il Costa Rica ha fatto sapere, pur avendo firmato il Protocollo di Guatemala nell’ottobre 1993, di non essere disposto nell’immediato alla creazione di un’unione doganale con i suoi partners (in materia finanziaria e monetaria il Protocollo di Guatemala si limita ad affermare che «l’integrazione deve avvenire in maniera progressiva»), il Nicaragua invece si è unito a El Salvador, al Guatemala e all’Honduras per firmare in aprile l’accordo di Managua, che prevedeva «di raggiungere l’unione doganale e l’unione economica nel più breve tempo possibile» e «di lavorare all’unione politica fra di essi».[30]
 
Comunità dei Caraibi (CARICOM).
 
La CARICOM è stata istituita nel 1973 con un Trattato firmato da Barbados, Guyana, Giamaica e Trinidad e Tobago, ai quali si sono aggiunti più tardi altri Stati della regione (Belize, Antigua e Barbuda, Bahama, San Cristóbal-Newis, repubblica Dominicana, Grenada, Monserrat, Santa Lucia, San Vincenzo e le Granadine).
Dopo un periodo di apatia, dal 1985 i Capi di Stato hanno manifestato la volontà di rilanciare l’integrazione, volontà che è andata rafforzandosi fino all’inizio degli anni Novanta davanti alle sfide della globalizzazione dell’economia mondiale e della creazione di grandi blocchi economici regionali: il mercato unico europeo del 1992 e la zona di libero scambio nord-americana. Nel 1989, con la Dichiarazione di Grande Anse, a Grenada, si è deciso «di mettere a punto i tre strumenti di base per creare un mercato comune, come previsto nel Trattato di Chaquaramas: tariffa esterna comune, regole d’origine comuni e sistema armonizzato di incentivi fiscali».[31]
Come per tutti gli altri sistemi di integrazione sub-regionali in America latina, l’istituzionalizzazione delle riunioni annuali dei Capi di Stato si è rivelata fondamentale per disincagliare il processo dal mortale pantano nel quale era finito da più di un decennio. Nello stesso tempo sono state istituite altre due istanze per la ricerca del consenso: la Commissione delle Indie orientali, composta da personalità incaricate di fare proposte alle autorità politiche, e la Conferenza economica regionale, che si è riunita per la prima volta all’inizio del 1991. Contemporaneamente è stato avviato uno studio per la creazione di una Assemblea parlamentare secondo un progetto ratificato da sei paesi alla fine del 1993.
La Commissione delle Indie orientali ha indicato come obiettivo la creazione di un’autorità monetaria comune e di una moneta unica prima dell’anno 2000 e ha proposto delle riforme istituzionali. Anche se non tutte le proposte sono state recepite, si è istituito un Bureau ed è stato designato, in ogni paese membro, un ministro responsabile della CARICOM. I Capi di Stato hanno anche accettato in linea di principio una rappresentanza comune verso l’esterno, un rafforzamento del segretariato, una Carta della società civile e una Corte suprema.
Alla fine del 1993 la tariffa esterna comune era progressivamente entrata in vigore fra otto paesi (gli altri si sono impegnati ad applicarla in un prossimo futuro), mentre le regole d’origine erano in vigore dal mese di maggio.
Allo scopo di allargare l’area regionale della CARICOM, la Commissione delle Indie orientali ha anche suggerito nel 1992 di avviare negoziati intesi a creare una Associazione dei paesi dei Caraibi (AE Car), che riunisse i paesi dell’America centrale e del Sud che si affacciano sul mare dei Caraibi, ma anche delle potenze extra-regionali con qualche interesse nella zona, come la Francia, l’Olanda, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Se i negoziati sulla creazione dell’AE Car alla fine del 1993 sembravano promettenti, restano però dei dubbi sull’efficacia della CARICOM stessa, tenuto conto della sua scarsa popolazione (5 milioni di abitanti suddivisi in 13 paesi) e della modestia della sua attività economica.[32]
 
Mercato Comune del Sud (MERCOSUR).
 
