IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVII, 2005, Numero 3, Pagina 192

 

 

LA CONFERENZA DI MESSINA
E LO SVILUPPO DELL’UNIFICAZIONE EUROPEA
 
 
L’1-2 giugno 1955 si svolse a Messina (e Taormina) la conferenza dei Ministri degli Esteri della Comunità europea del carbone e acciaio (CECA) — convocata dal Ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino — con la quale cominciò la procedura che sboccò nella firma, a Roma il 25 marzo 1957, dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per l’energia atomica (Euratom).[1] Il cinquantesimo anniversario di quell’evento offre l’occasione per svolgere alcune considerazioni sulla sua importanza centrale nel quadro della storia dell’integrazione europea. A questo riguardo devono essere sottolineate a mio avviso due scelte fondamentali compiute a Messina: l’una relativa al settore in cui portare avanti l’integrazione europea con il sistema comunitario, l’altra riguardante il metodo attraverso cui elaborare i nuovi Trattati.
 
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Per quanto riguarda la prima scelta, occorre cominciare con il ricordare le ragioni profonde per cui, dopo la drammatica caduta (di fronte all’Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954) della Comunità europea di difesa (CED) e della connessa Comunità politica europea (CEP), e pur essendo venuti meno i fattori favorevoli all’integrazione europea rappresentati dalla fase acuta della guerra fredda e dalla pressione americana, non venne meno nei Sei l’impulso a proseguire la costruzione europea. Il fattore basilare era costituito dalla crisi storica degli Stati nazionali europei, cioè dalla contraddizione fra l’interdipendenza economica (e non solo) crescente, indotta dall’avanzata rivoluzione industriale e le dimensioni chiuse ed asfittiche degli Stati nazionali. Dapprima si era risposto a questa sfida con l’espansionismo imperialista culminato nelle guerre mondiali, cioè con il tentativo di unire l’Europa con la «spada di satana»[2] nel quadro di un impero totalitario. Il crollo della potenza degli Stati nazionali aveva poi trasformato in un fattore politico operativo e permanente l’alternativa «unirsi o perire»[3] e alimentato la spinta da parte dei governi e delle forze democratiche all’unificazione pacifica dell’Europa. L’impasse del 1954 non poteva dunque bloccare una simile spinta, che era molto forte nel quadro dei Sei, caratterizzati da una interdipendenza particolarmente profonda e da una particolare acutezza del fenomeno generale della crisi degli Stati nazionali.
A ciò si aggiungeva l’esigenza permanente di inquadrare la dinamica tedesca — dopo il 1954 potenziata dal riarmo nazionale sia pure nel quadro della NATO — in una sempre più approfondita integrazione sopranazionale. Proprio quest’esigenza — derivante dalla decisione americana di ricostruire la Germania — aveva reso possibile la nascita del sistema comunitario inventato da Jean Monnet, e imperniato sull’inserimento di embrioni federali in una struttura di cooperazione internazionale.[4]
Se erano forti le ragioni che alimentavano la spinta a proseguire la costruzione comunitaria — e fra queste si deve anche aggiungere il successo della CECA —, era d’altro canto fuori discussione da parte dei governi che si dovesse farla proseguire solo sul terreno economico. Questo, a differenza di quello politico-militare, non avrebbe infatti posto fin dall’inizio il problema del trasferimento di sovranità a un sistema compiutamente federale, su cui si era incagliato il progetto CED-CEP. La questione in discussione era dunque se si dovesse puntare su un’integrazione economica verticale, cioè in un settore ristretto sul modello della CECA, o invece orizzontale, cioè riguardante l’economia nel suo complesso. La prima indicazione proveniva da Monnet, il quale giudicava troppo ambizioso il disegno di una integrazione economica complessiva e presentò il progetto dell’Euratom, che riteneva più accettabile da parte del governo francese anche perché esso aspirava all’armamento atomico nazionale. L’idea del mercato comune aveva invece come principali sostenitori Willelm Beyen, Paul-Henri Spaak e Joseph Bech (Ministri degli Esteri rispettivamente dell’Olanda, del Belgio e del Lussemburgo), il cui memorandum fu accolto positivamente dai governi tedesco e italiano. Ebbene, a Messina, pur non lasciando cadere la proposta di Monnet, prevalse la decisione di puntare essenzialmente sull’integrazione economica orizzontale. Questa scelta si è rivelata di fondamentale importanza storica, perché, mentre l’Euratom non ha prodotto significativi sviluppi,[5] la CEE è invece diventata la struttura portante dell’avanzamento dell’integrazione europea, nel cui quadro sono stati raggiunti risultati quali la politica agricola comune, il mercato unico e l’unione monetaria (che hanno avuto come riscontro un continuo allargamento dell’integrazione europea) e si è giunti infine a porre concretamente il problema della Costituzione europea, cioè dell’unione politica. Per capire questi sviluppi, occorre inquadrare la potente forza dinamica contenuta nel disegno di realizzare un mercato comune europeo sulla base del sistema comunitario.
