IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXIX, 1997, Numero 1, Pagina 26

  

 

GLOBALIZZAZIONE E NUOVE DISUGUAGLIANZE:
I LIMITI DEL 7° RAPPORTO DELL'ONU

SULLO SVILUPPO UMANO

 
 
1. «A dispetto delle cadute e difficoltà economiche, gli indicatori chiave dello sviluppo umano sono avanzati in pressoché tutti i paesi in via di sviluppo. In effetti, i paesi in via di sviluppo hanno conseguito maggiori successi nello sviluppo umano piuttosto che nella crescita del reddito. Il divario Nord-Sud nella speranza di vita, fra il 1960 ed il 1993, è più che dimezzato, passando da 23 a 11 anni».[1] «[…] I paesi in via di sviluppo hanno coperto, per molti aspetti, nel corso di 30 anni, una distanza nello sviluppo umano pari a quella percorsa dal mondo industrializzato nell’arco di un secolo (corsivo nostro). Il tasso di mortalità infantile è più che dimezzato; il tasso congiunto di iscrizione alla scuola primaria e secondaria è più che raddoppiato; le persone vivono, in media, 17 anni di più. L’attenzione tutta puntata sugli indicatori economici, ci fa perdere di vista, qualche volta, le conquiste relative all’esistenza delle persone».[2] Da queste poche frasi tratte dal 7° Rapporto dell’ONU sullo sviluppo umano si ha subito la netta percezione dei profondi cambiamenti intervenuti a livello mondiale nei rapporti tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo nel breve spazio di una generazione, così come si ha una visione sintetica del contenuto del Rapporto: vale a dire un concetto di benessere che non può essere riassunto dal solo parametro del reddito pro-capite, anche se per una parte della popolazione mondiale le condizioni economiche sono peggiorate.[3] L’ONU ha messo a punto un indicatore, chiamato indice dello sviluppo umano, che non tiene conto solamente del reddito pro-capite, ma include altri due parametri: la speranza di vita alla nascita, e il grado di alfabetizzazione degli adulti, assieme alla quota congiunta di iscrizione ai livelli scolastici primari, secondari e terziari. Detto in altri termini, con questo nuovo modo di determinare il grado di benessere di un paese, l’ONU intende mettere in luce l’importanza di una adeguata politica pubblica a sostegno dello sviluppo dell’individuo, quale appunto è una politica per l’istruzione, la formazione professionale e l’assistenza sanitaria. Pertanto, secondo le Nazioni Unite, il capitale umano, ai fini dell’aumento del grado di benessere, deve assumere la stessa importanza finora ricoperta dal solo capitale fisico. Un fatto questo confermato da uno studio della Banca mondiale, secondo il quale la crescita economica di un paese è dovuta per il 16% al capitale fisico (macchinari, costruzione ed infrastrutture), per il 20% al capitale naturale (materie prime, ecc.) e per ben il 64% al capitale umano e sociale. Vale a dire che ai fini della crescita economica sono preponderanti gli investimenti in ricerca e sviluppo, istruzione, formazione professionale e sanità. Ad esempio, commentando i risultati raggiunti da molti paesi in via di sviluppo, il Rapporto rileva che un aumento del 10% nella speranza di vita innalza il tasso di crescita economica di 1,1 punti percentuali l’anno. Ma ancora più consistenti sono gli effetti degli investimenti nell’educazione scolastica e nella formazione professionale: l’incremento di un anno dell’istruzione media della forza lavoro aumenta il Pil del 9%, un aumento che si mantiene per i primi tre anni aggiuntivi di istruzione. Dopo questo periodo, il tasso di crescita del Pil, pur scendendo sensibilmente, si mantiene comunque al livello del 4% per ogni anno addizionale. Il Rapporto cita, a questo proposito, l’esperienza del Pakistan e della Corea del Sud, che nel 1960 presentavano redditi pro-capite simili, ma che avevano tassi di scolarizzazione primaria molto diversi, 30% il primo e 94%, il secondo: nel 1993 il reddito pro-capite della Corea, oggi paese ad alto sviluppo umano, è risultato tre volte superiore a quello del Pakistan, paese annoverato tra quelli a basso sviluppo umano.
Parallelamente ai miglioramenti nel livello dello sviluppo umano, a livello mondiale sono stati compiuti notevoli passi avanti anche verso la democrazia: «più di due terzi della popolazione mondiale attualmente vive sotto un regime politico formalmente pluralistico e democratico».[4] Anche se il Rapporto non approfondisce il ruolo che può svolgere un regime democratico, rispetto ad uno non democratico, nel sostenere la crescita economica, esso conferma che la crescita può favorire l’avvento della democrazia e questa, accompagnandosi ad una migliore distribuzione della ricchezza, a sua volta favorisce lo sviluppo umano nel suo complesso.
Certamente, dunque, sono stati fatti passi avanti significativi, sia verso il miglioramento del livello di sviluppo umano, sia verso istituzioni sempre più democratiche. Tuttavia, ai problemi, che comunque restano per una parte significativa della popolazione mondiale che ha visto peggiorare le proprie condizioni di vita economica e per un gran numero di paesi dove non solo non esiste la democrazia, ma in cui i più elementari diritti umani vengono quotidianamente calpestati, il Rapporto ne aggiunge uno che sempre più correntemente viene individuato come lo snodo decisivo del futuro sviluppo economico e istituzionale dell’umanità: la globalizzazione dell’economia. Quest’ultima si è sviluppata attraverso due vie: la crescita del commercio internazionale di beni e servizi e l’aumento del grado di libertà del movimento dei capitali e della sua dimensione. L’ONU ricorda che, nel giro di una generazione, il mondo ha raggiunto un grado di integrazione molto elevato: gli scambi di beni e servizi hanno ormai assunto un peso decisivo nella crescita del reddito e quindi su uno dei parametri su cui si misura il grado di sviluppo umano. Basti pensare che l’incidenza delle esportazioni e delle importazioni di beni e servizi sul prodotto interno lordo mondiale è cresciuta, tra il 1970 ed il 1990, dal 25% al 45%: ciò significa che il reddito mondiale dipende ormai per quasi la metà dagli scambi, ed ha assunto la stessa rilevanza che caratterizzava i rapporti commerciali tra i paesi europei all’inizio degli anni ‘70, allorché si avviò il primo tentativo di unificazione monetaria con il Piano Werner. La globalizzazione dell’economia, secondo il Rapporto, è alla base di almeno tre nuovi fenomeni la cui rilevanza travalica i confini degli Stati, anche di quelli di grandi dimensioni: la crescita della disuguaglianza economica, che non riguarda solo i rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri, ma che comincia a produrre i suoi effetti anche all’interno dei paesi ricchi; la crescente liberalizzazione del movimento dei capitali a livello mondiale; la progressiva emarginazione dei paesi che non partecipano al commercio mondiale.
