IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVI, 1994, Numero 1, Pagina 34

 


L’EUROPA IN UNA ECONOMIA MONDIALE IN MUTAMENTO
 
 
1. Vi è in genere un ritardo significativo sia nel modo di pensare che nel modo di presentare i fatti e le situazioni, per cui i grandi cambiamenti avvenuti negli anni più recenti sono poco evidenziati: nel campo dell’economia, ad esempio, il processo di sviluppo ha toccato una serie sempre più estesa di paesi, sicché attualmente ci troviamo con un sistema economico mondiale molto diverso da quello tradizionalmente descritto.
Dieci o più anni fa si poteva infatti suddividere il globo in paesi industrializzati (ivi incluso, entro certi limiti, il mondo comunista) e paesi del Terzo mondo (o in via di sviluppo). Oggi questo modo di rappresentare la situazione non è più attuale. Un fenomeno di accelerazione dello sviluppo è evidente in almeno due zone del mondo; una zona tradizionale, l’America latina, che già negli anni ‘50 aveva sperimentato una fase di sviluppo, seguita da una profonda fase di decadenza, e che torna oggi prepotentemente alla ribalta, ed una zona nuova ed immensa, dove in pratica vivono i due terzi della popolazione mondiale, ossia l’Asia. In Asia al grande sviluppo del Giappone è succeduto inizialmente quello delle cosiddette «tigri asiatiche», che, in qualche misura, sono paesi con particolari caratteristiche, come Formosa, Singapore e Hong Kong. Successivamente lo sviluppo si è esteso a paesi più importanti come la Corea, la Malesia, la Tailandia. Recentemente la Cina, l’India e l’Indonesia hanno fatto registrare uno sviluppo di notevoli dimensioni.
Il problema che ora si pone è se questo sviluppo potrà consolidarsi. Mentre non più di dieci anni fa il quesito fondamentale era come poteva intervenire il Nord del mondo per avviare un processo di sviluppo nelle altre aree, ora dobbiamo chiederci come i paesi di antica industrializzazione, e in particolare l’Europa, possano far fronte alla grave responsabilità di favorire, invece di bloccare, il processo sopra delineato. Questo implica, in primo luogo, un nuovo modo di considerare il rapporto Nord-Sud.
Ciò non vale per tutto il globo: il Medio Oriente non è ancora decollato, anche se i segni di pacificazione tra Palestinesi ed Israeliani hanno un significato indubbiamente positivo, e l’Africa è ancora estranea a questo processo. E’ estremamente importante, tuttavia, che masse enormi, miliardi di persone, siano entrate in una fase di sviluppo che però non è indipendente dalle scelte che faranno i paesi occidentali, che potrebbero, se sbagliate, bloccare completamente le prospettive positive di cui si è detto. Nella storia recente ciò è già avvenuto negli anni ‘60, per alcuni paesi del Terzo mondo, a causa della miopia dei paesi avanzati di allora.
Il processo di sviluppo economico è fondamentale per la diffusione nel mondo delle istituzioni democratiche ed è chiarissima tale correlazione per i paesi che abbiamo prima citato. Ciò vale sia per l’America latina che per l’Asia, tanto che la relazione tra democrazia e sviluppo appare avere caratteristiche nettamente biunivoche. Inoltre lo sviluppo economico di aree sempre più vaste è fondamentale per la creazione di vere istituzioni internazionali.
Ci si limita inoltre ad accennare, per memoria, al fatto che il tipo di sviluppo economico dovrà tenere conto in maniera prioritaria dei vincoli di carattere ecologico (scarsità di materie prime e risorse naturali, uso corretto del territorio) e non potrà in alcun modo seguire le scelte fatte dai paesi di antica industrializzazione, che avrebbero conseguenze disastrose.
Ma, oltre a questo importante vincolo, il problema della scarsità di capitali a livello mondiale — ossia la dotazione di beni di cui disponiamo — assume una rilevanza prioritaria. Poiché, ovviamente, i capitali utilizzati in una certa area non possono esserlo in un’altra, l’impetuoso sviluppo che sta avvenendo in una parte dell’ex Terzo mondo richiede forti iniezioni di capitale. Ma ciò può avvenire soltanto se si istituiscono sistemi in grado di indirizzare a sostegno dello sviluppo i capitali pubblici, gestiti da istituzioni di carattere statuale o sovranazionale, ed i capitali privati, gestiti direttamente dal mercato; questo implica la necessità di istituzioni mondiali in grado di guidare il processo secondo scale di priorità.
 
