IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXVII, 1985, Numero 3, Pagina 173

 

 

L’EUROPA E IL COMECON.
VERSO UNA OSTPOLITIK EUROPEA?
 
 
I paesi del Comecon hanno chiesto nuovamente di aprire trattative ufficiali con la Comunità europea. Il riconoscimento reciproco è indispensabile al fine di migliorare i rapporti commerciali, produttivi e finanziari fra le due organizzazioni. Ma esso è anche importante per il ruolo nuovo che l’Europa potrebbe svolgere sulla scena politica internazionale. Nel corso di una conferenza stampa, tenuta a Parigi il 14 ottobre 1985, insieme al Presidente francese Mitterrand, il Segretario generale del PCUS Gorbaciov ha dichiarato: «Pensiamo che sarebbe utile allacciare rapporti più costruttivi tra il Consiglio di aiuto economico reciproco (Comecon) e la Comunità economica europea. In proposito, i paesi del Comecon hanno proposto una iniziativa costruttiva che sembra possa essere accolta con simpatia. È importante che si giunga a risultati concreti. Su questa base, come abbiamo già detto altre volte, nella misura in cui i paesi della CEE sapranno agire come entità politica, noi siamo pronti a cercare con loro un linguaggio comune anche su problemi internazionali concreti. Ciò potrebbe avvenire in forme diverse, tra le quali i rapporti parlamentari, specialmente con i rappresentanti del Parlamento europeo».
È necessario ormai che i governi europei e l’opinione pubblica registrino la netta inversione di tendenza, rispetto agli anni della guerra fredda, dell’atteggiamento sovietico e dei paesi europei del Comecon verso la Comunità europea. Ancora nel 1962 il Mercato comune veniva definito come «la base economica del blocco aggressivo della NATO in Europa e… un’arma della politica imperialistica di ‘guerra fredda’ e di aumento della tensione internazionale» («Le trentadue tesi sul Mercato comune», La Pravda, 26-8-1962). Ma già nel 1972 Breznev riconosceva «la situazione realmente esistente in Europa occidentale» e la necessità per i paesi del Comecon di instaurare rapporti di cooperazione con il Mercato comune. In seguito il segretario del Comecon venne incaricato di prendere contatti diretti con la Commissione della CEE e nel 1975 il Presidente della Commissione Ortoli ed il segretario Faddeev ebbero effettivamente un incontro ufficiale, per esaminare le possibilità di un riconoscimento delle due organizzazioni, che tuttavia terminò in un nulla di fatto. Il 26 settembre 1985, il segretario del Comecon Sytchov ha di nuovo reso noto alla Comunità europea la volontà dei paesi del Comecon di normalizzare i rapporti reciproci mediante l’approvazione di una «Dichiarazione politica» comune in cui si affermi che «il Comecon e la CEE stabiliscono tra di loro delle relazioni ufficiali in conformità alle competenze delle due organizzazioni».
La risposta che la Commissione europea, in accordo con il Consiglio dei Ministri, ha inviato al segretario Sytchov è estremamente prudente. Si accetta in linea di principio l’idea di stabilire relazioni ufficiali fra le due organizzazioni e di giungere, eventualmente, anche ad una dichiarazione congiunta. «Allo stesso tempo — ha dichiarato il Commissario europeo De Clercq — si propone a ciascuno dei paesi europei del Comecon una normalizzazione dei loro rapporti con la Comunità». Insomma, la Commissione sembra essere più interessata ad utilizzare il riconoscimento ufficiale del Comecon come un mezzo per allacciare o rafforzare i legami bilaterali tra CEE e singoli paesi del Comecon, piuttosto che avviare una serie di trattative globali con l’organizzazione dell’Est. Secondo alcuni osservatori, la CEE sarebbe disposta a discutere a livello globale solo qualche problema di protezione dell’ambiente e ad avviare lo scambio di informazioni statistiche. Le relazioni commerciali e tecnologiche dovrebbero restare invece confinate al livello bilaterale sia tra CEE e paesi dell’Est sia tra paesi europei della Comunità e del Comecon.
Al fondo di questo atteggiamento di estrema prudenza, e al limite di aperto ostruzionismo, da parte della Comunità vi è certamente una componente nazionalistica residua dei suoi paesi membri. La Germania occidentale vuole continuare ad avere rapporti privilegiati con la DDR e alimentare il sogno di una unificazione tedesca, che è, tuttavia, impensabile al di fuori del contesto dell’unificazione europea. La Francia civetta volentieri con l’URSS nel tentativo di continuare la politica gollista tous azimuts, l’Italia coltiva rapporti particolari con i paesi balcanici, ecc. Insomma, non esiste ancora una Ostpolitik europea, ma una somma di Ostpolitik nazionali. Tuttavia, queste ragioni grettamente conservatrici non emergono mai esplicitamente nel dibattito politico. Vi sono almeno due importanti obiezioni che vengono spesso avanzate per giustificare un atteggiamento di prudenza e di attesa nei confronti di un rapporto globale di cooperazione economica con il Comecon da parte della Comunità europea.
