IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLI, 1999, Numero 2, Pagina 108

 

 

L’EUROPA, LA TURCHIA E I CURDI
 
 
Le vicende che hanno portato alla condanna a morte in primo grado di Abdullah Ocalan sollevano una serie di problemi assai delicati, che devono essere affrontati con cautela ed equilibrio. Bisogna mettere in chiaro in via preliminare che il risultato al quale deve tendere un’analisi della situazione esplosiva dei rapporti tra lo Stato turco e i curdi è quello di indicare una strada per la soluzione del problema, e non quello di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. La Turchia è una democrazia imperfetta, i cui precedenti in materia di diritti umani sono deplorevoli, che ha fatto ricorso ad una violenza indiscriminata nei confronti della ribellione curda e che anche nel caso Ocalan non è peritata di rendere pubblici attraverso la televisione i metodi odiosi usati dai propri servizi di sicurezza. Per contro alcune formazioni militanti curde si sono sempre avvalse di pratiche altrettanto barbare e violente quanto quelle di cui i curdi sono stati vittime. La ribellione chiama la repressione e questa alimenta quella. La violenza nutre la violenza. Il solo problema serio che ci si deve porre è quindi quello di come farla cessare senza ledere i diritti di alcuno.
In questa prospettiva la prima cosa da ribadire è che il tentativo di applicare nella circostanza il cosiddetto diritto di autodeterminazione dei popoli sarebbe un rimedio assai peggiore del male. Questo nefasto principio ha prodotto risultati talmente terribili nell’ex-Jugoslavia e nell’ex-Unione Sovietica che persino i governi europei — che pure se ne sono serviti fino a pochi anni fa in modo insieme cinico e irresponsabile nella speranza di trarre qualche piccolo vantaggio dalla disgregazione delle due aree — si astengono oggi dal proclamarlo. Del resto è opportuno ricordare che popolazioni curde sono insediate in regioni che fanno parte di quattro diversi Stati dello scacchiere vicino e medio-orientale e che l’incoraggiamento alla nascita di uno Stato curdo provocherebbe, in quella che è oggi una delle aree più instabili del mondo, una serie disastrosa di reazioni a catena. Si deve inoltre considerare che non esiste il minimo indizio che possa far pensare che un ipotetico Stato curdo sarebbe più democratico dell’attuale Turchia. Tutto induce anzi a credere che esso somiglierebbe assai più ad una delle tante dittature della regione, intollerante verso le proprie minoranze tanto quanto la Turchia lo è nei confronti delle sue, e dilaniato al proprio interno dalla violenta contrapposizione delle numerose fazioni nelle quali i nazionalisti curdi sono divisi.
Il problema è quindi quello di garantire ai curdi — all’interno dello Stato turco — gli stessi diritti degli altri cittadini, compreso quello di usare la propria lingua nella scuola e nei rapporti con la pubblica amministrazione. Ciò comporterebbe l’evoluzione dei comportamenti democratici delle autorità e dei cittadini turchi nel senso della piena accettazione della convivenza nell’ambito di uno stesso Stato di popolazioni diverse per lingua e per costumi. Il problema da risolvere non è quindi un problema di autodeterminazione, ma un problema di democrazia e di reciproca solidarietà tra le due comunità. Si tratterebbe di realizzare in Turchia un tipo di convivenza simile a quello che in questo dopoguerra, seppure dopo una fase di tensioni e malgrado qualche residua difficoltà, si è realizzata nel Tirolo del sud tra comunità di lingua tedesca e comunità di lingua italiana.
 
