IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIV, 2002, Numero 2, Pagina 114

 

 

FARE L’EUROPA
O SCRIVERE UNA «COSTITUZIONE»?
 
 
Molti confondono il problema di fare l’Europa, che si identifica con quello di creare un potere che non c’è, con quello di scrivere una serie di regole per un potere che c’è. Questa confusione può significare due cose: per qualcuno essa è la conseguenza dell’incapacità di distinguere le parole (la redazione del testo di una «costituzione») dalle cose (creare un potere europeo); per altri essa è l’espressione della deliberata volontà di dare una sanzione solenne e definitiva all’Europa così come essa è oggi, o addirittura di rendere impossibile qualunque reale trasferimento di potere, eliminando dai Trattati anche i piccoli embrioni di sopranazionalità che vi sono contenuti.
E’ importante che i federalisti non si lascino coinvolgere da questa logica e non dimentichino che il Movimento federalista europeo è nato per unire politicamente l’Europa, cioè per affrontare l’enorme problema di creare uno Stato nuovo in un’area nella quale attualmente esiste una pluralità di Stati sovrani, e non certo per fare discussioni accademiche sui piccoli miglioramenti che si possono apportare all’inefficiente e impotente meccanismo comunitario che è quello dell’Unione attuale.
Bisogna quindi che i federalisti — tutti i federalisti — abbiano quel soprassalto di orgoglio di cui tanto spesso parlava e scriveva Spinelli e sappiano ricuperare la loro ispirazione originaria. Se ciò non accadrà, si consoliderà inevitabilmente nelle nostre file la tendenza a rinunciare al nostro ruolo di soggetto autonomo del processo e di solo attore consapevole della natura del suo punto d’arrivo; e a farci dettare le nostre prese di posizione e la nostra linea strategica dall’europeismo ufficiale dei governi e delle istituzioni europee. L’autonomia del Movimento è sempre stata una condizione essenziale della sua sopravvivenza. Metterci al seguito dell’europeismo ufficiale oggi, cioè in una fase fortemente involutiva del processo, nella quale anche i politici più «europei» si stanno convincendo che l’Europa non paga in termini elettorali e tendono a rifugiarsi in formule ambigue come la «Federazione di Stati nazionali», o a farsi scudo del principio di sussidiarietà per il mantenimento, o addirittura il rafforzamento, del potere degli Stati, è un segno di inammissibile dimissione.
 
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E’ evidente che unire una pluralità di Stati in un nuovo Stato federale significa anche accordarsi su certe regole. Il potere è consenso, e il consenso deve avere come suo oggetto un nuovo modo di vivere insieme, e quindi nuove regole che lo rendano possibile e lo disciplinino. E’ quindi impossibile separare del tutto le regole dal potere. Ma a questo proposito vanno fatte due essenziali precisazioni. La prima è che non devono essere il risultato di un’esercitazione accademica, che si esaurisca nella scrittura di una serie di articoli, ma quello di un forte atto di volontà, che sia la manifestazione della nascita di un nuovo popolo. La seconda è che le regole la cui entrata in vigore segna la nascita di uno Stato federale si riducono sostanzialmente ad un unico principio: l’instaurazione di un rapporto diretto tra cittadini e governo, sia dal basso verso l’alto, nel senso che il governo sia l’espressione dei cittadini, quale che sia il meccanismo (parlamentare, presidenziale, ecc.) attraverso il quale questa espressione si realizza; sia dall’alto verso il basso, nel senso che l’esecutivo abbia il potere, nell’ambito delle sue competenze, di agire direttamente sui cittadini, e non si limiti ad indirizzare raccomandazioni agli Stati membri, disponendo degli strumenti per imporre ai singoli l’osservanza delle leggi federali.
Non per nulla era questa la preoccupazione fondamentale degli autori del Federalist, e in particolare di Hamilton. E’ essenziale tener presente che gli Articles of Confederation, dalla cui manifesta insufficienza nacque la consapevolezza della necessità di rifondare su di una nuova base la convivenza tra le ex-colonie americane e i loro cittadini, avevano disegnato sotto molti profili una struttura istituzionale più avanzata di quella attuale dell’Unione europea (anche se è doveroso tener sempre presente la diversità dei contesti storici). Per riferirsi soltanto ai due aspetti più importanti, il Congresso degli Stati Uniti aveva, da un lato, la competenza della politica estera e della difesa e, dall’altro, decideva a maggioranza su tutte le questioni (tranne che sulla riforma degli Articles of Confederation stessi), anche se sulle materie più importanti era necessario il voto favorevole di nove Stati su tredici. Ciò che paralizzava la Confederazione quindi non era né un problema di competenze né il meccanismo della presa delle decisioni, bensì il fatto che la Confederazione era l’espressione di un accordo tra Stati sovrani; e la sua incapacità di attuare le proprie decisioni imponendone l’osservanza ai cittadini.
Ciò accadeva perché le decisioni del Congresso si risolvevano in una serie di raccomandazioni agli Stati membri perché dessero loro esecuzione. E queste decisioni, quando rischiavano di compromettere gli interessi di uno o più Stati membri, non venivano attuate. Gli Stati membri si rifiutavano spesso di fornire al Congresso i contingenti militari di loro spettanza e le somme di danaro a loro carico. E ciò perché il Congresso non disponeva del potere di reclutare direttamente soldati né di quello di imporre tributi, che rimanevano una prerogativa esclusiva degli Stati membri.
 