La prima obiezione concerne l’asimmetria politica esistente tra Comunità europea e Comecon. Mentre la prima è un’organizzazione potenzialmente sovrannazionale governata dai soli Europei, cioè senza la diretta partecipazione degli USA, il Comecon include, oltre ai paesi dell’Est europeo, anche l’URSS. Ne segue la tendenza a pensare che il Comecon deve essere considerato come uno strumento dell’egemonia sovietica sull’Europa orientale e che pertanto farebbero male gli Europei occidentali a considerarlo come un vero interlocutore: rafforzerebbero così il potere di Mosca sui suoi alleati.
In questa affermazione vi è certamente del vero. I rapporti tra Stati sono quello che sono e comportano responsabilità reali per le grandi potenze. Non si può affatto escludere che la sollecitudine con cui l’URSS tenta di promuovere il riconoscimento del Comecon da parte della Comunità sia motivato dalla praticissima ragione di tenere sotto controllo i rapporti dei suoi alleati europei con i loro interlocutori occidentali. Questo del resto è ovvio: nel mondo bipolare, non diversamente si comportano gli Stati Uniti nei confronti dei loro alleati europei occidentali quando discutono direttamente con l’URSS sulla sicurezza europea. Ma questo è solo un aspetto del problema. Si tratta, inoltre, di vedere se una maggiore cooperazione economica tra Europa dell’Est e dell’Ovest non consenta, nel lungo o nel lunghissimo periodo, ai paesi socialisti di diventare sempre più autonomi anche all’interno del Comecon. Non si può infatti basare la politica europea sulla illusione che sia possibile, senza prendere in esame l’eventualità sciagurata di un cataclisma internazionale, sostituire il Comecon con qualcosa d’altro. Esso è stato creato da Stalin nel 1949 come risposta del blocco socialista alle lusinghe del Piano Marshall, ma è stato praticamente inattivo sino a che il modello di sviluppo applicato ai paesi dell’Est ha ricalcato pedissequamente quello sovietico. L’autosufficienza nazionale era allora la parola d’ordine e non serviva alcun organismo per coordinare la divisione del lavoro all’interno dell’area socialista. Ma a partire dagli anni Sessanta la situazione è profondamente mutata ed ora il commercio intra-Comecon è anche più importante, per i singoli paesi socialisti, di quello intra-comunitario per i paesi della CEE. Anzi, questa è proprio una ragione della debolezza del Comecon: è un mercato eccessivamente chiuso agli scambi mondiali e le sue possibilità di crescita sono ormai legate ad un attivo inserimento nel mercato internazionale. Per questo è tanto importante il rapporto con la Comunità europea, la prima potenza commerciale mondiale. Ma è allora ragionevole sostenere che una decisione che metterebbe i paesi dell’Est europeo in condizioni di incentivare il proprio sviluppo economico e di accrescere il benessere dei loro popoli aumenterebbe la dipendenza dalla superpotenza sovietica? In verità, la mancata apertura verso l’Occidente provocherebbe proprio l’effetto che gli oppositori di rapporti più stretti tra le due sponde europee paventano. Per convincersene basta dare un’occhiata al ‘Programma complesso’ adottato dal Comecon nel 1971 per rafforzare le istituzioni comuni: da un lato si afferma che «il Consiglio di aiuto economico reciproco, che nella sua attività pratica dovrà prendere tutte le misure indispensabili per la realizzazione del presente ‘Programma complesso’, avrà una parte sempre maggiore», e dall’altro che «l’integrazione economica socialista non comporta la creazione di alcun organo sovrannazionale». La contraddizione è stridente, ma comprensibile. I paesi del Comecon non possono ormai fare a meno di una maggiore integrazione internazionale. E di fronte all’esigenza di affrontare un mercato internazionale sempre più turbolento, la tendenza a rafforzare il Comecon sarà certamente destinata a prevalere nei confronti di coloro che vorrebbero mantenere limitate le sue competenze. L’apertura alla Comunità europea può allora diventare un fattore decisivo della crescita economica e politica dello stesso Comecon. Se l’Europa occidentale sarà in grado di offrire ai paesi del Comecon adeguati strumenti monetari (l’ECU) e finanziari (un sistema di agevolazioni creditizie per il loro commercio estero) è verosimile che saranno questi i veicoli di un processo di internazionalizzazione delle economie socialiste che è ormai improcrastinabile e che potrà essere ostacolato solo dalla stoltezza dei governi occidentali europei.