Va anzitutto sottolineato che lo sviluppo dell’integrazione economica, pur in assenza di un parallelo sviluppo dell’integrazione politica, è stato possibile perché l’egemonia americana nel quadro del sistema bipolare ha assicurato una fortissima convergenza delle politiche estere e di sicurezza degli Stati membri della CEE e indebolito quindi decisamente le spinte protezionistiche derivanti dai conflitti di potenza fra questi Stati.[6] Ciò precisato, il punto centrale è che un mercato comune non è una semplice unione doganale, ma comprende le quattro libertà (il libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi), cioè la realizzazione fra i paesi della CEE di una situazione analoga a quella dei loro mercati interni. Un simile disegno implicava un ordinamento giuridico sopranazionale ampio, approfondito ed efficace per potere essere attuato. Da qui il ruolo decisivo della Corte di giustizia che ha imposto i principi dell’efficacia immediata del diritto comunitario e della sua prevalenza. automatica rispetto al diritto nazionale. Da qui un’evoluzione che ha condotto all’affermarsi della stessa Carta dei diritti fondamentali, resa indispensabile onde evitare che nel quadro dell’ordinamento comunitario venissero meno le garanzie stabilite dalle costituzioni nazionali che a tale ordinamento si sono venute a subordinare.
D’altra parte, la costruzione del mercato comune imponeva che l’integrazione economica negativa (l’eliminazione degli ostacoli alle quattro libertà) fosse accompagnata dallo sviluppo dell’integrazione economica positiva (cioè di politiche pubbliche europee necessarie per affrontare gli squilibri regionali, sociali e settoriali che gli automatismi di mercato non sono in grado di correggere). Pertanto lo sviluppo dell’integrazione europea (coinvolgente settori di grandissima importanza della vita statale) e quindi del diritto comunitario ha posto con forza i problemi del deficit di efficienza (legato al prevalere delle decisioni unanimi) del sistema istituzionale comunitario e del deficit democratico (la mancanza di legittimazione democratica di decisioni sempre più importanti assunte a livello sopranazionale). Donde il progressivo allargamento della sfera delle decisioni a maggioranza da parte del Consiglio dei Ministri e la spinta alla legittimazione democratica tramite l’elezione diretta del Parlamento europeo (PE) e il rafforzamento dei suoi poteri. L’avanzamento verso il mercato comune (poi definito unico) ha inoltre imposto l’unificazione monetaria (perché altrimenti non avrebbe potuto mantenersi), e l’esigenza di affrontare in comune i problemi della sicurezza interna e quelli della politica estera e della sicurezza esterna. In tal modo l’integrazione europea è giunta a una situazione in cui o si procede verso una piena unificazione federale, o si compromettono i risultati integrativi raggiunti. Non si può infatti restare in permanenza in mezzo al guado. In questo contesto si è posto concretamente il problema della Costituzione europea, che avanza tra enormi difficoltà, ma che è comunque sul campo.
