IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLV, 2003, Numero 3, Pagina 184

 

 

LE DIVISIONI DELL’UNIONE EUROPEA
 
 
La spaccatura verificatasi al Vertice di Bruxelles del 12-13 dicembre scorso tra i paesi dell’Unione riguardo all’approvazione del testo di trattato costituzionale, e il lungo confronto tra gli Stati che l’ha preceduta, hanno evidenziato con molta chiarezza il grado di divisione in cui sta sprofondando l’Europa. A questo proposito occorre fare due considerazioni. La prima concerne il fatto che l’approvazione della cosiddetta costituzione europea non avrebbe assolutamente reso l’Unione più forte e coesa e quindi non avrebbe permesso di superare il problema; la seconda è relativa al dibattito sull’«Europa a due velocità» che il fallimento del Vertice ha suscitato.
Per quanto riguarda il primo punto è necessario ricordare che la Convenzione è stata convocata con il mandato di redigere le proposte per un nuovo trattato, che permettesse all’Unione di diventare più democratica, più vicina ai cittadini e più efficace nell’azione, dopo il fallimento, sotto questo profilo, di ben due Conferenze intergovernative — che avevano prodotto rispettivamente il Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza. Entrambi questi Trattati, infatti, non rispondevano alla necessità di riforma delle istituzioni europee che le esigenze di governo dell’euro, da una parte, e l’allargamento, dall’altra, evidenziavano. Nonostante il dibattito acceso svoltosi negli anni ‘90 sul futuro dell’Europa e sull’urgenza di approfondire la sua costruzione politica, la domanda formulata nel ‘98 da Hans Tietmayer, allora Presidente della Bundesbank, («L’Unione politica è piuttosto una condizione o una conseguenza dell’Unione monetaria?») continuava a non trovare risposta, né la trovavano le ipotesi allora in discussione per dotare l’Unione della flessibilità necessaria ad accogliere i nuovi membri, creando una struttura a cerchi concentrici, con al centro i paesi maggiormente integrati, oppure creando — sulla base di una felice, anche se più recente, definizione di Giscard d’Estaing — la «Federazione all’interno della Confederazione».
La Convenzione, quindi, teoricamente, avrebbe dovuto far compiere all’Unione quel salto di qualità che era mancato negli anni precedenti, dato che ormai l’euro era diventato una realtà di cui si erano sperimentati anche i limiti in assenza di un governo unico europeo dell’economia, e dato che l’allargamento era ormai un fatto acquisito a fronte del quale l’assetto istituzionale dell’Unione era del tutto inadeguato.
A riprova di queste contraddizioni in cui si stava dibattendo l’Europa, durante i lavori della Convenzione, nel corso del 2002 e nella prima metà del 2003, si sono moltiplicati i segnali relativi alla precarietà della situazione in cui versa l’Unione: innanzitutto la difficoltà da parte di alcuni Stati, e in particolare di Francia e Germania, a rispettare, a fronte di una grave stagnazione economica, i parametri del Patto di stabilità; ma anche in generale la dipendenza europea rispetto alla congiuntura economica americana, e la sua incapacità di trovare una via autonoma per la ripresa. La crisi scoppiata a fine novembre del 2003 in seguito alla decisione dell’Ecofin di non sanzionare Francia e Germania per l’eccesso di deficit rispetto ai limiti imposti dal Patto e alla conseguente reazione della Commissione europea, che, proprio nei giorni in cui si sta scrivendo questa nota, ha deciso di ricorrere alle vie legali contro tale scelta, era da tempo nell’aria. Ed era del resto prevedibile e inevitabile, perché è folle pensare che i paesi dell’euro possano continuare all’infinito a non avere una politica economica — che ormai i singoli Stati non sono più in grado di fare ma che non possono realizzare neanche in