IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 241

 

 

IL WELFARE E IL FUTURO DELL’EUROPA
 
 
    Da alcuni anni l’economia degli Stati Uniti e quella della Gran Bretagna si stanno dimostrando più dinamiche di quelle del continente europeo. Esse fanno registrare tassi di crescita maggiori e tassi di disoccupazione minori, anche se la maggior disoccupazione dei paesi del continente europeo è compensata, in una misura non facile da quantificare, dalle più ampie disparità tra i redditi di lavoro nei paesi anglosassoni, dalla maggior diffusione, in questi ultimi, di lavori precari, insicuri e sottopagati e in generale da una maggiore presenza di situazioni talvolta impressionanti di violenza e di degrado sociale.
    La maggior parte dei commentatori tende a dimenticare questo secondo aspetto della crescita economica dei paesi anglosassoni e ne considera soltanto gli aspetti positivi. L’opinione dominante va nel senso che lo sviluppo delle economie del continente europeo sia frenato dall’esistenza di un numero eccessivo di vincoli, legati ad uno sviluppo ipertrofico dello Stato sociale. Oggi è quindi usuale mettere in discussione il cosiddetto modello renano, cioè il sistema di sicurezza sociale che è in vigore, in diverse varianti, nei paesi europei (con la parziale eccezione della Gran Bretagna), e che destina ai pagamenti per pensioni di anzianità e di invalidità, all’assistenza sanitaria e ai sussidi di disoccupazione una parte del prodotto interno lordo assai superiore a quella destinata agli stessi scopi negli Stati Uniti (e in Gran Bretagna) ed assicura ai lavoratori una serie di diritti e di garanzie dei quali gli stessi possono godere in misura sensibilmente inferiore nei paesi anglosassoni. Questa filosofia caricherebbe le economie dei paesi che la adottano di pesi che le renderebbero inadatte a sostenere la concorrenza internazionale dando agli Stati Uniti (e alla Gran Bretagna) un vantaggio competitivo che rischia di diventare incolmabile.
 
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    Sarebbe ingiustificato mettere in dubbio il fatto che in Europa, e in particolare in quelli tra gli Stati europei nei quali le strutture della vita democratica sono meno radicate e la coscienza civile è meno diffusa e più fragile, lo Stato sociale è spesso degenerato nell’assistenzialismo e quest’ultimo è stato un fertile terreno di coltura per il clientelismo e la corruzione, e quindi per lo spreco dissennato di risorse. Questi aspetti hanno indubbiamente costituito un grave freno allo sviluppo dei paesi in cui essi si sono manifestati: e la strada che in questi deve percorrere la lotta contro la disoccupazione passa necessariamente attraverso la razionalizzazione dei loro sistemi di sicurezza sociale e la riforma della pubblica amministrazione.
    Allo stesso modo sembra impossibile sottrarsi all’evidenza del fatto che il tendenziale invecchiamento (e il forte miglioramento dello stato di salute medio) della popolazione impone alcuni aggiustamenti dell’età minima pensionabile (e/o dell’ammontare delle pensioni percepibili da chi decide di ritirarsi dal lavoro prima del raggiungimento dell’età minima). Così come sembra equo stabilire un tetto ragionevole alle pensioni dei percettori di redditi medio-alti sulla base del presupposto che costoro dispongono della possibilità di integrare la propria pensione con assicurazioni private. E’ certo che lo Stato sociale non deve servire a stornare risorse a favore dei ricchi sottraendole ai poveri. Al di là di ciò, non è questa la sede nella quale è possibile discutere problemi che hanno un preponderante risvolto tecnico, quali sono quelli della natura dei miglioramenti e degli aggiustamenti marginali che si dovrebbero apportare agli attuali sistemi europei di sicurezza sociale.
    Quella che si deve invece discutere è la filosofia stessa dello Stato sociale, cioè il fatto che i cittadini di uno Stato moderno e civile debbano o meno destinare una parte considerevole del loro reddito e sottostare a vincoli di varia natura per consentire il perseguimento di fini di pubblica solidarietà.
 