Il MERCOSUR è stato il punto d’arrivo di un processo iniziato quando, nel 1985, l’Argentina e il Brasile, dopo il ritorno alla democrazia, hanno firmato la Dichiarazione di Iguazù, che ha dato luogo, verso la fine del 1986, al loro Programma di integrazione e di cooperazione economica.
Nel 1990 i due paesi hanno deciso di creare un mercato comune da avviare definitivamente il 1° gennaio 1995, e nel marzo 1991, con la firma del Trattato di Asunción da parte di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, è stato creato il MERCOSUR.
Il Trattato prevede la libera circolazione dei beni, dei servizi e di diversi fattori produttivi fra i quattro paesi membri, la fissazione di una tariffa esterna comune e l’adozione di una politica commerciale comune nei confronti di paesi terzi o di raggruppamenti di paesi. Nel Trattato si afferma che questo, a livello latino-americano, deve essere considerato «come un nuovo passo avanti nello sforzo che tende allo sviluppo progressivo dell’integrazione latino-americana»,[33] e si sottolinea la necessità che il MERCOSUR assuma un ruolo attivo nel quadro mondiale, caratterizzato dalla creazione e dal consolidamento di grandi entità regionali. E in effetti questa linea è stata messa in pratica con la firma di un Trattato con gli Stati Uniti e con contatti sia con la CEE, sia con il Giappone.
Gli organismi istituzionali del MERCOSUR sono: il Consiglio, organo politico supremo, costituito dai Ministri degli affari esteri e da quelli dell’economia e il Gruppo del mercato comune, organo esecutivo, composto da quattro membri titolari e altrettanti supplenti per ogni paese, rappresentanti dei ministri citati e delle Banche centrali. Il Trattato prevede infine un Segretariato amministrativo e una Commissione parlamentare comune.
All’inizio del 1992 è stata adottato il Protocollo di Brasilia, per la soluzione delle controversie fra gli Stati membri sull’interpretazione o l’applicazione del Trattato, che prevede un Tribunale di arbitrato che decide in ultima istanza senza appello. In seguito, allo scopo di avviare le diverse politiche che dovrebbero consentire la creazione effettiva del Mercato comune (programma di liberalizzazione commerciale, coordinamento delle politiche macro-economiche, definizione di una tariffa esterna comune e soppressione delle barriere non tariffarie, accordi settoriali) sono state fissate riunioni a livello dei Ministri e dei Presidenti delle Banche centrali ed è stato approvato un regolamento interno del Gruppo del mercato comune e dei sottogruppi settoriali in seno a quest’ultimo.
Dopo la sua comparsa il MERCOSUR ha avuto un certo effetto di attrazione e di rivitalizzazione del processo di integrazione latinoamericana nel suo insieme.
 
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Il ritorno alla democrazia, sia pure non del tutto stabile, nella maggior parte degli Stati latino-americani e il rilancio del processo di integrazione economica pongono le premesse per il più ambizioso obiettivo di una vera Federazione latino-americana, che potrebbe diventare uno dei pilastri di un futuro governo mondiale federale. Ma per il raggiungimento di questo obiettivo, che implica il superamento della sovranità nazionale,[34] non bastano gli sforzi di cooperazione fra i governi. Come dimostra la storia dell’unificazione europea, i governi tendono a cercare soluzioni unitarie compatibili con il mantenimento della sovranità. Ed è per questo che è importante e cruciale il ruolo dei militanti federalisti, cioè di un gruppo che, avendo come obiettivo prioritario la federazione, è in grado di sfuggire alle trappole dei poteri nazionali e di indicare di volta in volta la risposta giusta ai problemi sul tappeto, fino al raggiungimento dell’obiettivo politico.
E’ dunque importante che anche in America latina rinasca un Movimento federalista autonomo e sovranazionale.[35]
 