La dinamica scatenata dal progetto del mercato comune — va osservato — non ha comportato uno sviluppo automatico dell’integrazione europea. I passi avanti fondamentali che questa ha conosciuto hanno visto in effetti l’intervento decisivo di esponenti coraggiosi e lungimiranti della classe politica e dell’eurocrazia, di grandi crisi internazionali (si pensi, come esempio molto significativo, al rapporto fra fine del sistema bipolare, riunificazione tedesca e unificazione monetaria), e non ultimo dei Movimenti per la Federazione europea. Gli esempi fondamentali da ricordare a questo riguardo sono l’elezione diretta del PE e il progetto di Trattato-Spinelli approvato dal PE nel 1984. Nel primo caso è vero che i trattati prevedevano l’elezione diretta e che l’avanzamento dell’integrazione poneva con forza l’esigenza di una legittimazione democratica. Ma è altrettanto vero che l’azione continuativa e sistematica dei federalisti (che sono giunti a presentare, nel 1969, un progetto di legge di iniziativa popolare per l’elezione diretta dei rappresentanti italiani nel PE) è stata determinante per giungere effettivamente all’elezione europea.[7] Quanto al Trattato-Spinelli, esso fu il frutto dell’iniziativa dei federalisti e, anche se i governi non lo accettarono, ha fornito un impulso decisivo alle riforme istituzionali successivamente realizzate.[8] Ciò precisato, va d’altro canto sottolineato che il ruolo di questi fattori è stato possibile ed efficace proprio perché la dinamica scatenata dal progetto del mercato comune ha fatto nascere contraddizioni profonde e, quindi, condizioni favorevoli all’operare dei fattori suddetti.
Se è chiara, sulla base delle precedenti osservazioni, l’importanza storica della scelta a favore dell’integrazione economica orizzontale compiuta a Messina, è utile ora cercare di capire perché si è affermata questa scelta. Al di là del fattore d’ordine generale costituito dalla sopraricordata crisi storica degli Stati nazionali, che ha spinto alla creazione di una economia di dimensioni continentali,[9] c’è un fattore specifico che deve essere qui fortemente sottolineato. Si tratta del nesso fra il fallimento della CED e il rilancio di Messina.
Occorre qui ricordare che la CED, posta all’ordine del giorno dal problema del riarmo tedesco e concepita inizialmente come un progetto di integrazione settoriale sul modello della CECA, si era trasformata, grazie al decisivo intervento di De Gasperi e del Movimento federalista europeo (MFE) guidato da Altiero Spinelli, in un ben più ampio progetto di unificazione europea complessiva su basi federali.[10] I federalisti e il capo del governo italiano sollevarono in effetti con forza l’esigenza dell’unione politica facendo leva sull’inconcepibilità della creazione di un esercito europeo non accompagnata dalla costruzione di una democrazia europea, di un’economia europea comune e solidale, di una patria europea, cioè in definitiva di uno Stato federale. Da qui l’attribuzione — sulla base dell’art. 38 della CED — all’Assemblea parlamentare della CECA (ampliata di nove membri e definita per questa circostanza Assemblea ad hoc) del compito di elaborare un progetto di statuto della CEP. Il testo approvato dall’Assemblea ad hoc era un progetto di unione federale avente tra i suoi obiettivi fondamentali — e su questo punto era stata decisiva la richiesta di Beyen — l’unificazione economica europea, il che aveva suscitato grandi aspettative negli ambienti economici più avanzati. Di conseguenza, quando la CED (e il connesso progetto di CEP) cadde c’era il problema di venire incontro a queste aspettative frustrate e ciò favorì la decisione di Messina di scegliere l’aspetto economico della CEP come colonna portante del rilancio dell’integrazione.[11]
 
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Veniamo ora alla seconda scelta di importanza storica compiuta a Messina, quella cioè relativa al metodo con cui elaborare il quadro giuridico-istituzionale del rilancio dell’integrazione. Il punto fondamentale da sottolineare al riguardo è che, invece di affidare immediatamente l’elaborazione dei nuovi Trattati ad una classica conferenza intergovernativa, fu conferito un compito preparatorio al Comitato Spaak.[12] Si trattava di un gruppo di esperti, nominati dai governi e dalle istituzioni europee, ma guidati da un «coordinatore politico», avente il mandato di studiare la fattibilità dei due progetti presentati, cioè «la creazione di un’organizzazione comune per lo sviluppo pacifico dell’energia atomica e… l’istituzione di un mercato comune, da realizzare per tappe, mediante la riduzione progressiva delle limitazioni quantitative e l’unificazione dei regimi doganali». La forte guida politica sotto la cui direzione furono posti i lavori del Comitato, che da lui avrebbe preso il nome, venne affidata a una personalità come Spaak, il quale fra il 1950 e il 1954 era stato presidente del Movimento europeo ed aveva quindi guidato, assieme a Spinelli, la battaglia per la CEP, svolgendo, tra l’altro, il ruolo cruciale di presidente dell’Assemblea ad hoc.