comune perché non hanno trasferito a livello europeo i poteri necessari — e a sostituirla con regole restrittive che possono avere una funzione di stimolo a comportamenti virtuosi in fasi di espansione economica, ma che diventano delle camicie di forza nei periodi di recessione. D’altro canto finché non si crea un governo europeo dell’economia queste regole sono indispensabili per mantenere la coesione all’interno dell’area monetaria europea, perpetuando così una contraddizione che rischia di stritolare l’Europa. La soluzione non può essere che il passaggio all’Unione politica, come sollecitava già la domanda posta da Tietmeyer, che significa trasferire la sovranità dagli Stati all’Europa e trasformare l’Unione in uno Stato federale, dotato di tutte le competenze e degli strumenti necessari per governare, in modo effettivo e democratico, con il consenso e il controllo dei cittadini, l’economia e la moneta europea. Di questo dunque avrebbe dovuto occuparsi la Convenzione, se voleva davvero dare risposte concrete alle contraddizioni create da una moneta europea che deve vivere senza che esista un potere europeo.
Oltre alla crisi economica, sempre nel periodo durante il quale si sono svolti i lavori della Convenzione, è intervenuto un altro fatto drammatico a rendere evidente la necessità, e l’urgenza, che l’Europa si doti di una propria fisionomia politica: la guerra in Iraq. L’impotenza degli Stati europei in questo frangente, stretti tra il servilismo di chi sa di non potersi opporre allo strapotere del più forte e cerca perciò di ingraziarselo e l’opposizione, destinata inevitabilmente alla sconfitta, di una minoranza, hanno mostrato con un’evidenza senza pari come solo la presenza di un’Europa forte ed autonoma avrebbe potuto fare la differenza. Anche in questo caso, a fronte della necessità di creare una politica estera e di sicurezza europea, è evidente che l’unica possibilità sarebbe quella di trasferire poteri sovrani dagli Stati all’Europa. I pallidi e velleitari tentativi di dar vita ad una difesa europea sulla base di una cooperazione più stretta tra alcuni paesi non può che portare infatti a risultati ridicoli, come quello della nascita di una «Cellula di pianificazione militare europea» recentemente concordata da Francia, Germania e Gran Bretagna sotto il vigile controllo degli Stati Uniti e della Nato.
Ma era realistico pensare che la Convenzione potesse davvero proporre di trasformare l’Unione in una vera Federazione? Chiaramente no, e per più ragioni. Rispetto ad una Conferenza intergovernativa la Convenzione aveva effettivamente il vantaggio di non essere vincolata dall’esigenza dell’unanimità, anzi di non doversi porre neanche il problema del voto. La formula adottata di decidere per consenso permetteva, ed infatti ha permesso, di tranciare le questioni più controverse grazie all’autorità del Presidium. La Convenzione poteva dunque arrivare più facilmente, rispetto ad una CIG, a trovare degli accordi, ma ciò era dovuto proprio al fatto che non era responsabile in ultima istanza. Il suo lavoro era orientato dalla coscienza che sarebbero poi stati i governi, all’unanimità, a prendere le decisioni definitive, per cui in quella sede era possibile ignorare i dissensi. Il suo mandato era dunque vincolato, nella forma e nella sostanza, dalla volontà dei governi, e questi chiedevano semplicemente proposte per migliorare il funzionamento dell’Unione senza alterarne gli equilibri istituzionali (fondati sul fatto che sono gli Stati a detenere il potere di decidere in ultima istanza).