Jean-Francis Billion


[1] Cfr. Jean-Francis Billion, «Il federalismo latino-americano», in Il Federalista, XXXV (1993), pp. 21-7.
[2] Sono state esaminate le pubblicazioni dell’Istituto per l’integrazione latinoamericana (INTAL) dalla sua creazione al 1993 e, in particolare, i suoi rapporti annuali come pure le sue riviste, la più recente delle quali, lntegración Latino-americana, è in fase di riorganizzazione. Sulle relazioni fra l’Europa e l’America latina si vedano le pubblicazioni dell’IRELA, Instituto de relaciones europeo-latinoamericanas di Madrid.
[3] Cfr. Fernando Fainzylber, «Technical Progress, Competitiveness and Institutional Change», in Stategic options for Latin America in the 90’s, Parigi, Ed. OCDE, 1992, pp. 101,140.
[4] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1993, Buenos Aires, 1994, p. 2.
[5] INTAL, Ibidem, p. 6.
[6] José Maria Puppo, direttore dell’INTAL, scrive nell’introduzione al Rapporto dell’Istituto per il 1993: «Non si può fare a meno di ricordare che anche il processo ininterrotto di democratizzazione osservato in questi ultimi anni è stato fondamentale. La legittimità dei governi rende possibile realizzare dei compromessi internazionali… In certi casi queste condizioni sono state raggiunte alla fine di lotte politico-militari che hanno seriamente condizionato il processo di integrazione al quale partecipavano i paesi interessati e che hanno comportato un ritardo drammatico nell’evoluzione delle loro condizioni economiche e sociali». Nella Prefazione al libro di Antonio Toledano Laredo Intégration et démocratie (Bruxelles, Editions de l’Université libre de Bruxelles, 1982), che mette a confronto i processi di integrazione europea e latino-americana, Jean-Victor Louis ha scritto che «l’integrazione presuppone necessariamente che l’interesse nazionale non sia considerato come il bene supremo, o più esattamente che l’interesse di ciascuno degli Stati che compongono l’Unione non possa più essere difeso se non nel quadro degli interessi comuni. L’integrazione regionale tra Stati totalitari non può sopravvivere e progredire. Essendo il sistema di questi Stati sostanzialmente nazionalista, ciò è naturalmente in contraddizione con le libertà che sono il presupposto per l’apertura delle frontiere». Antonio Toledano Laredo ha sottolineato le difficoltà del processo di integrazione latino-americana, ricordando che questo subcontinente comprende «paesi industrializzati, democratici o non, paesi socialisti, paesi ancora lontani dall’aver raggiunto lo stadio dell’industrializzazione, paesi esportatori di petrolio e paesi del tutto privi di esso» e rilevando che «il ventaglio sociale, economico e politico è proporzionale all’estensione geografica e alle distanze sconosciute in Europa», e che «l’espressione stessa di America latina… non è esaustiva, perché se essa comprende le componenti spagnole e portoghesi, la parte iberoamericana, non evoca invece altre componenti indo-americane (e anche afro-americane), ciascuna delle quali rappresenta una realtà autoctona o importata che costituisce, con le prime, un insieme di culture e di tradizioni di una enorme ricchezza».
[7] Miguel A. Ekmedjian, professore di diritto costituzionale all’Università di Buenos Aires, scrive che «la volontà di integrazione è evidente nella nuova classe politica latino-americana, che, messi da parte provincialismi e dispute di campanile, si è avventurata sul difficile cammino dell’integrazione. Questo cambiamento di mentalità è legato al ritorno alla democrazia dei governi della grande maggioranza dei paesi del subcontinente, e cioè risale a una data piuttosto recente» (Miguel A. Ekmedjian, Hacia la Republica Latinoamericana, Buenos Aires, Ed. Depalma, 1991, p. 31).
[8] Alla riunione di Rio del dicembre 1986 hanno partecipato l’Argentina, il Brasile, la Colombia, il Messico, Panama, il Perù, l’Uruguay e il Venezuela, tutti dotati di governi democraticamente designati; Panama fu temporaneamente sospeso dal Gruppo all’inizio del 1988.
