IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVII, 1995, Numero 1, Pagina 26

 

 

Tempo di lavoro, tempo scelto e federalismo
 
MARITA RAMPAZI
 
 
1. Tempo di lavoro e modello di sviluppo.
 
Il problema della ridefinizione del tempo di lavoro oggi è all’ordine del giorno in tutta Europa.
Si parla di maggiore flessibilità, non solo dell’orario, giornaliero, settimanale o mensile, ma anche del rapporto tempo di lavoro/tempo
della vita, che comprende quello della formazione — immissione dilazionata ed articolata nel mondo del lavoro, interruzioni per periodi di aggiornamento, combinazioni di vario genere fra tempo pieno e tempo parziale e così via. La flessibilità nei tempi delle prestazioni lavorative è funzionale alle esigenze di formazione iniziale e continua del capitale umano e, più in generale, riflette nuovi criteri organizzativi che si stanno imponendo nelle imprese proiettate verso le tecnologie di punta ed orientate a mercati sempre più specializzati e frammentati.
Si parla anche e soprattutto di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, quale misura per contrastare la disoccupazione, in particolare quella giovanile.
Questo secondo aspetto è quello che fa discutere di più ed ha maggiore risonanza sui mass-media perché, da un lato, la disoccupazione sta diventando una piaga di dimensioni inquietanti nelle economie europee e, dall’altro lato, nella difficile situazione in cui versano oggi queste economie, la riduzione dell’orario potrebbe comportare una corrispondente riduzione delle retribuzioni. Nonostante le riserve e le reticenze iniziali, comunque, lo slogan «lavorare meno per lavorare tutti» — parafrasando il titolo di un noto libro di Guy Aznar[1] — incomincia oggi a ricevere crescenti consensi, anche nel mondo sindacale europeo.[2]
Basta aprire i giornali per vedere che la questione del tempo di lavoro è ormai oggetto di scelte politiche di breve, brevissimo periodo.
Ciò che sui giornali non si legge, o si legge raramente, è che le scelte da farsi non rappresentano soltanto una scappatoia, o un male minore, per contrastare la disoccupazione in Europa. In realtà, il problema della disoccupazione è diventato il punto di partenza per una riflessione più generale sul modo con cui l’economia e la società europee stanno affrontando le sfide poste dalla rivoluzione scientifica e tecnologica.
Come sempre succede in coincidenza con le trasformazioni storiche nel modo di produrre, oggi sta cambiando il modo con cui gli uomini si concepiscono come cittadini e lavoratori, come soggetti in costante tensione fra libertà e necessità. In questo quadro, le scelte da compiere già oggi in merito al tempo di lavoro possono contribuire alla definizione di un modello di sviluppo capace di garantire maggiori gradi di libertà per tutti o possono diventare fonte di nuove forme di discriminazione e di alienazione.
La scelta di un nuovo modello di sviluppo è, prima di tutto, una scelta di valori. Oggi la società europea ha la possibilità di adeguarsi ai modelli emergenti nei due paesi più avanzati dal punto di vista tecnologico ed economico, il Giappone e gli USA. Si tratta di modelli che, in nome dell’efficienza produttiva e della libertà di mercato, legittimano, come si vedrà più avanti, la creazione di forti diseguaglianze sociali e l’affermazione di una cultura dominata dalla razionalità economica, che è razionalità strumentale. Ma l’Europa può anche cercare una sua strada, più consona alle sue tradizioni culturali, quelle che — non bisogna dimenticarlo — hanno inserito nella storia dell’umanità i valori della libertà, della democrazia, della giustizia sociale.
Il Libro Bianco,[3] in questo senso, è un documento di grande interesse perché, al di là di precise soluzioni tecniche per rilanciare l’economia europea, offre una prospettiva di sviluppo dominata dalla ricerca di un modello, che sia «più rispettoso delle esigenze della natura, del capitale naturale, più attento ai ritmi dell’uomo, che risponda ai bisogni non soddisfatti che derivano da fenomeni di perturbazione delle nostre città, dai quartieri sfavoriti, dalla desertificazione, dall’isolamento delle persone».[4] Un modello che sappia coniugare l’efficienza con la solidarietà: solidarietà fra individui, gruppi, generazioni, aree del mondo.
La riflessione sul tempo non può prescindere da queste considerazioni, pena la banalizzazione della posta in gioco. E non può neppure prescindere da una riflessione sull’assetto istituzionale più adeguato per consentire la realizzazione di una eventuale via europea allo sviluppo. Questo è lo specifico contributo che la riflessione federalista[5] può dare ad un dibattito che in Europa ha ormai fatto passi da gigante nell’analisi delle potenzialità e dei problemi insiti nel modo di produrre post-industriale, ma si blocca quando si tratta di immaginare il quadro istituzionale nel quale sarà possibile favorire lo sviluppo controllato di queste potenzialità.
Per potersi efficacemente inserire nel dibattito, mettendo in luce l’importanza dell’apporto federalista, può essere utile esaminare le tesi di coloro che vedono nella ridefinizione del tempo di lavoro i germi di una vera e propria rivoluzione nella vita degli uomini. E’ quanto mi propongo essenzialmente di fare con questo contributo.
 