L’apertura dei mercati ha conosciuto un vero e proprio balzo in avanti negli anni Novanta, ed è all’origine di ampi processi di concentrazione industriale su scala mondiale. Ad esempio, nel 1990, il valore delle operazioni di acquisizione di imprese a livello mondiale è stato pari a 420 miliardi di dollari, una cifra che è cresciuta ininterrottamente fino a superare i 1000 miliardi di dollari nel 1996. L’effetto di queste iniziative, oltre a costituire una razionalizzazione dell’offerta su scala mondiale (si pensi, ad esempio, ai recenti fatti che hanno interessato il settore delle telecomunicazioni e quello aeronautico), è stato anche quello di una forte concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi paesi e di poche persone, tanto che comincia a porsi un problema di anti-trust mondiale. Inoltre, la concorrenza dei paesi emergenti, che si caratterizzano per uno Stato sociale poco sviluppato e con minori garanzie per lavoratori, disoccupati e pensionati, spinge i paesi industrializzati, sotto la spinta della competizione mondiale, a ridurre il livello della protezione sociale. Come esempio della nuova caratteristica che la disuguaglianza economica sta assumendo, l’ONU ricorda che il patrimonio delle 358 persone più ricche è pari al reddito prodotto in un anno da paesi che raccolgono il 45% della popolazione mondiale, e che nella maggiore economia, gli Stati Uniti, «l’1% più ricco della popolazione ha accresciuto la quota di proprietà sui patrimoni dal 20% al 36%» tra il 1975 ed il 1990.[5] Il fenomeno della disuguaglianza si presenta pertanto sotto un nuovo aspetto, sia per la dimensione che sta assumendo, sia perché riguarda anche la distribuzione del reddito all’interno dei paesi industrializzati. Nel quadro economico del passato, la risposta degli aiuti pubblici allo sviluppo — cioè una politica che appartiene alla sfera della cooperazione tra Stati e non a quella che può attuare un governo federale sovranazionale — poteva sembrare una risposta adeguata al superamento della disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri. Così come la politica del Welfare State poteva ritenersi adeguata al superamento delle disuguaglianze interne agli Stati nazionali. Oggi che la dimensione dello Stato non coincide più con la dimensione dell’economia e che la ricchezza — ed i redditi che questa produce — sfugge facilmente al potere di imposizione fiscale nazionale, ostacolandone la funzione redistributiva, diviene sempre più evidente la necessità di una risposta mondiale.[6]
Per quanto riguarda l’importanza che sta assumendo la crescente libertà di movimento dei capitali, il Rapporto osserva che nel periodo 1965-90 «i flussi finanziari hanno raggiunto dimensioni inimmaginabili. Più di mille miliardi di dollari vagano per il pianeta ogni ventiquattro ore, nell’incessante ricerca degli impieghi più profittevoli. Tali flussi di capitale non solo offrono opportunità di profitti (e perdite) finora sconosciuti, ma hanno aperto il mondo alle operazioni di un mercato finanziario globale che lascia anche ai paesi più forti una scarsa autonomia nella determinazione di tassi di interesse, tassi di cambio e altre politiche finanziarie».[7] L’importanza assunta dal movimento dei capitali privati, nel corso degli anni, ha prodotto a sua volta un nuovo effetto: ha notevolmente ridotto il ruolo degli aiuti pubblici sul totale dei finanziamenti che sono affluiti verso i paesi in via di sviluppo. Il flusso complessivo degli aiuti, tra il 1987 ed il 1994, è triplicato, ed il peso dei capitali privati, nello stesso arco di tempo, è passato dal 37% del totale al 76%, il che significa che il peso dei movimenti discrezionali di capitale ha superato il peso di quelli attivati da decisioni politiche ed ha ottenuto, almeno fino ad oggi, risultati indiscutibili. Questo fatto costituisce un elemento nuovo di cui occorre tener conto: esso mette in luce che una efficace politica dello sviluppo, a fronte della limitata capacità di attivazione di capitali pubblici, non può fare a meno dell’intervento dei capitali privati, ed in secondo luogo che quest’ultimo, non essendo regolato, privilegia alcune aree a discapito di altre. Infatti, rileva sempre l’ONU, la destinazione dei capitali privati si concentra in poche aree: la parte più consistente del totale degli investimenti diretti (84 miliardi di dollari), nel 1994, per il 40% si è diretto verso la Cina, per il 24% verso Hong Kong, Indonesia, Malaysia, Singapore e Thailandia, e solo per il 3,6% verso l’Africa sub-sahariana, che rappresenta il vero problema dello sviluppo oggi, in quanto non riesce ad attirare capitali privati in misura sufficiente a sostenere il suo decollo economico.
Una situazione di elevata instabilità politica, e con questo si viene al punto sul commercio internazionale, ostacola non solo la partecipazione al mercato mondiale, ma ostacola anche il commercio interregionale, scoraggia gli investitori esteri ed è all’origine di una allocazione delle risorse che penalizza lo sviluppo umano. A questo proposito, la Banca mondiale ha recentemente fatto notare che esiste una forte correlazione tra conflitti e povertà e che quindici dei venti Stati più poveri del mondo hanno avuto importanti conflitti a partire dagli anni ‘80; e qui la Banca si riferisce in particolare al continente africano che ha il minor peso sul commercio mondiale ed è anche quella parte del mondo dove il commercio interregionale — contrariamente a quanto avviene per il commercio intra-europeo, intra-americano ed intra-asiatico — è il meno sviluppato. Non solo: la situazione di permanente tensione politica e militare in Africa spiega come tra il 1960 ed il 1994 il peso delle spese in armamenti sul prodotto interno lordo è potuto aumentare dallo 0,7% al 2,9%. In altre parole, mentre a livello mondiale il rapporto tra il volume delle spese militari e quello delle spese in istruzione e sanità, tra il 1960 ed il 1991, si è ridotto dal 104% al 37%, in Africa, nello stesso periodo, è aumentato dal 27% al 43%. Ciò significa che in questo continente la distribuzione delle risorse è andata a detrimento dello sviluppo umano e non può stupire il fatto che tra i 48 paesi che l’ONU considera a basso sviluppo umano, ben 38 appartengono al continente africano.[8]
 