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E’ evidente peraltro che non si tratta di un problema di facile soluzione. Il fondamento della sua difficoltà risiede nel fatto che la Turchia è uno Stato nazionale, che fonda la sua legittimità sull’idea di essere l’espressione politica di una nazione, cioè di una comunità che si ritiene unita da profondi vincoli naturali e culturali quali la lingua, i costumi e le tradizioni. Lo Stato nazionale ha sempre cercato nella sua storia di cancellare — anche con la violenza — le diversità che esistevano al suo interno, o quanto meno di imporre la credenza che esse non esistessero. Nelle circostanze nelle quali né l’una né l’altra soluzione si è rivelata possibile, le popolazioni diverse sono state riconosciute come «minoranze» e il potere centrale si è impegnato — perché costretto dalla propria debolezza o dalla situazione internazionale — a tollerarne la diversità. Si noti peraltro che i rapporti tra «maggioranza» e «minoranze» all’interno degli Stati nazionali sono sempre stati, anche là dove la violenza è rimasta sporadica e marginale, fragili e precari. L’esistenza delle minoranze mette infatti in discussione la legittimità dello Stato in quanto Stato nazionale e, nella misura in cui è tollerata, tende spesso a degenerare nel separatismo e ad attizzare correnti irredentistiche negli Stati vicini. Per questo la vita delle «minoranze» in Europa è sempre stata difficile, anche se in diversa misura a seconda delle situazioni.
La sola soluzione pensabile del problema delle minoranze sta nella creazione di un quadro politico nell’ambito del quale esse cessino di essere minoranze. Si tratta cioè di fondare lo Stato su di un principio di legittimità che non sia la sua coincidenza con la nazione. Questo principio, se si vuole che si coniughi con la democrazia, e quindi non serva da giustificazione ad un dominio di tipo imperiale, non può essere che quello che fonda lo Stato federale.
Non è questo il luogo nel quale si può affrontare il non facile problema di quale sia la natura positiva di questo principio, quantomeno prima della fondazione della Federazione mondiale. Nel nostro contesto è sufficiente ricordarne la natura negativa, che è appunto il superamento del principio nazionale. Lo Stato federale è del tutto neutrale rispetto alle differenze di lingua, di cultura e di tradizioni che sono presenti nel suo ambito (sempre che queste differenze si accompagnino all’accettazione da parte di tutti dei fondamentali valori che sono alla base della convivenza civile). Nel quadro dello Stato federale quelle differenze sono politicamente irrilevanti. Non vi è più un gruppo che si ritiene omogeneo, la cui esistenza costituisce la base della legittimità dello Stato e che condanna tutti coloro che non si identificano con esso all’oppressione, all’assimilazione o, nella più favorevole delle ipotesi, al ruolo di minoranza tollerata. In questo modo l’idea di nazione, nel momento stesso in cui perde la sua funzione, si svela come una menzogna, fondata su grossolane semplificazioni, e il concetto stesso di minoranza perde ogni senso. Per lo Stato federale i cittadini sono insieme tutti diversi tra di loro nella loro irriducibile singolarità e tutti uguali nel godimento dei diritti e nell’assunzione dei doveri che la cittadinanza comune comporta.
E’ più che evidente che il superamento dello Stato nazionale non significherebbe la scomparsa delle differenze di lingua, di cultura e di tradizioni; così come è evidente che per un certo tempo i vecchi steccati e le passate segregazioni lascerebbero tracce nei comportamenti e porrebbero ostacoli alla comprensione reciproca e quindi avrebbero un’influenza sulla formazione degli schieramenti e sui contenuti del dibattito politico. Ma si tratterebbe di sedimenti destinati a scomparire, perché il plurilinguismo è una condizione naturale degli uomini e le differenze culturali — quando non investono i valori fondamentali della convivenza civile — sono un fattore di reciproco arricchimento e quindi di dialogo e di contatto. Si deve anzi ritenere che le differenze di lingua e di cultura saranno destinate, a termine, a perdere buona parte della loro rilevanza anche come fondamento della legittimità dei livelli di governo di dimensione inferiore a quella del governo globale nei quali si articoleranno gli Stati federali del futuro. In essi la solidarietà di fondo che fonderà il consenso sarà costituita dal comune impegno a risolvere i comuni problemi di organizzazione della convivenza così come essi si manifesteranno in forme diverse nelle diverse parti del territorio.
 
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Il problema della pacifica coabitazione con le «minoranze» è stato affrontato in modo ragionevolmente soddisfacente in Europa occidentale in questo dopoguerra, malgrado la persistenza della struttura dello Stato nazionale, grazie all’avanzamento e all’approfondimento del processo di unificazione europea. Si tratta di un processo che è stato e rimane ambiguo, ma che, diffondendo la consapevolezza — anche se oscura ed incerta — della comunità di destino che lega tra loro i popoli europei, ha indebolito le motivazioni nazionali dei comportamenti politici e la stessa funzione dell’idea di nazione come principio di legittimazione degli Stati attualmente esistenti. Anche l’accomodamento del più intrattabile tra i focolai di crisi provocati dalla coesistenza sulla stesso territorio di due comunità che si sentono diverse — quello nord-irlandese — non sarebbe stato pensabile al di fuori del contesto del processo di unificazione europea. L’esperienza, anche se appena consapevole, di entrambe le comunità di appartenere, in prospettiva, ad un’entità politica comune, più grande sia del Regno Unito che della Repubblica d’Irlanda e che le comprende entrambe, ha finito per superare il carattere assoluto della contrapposizione tra due identità che si ritenevano inconciliabili e per far emergere la prima embrionale consapevolezza di un’identità comune.
 