2. Vediamo ora che cosa sta avvenendo nei paesi di antica industrializzazione. Qui il modo di produrre sta cambiando radicalmente, passando dai metodi attuati nel secolo scorso con la rivoluzione industriale, e successivamente evolutisi, a metodi completamente nuovi, quelli della cosiddetta «rivoluzione scientifica e tecnologica». Conseguentemente il modello che ha guidato in particolare gli ultimi 50 anni, basato sull’espansione dei consumi, non può più funzionare per l’impossibilità materiale di espandere all’infinito i consumi stessi.
Due fattori evidenziano come i paesi industrializzati incontrino gravi difficoltà nell’attuare il radicale cambiamento reso necessario dal nuovo modo di produrre.
Il primo è la riluttanza a sviluppare il commercio fra paesi di antica industrializzazione e paesi emergenti. Il secondo è la difficoltà a creare prospettive di occupazione anche per giovani forniti di una base culturale abbastanza elevata.
L’economia ha assolutamente bisogno che si crei un mercato mondiale, se non si vuole che le prospettive di sviluppo per i paesi dell’ex Terzo mondo vengano meno. Se essi, infatti, non avranno la possibilità di vendere i loro prodotti sui grandi mercati (Europa, Usa, Giappone) non potranno accumulare capacità produttive, e sarà la crisi. Si ricordi, ad esempio, il caso della Birmania, che negli anni ‘60 aveva dato un forte impulso alla propria industria tessile, ed oggi è uno dei paesi più poveri del mondo, la cui crisi è stata causata principalmente dall’accordo fra i paesi europei per la limitazione delle importazioni di prodotti tessili dal Terzo mondo (sul piano politico ne è seguita l’affermazione di un regime a carattere autoritario). In particolare, l’apertura del mercato europeo è essenziale, perché l’Europa è il più grande mercato mondiale, ed il processo di sviluppo non può prescinderne.
E’ opportuno ricordare che negli anni ‘60, subito dopo la decolonizzazione, lo slogan dominante era «Trade, not aid». Gli aiuti sono importanti ed utili se servono a sviluppare le attività produttive, altrimenti esauriscono in breve tempo i loro effetti.
Per costruire il nuovo ordine economico mondiale occorrono delle istituzioni capaci di governare il mercato: come ci ha insegnato Lionel Robbins, il mercato non è anarchia ma organizzazione, e la necessità di adeguate istituzioni che lo regolamentino e lo indirizzino è imprescindibile. Non è un caso che nell’immediato dopoguerra, per consentire l’integrazione degli Stati Uniti e dei paesi europei nel commercio mondiale, furono costituiti il Fondo monetario internazionale, ideato per garantire l’ordinata organizzazione monetaria, il GATT, che doveva assicurare e definire le regole del commercio e l’OECE, per coordinare le politiche macroeconomiche. Queste istituzioni devono oggi essere ripensate in modo che tutti i paesi del mondo possano partecipare allo sviluppo.
E’ però indispensabile che l’Europa realizzi al suo interno l’Unione economica e monetaria. Qualche esempio potrà chiarire meglio questo aspetto. Durante le discussioni sul GATT l’atteggiamento della Comunità europea, che tendeva a concludere gli accordi, era completamente diverso rispetto a quello dei singoli paesi, che tendevano a rallentare o bloccare gli accordi. Questo perché ogni paese, singolarmente preso, tende a rinchiudersi e a difendere il suo mercato. Il ruolo dell’Europa e della sua Unione economica e monetaria è inoltre fondamentale per correggere una gravissima distorsione che è stata sempre denunciata da Triffin, il quale ricordava continuamente come noi non vivessimo in un «sistema monetario internazionale», ma in uno «scandalo monetario internazionale». Infatti il capitale mondiale viene investito in gran parte negli Stati Uniti e in parte in Europa, pur provenendo dal Terzo mondo. Chiaramente la logica presupporrebbe l’inversione dei flussi, perché è nel Terzo mondo che debbono svilupparsi le attività produttive. Invece continua a ripetersi lo scandalo di un 20% della popolazione mondiale che consuma l’80% delle risorse disponibili, mentre al restante 80% rimangono solo le briciole.