Il lavoro preparatorio svolto dal Comitato Spaak si concluse con un Rapporto — presentato al Consiglio dei Ministri che si riunì a Venezia il 29 e 30 maggio 1956 — di contenuto molto avanzato e molto approfondito a cui contribuì in modo sostanziale il suo presidente con un metodo di lavoro che ricorda molto da vicino quello seguito dal Comité d’études pour la Constitution européenne, cioè quello che, sotto la guida dello stesso Spaak e di Spinelli, aveva preparato i lavori dell’Assemblea ad hoc.[13] In effetti la discussione nell’ambito del Comitato Spaak verteva su documenti di lavoro per lo più preconfezionati dai fedeli collaboratori del presidente, in primo luogo Pierre Uri e Hans von der Groeben, e si concludeva con risoluzioni mirate a costituire la base per i capitoli e i paragrafi dei futuri trattati. Il rapporto finale del Comitato Spaak ebbe un’influenza decisiva sui lavori della Conferenza intergovernativa che approvò i testi dei Trattati di Roma sia per il livello estremamente approfondito della sua elaborazione, sia perché esso fu fatto conoscere all’opinione pubblica, ottenendo ampi consensi e suscitando grandi aspettative che hanno condizionato fortemente le trattative intergovernative, limitando quindi le resistenze nazionalistiche che in esse si manifestano strutturalmente.
Per cogliere adeguatamente l’influenza del rapporto Spaak sul contenuto dei Trattati di Roma, credo sia utile un riferimento ai due opposti modelli di procedura per la elaborazione del quadro giuridico-istituzionale con cui portare avanti l’integrazione europea che sono stati proposti fin dai primordi dell’avventura europea. Da una parte c’è il modello della conferenza intergovernativa, a cui partecipano solo i rappresentanti dei governi e in particolare i diplomatici, che delibera all’unanimità e in segreto e le cui proposte devono essere ratificate all’unanimità. D’all’altra parte c’è il modello dell’Assemblea costituente europea proposto dal MFE e che si ispira all’esempio della Convenzione di Filadelfia, la quale elaborò nel 1787 la Costituzione degli Stati Uniti d’America, cioè del primo Stato federale della storia. In questo caso l’Assemblea che elabora il progetto giuridico-istituzionale con cui realizzare concretamente l’unificazione europea ha carattere parlamentare, delibera a maggioranza e in modo trasparente, e infine le sue proposte entrano in vigore fra gli Stati ratificanti anche se non si raggiunge l’unanimità.