2. Tempo della natura, tempo della Chiesa, tempo della fabbrica.
 
La riflessione sul tempo è antichissima. Vi è, anzi, su questo tema una lunga tradizione filosofica — da Aristotele ad Agostino sino ai giorni nostri — cui si sono affiancati in tempi più recenti importanti contributi di altre discipline, quali la sociologia, la storia, la psicologia.
Nella storia di questa problematica si è passati dall’idea di un senso del tempo connaturato all’essenza dell’uomo, quindi immutabile, a quella di un’esperienza del tempo, intesa come elemento mutevole che non cambia in modo casuale, ma muta in una maniera «strutturata» e «direzionata», che può essere spiegata, come osserva Elias.[6]
Il tempo è una delle due coordinate — la seconda è lo spazio — intorno alle quali le collettività e gli individui costruiscono il loro agire concreto. Tempo e spazio, in questo senso, consentono di meglio organizzare le attività umane, ma pongono anche dei limiti precisi. In quanto risorse finite, impongono delle scelte sulle priorità da assegnare alle molteplici possibilità di azione. Se si riflette, ad esempio, sull’espressione «non ho tempo per far questo», ci si rende conto che essa sottintende l’idea che vi siano cose molto più importanti da fare: le scelte di allocazione del tempo sono inscindibili da giudizi sul significato che le diverse attività hanno per i singoli e per la collettività.
La definizione delle priorità non è comunque lasciata all’arbitrio dei singoli, in quanto dipende — in parte più o meno ampia, secondo il contesto storico cui ci si riferisce — dalle condizioni di produzione e riproduzione della vita sociale.
In ogni epoca storica si può individuare un «tempo» dominante, a partire dal quale si organizzano tutti gli altri tempi nel quotidiano e nell’arco della vita.
Le società pre-industriali, ad esempio, erano governate da una struttura temporale molto diversa da quella che si è affermata con la rivoluzione industriale e la nascita dello Stato moderno. Il detto secondo cui «Il tempo è denaro» non avrebbe avuto senso né per un feudatario, né per un servo della gleba: l’uomo non era padrone del suo tempo, quindi non poteva disporne liberamente, al limite per monetizzarlo, in un’economia agricola i cui tempi erano scanditi dal succedersi delle stagioni, dalle ore di luce e di buio, dal suono delle campane che davano il ritmo alle attività di lavoro, di preghiera, di riposo.[7] Allora non si misurava il tempo per remunerarlo, controllarlo, sincronizzarlo: ci si adeguava a quello «dato» dalla natura e dalla divinità, rappresentata dalla Chiesa e/o dal sovrano in un sistema teocratico.
Con l’affermarsi del modo di produrre industriale, si svincolano le attività portanti dell’economia dai ritmi naturali. E con lo sviluppo, in parallelo, delle forme moderne di cittadinanza, che comportano la laicizzazione e democratizzazione dello Stato, si sottraggono i soggetti ai vincoli temporali posti dalla Chiesa e/o dal sovrano.
Il tempo dominante diventa quello del lavoro industriale: un tempo lineare, non più ciclico, che assume la caratteristica peculiare di essere pagato. Nella fabbrica scompare la logica del lavoro servile, in cui una prestazione personale diretta veniva ricompensata in natura, secondo la benevolenza del padrone. Allo stesso modo, con l’introduzione delle macchine specializzate e la parcellizzazione delle mansioni, la fabbrica nega la logica del lavoro artigianale, legata alla creazione compiuta di un bene che viene scambiato contro denaro solo al termine della lavorazione. Il sistema di fabbrica impone di calcolare in modo differente la remunerazione del lavoro: il valore del lavoro viene omologato al valore del tempo trascorso sul luogo di lavoro.
Poiché oggetto della remunerazione diventa il tempo, è importante poterlo misurare con precisione, sottraendolo all’arbitrarietà delle valutazioni individuali. Il tempo dell’orologio, sottoposto ad un calcolo razionale, tende a separare il significato attribuito al contenuto delle azioni da quello della loro durata. In questo processo, la durata diventa dominante, nella misura in cui il lavoro per il mercato si propone come l’attività principale dell’uomo moderno. La priorità del contenuto sulla durata permane soltanto per le attività sottratte al calcolo monetario: quelle della cura familiare, dell’arricchimento culturale, della convivialità, dell’associazionismo, del volontariato. Si tratta delle cosiddette «attività del tempo libero», con un’espressione che significativamente ne mette in rilievo il carattere residuale, subordinato alla centralità dell’attività pagata per il mercato.
La distinzione fra tempo di lavoro e tempo libero viene spesso, altrettanto significativamente, fatta coincidere con l’immagine di una temporalità in cui si è prodotta una frattura fra tempo di lavoro e tempo di vita. Nel tempo di lavoro domina la logica strumentale del denaro che diventa non più un mezzo, ma un fine in sé; al tempo della vita si attribuisce il carattere di tempo della relazionalità e della moralità. Se riflettiamo su questa osservazione, che fa parte del linguaggio comune, possiamo capire meglio le ambivalenze insite nell’idea di tempo affermatasi con la società industriale e la natura delle scelte da compiere oggi.
 