[9] INTAL, El Proceso de Integración en América Latina y el Caribe en 1990, cit., p. 4.
[10] Miguel A. Ekmedjian, op. cit., pp. 17-18.
[11] Preambolo del Trattato di Montevideo, in Miguel A. Ekmedjian, op. cit., pp. 18-19, che inoltre cita un’analisi comparativa dei due Trattati di Montevideo: Raimundo Barros Charlin, «Analisis comparativa de los Tratados de Montevideo de 1960 y 1980», in El Derecho de la Integración en América latina, 1979-1982, compilazione tematica curata da Eduardo R. Conessa e Jorge L. Oria, Buenos Aires, Ed. INTAL, 3 volumi, 1983.
[12] Miguel A. Ekmedjian, op. cit., p. 19.
[13] Ibidem, p. 21.
[14] Ibidem.
[15] Cfr. INTAL, El Proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1990, cit., p. 29, ove si legge anche che «in occasione della riunione di Ica, in Perù, si riconobbe che era necessario aggiornare la struttura istituzionale degli schemi e considerare altre vie di integrazione per completare le comunicazioni, i trasporti, la cooperazione scientifica, tecnologica e culturale».
[16] Ibidem.
[17] Dichiarazione di Caracas, in Ibidem, p. 29.
[18] Ibidem, p. 33.
[19] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1991, Buenos Aires, 1992, pp. 11 e 230.
[20] Ibidem, p. 15.
[21] INTAL, El proceso de integración en América latina y el Caribe en 1992, Buenos Aires, 1993, p. 16.
[22] Ibidem, pp. 23-4; fra l’altro sono citate diverse prese di posizione dei responsabili cileni e messicani nel 1992.
[23] Doc. ALADI/CM/VIII/dt 1/Rev 1/3.2.1994, citato in INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1993, cit., p. 27.
[24] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1991, cit., p. 103.
[25] INTAL, El proceso de integración en América latina y el Caribe en 1992, cit., p. 114.
[26] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1993, cit., p. 84.
[27] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1991, cit., p. 156.
[28] Acciones para la reactivación, fortalecimiento y restructuración de la integración y la inserción centro-americana en la economia internacional, Guatemala, novembre 1991, citato in INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1991, cit., p. 160.
[29] Le costituzioni centro-americane attualmente in vigore, con l’esclusione di quella del Costa Rica, prevedono, come quelle approvate nel dopoguerra da diversi paesi europei della CEE, la rinuncia alla sovranità sotto condizione di reciprocità; quella dell’Honduras afferma addirittura che questo paese «è uno Stato ‘disaggregato’ della repubblica federale dell’America centrale».
[30] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1993, cit., p. 125.
[31] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1991, cit., p. 220.
[32] Cfr. Wolf Grabendorff (direttore dell’IRELA), «European Integration: Implications for Latin America» in Strategic Options for Latin America in the 1990’s, cit., pp. 217-48.
[33] INTAL, El proceso de integración en América Latina y el Caribe en 1991, cit., p. 90.
[34] Nel 1990, Javier Villanueva, analista dell’INTAL, scriveva nel Rapporto sull’integrazione nel 1990 (p. 4) che «sotto la pressione della globalizzazione in corso e della necessità di adeguarsi a nuove esigenze per poter accedere alla cooperazione e ai flussi dei finanziamenti internazionali e in una situazione di ridotte possibilità di azione e di scelte strategiche, sia a causa della sua discussa efficacia, sia a causa della domanda sproporzionata di benessere, lo Stato nazionale è diventato uno dei punti chiave dei cambiamenti da introdurre nel prossimo decennio».
[35] Sul federalismo e sui Movimenti federalisti latino-americani, che sono spariti con gli anni Settanta, si veda Jean-Francis Billion, «Il federalismo latino-americano», in Il Federalista, XXXV (1993), pp. 21-7, e «Il Movimiento Pro Federación Americana», in Il Federalista, XXXV (1993), pp. 127-44.

 

 

 

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