Occorre quindi un cambiamento delle istituzioni se si vuole evitare la crisi delle economie in fase di sviluppo, che in un secondo tempo travolgerebbe anche i paesi industrializzati. Ed il primo cambiamento deve essere la realizzazione in Europa dell’Unione economica e monetaria, perché non è pensabile che l’attuale trend che porta il capitale verso gli Stati Uniti possa mutare senza l’Unione europea. Infatti solo la prospettiva di dover creare la moneta europea ha costretto prima la Francia e poi l’Italia a tagliare il deficit e gli sprechi in modo da diventare paesi che, invece di drenare risorse dal mondo, siano capaci di investire, anche in vista di un futuro che prevede una struttura demografica a rapido invecchiamento. Attualmente gli Stati Uniti, che hanno un deficit enorme, possono continuare ad attrarre il capitale perché il dollaro è la moneta richiesta da tutto il mondo (ciò si è accentuato dopo la crisi dello SME) ed è evidente che non hanno alcuno stimolo a tagliare il deficit in modo radicale (come avveniva sino a pochi anni fa in Francia e in Italia). Per iniziare a cambiare questo meccanismo perverso occorre dunque intervenire su di un punto decisivo: la creazione di una moneta europea.
Un altro punto da tenere in considerazione è che l’esperienza europea può essere un modello per altre aree del mondo, essendo evidente che non si può creare un mercato mondiale, con istituzioni mondiali solide, se queste non si basano su istituzioni continentali.
Il Trattato NAFTA tra Stati Uniti, Canada e Messico, che ha l’importante significato di permettere l’inserimento del Messico, a pieno titolo, nel processo di sviluppo economico (e ciò che vale per il Messico potrebbe valere per altri paesi dell’America latina) ha incontrato difficoltà nel processo di ratifica da parte del Congresso; ma è chiaro che, se l’Europa fosse decisamente progredita sulla via dell’Unione economica e monetaria, questa sfida del grande spazio economico avrebbe costretto gli Stati Uniti ad accettare senza tentennamenti la medesima prospettiva.
Altro esempio significativo è nel fatto che lo sviluppo avvenuto nei paesi asiatici, di cui si parlava all’inizio, non ha risentito negli ultimi due tre anni della crisi e della recessione che si è manifestata nell’economia americana ed ora anche nell’economia europea, soprattutto perché i paesi del Sud-Est asiatico sono stati in grado di sviluppare il commercio fra di loro (si pensi che il commercio tra Indonesia, Malesia, Singapore, ecc. ha, all’interno dell’area, un’importanza superiore a quella del commercio di questi paesi con Giappone, Stati Uniti ed Europa) procedendo sulla via dell’organizzazione di un’area regionale, che può offrire un notevole contributo di stabilità e sviluppo al mercato mondiale.
Ma se l’esperienza europea dovesse fallire, riemergerebbe a livello mondiale una forte tendenza al protezionismo, perché si dimostrerebbe che la via di unioni economico-monetarie a livello continentale non è praticabile. Su questo punto la responsabilità dell’Europa è superiore sia a quella degli Stati Uniti che a quella del Giappone, perché l’accettazione del nuovo modello di sviluppo implica l’abbattimento delle frontiere, la disponibilità ad importare i prodotti industriali ed agricoli dagli altri paesi dell’ex Terzo mondo e, conseguentemente, l’eliminazione di interi settori produttivi in tutta l’Europa, quali gran parte dell’industria tessile, dell’industria meccanica, ecc., ed il loro trasferimento nei paesi di nuovo sviluppo. Se tutto ciò non dovesse avvenire il rischio della crisi economica mondiale sarebbe assai concreto.
 