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    I problemi che si pongono a questo riguardo sono di due ordini diversi. Il primo è filosofico in senso stretto, e riguarda l’equilibrio che la politica deve proporsi di stabilire in un dato sistema tra quantità di libertà di impresa e quantità di solidarietà. Non è evidentemente in discussione il fatto che l’esigenza della solidarietà si pone, nel mondo industrializzato di oggi, in un contesto nel quale i fondamentali diritti di libertà dei cittadini sono largamente garantiti. E tra questi vi è anche la libertà di impresa, senza la quale la libertà politica viene inevitabilmente sacrificata, come ha dimostrato l’esperienza del cosiddetto socialismo reale. Il problema si pone quindi nel quadro dello Stato liberal-democratico, del quale i paesi del continente europeo e quelli anglosassoni costituiscono due varianti. Ora, in questo quadro sarebbe difficile sostenere che, in astratto, l’ideale di società tendenzialmente fondato sul darwinismo sociale che ispira il modello anglosassone sia preferibile a quello fondato sulla solidarietà che ispira il modello renano. Del resto la solidarietà è l’opposto della guerra di tutti contro tutti di cui lo Stato costituisce il superamento. E, se è vero che la prima funzione dello Stato è quella eminentemente liberale di consentire la soluzione pacifica dei conflitti tra i cittadini definendo chiaramente i confini tra le rispettive sfere di libertà e imponendone il rispetto, è anche vero che il naturale completamento di questa funzione consiste nel prevenire l’insorgenza stessa dei conflitti consentendo a tutti i cittadini di partecipare alla gestione del potere e garantendo loro, attraverso un’equa redistribuzione delle risorse, condizioni di vita sicure e decorose.
    Sotto questo profilo appare oltraggioso, di fronte agli importanti fenomeni di miseria e di emarginazione che ancora esistono anche nei più ricchi tra i paesi europei (e lasciando da parte il problema, infinitamente più drammatico, della giustizia internazionale) sostenere che oggi in questi sistemi politici la quantità di risorse impiegate per rendere più vivibile la vita degli strati meno fortunati della popolazione è in assoluto eccessiva. E’ anzi chiaro che nei paesi che si ispirano al modello renano le risorse destinate a questo scopo sono ancora largamente insufficienti, e che la coscienza civile deve fare ancora molta strada perché un grado accettabile di giustizia sociale si possa realizzare.
 
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    A questo punto si deve però scendere al concreto e rispondere all’obiezione — e qui si entra nel secondo ordine di problemi — secondo la quale di fatto il modello renano di sicurezza sociale costituisce un freno all’aumento della ricchezza complessiva dei paesi che lo applicano (e il fenomeno della disoccupazione nei paesi dell’Europa continentale lo dimostrerebbe) e quindi di fatto provoca disuguaglianze sociali più profonde di quelle alle quali dà luogo un sistema nel quale le forze produttive si possono espandere senza i vincoli che l’esigenza di tutelare adeguatamente le categorie più deboli e disagiate produce. Di fatto la filosofia del darwinismo sociale sarebbe il mezzo attraverso il quale la mano invisibile crea la condizioni per l’arricchimento di tutti, e quindi per la realizzazione del massimo grado raggiungibile di giustizia sociale.
    La prima osservazione che va fatta a questo proposito è che la ricchezza dei paesi dell’Europa continentale, pur avendo avuto negli ultimi anni un ritmo di crescita meno sostenuto di quello dei paesi anglosassoni, non ha mai cessato di aumentare, e in altri tempi ha tenuto un ritmo di crescita superiore a quello degli Stati Uniti. Bisogna quindi fare molta attenzione a non confondere un’analisi seria della realtà con gli argomenti della propaganda politica e delle rivendicazioni corporative. I paesi del continente europeo hanno economie che, con tutte le loro insufficienze, sono solide ed equilibrate, e consentono agli Europei di godere di una qualità di vita che tende a migliorare di anno in anno. Sarebbe assai poco saggio lasciarsi andare a questo proposito a estrapolazioni superficiali come quelle che hanno portato nel recente passato tanti commentatori a vedere prima nel Giappone e poi nelle cosiddette «tigri» del Sud-Est asiatico i modelli ai quali tutti i paesi industrializzati si sarebbero dovuti ispirare.
 
