IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIX, 1987, Numero 1, Pagina 52

 

 

DOVE VA IL MONDO?
 
 
Nella «Dichiarazione d’intenti» introduttiva al suo recente libro sulle conseguenze della Rivoluzione scientifica e tecnologica,[1] Adam Schaff si pone la domanda: «Dove va il mondo?». Una simile domanda indica la chiara consapevolezza che ci troviamo di fronte ad una serie di cambiamenti talmente radicali da mettere in gioco il futuro dell’umanità nel suo complesso. E non è un caso che un autorevole studioso di ispirazione marxista si ponga il problema di individuare nuove categorie di interpretazione della fase storica che stiamo vivendo, che superino, sia pure dialetticamente, le vecchie categorie legate alle ideologie tradizionali, ormai incapaci di offrire risposte adeguate al tipo e alla dimensione dei problemi da affrontare.
Il libro è diviso in due parti. La prima, dopo aver brevemente presentato i tre aspetti di quella che Schaff definisce «Rivoluzione tecnico-scientifica» (microelettronica, microbiologia e ingegneria genetica), ne prende in esame le conseguenze economiche, sociali, politiche e culturali e si conclude con un capitolo sui problemi del Terzo mondo. La seconda parte analizza la situazione e le prospettive dell’individuo nella società informatica.
Ognuna delle questioni trattate (dalla disoccupazione strutturale al rapporto città-campagna, dal nuovo modello di urbanizzazione al ruolo dell’informazione, ecc.) meriterebbe un ampio discorso. Ma di fronte alla varietà e complessità di tutte queste problematiche (per alcune delle quali, in realtà, lo stesso Schaff si limita a pochi cenni), si è scelto qui un filo conduttore che mette in relazione la progressiva scomparsa della classe operaia con la nuova condizione dell’uomo nella società informatica, nella quale, secondo l’autore, saranno messi in discussione sia il senso della vita e i valori in cui credere, sia la capacità di gestire il cambiamento, sia, infine, la dimensione dei problemi da affrontare.
La premessa da cui parte Schaff per articolare il suo discorso è che il modo di produzione emergente, in cui la scienza sta diventando una forza produttiva e in cui progressivamente il lavoro ripetitivo dell’uomo sarà sostituito dai robot, produrrà la scomparsa della classe operaia, con il conseguente sconvolgimento di tutto il quadro della realtà sociale di oggi. Questa nuova prospettiva, che pone l’individuo (sia pure inteso come «individuo sociale») al di sopra del proprio ruolo produttivo nella società, sta alla base della creazione di un nuovo senso della vita. Il senso della vita moderna — afferma Erich Weil[2] — consiste nella lotta con la natura: questo è il valore sulla base del quale la società moderna riflette e grazie al quale si orienta. Nella società moderna, l’individuo si trova dinanzi ad un meccanismo al quale è sottomesso e nel quale in pari tempo confida per guadagnarsi un posto nella società: chi non contribuisce al successo della lotta con la natura non può aspettarsi alcuna partecipazione ai benefici. Se vuol vivere e partecipare ai vantaggi del lavoro sociale, deve trasformarsi in oggetto utilizzabile in un lavoro. Dunque, fino ad ora, il senso della vita dell’uomo è sempre stato correlato ad una qualche attività come fonte dei mezzi necessari di sussistenza e come misura del suo status sociale. Ma «che cosa dovrà sostituire il senso della vita dell’uomo, quando questo scomparirà insieme all’attuale concezione di lavoro?», si chiede Schaff (p. 113).
L’abolizione del lavoro, di un certo tipo di lavoro, pone il problema del tempo libero, e può diventare la premessa di un malessere diffuso, pericoloso per la società, della quale ciascun individuo vuole e deve sentirsi partecipe per dare senso alla propria vita. Per l’individuo il tempo libero non può diventare tempo vuoto senza che esso diventi insensato. Oggi il tempo libero è considerato solo come un intervallo, uno stacco più o meno breve da un’attività lavorativa più o meno gratificante e, come scrive Schaff, «il problema è quello di insegnare alla gente come utilizzare il tempo libero con la ragione e con la fantasia» (p. 122), mediante attività sportive, turismo e hobbies di vario genere. Ma la piena affermazione della Rivoluzione scientifica e tecnologica e la conseguente abolizione del lavoro ripetitivo muteranno il concetto di tempo libero: la società informatica non sarà «una specie di paese di cuccagna dove la gente, liberata dal peso del lavoro, si spreme le meningi per escogitare un modo di passare il tempo. Questo significherebbe in concreto un inquinamento del tempo libero, che distruggerebbe l’individuo, privandolo del suo senso della vita» (p. 122). Il tempo libero dovrà dunque diventare una delle componenti essenziali dell’autorealizzazione dell’uomo (homo autocreator).