Secondo il MFE solo con una simile procedura sarebbe stato possibile ottenere una costituzione federale, che avrebbe comportato un definitivo trasferimento di sovranità e quindi le basi per un’unità europea democratica, efficiente e irreversibile. Con il metodo intergovernativo, in cui hanno un ruolo dominante i governi nazionali (che sono spinti dalla crisi degli Stati nazionali a una politica di integrazione europea ma tendono strutturalmente alla conservazione del proprio potere) e in cui la regola dell’unanimità impone il minimo comun denominatore, prevalgono infatti inevitabilmente le scelte di tipo confederale, nelle quali i poteri decisionali fondamentali restano in mano ai governi. Mentre per contro con il metodo costituente democratico hanno un ruolo dominante i rappresentanti dell’opinione pubblica, portata nel contesto storico della crisi strutturale degli Stati nazionali a favorire l’unità sopranazionale, e viene meno l’effetto paralizzante della regola unanimistica.[14]
Sulla base di questa convinzione il filo conduttore costante dell’azione del MFE è stato l’impegno a imporre l’alternativa costituente democratica alla procedura intergovernativa facendo leva sulle contraddizioni e sulle crisi derivanti dai deficit di efficienza e di democrazia strutturalmente inerenti all’integrazione fondata su istituzioni prevalentemente confederali. In questo contesto rientra l’esperienza del Congresso del popolo europeo che fu attuata proprio nell’epoca che va dal rilancio di Messina fino ai primi anni di vita della CEE. Si trattò di una campagna di mobilitazione popolare (furono raccolti fra il 1957 e il 1962 circa 650.000 voti di cittadini europei per un Congresso sopranazionale) a favore di una Assemblea costituente direttamente eletta[15] e a suo fondamento c’era la critica, oltre che ai deficit di democrazia e di efficienza del sistema comunitario, alla fiducia, espressa dai padri fondatori della CEE, in uno sviluppo pressoché automatico dell’integrazione comunitaria. In effetti, questa critica fu caratterizzata da un certo schematismo e non seppe cogliere prontamente in modo adeguato la grande forza dinamica contenuta nel progetto del mercato comune. D’altra parte la campagna popolare per la Costituente europea ebbe il grande merito di mantenere viva questa rivendicazione, che avrebbe successivamente svolto un ruolo decisivo nel raggiungimento dell’elezione diretta del PE e nell’impegno di questo a favore della democratizzazione e del rafforzamento del sistema comunitario.[16]
Alla luce di questo confronto fra il modello costituente democratico e il modello intergovernativo, mi sembra che appaia chiaro che i passi avanti decisivi del processo di unificazione europea sono stati attuati precisamente quando qualche aspetto del primo modello (del modello Filadelfia) ha modificato la pura procedura intergovernativa e quindi limitato il ruolo dominante delle diplomazie nazionali. Questo è evidente nel caso della Conferenza di Messina, in seguito alla quale la Conferenza intergovernativa che ha definito i Trattati di Roma è stata condizionata in modo decisivo dal lavoro preparatorio svolto dal Comitato Spaak. Ma anche nel caso della procedura che ha prodotto la CECA è significativo il fatto che Schuman, per aggirare le prevedibili resistenze della diplomazia francese, l’ha coinvolta solo dopo che il suo piano (elaborato da Monnet che aveva ottenuto l’accordo preventivo di Adenauer) era stato presentato in modo solenne all’opinione pubblica, ottenendo un consenso che legò le mani al Quay d’Orsay. D’altra parte il progetto della CEP, che come si è visto ha fortemente influenzato le scelte di Messina, è stato elaborato da un’assemblea parlamentare, anche se l’ultima parola era riservata ai governi.
Dopo i Trattati di Roma pezzi del modello Filadelfia sono passati con l’elezione diretta del PE, che, come si è visto, approvando il progetto di Trattato-Spinelli ha fortemente favorito le successive riforme istituzionali, e con alcune cruciali decisioni a maggioranza.[17] In particolare vanno ricordate: la decisione del Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975 di procedere all’elezione diretta del PE nonostante le riserve di Gran Bretagna e Danimarca; le convocazioni a maggioranza delle Conferenze intergovernative che hanno elaborato l’Atto Unico europeo e il Trattato di Maastricht; la decisione a maggioranza da parte del Consiglio europeo di Roma dell’ottobre 1990 di recepire il rapporto del Comitato Delors sull’Unione economica e monetaria (si trattò di un organo analogo al Comitato Spaak) come base della CIG che ha portato al Trattato di Maastricht. Infine, la Convenzione europea ha avuto una composizione prevalentemente parlamentare, un metodo di lavoro trasparente e implicante una consultazione sistematica della società civile, ed è stato perciò impossibile per la CIG finale respingere le proposte più avanzate da essa presentate.