La Convenzione ha quindi lavorato — e non poteva essere altrimenti — non nell’ottica di far fare un salto politico all’Europa, ma in quella di rendere più «governabile» l’Unione, cosa che in molti casi significava dare un po’ più di potere di controllo agli Stati sulle istituzioni europee per alleviare, anche se in minima parte, l’enorme deficit democratico implicito nel funzionamento di una confederazione a venticinque Stati dotata di molte competenze sugli affari interni degli Stati membri. Il quadro era quello delineato da Giscard d’Estaing nel ‘94, durante il dibattito sulla creazione di un nucleo più integrato al cuore dell’Europa, in cui egli distingueva tra un’Europa-potenza (composta dai paesi che avevano la volontà di dare una fisionomia politica autonoma all’Europa) e un’Europa-spazio (l’Europa allargata), sottolineando che si trattava di dotare le due realtà di regole e impianti istituzionali diversi, proprio perché avevano finalità diverse. La Convenzione aveva esattamente il compito di occuparsi dell’Europa-spazio. Lo dimostrava la sua stessa composizione che includeva i rappresentanti dei paesi candidati. Proprio la profonda eterogeneità dei suoi membri costituiva la caratteristica predominante di questa assemblea in cui erano rappresentate realtà nazionali dotate di atteggiamenti radicalmente differenti nei confronti del processo europeo e in cui dovevano trovare un’intesa paesi con livelli di integrazione diversissimi tra loro, i cui interessi nazionali non erano ancora stati resi convergenti dal fatto di essere parte, da decenni, di un processo comune.
Questo ha portato la Convenzione a non potersi occupare del problema di un governo economico europeo e ad ignorare completamente le divisioni che laceravano l’Unione sulla questione della guerra in Iraq (e a vantarsi addirittura di aver lasciato la crisi «fuori dalla porta») per lavorare alla ricerca di un compromesso — necessariamente di basso profilo — che potesse essere accettato da tutti. Il cosiddetto progetto di trattato costituzionale che ha elaborato non era quindi altro che un toilettage dei vecchi trattati, che per la prima volta sanciva come immodificabile l’equilibrio «comunitario» dei poteri in ambito europeo — l’equilibrio in base al quale gli Stati detengono la sovranità, e mantengono il potere di mettere in atto le decisioni concordate a livello europeo. Tutte le soluzioni prospettate sulle questioni più spinose (rappresentanza esterna dell’Unione, sistema di votazione, composizione della Commissione) non modificavano né la natura delle istituzioni in causa, né le rendevano più efficienti o democratiche, ma semplicemente cercavano di sanare le vecchie contraddizioni inserendone di diverse, come è inevitabile in ogni assetto confederale. Ad esempio, laddove il sistema di votazione a maggioranza previsto dal trattato precedente premiava eccessivamente i paesi medi, esso veniva modificato a favore dei più grandi e dei più piccoli; oppure, nella misura in cui la composizione della Commissione allargata, pensata, sempre nel precedente trattato, per garantire i piccoli paesi, penalizzava troppo i grandi, si cercava una soluzione intermedia che potesse realizzare la quadratura del cerchio, creando in realtà nuovi scompensi. Rispetto ai precedenti Trattati di Amsterdam e Nizza, anche secondo il parere di molti esperti in materia, il nuovo testo non apportava dunque nessuna novità in grado di far compiere reali passi avanti alla costruzione europea (come concordavano anche i giudizi dei commentatori politici all’indomani della chiusura dei lavori della Convenzione).
Il fatto, quindi, che per il momento la proposta di «Costituzione» sia stata respinta dagli Stati — che hanno litigato proprio sul problema se mantenere le vecchie incongruenze o sostituirle con nuove — non cambia i termini del problema: il vero nodo da sciogliere resta il progressivo e inarrestabile allontanamento dalla prospettiva dell’unità politica che caratterizza oggi il quadro dell’Unione e cui si accompagnano preoccupanti rigurgiti di nazionalismo.
 