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Il rovesciamento di questa situazione, cioè la creazione di un legame diretto, in alcuni settori essenziali, tra cittadini e governo, è stato il risultato rivoluzionario della Convenzione di Filadelfia. A Filadelfia e con le successive ratifiche è stato creato un potere nuovo. Ed è stato questo potere che ha reso possibile, da un lato, l’introduzione di nuove regole e, dall’altro, il funzionamento di regole che già esistevano, ma che nel precedente quadro di potere non potevano essere applicate, o erano fonte di stallo.
Questi insegnamenti dovrebbero essere applicati all’Europa. Si prenda il caso dell’estensione del voto a maggioranza e dell’abolizione del diritto di veto. Spesso il voto a maggioranza viene visto come il deus ex machina che realizzerebbe il salto federale. Niente di più falso. Di fatto non è abolendo il veto che si fa lo Stato federale, ma è facendo lo Stato federale che si abolisce il veto. Nelle confederazioni, nelle quali un certo grado di unità è garantito soltanto dalla tacita persistenza di un accordo tra Stati sovrani, e i cittadini di questi ultimi percepiscono gli organi dell’Unione come mostri burocratici, insieme lontani e invadenti, il voto all’unanimità sulle materie essenziali è uno strumento decisivo per impedire sopraffazioni della maggioranza nei confronti della minoranza, che porterebbero inevitabilmente, a medio termine, alla dissoluzione della confederazione. Per questo, nelle materie essenziali, di norma il voto a maggioranza non è introdotto; quando è introdotto, non è applicato, perché gli Stati decidono all’unanimità anche quando potrebbero decidere a maggioranza; e, quando è applicato, le decisioni prese a maggioranza non vengono eseguite dagli Stati che restano in minoranza. Opposto è il caso delle federazioni, nelle quali la sovranità viene trasferita all’Unione in quanto tale, e nelle quali l’indissolubilità del vincolo federale è garantita da una forte lealtà del popolo nei confronti dell’Unione. In esse i cittadini si sentono partecipi del processo di presa delle decisioni e sono consapevoli che questo ha come obiettivo il perseguimento dell’interesse generale. E il governo federale possiede comunque gli strumenti per imporre direttamente ai cittadini le proprie decisioni. Tra le unioni di Stati quindi solo in una federazione la democrazia, fondata sulla dialettica tra maggioranza e minoranza, può realmente funzionare.
 
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Il nodo del problema sta quindi nel trasferimento all’Unione della sovranità, e questo si attua applicando un’unica regola (anche se, evidentemente, l’assetto complessivo dell’Unione dovrà essere regolato da una costituzione, la cui approvazione potrà essere contemporanea, precedente o successiva all’atto con il quale viene trasferito il potere). E’ l’esatto opposto di quanto il Consiglio europeo di Laeken ha incaricato la Convenzione di fare, ponendole più di cinquanta quesiti. Non esiste infatti un modo più sicuro per svuotare un problema di contenuto che quello di suddividerlo in numerosi problemi parziali, in modo che anche coloro che vorrebbero veramente risolverlo si perdano nel dettaglio e non vedano la natura reale dell’obiettivo da raggiungere.
Si considerino a titolo di esempio alcuni dei problemi che vengono più spesso affrontati nei dibattiti sulla «costituzione» europea, come quelli della composizione della Commissione, del sistema elettorale per il Parlamento europeo o del modo di nomina dei membri della Seconda Camera. E’ chiaro che ognuno di questi problemi acquisisce un rilievo diverso a seconda che lo si ponga nel contesto della situazione di potere attuale o in quello della creazione di un potere federale. Nel primo caso l’adozione dell’una o dell’altra soluzione determina le procedure attraverso le quali si raggiungono compromessi tra Stati sovrani, definisce il potere dei piccoli Stati nei confronti dei grandi e, in qualche caso, può prolungare o accorciare la vita dell’Unione. Quei problemi quindi acquisiscono, da un lato, un’importanza essenziale e, dall’altro, sono difficilissimi da risolvere. Nel secondo, al contrario, essendo la permanenza dell’Unione assicurata dal forte consenso dei cittadini nei confronti delle istituzioni e dal potere del governo di imporre direttamente ai cittadini l’osservanza della legge, gli stessi problemi assumono un’importanza secondaria. In un vero Stato federale infatti, pur dando per scontato che comunque in esso si manifestano interessi locali anche marcatamente diversi che non possono non esprimersi nella lotta politica, l’esistenza di un unico popolo, anche se pluralistico, e la conseguente consapevolezza della prevalenza dell’interesse generale sugli interessi particolari fanno sì che il numero e la provenienza dei ministri e il modo in cui vengono eletti i membri sia della Prima che della Seconda Camera, nonché molti degli altri problemi di cui si discute oggi a proposito della futura «costituzione» dell’Unione europea, perdano di importanza e diventino alternative prive di drammaticità.
E’ quindi giusto che si rifletta sulle caratteristiche che dovrebbe avere la costituzione ideale della Unione europea del futuro. Ma è assai più importante che ci si chiariscano le idee su che cosa significhi fondare uno Stato federale e su questa base si cerchi di definire una strategia coerente dei federalisti.
 
Francesco Rossolillo

 

 

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