3. Razionalità economica e ambivalenza della temporalità moderna.
 
Uno dei poli nell’ambivalenza della temporalità moderna ha le sue radici nel fatto che la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale hanno sancito la nascita del soggetto, come sede di razionalità e di libertà. Libertà, prima di tutto, di perseguire un ideale di vita morale senza vincoli di servitù personale. Ciò si traduce nella libertà di disporre del proprio tempo, in funzione di significati scelti autonomamente. La diffusione del denaro come mezzo di scambio, soprattutto di remunerazione del lavoro, ha contribuito a smantellare la legittimazione della dipendenza personale, diretta e totalizzante, insita nel modello servo/padrone, come sottolineano non solo gli scritti della tradizione marxiana, ma anche quelli di altri «classici» del pensiero, come Simmel,[8] ad esempio.
Il secondo polo è rappresentato dal fatto che il lavoro industriale ha legittimato una nuova prassi di vendita di sé, quella connessa alla vendita del proprio tempo. La cultura moderna considera normale per un cittadino libero vincolare una parte considerevole della propria vita a limiti di tempo e di spazio — quello del luogo di lavoro — stabiliti da entità gerarchicamente superiori, legittimate ad organizzare le energie fisiche ed intellettuali di altri uomini a fini puramente strumentali. Per il calcolo economico, il lavoro umano è «una cosa», uno dei fattori della produzione, che devono diventare prevedibili e razionalizzabili. E’ la negazione completa dell’autonomia, dell’idea stessa di soggetto. L’espressione più compiuta di tale concezione si ha con il taylorismo ed il fordismo, che hanno dominato le fasi di maggiore successo dell’organizzazione industriale del lavoro.
Questa ambivalenza ha generato una situazione paradossale, che è al centro dell’analisi di André Gorz.[9] Da un lato, le società moderne si sono sviluppate sul rifiuto della tradizionale concezione del lavoro come pena, un’attività indegna dell’uomo libero. Da questo rifiuto si è generata un’etica del lavoro[10] che ha nobilitato l’attività per il mercato, definendola in termini di vocazione: espressione per eccellenza di moralità ed occasione di sviluppo personale. Il lavoro si è trasformato nell’attività socialmente utile per definizione, quella in cui il singolo, quotidianamente, dà prova di responsabilità adulta nei confronti della collettività. Da questo punto di vista, è il pilastro intorno al quale si strutturano non solo il tempo della vita, ma anche l’identità collettiva e personale.
Dall’altro lato, il lavoro è anche la sfera di vita in cui la maggior parte degli uomini ancora oggi sperimenta le più ampie limitazioni e frustrazioni rispetto al bisogno di autorealizzazione, di sentirsi «uomo per gli altri uomini». Il problema non riguarda soltanto la specificità della condizione operaia. Si tratta di una questione più generale che interessa qualunque attività per il mercato: lì si producono le maggiori limitazioni per la libertà e la moralità dell’uomo moderno, nella misura in cui la natura strumentale del calcolo economico entra in contrasto — delegittimandoli — con comportamenti orientati ai valori, alla relazionalità, all’affettività. Ma vi è di più. Riprendendo Habermas,[11] Gorz osserva che «la razionalità economica, che è una forma particolare di razionalità ‘cognitivo-strumentale’, non viene soltanto estesa abusivamente ad azioni istituzionali alle quali è inapplicabile, ma arriva a ‘colonizzare’, a reificare e a mutilare persino il tessuto relazionale da cui dipendono l’integrazione sociale, l’educazione e la socializzazione degli individui».[12] Questo punto è fondamentale perché costituisce la ragione principale addotta da Gorz e dalla corrente di pensiero che si sta sviluppando oggi in Europa intorno alle sue tesi, per sostenere la richiesta di una progressiva e generalizzata riduzione dell’orario di lavoro, come condizione per una vera e propria rivoluzione culturale.
 