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    Ciò che rimane vero è che il fenomeno della disoccupazione in Europa è grave, e che le politiche macroeconomiche che i governi hanno portato avanti nel recente passato non hanno fatto nulla per risolverlo o per alleviarlo. Ma sembra fondato sostenere che esso non ha avuto nulla a che fare con il modello renano di sicurezza sociale. La sua causa va piuttosto individuata nella politica restrittiva dei governi europei che è stata la conseguenza della tutela esercitata su di essi dai mercati finanziari. Questa si è manifestata in molteplici forme: nell’incertezza causata dalla volatilità dei tassi di cambio tra le monete europee, che ha reso azzardata ogni previsione, perturbato i flussi commerciali e scoraggiato gli investimenti; nel livello elevato dei tassi di interesse provocato, da un lato, dalla necessità di difendere ogni singola moneta nazionale contro i pericoli della speculazione, incoraggiata dalla loro fragilità, e, dall’altro, dalla necessità della Germania, lasciata sola dai partners europei nella gigantesca opera di ricostruzione dell’economia dei nuovi Länder, di attrarre i capitali necessari dagli altri mercati mediante elevate retribuzioni; nella necessità nella quale si sono trovati i governi europei, nello sforzo di realizzare la convergenza necessaria per adeguarsi ai parametri di Maastricht, di destinare la quasi totalità delle risorse rese disponibili dall’aumento della produttività alla diminuzione dei loro deficit di bilancio, compensando così gli effetti degli alti tassi di interesse; nell’aumento del costo del lavoro determinato dall’incapacità dei governi europei di armonizzare i loro sistemi fiscali in una situazione di completa libertà di movimento dei capitali, che ha consentito a questi ultimi di sottrarsi alla tassazione lasciando il lavoro come principale risorsa tassabile.
    E’ chiaro che tutti questi fattori sono da imputare ad un’unica causa: la divisione monetaria e politica dell’Europa. Questa causa è stata in parte rimossa con il varo della moneta unica europea. I paesi dell’UEM costituiranno un’unica grande area economica e monetaria, nella quale l’incidenza del commercio estero sul prodotto interno lordo sarà debole e nella quale quindi l’andamento generale dell’economia sarà largamente indipendente dai tassi di cambio dell’euro, così come l’andamento dell’economia americana è largamente indipendente dai tassi di cambio del dollaro. Scomparirà il pericolo della speculazione sulle monete nazionali, che non esisteranno più. La Banca centrale europea avrà un largo margine di libertà nella determinazione dei tassi di interesse. In Europa stanno quindi nascendo le premesse di un recupero da parte della politica del suo primato sui mercati finanziari e quindi della capacità dei governi, liberati da buona parte dei vincoli che ne hanno condizionato l’azione nel dopo-Maastricht, di dare al welfare le forme e la struttura che riterranno più opportune.
    Ma perché questo accada l’esistenza di una grande area monetaria unificata è necessaria ma non sufficiente. L’Unione monetaria in quanto tale è fragile e non può certo dissipare il clima di sospetto e di competizione tra gli Stati membri che ha sempre accompagnato il cammino della Comunità prima e dell’Unione poi. Non esistono quindi ancora le condizioni per la realizzazione di una coraggiosa politica di investimenti, sia a livello europeo che a livello nazionale. Ne è una testimonianza il Patto di stabilità che i governi europei hanno siglato ad Amsterdam, e il cui scopo è quello di perpetuare le stesse politiche restrittive che hanno preparato la nascita della moneta europea. Nello stesso modo l’Unione monetaria non è sufficiente a garantire la realizzazione di un serio progetto di armonizzazione fiscale e quindi di tassazione dei capitali e di detassazione del lavoro. Perché la politica possa riprendere effettivamente il primato sui mercati finanziari, è necessario che nasca un potere europeo sostenuto dal consenso democratico dei cittadini, che si faccia carico dell’interesse dell’Unione nel suo insieme e che, grazie ad adeguate competenze fiscali e di bilancio, abbia la capacità di fare una vera politica economica europea e di ristabilire gli equilibri finanziari tra gli Stati membri ogniqualvolta essi siano turbati da divergenze nelle rispettive congiunture.
 