In questa prospettiva Schaff attribuisce un’importanza essenziale all’«istruzione continuata (o educazione permanente), che possa combinare… un’attività di studio vero e proprio con un’altra di insegnamento» (p. 114). Questo progetto avrebbe come risultato un nuovo tipo di uomo (homo studiosus o homo universalis), «in possesso di una istruzione poliedrica in grado di fargli cambiare occupazione a seconda delle circostanze e quindi anche la posizione all’interno dell’organizzazione sociale del lavoro» (p. 116).
Un altro risultato, altrettanto rilevante, dell’innalzamento del livello culturale degli individui sarebbe la «stabilizzazione della società democratica» (p. 115). A questo proposito Schaff fa riferimento all’idea di Platone secondo la quale tutti gli uomini ammessi alla vita politica dovrebbero essere maturi e sapienti, ossia effettivamente in grado di gestire gli affari pubblici. Questo principio, che all’epoca di Platone stava alla base di una concezione aristocratica, ha la possibilità di diventare operante nelle moderne democrazie, in cui sempre più si manifestano esigenze di partecipazione attiva alla gestione del potere da parte di tutti i cittadini.
Ma la garanzia teorica dell’uguaglianza politica (uguaglianza sociale e culturale) non coincide con l’effettivo esercizio di essa: all’interno di istituzioni politiche accentrate, le esigenze e le potenzialità di partecipazione attiva dei cittadini vengono necessariamente frustrate. E Schaff si rende conto del problema laddove prende in considerazione il rapporto fra rivoluzione informatica e funzionamento dello Stato: «I progressi dell’informatica agiranno in favore del decentramento delle funzioni pubbliche… Questo vale soprattutto per le amministrazioni locali ai vari livelli, rendendo possibile una relativa autonomia dal governo centrale» (p. 64). Ma la sua conclusione va in tutt’altra direzione rispetto alle premesse del discorso: «L’informatica apre nuovi orizzonti alla democrazia diretta, ovvero all’autogoverno dei cittadini nel vero senso dell’espressione, perché rende possibile la diffusione del referendum popolare su una scala mai sperimentata in precedenza, viste le difficoltà tecniche che si sono riscontrate quando si è voluto ricorrere a questa forma di consultazione popolare. In questo modo si potrà rivoluzionare la vita politica della società, nel senso di una maggiore democratizzazione» (p. 65).
Ora, se è pur vero che le nuove tecnologie applicate all’informazione e alla comunicazione avranno una notevole influenza sul rapporto fra i cittadini e la gestione della «cosa pubblica», sulle conclusioni di Schaff è necessario fare alcune riflessioni.
Innanzitutto, l’idea di una forma di democrazia diretta su vasta scala, attraverso l’istituto del referendum, non tiene conto del fatto che questa forma di partecipazione può essere efficacemente applicata, e non rischia di degenerare in strumentalizzazioni ideologiche o demagogiche, solo nell’ambito di comunità relativamente ristrette: solo in questo caso i cittadini si sentono effettivamente responsabili delle decisioni da prendere, sia perché conoscono direttamente i problemi che sono chiamati ad affrontare, sia perché ogni decisione ricade direttamente su ognuno di loro in quanto membro della comunità.
In secondo luogo, l’autogoverno in ambiti territoriali ristretti è possibile solo se «l’ambiente esterno si trova in un relativo stato di equilibrio, cioè se i problemi di dimensione più vasta vengono affrontati con efficacia da centri democratici di autogoverno aventi una competenza territoriale di uguale estensione»;[3] e oggi molti problemi stanno assumendo una dimensione mondiale.