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Alla luce di queste considerazioni diventa più facile analizzare anche il problema dell’«Europa a due velocità». Il fatto che questo concetto continui a riemergere indica che esiste ancora un barlume di consapevolezza innanzitutto della necessità di far avanzare l’unità europea — e non è un caso che questa posizione emerga nell’ambito dei paesi fondatori che, essendo più coinvolti nel processo europeo, sentono maggiormente il peso della disunione — e in secondo luogo del fatto che questo avanzamento è possibile solo in un quadro più ristretto rispetto a quello dell’attuale Unione. Chi difende invece la necessità di far procedere l’Unione in blocco e bolla come un tentativo di rompere l’unità dell’Europa l’ipotesi delle due velocità non vuole altro — che ne sia o meno consapevole — che mantenere, anzi, vista la tendenza, approfondire, la divisione dell’Europa. L’Unione non è in grado di avanzare se mantiene un’unica velocità, perché ormai non costituisce più un quadro evolutivo. Con questo non si vuole dire né che l’Unione è inutile (nessuno può mettere in dubbio la drammaticità dell’alternativa della sua disgregazione), né che va smantellata per permettere ad un gruppo di paesi di approfondire la reciproca integrazione. Essa resta l’ambito che rende possibile l’integrazione graduale dei nuovi paesi, che avrà necessariamente bisogno di tempi lunghi. Ma solo la presenza al suo interno di un nucleo federale le permetterà di svolgere questo compito, facendole acquisire la stabilità necessaria per contrastare le inevitabili spinte alla disgregazione cui è soggetta ogni confederazione. E il nucleo costituirà anche l’esempio indispensabile per indicare la prospettiva corretta ai nuovi aderenti. In questo quadro le istituzioni europee, che oggi svolgono obiettivamente un ruolo di difesa e di conservazione dello status quo, diventerebbero il tramite tra la Federazione e il resto dell’Unione, rendendo possibile il processo di integrazione dei paesi non ancora pronti alla cessione della sovranità.
Bisogna tornare quindi al dibattito degli anni ’90 sulla necessità di creare una Federazione nella Confederazione e dargli concretezza, facendolo seguire dai fatti: occorre identificare con chiarezza l’obiettivo (lo Stato federale), il quadro in cui è possibile un’iniziativa in tal senso (il nucleo dei paesi che hanno le condizioni storiche e politiche per assumersi questa responsabilità — e la prima ipotesi non può che riguardare i paesi fondatori) e il metodo (un Patto federale tra essi, e la convocazione di un’Assemblea costituente con il mandato di elaborare la Costituzione federale dello Stato europeo, cui potranno chiedere di aderire tutti gli Stati dell’Unione che vorranno farlo).
Si tratta ovviamente di un’iniziativa che implica una rottura rispetto ai Trattati esistenti e che in un primo momento non può che collocarsi al di fuori della logica dell’Unione. Ma è una rottura necessaria, che costituisce la premessa indispensabile per salvare l’unità degli europei e che si ricomporrà subito con l’ingresso della Federazione nell’Unione e con il prevedibile allargamento del primo nucleo federale ai numerosi Stati che oggi non sono pronti ad appoggiare un’iniziativa di questo tipo ma che potranno aderire una volta che essa si fosse concretizzata.
Nel dibattito attuale sull’Europa a due velocità non c’è traccia di tutto ciò. Ci si ferma, appunto, ad un primo barlume di consapevolezza e poi, forse spaventati dalla difficoltà che portare la scelta fino in fondo implica, si preferisce deviare su proposte minimaliste se non pericolose. L’ipotesi che raccoglie più consensi e che viene maggiormente discussa, soprattutto in Francia e in Germania, sembra essere quella delle cooperazioni rafforzate, ipotesi che rimane valida in un certo senso sia che si arrivi nel corso dell’anno ad un accordo sulla «costituzione», sia che questo accordo non venga raggiunto. I Trattati in vigore prevedono già, infatti, l’opzione delle cooperazioni rafforzate e si tratterebbe, nel disegno franco-tedesco — anche se il condizionale è d’obbligo perché le idee che circolano sono ancora molto vaghe — di permettere ai paesi che lo ritengono opportuno di cooperare più strettamente in vari settori sulla base, in ultima istanza, dei rispettivi interessi nazionali. Si tratta di una possibilità che non favorirebbe affatto uno sviluppo in senso federale, ma che anzi lo renderebbe più difficile perché porterebbe — nel caso si realizzasse — ad una rete di alleanze asimmetriche e incrociate destinate a creare tensioni e contrapposizioni in seno all’Unione. Né è pensabile che a questa obiettiva spinta alla disgregazione si possa ovviare se un gruppo di paesi si ponesse l’obiettivo di diventare il cuore dell’Europa partecipando a tutte le cooperazioni rafforzate: nemmeno Francia e Germania sarebbero in grado di farlo perché non potrebbero mantenere un’identità di interessi sufficiente in una situazione del genere.
Il basso profilo delle reazioni al fallimento di Bruxelles, anche nell’ipotesi dell’Europa a due velocità, è dunque il segno della difficoltà che il processo europeo sta attraversando. Di fronte all’evidenza di dover compiere un salto di qualità anche gli Stati più legati alla prospettiva dell’unità europea indietreggiano e, non avendo il coraggio di fare le scelte radicali necessarie, si rifugiano dietro a ipotesi controproducenti. Fino a quando l’Europa sarà in grado di resistere in questa situazione è difficile da prevedere. Ma è certo che il resto del mondo non sta ad aspettare le nostre decisioni e che gli europei non sono al momento in grado di raccogliere le sfide del nuovo secolo. Nella migliore delle ipotesi, se non interviene in tempi ragionevoli una reazione, la storia, che sta già condannando quest’area all’emarginazione, ne decreterà il decadimento civile, sociale e politico. Ma è solo la migliore delle ipotesi, perché gli effetti della disunione europea potrebbero essere anche molto più drammatici.
 
Luisa Trumellini

 

 

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