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    E’ soltanto in questo modo che l’Europa si potrà sottrarre ai vincoli che nell’ultimo decennio ne hanno rallentato lo sviluppo e conseguentemente hanno provocato la messa in questione dello Stato sociale. Si noti peraltro che tutto ciò non deve significare che un futuro governo federale europeo dovrà occuparsi direttamente della politica del welfare, se non in qualche suo aspetto marginale. Esso dovrà soltanto assicurare le condizioni politiche e finanziarie generali perché gli Stati membri la possano condurre in un clima di fiducia nell’interesse dei cittadini, e in particolare dei ceti più svantaggiati, senza per questo perdere di vista l’esigenza primaria di una gestione equilibrata dei propri bilanci. C’è di più. Il welfare sarà un importante banco di prova per il nuovo federalismo del quale l’Europa è destinata a costituire il primo esempio: un federalismo che si articolerà in molteplici livelli di governo, fino alla regione e alla comunità locale, e non soltanto nei due livelli tradizionali dell’Unione e degli Stati, e che consentirà di inquadrare in una prospettiva evolutiva, perfezionandone il disegno istituzionale, sia il federalismo che già esiste in Germania, in Belgio e in qualche modo in Spagna, sia le pulsioni federaliste che si manifestano in paesi come l’Italia e la Gran Bretagna: modelli e tendenze che, con la temporanea eccezione del collaudato federalismo tedesco, sono destinati, al di fuori di un solido contesto politico europeo, a degenerare nel secessionismo e, per quanto riguarda l’Italia, in forme primitive di tribalismo. La solidarietà è tanto più efficace e tanto meno prona a degenerare nell’assistenzialismo clientelare quanto più essa viene esercitata, nel rispetto di un’equa distribuzione territoriale delle risorse, a livelli di governo il più possibile vicini ai bisogni dei cittadini, e quindi il più capaci possibile di fare un inventario corretto dei bisogni concreti e di eliminare gli sprechi e gli abusi, dando ad ogni cittadino-contribuente la possibilità di partecipare direttamente al processo decisionale con il quale viene determinato l’impiego delle risorse che ciascuno mette a disposizione della comunità e di controllare la corretta applicazione delle decisioni prese. Ma, una volta di più, ciò richiede, per non dar luogo al caos istituzionale e a fenomeni di disintegrazione della compagine stessa dello Stato, l’esistenza di un potere centrale politicamente forte in quanto fondato sul consenso democratico dei cittadini.
 
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    Perché in realtà è dal grado di consenso che dipende l’ammontare delle risorse che si possono destinare a fini di solidarietà, cioè l’intensità dei sacrifici che si possono chiedere ai cittadini per alleviare i disagi dei più svantaggiati tra di essi. Se in Europa le condizioni del consenso saranno create, si deve ritenere che nel futuro del continente il livello della solidarietà sociale tenderà ad aumentare, e non certo a diminuire, anche se non mancherà di qualificarsi in funzione delle mutate esigenze di una società in rapida evoluzione.
    La qualità della vita è una funzione di molti fattori, ed essenzialmente del livello dei redditi privati e della qualità del lavoro, della quantità di tempo libero e del grado di tutela dell’ambiente, della qualità e fruibilità dei beni e dei servizi pubblici e del welfare. In ogni caso essa può progredire esclusivamente nella misura in cui aumentano le risorse rese disponibili dall’aumento della produttività del lavoro. Del resto la rivoluzione industriale, nelle sue varie fasi, anche se in modi diversi e seguendo percorsi non sempre rettilinei, ha trasformato la vita degli uomini rendendo possibili insieme l’aumento dei redditi reali, il miglioramento delle condizioni di lavoro e dell’ambiente, la riduzione dell’orario di lavoro e lo sviluppo dello Stato sociale. Oggi la rivoluzione informatica sta aprendo nuovi, ampi orizzonti all’aumento della produttività. L’Europa dispone delle risorse umane, delle strutture scolastiche, delle tradizioni culturali e delle infrastrutture materiali necessarie per assumere un ruolo di primissimo piano in questo processo. Essa lo potrà giocare se saprà unirsi. Spetterà alla politica e alle forze sociali stabilire la proporzione nella quale le maggiori risorse prodotte dal progresso tecnologico saranno ripartite tra i diversi impieghi possibili, e in particolare in quale misura esse saranno destinate all’arricchimento dei più intraprendenti e dei più fortunati e in quale al perseguimento di fini pubblici e di solidarietà sociale. In un quadro politico come quello della Federazione europea, liberato dalla tutela dei mercati finanziari alla quale i suoi Stati-membri sono attualmente condannati dalla loro divisione, esse lo potranno decidere in piena autonomia. Ed è difficile pensare che la classe politica europea rinunzierà ai valori e alle tradizioni cui si è finora ispirata per perseguire la realizzazione di un modello di società nel quale i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
 
Francesco Rossolillo

 

 

 

 

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