Chiaramente, a parte l’incertezza sull’esito finale del processo di ratifica della Costituzione europea, nel quadro del quale è aperto il confronto di importanza cruciale fra chi persegue il principio della ratifica a maggioranza e chi rifiuta il superamento dell’unanimità, non si è ancora affermata una procedura costituente pienamente democratica. Il problema è però diventato ineludibile, perché se non si perviene in tempi ragionevoli a una piena federalizzazione dell’Unione europea e, quindi alla procedura indispensabile per realizzarla, che comprende come aspetto irrinunciabile l’opzione della federazione con chi ci sta, l’integrazione europea è destinata a una fatale regressione.
 
Sergio Pistone


[1] Una valida ricostruzione di questa fase del processo di integrazione europea è contenuta in Enrico Serra (a cura di), La relance européenne et les Traités de Rome. Actes du colloque de Rome 25-28 mars 1987, Bruxelles, Bruylant, 1989.
[2] Con questa immagine Luigi Einaudi ha interpretato le guerre mondiali come la risposta imperialistica alla crisi degli Stati nazionali a cui si doveva contrapporre la risposta federalista, cioè l’unione con «la spada di Dio». Cfr. L. Einaudi, La guerra e l’unità europea, con Introduzione di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 43 e segg. Sulla stessa linea, L. Dehio, Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, con Presentazione di S. Pistone, Bologna, Il Mulino, 1988. In generale sul concetto di crisi dello Stato nazionale come fattore storico fondamentale alla base del processo di integrazione europea si vedano: A. Spinelli, La crisi degli Stati nazionali, a cura di L. Levi, Bologna, Il Mulino, 1991; M. Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993.
[3] Questa frase è contenuta nella proposta di unificazione europea presentata da Aristide Briand all’Assemblea generale della Società delle Nazioni nel 1929. Cfr.: S. Pistone (a cura di), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra mondiale, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1975; S. Minardi, Origini e vicende del progetto di unione europea di Briand, Caltanissetta, Salvatore Sciascia Editore, 1994; Fondation Archives Européennes, Le Plan Briand d’union fédérale européenne. Documents, a cura di O. Keller e L. Jilek e con Introduzione di A. Fleury, Ginevra, Fondation Archives Européennes, 1991.
[4] Sul nesso fra questione tedesca e integrazione comunitaria si veda S. Pistone, La Germania e l’unità europea, Napoli, Guida, 1978.
[5] Ciò non toglie che Monnet abbia avuto il grandissimo merito storico di avere ideato il sistema comunitario, il quale, introducendo degli embrioni federali in un quadro istituzionale pur caratterizzato da un ruolo decisivo dei governi nazionali, ha permesso progressi integrativi impossibili con un meccanismo puramente intergovernativo. Cfr. Mario Albertini, «La grandezza di Jean Monnet», in Il Federalista, XIX (1977), n. 1.