4. La critica all’«utopia del lavoro».
 
Gorz prende le mosse dalla constatazione che la rivoluzione scientifica e tecnologica oggi sta cambiando il modo di lavorare — e di vivere — degli uomini. Per capire meglio come si profila la nuova figura del lavoratore, Gorz guarda alle imprese giapponesi che hanno sviluppato il cosiddetto «modello della qualità totale».
In queste imprese, l’introduzione di tecnologie avanzate ha rivoluzionato l’organizzazione tradizionale: «La direzione non ha più scelta: può ridurre i costi solo sostituendo la catena tayloristica e gli operai comuni con impianti robotizzati che, almeno in alcuni reparti della fabbrica, richiedono un lavoratore di tipo nuovo. Questo lavoratore deve essere capace di assumere, all’interno di un gruppo polivalente, la conduzione di un impianto automatizzato. Deve essere capace di iniziative rapide; deve cooperare col gruppo di pari chiamato a decidere la ripartizione delle mansioni, in funzione della situazione; deve possedere autonomia e senso di responsabilità. La direzione è dunque materialmente incapace di comandare, di inquadrare, di sorvegliare i gruppi polivalenti… Deve legare a sé i lavoratori di tipo nuovo, valorizzarli psicologicamente e socialmente, costruire una nuova immagine della fabbrica e del suo ‘operatore di produzione’».[13] Sembra così dischiudersi un futuro in cui il lavoro potrebbe diventare veramente un centro di libertà ed autorealizzazione dell’uomo, come si prospetta ad esempio nell’«ideologia delle risorse umane», ben sintetizzata da questo passo di Blondel: «(nella fabbrica robotizzata) il lavoratore senza identità… ha lasciato il posto ad un essere intelligente, ben organizzato, dalle competenze personali, di cui l’impresa tende a incoraggiare le strategie di carriera».[14]
In tale prospettiva, ci sono forti punti di contatto con quella che Gorz definisce l’«utopia socialista», la quale identifica la liberazione dell’uomo con la fine dell’alienazione — assenza di proprietà, controllo e significato rispetto al lavoro — nata dal modo di produzione capitalistico. Una concezione che egli critica, da sinistra, mostrando come, all’interno del lavoro, non vi siano spazi per lo sviluppo della componente più «umana» dei singoli, anche nell’ipotesi di una riappropriazione del controllo sulla produzione e dello sviluppo di un interesse intrinseco per ciò che si fa. Il controllo sarebbe pur sempre relativo perché la responsabilità tecnica non coincide con la responsabilità morale e l’autonomia professionale non coincide con quella esistenziale. Allo stesso modo, per Gorz è opinabile l’idea di perseguire una piena realizzazione personale in funzione dell’interesse per la professione perché «l’interesse intrinseco di un lavoro non garantisce il suo senso, e la sua umanizzazione non garantisce affatto quella delle finalità che il lavoro serve. L’umanizzazione del lavoro può rendere attraente, per gli individui che lo svolgono, imprese di una barbarie assoluta».[15] Basti pensare alla condizione di un tecnico di alto livello impiegato nella costruzione di bombe atomiche; al problema della responsabilità oggettiva e soggettiva degli scienziati rispetto all’uso che si può fare delle loro scoperte.
Sintetizzando, sono tre i punti cardine della critica di Gorz all’utopia del lavoro come fonte di liberazione nella società dell’automazione, sia essa una concezione di derivazione marxiana o neo-liberale.
1) Qualunque attività pagata per il mercato, per quanto socialmente utile possa apparire, privilegia la logica strumentale del calcolo economico, che impedisce il dispiegarsi pieno della morale. Questo è anche il motivo che induce Gorz a criticare coloro che puntano solo all’espansione dell’area dei servizi per creare nuovi posti di lavoro. Tale espansione ha un limite preciso: quello derivante dalla necessità di proteggere dalla logica strumentale una serie di attività attraverso le quali si esprimono la solidarietà e la responsabilità interpersonale, che hanno senso soltanto se non sono pagate. Per dare un’idea delle conseguenze aberranti alle quali può giungere una cultura dominata dall’idea secondo cui è legittimo pensare di poter pagare qualsiasi attività umana, Gorz fa l’esempio della maternità per procura, l’«affitto» del proprio corpo a fini di procreazione. Si sta legittimando una «vendita di sé» che non ha nulla a che vedere con la libertà degli uomini.