3. Come può l’Europa fare questo salto? La risposta è il passaggio dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione scientifica e tecnologica. Certo occorre ricordare quali furono i problemi che l’Inghilterra dovette affrontare al tempo della prima rivoluzione industriale, in particolare l’abbandono del settore agricolo, facilitato dal fatto che proprio in quegli anni si stava costituendo l’impero inglese (si ricordi che una delle ragioni per cui nacquero gli Stati Uniti d’America fu che l’Inghilterra imponeva alle colonie di comprare solo prodotti industriali di provenienza inglese). Nondimeno, a conferma che la prospettiva dell’Europa è nella rivoluzione scientifica e tecnologica potremmo fare un richiamo alla fantasia: se guardassimo il mondo dalla luna vedremmo nell’Europa una piccolissima entità (300 milioni di persone in un mondo di 7 miliardi), un’entità che può essere paragonata, rispetto al mondo, ad una città del Rinascimento. Nessuno avrebbe mai pensato di installare a Firenze, anziché le botteghe artigiane, i campi per produrre le derrate agricole.
Se guardiamo l’Europa di oggi non possiamo pensare di intensificare qui l’installazione delle fabbriche, per ragioni ecologiche, organizzative, ecc. Qui dobbiamo installare le botteghe artigiane nel senso moderno, cioè le attività tipiche della rivoluzione scientifica e tecnologica, contribuendo a sviluppare le capacità tecnologiche dell’intera umanità.
L’alternativa è quindi fra il tentare di difendere le prospettive di lavoro e di benessere che abbiamo, chiudendoci e cercando di frenare lo sviluppo economico, difendendo le attività esistenti attraverso sussidi, oppure fare il salto in avanti, mettendoci alla guida del processo e dandogli forza. Dal punto di vista del mercato del lavoro non avremo più «colletti blu» e neppure «colletti bianchi»: l’immagine predominante dovrebbe essere quella dei «camici bianchi», cioè dei tecnici.
Se vogliamo dare ai giovani europei la prospettiva di avere ancora possibilità di lavoro e benessere, occorre introdurre metodi di lavoro flessibili (l’antitesi del fordismo) che consentano partecipazione ed innovazione (questa è in parte la spiegazione dell’alta produttività del Giappone); inoltre occorrerà rinunciare alle grandi unità produttive con migliaia di dipendenti, e sviluppare la capacità imprenditoriale, ossia la capacità dei singoli di assumere un ruolo attivo e propositivo, aumentando il capitale umano impiegato in piccole unità produttive.
Un altro cambiamento, che può apparire provocatorio, è quello della riduzione dei salari reali. Questa non comporta necessariamente una riduzione della capacità di reddito e del tenore di vita. Non a caso abbiamo fatto riferimento alla rivoluzione industriale inglese: il movimento del «luddismo» tentava di ostacolare la rivoluzione industriale perché questa danneggiava le posizioni esistenti (anche se di livello molto misero); per contro la scuola di Manchester ottenne la riduzione del prezzo del grano, consentendo di mantenere bassi i salari senza intaccare il tenore di vita.
Noi siamo oggi in una situazione simile: il problema è il livello dei prezzi, la cui discesa permetterebbe di compensare la diminuzione del reddito.
L’Europa potrebbe importare prodotti alimentari, tessili, industriali a prezzi più bassi di quelli che manteniamo attualmente a causa del protezionismo. Quindi occorrerebbe avere il coraggio di aprirsi alla concorrenza internazionale, abbandonare certi settori produttivi e concentrarsi sui settori nuovi. Non è vero che l’inflazione produce sviluppo e che lo sviluppo economico tradizionale produce occupazione o che i prezzi devono sempre salire. In un mercato mondiale certi prezzi devono scendere perché i prezzi al di fuori del mondo industrializzato sono bassi. Inoltre i paesi del Terzo mondo avrebbero comunque un vantaggio se l’Europa importasse a prezzi più bassi, perché attualmente, non potendo vendere in un mercato protetto come quello europeo, vendono altrove a prezzi ancor più bassi. Così, se l’Europa aprisse i suoi mercati, i prezzi mondiali aumenterebbero leggermente, ma resterebbero sotto il livello a cui sono oggi costretti a pagare i consumatori europei.
Purtroppo il dibattito attuale non propone prospettive di sviluppo. Non è vero, ad esempio, che facendo un po’ di lavori pubblici potremmo risolvere i problemi occupazionali italiani. La decisione di fare i treni ad alta velocità deve essere presa a seconda della utilità di questi treni, ma non per risolvere il problema dell’occupazione. Se non fossimo in grado di esportare nel mondo il prodotto «alta velocità», daremmo occupazione a manovali scontenti (e questo non è quello che chiedono i giovani europei) e probabilmente il lavoro finirebbe per essere svolto da immigrati dal Terzo mondo.
Il problema vero, dunque, è che l’Europa assuma le sue responsabilità mondiali dando contemporaneamente un contributo positivo al mondo ed una risposta positiva ai suoi cittadini.
Essa ha bisogno, per fare questo, di tre cose. In primo luogo la moneta unica, per evitare che il sistema continui a drenare risorse verso le direzioni sbagliate; in secondo luogo un piano di sviluppo economico che indirizzi le risorse verso le nuove tecnologie, che spinga a creare centri di ricerca, che attiri studenti dai paesi in via di sviluppo, ecc. Per poter realizzare i primi due punti è però necessario un terzo elemento: un governo europeo.
La crisi dello SME ha messo a nudo i due punti deboli del Trattato di Maastricht, che i federalisti hanno sempre denunciato: il primo è che non prevede un vero governo europeo — responsabile di fronte ai cittadini europei attraverso il Parlamento europeo — capace di guidare questo processo (anche se è prevista una revisione da effettuare entro il 1996). Il secondo punto debole è la fase di transizione eccessivamente lunga per il passaggio alla moneta europea. Accelerare la formazione del governo europeo ed il passaggio alla moneta europea è dunque l’obiettivo dell’attuale battaglia federalista, obiettivo sul quale saranno spinti a confrontarsi gruppi politici, forze sociali, ecc. nel corso della campagna elettorale per le prossime elezioni europee.
 
Alfonso Jozzo e Corrado Magherini

 

 

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