[6] La più convincente spiegazione del progresso dell’integrazione economica europea, nonostante il rinvio sine die della creazione di una autorità politica europea pienamente democratica e federale, è dovuta a Mario Albertini. Secondo la sua analisi tale progresso fu reso possibile dal fatto che, in mancanza di un potere democratico europeo, era intervenuto come fattore integrativo determinante un potere politico di fatto fondato sull’«eclissi di fatto» delle sovranità nazionali e sull’«unità di fatto delle ragioni di Stato». Con ciò si intendeva in sostanza la debolezza endemica degli Stati nazionali europei, che li costringeva a cooperare per sopravvivere, e la forte convergenza delle loro politiche estere, difensive ed economiche assicurata dall’egemonia americana. E si precisava d’altra parte che questa base politica dell’integrazione economica europea era strutturalmente precaria anche perché il rafforzamento relativo degli Stati nazionali prodotto dalla loro integrazione economica era destinato alla lunga a minare le basi della convergenza delle loro ragioni di Stato se questa non avesse trovato una stabilizzazione tramite forti istituzioni sopranazionali. Cfr.: M. Albertini, «La ‘force de dissuasion’ francese», in Il Federalista, II (1960), n. 6; ID., «La Comunità europea, evoluzione federale o involuzione diplomatica», in Il Federalista, XXI (1979), n. 3-4.
[7] Cfr. L.V. Majocchi e F. Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di una elezione, Napoli, Guida, 1979.
[8] Cfr. R.A Cangelosi, Dal progetto di Trattato Spinelli all’Atto Unico europeo, Milano, F. Angeli, 1987; J. Delors, L’unité d’un homme, Parigi, Editions Odile Jacob, 1994; A. Landuyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986, Bologna, Il Mulino, 2000; L. Angelino, Le forme dell’Europa, Spinelli o della federazione, Genova, Il Melangolo, 2003.
[9] Va qui sottolineato che una delle ragioni fondamentali per cui la Francia (che era la più protezionista fra i Sei) accettò la CEE fu il fallimento dell’avventura di Suez alla fine del 1956. Esso rafforzò il peso di quanti sostenevano che lo spazio vitale per lo sviluppo francese era da vedersi nella partecipazione francese a un’economia europea e non più certamente in un impero coloniale in via di smantellamento.
[10] Sulla vicenda della CED e della CEP e sul ruolo svoltavi da De Gasperi, Spinelli e I.M. Lombardo cfr.: G. Petrilli, La politica estera ed europea di De Gasperi, Roma, Cinque Lune, 1975; M. Albertini, «La fondazione dello Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo di De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali», in Il Federalista, XIX (1977), n. 1; S. Pistone, L’Italia e l’unità europea, Torino, Loescher, 1982.; D. Preda, Storia di una speranza. La battaglia per la CED e la Federazione europea, Milano, Jaca Book, 1990; ID., Sulla soglia dell’Unione. La vicenda della Comunità politica europea (1952-1954), Milano, Jaca Book, 1994; ID., Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004.
[11] Anche il fatto che l’art. 138 della CEE affidi al PE il compito di presentare proposte per la sua elezione diretta costituisce il ricupero di una parte dell’art. 38 della CED che conferiva all’Assemblea parlamentare europea un compito analogo, oltre a quello di proporre un progetto di CEP.
[12] Si veda L. V. Majocchi (a cura di), Messina quarant’anni dopo. L’attualità del metodo in vista della Conferenza intergovernativa del 1996, Bari, Cacucci, 1996.
[13] Cfr. D. Preda, Per una costituzione federale dell’Europa. Lavori preparatori del Comitato di Studi presieduto da P.H. Spaak 1952-1953, Padova, CEDAM, 1996.
[14] Vedi A. Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, a cura di S. Pistone, Bologna, Il Mulino, 1989.
[15] Cfr. C. Rognoni Vercelli, «Il Congresso del popolo europeo», in S. Pistone (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1954-1969, Pavia, Università di Pavia, 1996, e ibid., S. Pistone, «I movimenti per l’unità europea in Italia», in cui si ricostruisce la Campagna per il Censimento volontario del popolo federale europeo, con cui il MFE, guidato da Albertini, proseguì negli anni 1963-1966 la campagna per la Costituente che, a partire dal 1967, proseguì come campagna per l’elezione diretta del PE.
[16] Cfr. S. Pistone, «Il Movimento federalista europeo e i Trattati di Roma», in E. Serra, op. cit.
[17] Cfr. B. Olivi e R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea, Bologna, Il Mulino, 2005.

 

 

 

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