2. Il 7° Rapporto dell’ONU ha il merito di sollevare il problema delle disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione dell’economia non solo tra paesi ricchi e paesi poveri, ma anche all’interno degli stessi paesi ricchi. Il punto debole del Rapporto è che non vengono fornite soluzioni sul piano istituzionale. Tuttavia, la coscienza della necessità di una risposta mondiale ai problemi della disuguaglianza e dello sviluppo comincia a farsi strada presso leaders politici e uomini di cultura. Pierre Mauroy, Presidente dell’Internazionale socialista, ha recentemente osservato che «bisogna rispondere alla mondializzazione dell’economia e della finanza attraverso la mondializzazione della politica e della democrazia».[9] Mauroy fa poi seguire questa frase dall’enunciazione di una serie di obiettivi (riforma del sistema monetario internazionale, allargamento del G7, lotta alla disoccupazione, ecc.) che dovrebbero costituire i contenuti di una iniziativa su scala mondiale. John Kenneth Galbraith, dal canto suo, compie un passo avanti rispetto all’esigenza di un generico impegno politico a livello mondiale e commentando la crisi del Welfare State a livello nazionale e le disuguaglianze prodotte dalla globalizzazione, individua invece l’obiettivo da perseguire in un radicale cambiamento istituzionale, affermando che «le responsabilità economiche e sociali dello Stato nazionale sono solo una fase di transizione. L’obiettivo finale è un’autorità sovranazionale a cui sia concesso potere, compreso quello di incamerare e spendere fondi».[10] Galbraith, sostanzialmente, sostiene che nell’epoca della globalizzazione la politica del Welfare State tendenzialmente deve essere mondiale. Solo in questa prospettiva, che è quella che riconduce il processo di mondializzazione dell’economia sotto un controllo democratico, è pensabile che si possano limitare le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, interne ed internazionali, e creare le condizioni politiche perché il capitale privato possa continuare a dare il suo contributo, accanto agli aiuti pubblici, al superamento dei divari di sviluppo, senza alcuna discriminazione tra le diverse aree mondiali.
Una conferma che il punto fondamentale che sta emergendo è quello di una maggiore democrazia a livello mondiale la possiamo ricavare dall’esito della recente Conferenza mondiale sull’alimentazione, indetta dalla FAO nello scorso novembre. Le conclusioni della Conferenza hanno consentito di mettere ancora una volta in luce il fatto che la soluzione di uno dei problemi mondiali più importanti, quello della fame, non può compiere passi avanti significativi senza il rafforzamento dei poteri dell’ONU. E’ emblematico, a questo proposito, l’atteggiamento tenuto dagli USA riguardo al contenuto della dichiarazione finale. Essi si sono opposti sia all’introduzione del diritto all’alimentazione come diritto internazionalmente riconosciuto, sia alla istituzione di un’imposta sul Pil finalizzata al finanziamento di programmi di sostegni alimentari. Gli USA si sono dunque opposti al potenziamento degli strumenti destinati al sostegno dei paesi poveri e gestiti dagli organismi internazionali esistenti: la preoccupazione implicita in questo atteggiamento è quella di una delega eccessiva ad istituzioni su cui essi non hanno potere di veto. Sarebbe tuttavia sbagliato addossare tutte le responsabilità ai soli USA: l’Europa, infatti, ha le sue specifiche colpe, in quanto potrebbe dare l’esempio, in primo luogo decidendo di finanziare il Fondo europeo di sviluppo (FES), non con contributi nazionali, ma attingendo al bilancio comunitario. Occorre infatti ricordare che il FES è l’unico fondo europeo finanziato da contributi nazionali. Inoltre, approfittando della discussione in corso sulla revisione del Trattato di Maastricht, l’Europa potrebbe accelerare i tempi del passaggio ad una politica estera e di sicurezza unica, il che le consentirebbe di attuare una politica efficace di aiuti al Terzo mondo, ed in particolare all’Africa, e di sostenere il potenziamento dei poteri delle Nazioni Unite. E’ infatti oggettivamente difficile pensare che gli Stati Uniti, ma anche qualunque altra area del mondo che fosse chiamata ad intervenire significativamente a sostegno dei paesi più poveri, accettino di delegare ad istituzioni burocratiche la responsabilità di gestire il problema dello sviluppo, che comporta invece la trasformazione in senso democratico delle istituzioni delle Nazioni Unite.
 