Infine, se si vuole offrire all’uomo la possibilità di un governo veramente democratico e razionale della comunità in cui vive, è necessario mettere in discussione la cultura del nazionalismo. Schaff intuisce ciò, laddove indica come una delle conseguenze della rivoluzione scientifica e tecnologica «l’evoluzione verso una cultura sovrannazionale» (p. 73) come «affrancamento dalla custodia della cultura nazionale» (p. 67). Ma in realtà egli non è del tutto consapevole del fatto che la cultura del nazionalismo continuerà ad essere alimentata dal persistere della divisione del mondo in Stati nazionali sovrani. E non è inoltre consapevole del fatto che il lealismo incondizionato nei confronti della propria comunità nazionale esclusiva non può che alimentare le tendenze all’accentramento e alla burocratizzazione delle decisioni.
In definitiva, dunque, ciò che manca in questa analisi, che pure è stimolante e ricca di spunti per una riflessione oggettiva su vari problemi, è il tentativo di visualizzare il quadro politico che possa dare spazio alla realizzazione delle potenzialità che emergono dal nuovo modo di produzione.
Lo stesso limite sta alla base dell’analisi del problema del Terzo mondo e sta anche alla base dell’atteggiamento estremamente pessimistico con cui Schaff prende in esame le prospettive di soluzione. Egli prende in considerazione separatamente due possibili alternative. L’una consiste nella riduzione sostanziale degli armamenti in tutto il mondo, al fine di reperire i fondi per l’acquisto di merci necessarie alla creazione di nuove infrastrutture nei paesi sottosviluppati, merci di cui avranno enormi disponibilità i paesi la cui produzione è automatizzata. «Ma — aggiunge — solo gli sprovveduti credono che i prossimi venti o trent’anni vedranno una riduzione degli armamenti… La corsa agli armamenti aumenterà la sua velocità con l’arricchimento delle nazioni. Nessuna retorica dei nobili ma praticamente impotenti umanisti, pacifisti, ecc. potrà mai invertire questa tendenza. lo li ammiro, ma non credo siano realisti» (p. 86). L’altra alternativa (che però non può obiettivamente essere disgiunta dalla prima) consiste nella partecipazione alla soluzione del problema di tutte le nazioni più ricche, che dovrebbero mettere a disposizione i fondi necessari per l’impresa. Riguardo a ciò Schaff afferma che sarebbe necessario un vero e proprio piano mondiale di sviluppo, e che esso implicherebbe il trasferimento di «alcuni poteri a speciali organismi internazionali» (p. 87), ma conclude affermando che «sorgerebbero dei conflitti tra iniziative sovrannazionali e la sovranità nazionale» (p. 88); dunque si tratta di una soluzione irrealistica e purtroppo, scrive, «dopo aver lanciato appelli di tutti i tipi, poco si può fare» (p. 89).
Uno scetticismo così totale e irrimediabile è la logica conclusione di un’analisi che parte da premesse generali sbagliate. Non si può, infatti, identificare e tentare di realizzare degli obiettivi politici a livello mondiale (la pace, l’attivazione di organismi sovrannazionali) partendo dal presupposto della impossibilità di modificare l’assetto del potere. La divisione del mondo in Stati nazionali sovrani, la cui politica interna ed estera sono regolate dalla ragion di Stato, così come non permette l’affermazione di una vera democrazia partecipativa all’interno degli Stati stessi, è anche l’ostacolo che impedisce di pensare e di realizzare la pace e una più equa distribuzione delle risorse mondiali.
Il pessimismo di Schaff esprime certamente una coscienza più avanzata rispetto al superficiale ottimismo che troppo spesso accompagna gli accordi internazionali di qualsiasi genere, la cui applicazione non è garantita da alcun potere politico effettivo al di sopra delle nazioni. Ma è una coscienza negativa, paralizzante, che contraddice le sue stesse conclusioni: “Il futuro non è un fato determinato dai progressi della tecnologia, ma è opera dell’uomo” (p. 142).
Insieme alla consapevolezza delle potenzialità che emergono dal nuovo modo di produzione, è perciò indispensabile la ricerca di alternative politiche — le quali dovranno necessariamente essere di natura federale e di dimensione mondiale — che creino un quadro istituzionale all’interno del quale sia possibile fare scelte consapevoli e responsabili.
 
Nicoletta Mosconi


[1] Adam Schaff, Wohin fuhrt der Weg? Die gesellschaftlichen Folgen der zweiten industriellen Revolution, Vienna, Club di Roma - Europa Verlag GesmbH, 1985 (Trad. it. Il prossimo Duemila, Roma, Editori Riuniti, 1985).
[2] Erich Weil, Philosophie politique, Paris, J. Vrin, 1966 (Trad. it. Filosofia politica, Napoli, Guida, 1973, p. 82 e p. 94).
[3] Francesco Rossolillo, «Il federalismo nella società postindustriale», in Il Federalista, XXVI (1984), p. 133.

 

 

 

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