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I risultati raggiunti all’interno dell’Unione europea sul terreno dei rapporti con le minoranze sono comunque largamente insufficienti perché prima che il processo di unificazione europea sia giunto al suo esito federale il solo principio riconosciuto di legittimità dello Stato, per quanto indebolito, rimane pur sempre quello nazionale. Ma essi sono abbastanza visibili da farci capire di quale portata sarebbe l’influenza che un’Unione europea democratica e capace di agire — cioè federale — potrebbe esercitare per la soluzione del tragico problema che funesta la convivenza civile nella Turchia sud-orientale. L’Unione potrebbe far apparire agli occhi dei turchi e dei curdi la prospettiva di una grande comunità politica comune agli uni e agli altri, capace di imporre agli uni e agli altri i principi dello Stato di diritto e nell’ambito della quale tutti potrebbero coesistere pacificamente senza che né l’identità né la sicurezza di alcuno fosse messa in pericolo. E’ evidente che il cammino della Turchia verso una piena partecipazione all’Unione, o ad uno Stato federale europeo, sarebbe comunque difficile, perché il problema dei diritti umani esiste ed è grave. Ciò non toglie che i possibili atteggiamenti dell’Europa verso la Turchia siano due: essa può usare la prospettiva dell’adesione come strumento per migliorare progressivamente la situazione dei diritti umani oppure usare l’argomento dei diritti umani come pretesto per impedire l’adesione. Il primo atteggiamento rafforzerebbe, sia nel campo turco che in quello curdo, le tendenze moderniste, laiche e democratiche, il secondo quelle autoritarie, nazionaliste ed integraliste. Ma è evidente che il primo atteggiamento potrebbe esser adottato soltanto da un’Europa che si fosse messa definitivamente alle spalle il principio nazionale e che si sentisse sicura della propria forza e del consenso dei propri cittadini, cioè da un’Europa federale: mentre l’attuale debole confederazione è condannata, nei suoi rapporti con la Turchia (come peraltro in quelli con i paesi dell’Europa centro-orientale), ad un atteggiamento chiuso e difensivo, che nasconde la sua incapacità di assumere le responsabilità storiche che le competono.
 
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A tutto ciò si aggiunga il ruolo decisivo che un’Unione europea potrebbe giocare, con il suo aiuto, con la sua influenza e con l’esempio che il compimento della sua unificazione offrirebbe agli Stati della regione, nel teatro medio-orientale: un teatro che, proprio per la sua turbolenza e instabilità, oltre che la sua prossimità all’Europa, sarebbe più di ogni altro propizio alla maturazione al suo interno di un progetto federalista. Ma la visione dei politici europei non è all’altezza di queste grandi prospettive. Il loro impegno sembra esclusivamente concentrato sul problema contabile dei costi e dei benefici che l’appartenenza all’Unione comporta e sul tentativo di diminuire i primi e di accrescere i secondi a spese dei propri partners. Resta il fatto che l’incapacità dei governi dell’Unione di andare al di là della considerazione dei propri egoistici interessi a brevissimo termine è destinata, se non sarà superata, a provocare danni irreparabili. Lo Stato nazionale non è morto e le tensioni e la violenza che il suo principio di legittimità porta con sé sono pronte a ricomparire al primo segno di inversione del processo. L’Europa occidentale, la cui vocazione sarebbe quella di esportare il federalismo al di fuori dei suoi confini, potrebbe invece subire la tragica sorte di reimportare dall’esterno un nazionalismo (o, ancor peggio, un micronazionalismo) che riteneva di aver superato e di vedere nel suo seno tensioni che parevano sopite e nascerne di nuove.
 
Francesco Rossolillo

 

 

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