Domenico Moro


[1] UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano 7 (Il ruolo della crescita economica), Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, p. 16.
[2] UNDP, op. cit., p. 30.
[3] Secondo il Rapporto, le condizioni economiche sono peggiorate per il 20% della popolazione. Occorre però ricordare che questo 20% è largamente concentrato in poche aree del mondo: prevalentemente in Africa, seguita da alcuni paesi dell’America latina e dell’Asia.
[4] UNDP, op. cit., pp. 72-73.
[5] UNDP, op. cit., p. 29.
[6] Sui limiti al potere impositivo degli Stati nazionali, cfr. AA.VV., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione, Bologna, Il Mulino, 1993.
[7] UNDP, op. cit., p. 20.
[8] La prevalenza africana in termini di numero di Stati scompare se si prende in considerazione la popolazione, in quanto tra i paesi a basso sviluppo umano è compresa l’India. Per quest’ultimo paese vanno però fatte delle considerazioni a parte. Innanzitutto l’India è un continente che costituisce un unico mercato unificato, mentre il continente africano è frazionato in decine di Stati sovrani e indipendenti, e in secondo luogo l’economia indiana cresce a tassi molto elevati — oltre il 5% annuo, nel periodo 1985-93 — ed è previsto che all’inizio del 2000 diventi una delle principali potenze economiche del Sud-Est asiatico.
[9] Pierre Mauroy, «Pour une mondialisation de la politique», in Le Monde, 6 novembre 1996.
[10] John Kenneth Galbraith, La buona società, Milano, Rizzoli, 1996, p. 132.
 

 

 

 

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