La seconda obiezione, secondo alcuni critici di una maggiore apertura Est-Ovest, riguarderebbe la mancanza di democrazia formale nei paesi socialisti dell’Est. Un’aperta collaborazione economica con i paesi socialisti, si dice, rafforzerebbe e perpetuerebbe dei poteri non democratici. Si tratta di una obiezione che risente del clima della guerra fredda e che viene ancora riproposta quando peggiorano i rapporti fra le due superpotenze. In realtà, l’Europa intrattiene tranquillamente rapporti economici con numerosissimi paesi, in America latina, in Africa e in Asia, sulla democraticità effettiva dei quali si potrebbero sollevare molte obiezioni. Il problema sostanziale è un altro. I veri democratici dovrebbero prendere coscienza che il futuro della democrazia è mondiale e dipende ormai dall’affermazione di un effettivo processo di distensione e di superamento della politica dei blocchi militari contrapposti. Solo uno sciocco potrebbe sostenere che esiste una contrapposizione insanabile tra socialismo e democrazia, come se all’Est si fosse capaci di concepire solo il valore della giustizia sociale e all’Ovest solo quello dell’eguaglianza politica. Del resto è necessario ammettere che un processo di democratizzazione, che percorre vie e formule differenti da quelle ormai consuete in Occidente, è in corso anche nei paesi dell’Est. I popoli dell’Europa orientale sono perfettamente consapevoli della necessità di far avanzare i loro regimi socialisti verso forme di governo in cui siano garantite una maggiore libertà, comprese le libertà economiche, e la partecipazione popolare al controllo del potere. Ma occorre altresì riconoscere che questo processo di democratizzazione è continuamente frenato dalle tensioni politiche e militari fra le due superpotenze. In un mondo bipolare, democrazia e socialismo finiscono inevitabilmente per diventare strumenti del potere imperiale. La via d’uscita è una sola. I paesi europei, dell’Est e dell’Ovest, hanno compiti e responsabilità mondiali. Il terreno fondamentale del confronto o del disgelo fra le superpotenze è, e rimarrà, l’Europa. Ogni passo in avanti verso l’apertura delle frontiere e per l’instaurazione di rapporti più stretti di cooperazione fra le economie e i popoli rappresenta anche un passo in avanti verso la pacificazione del vecchio continente. Vale a questo proposito l’esempio franco-tedesco. Lo spirito di conquista e di sopraffazione di questi due Stati ha generato due guerre mondiali. Oggi convivono in amicizia nella Comunità europea. Perché passi analoghi non possono essere intrapresi fra i paesi al di qua e al di là della ormai decrepita ‘cortina di ferro’? Tutto ciò che oggi favorisce la distensione finirà nel lungo periodo col favorire anche la democrazia.
La Comunità europea non si deve sottrarre alle sue responsabilità. Il riconoscimento da parte di Gorbaciov della Comunità europea come un’entità politica e l’esplicita considerazione per il Parlamento europeo sono certamente il frutto della lotta per l’Unione europea. Questi fatti sono una ulteriore conferma della buona strada intrapresa e della necessità di continuare senza esitazione, nonostante la battuta d’arresto di Lussemburgo, a battersi per l’obiettivo prioritario dell’Unione. Le forze del progresso, compresa la ‘sinistra europea’, dovrebbero ormai comprendere che qualsiasi progetto di rinnovamento e di pace ha come sua architrave la unificazione politica dell’Europa. Ma, se è vero che solo una volta realizzata l’Unione sarà possibile impostare una coerente politica estera europea, qualche passo importante può essere fatto sin da ora. La Comunità europea ha mostrato — ad esempio, con gli Accordi di Lomé, nelle trattative commerciali all’interno del GATT, ecc. — di essere un interlocutore economico credibile ed importante a livello mondiale. Perché il Parlamento europeo non chiede alla Commissione di impegnarsi subito, e senza tergiversazioni, in una trattativa che sfoci in un accordo globale di cooperazione economica con il Comecon?
 
Guido Montani

 

 

 

 

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