2) Bisogna essere consapevoli dei limiti della «cultura tecnica», che elimina la manualità — quindi il contatto con il mondo sensibile — esaltando gli aspetti astratti dell’attività umana. Con gli straordinari e velocissimi progressi della scienza e della tecnologia, il lavoro tende a diventare sempre più specializzato, ricco di contenuti tecnici di alto livello. In prospettiva, non vi è più spazio per mansioni non o poco qualificate. Ciò comporta una crescita progressiva del peso della cultura tecnica che è «incultura di tutto ciò che non è tecnico… (perciò) per il tecnico, imparare a lavorare, diventa disimparare a trovare e a cercare rapporti non strumentali con l’ambiente e con gli altri».[16] Alla tecnica si può chiedere di favorire economie crescenti di tempo e lavoro, ma non si può invece consentirle di invadere tutto il quotidiano.
3) Il risparmio di tempo ed energie consentito dall’automazione si traduce in sempre minori disponibilità di lavoro.
Il problema della disoccupazione tecnologica si profila come un drammatico dato strutturale per il XXI secolo, come si riconosce anche nella Premessa del Libro Bianco. Questo rischio comporta, già da oggi, la scelta fra due alternative. La prima è legata all’adozione di un modello fondato sulla formazione di un’élite abbastanza ristretta di lavoratori stabili e a tempo pieno — come già succede in Giappone, ad esempio — cui si affianca un’ampia fascia di lavoratori precari o part-time, impiegati soprattutto in un terziario espanso a dismisura, e di disoccupati di lungo periodo. La seconda, che è quella sostenuta da Gorz, tende a privilegiare la riduzione e la flessibilizzazione generalizzata dell’orario di lavoro, intesa innanzitutto come scelta di solidarietà. Nella prospettiva di Gorz, la riduzione dell’orario è anche l’unica strada possibile per tenere sotto controllo il rischio di una estensione eccessiva della strumentalità e della specializzazione tecnica, insite nella cultura del lavoro.
Indipendentemente dal fatto di accettare o meno la diagnosi di Gorz, di fronte agli esempi che ci vengono da paesi molto avanzati sulla strada dell’automazione non si può fare a meno di considerare la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro come una misura intorno alla quale le società occidentali mettono in gioco l’equità e la solidarietà. Non si può accettare che il lavoro sia un privilegio riservato a pochi, soprattutto se si considera che, seguendo questo modello, si rimarrebbe ancorati ad un’immagine del lavoro come fulcro dell’identità sociale degli individui. Rischieremmo di avere una massa crescente di persone marginali, senza identità precisa, costrette ad una vita di parassitismo non scelto.
Nell’ipotesi che si realizzi una consistente riduzione dell’orario di lavoro, si apre un’area vastissima di riflessione: come impiegare la grande quantità di tempo liberato? Esistono le risorse istituzionali e culturali per consentire agli uomini, più liberi di organizzare e combinare i diversi tempi della loro vita, di compiere scelte dotate di reale significato?
Prima di entrare nel merito di questi problemi, bisogna aggiungere qualche osservazione circa un altro aspetto del mutamento nella temporalità, che sin qui non è stato preso in considerazione.
 
5. Il superamento della frattura fra lavoro e vita nell’era postindustriale.
 
Ciò che Gorz forse non mette sufficientemente in luce è il fatto che la rivoluzione scientifica e tecnologica sta cambiando non solo in senso quantitativo, ma anche qualitativamente, i rapporti fra tempo del lavoro e gli altri tempi della vita. Si tratta di aspetti già presi in considerazione in passato dalle riflessioni dei federalisti sul lavoro nell’era post-industriale, sui rapporti tra scuola e comunità, sull’educazione permanente, sulla pianificazione democratica del territorio. Quando i federalisti hanno iniziato questa riflessione, si sono trovati praticamente isolati, considerati, nella migliore delle ipotesi, come degli utopisti. Oggi, tali questioni sono diventate così attuali da costituire parte integrante del Piano Delors, un documento ufficiale, fatto proprio dai Capi di Stato e di governo dell’Unione europea.
E’ sufficiente richiamare due esempi, tratti dal Libro Bianco.
Questo documento sottolinea a più riprese il fatto che, con il nuovo modo di produrre, la scienza e la tecnologia si propongono come la risorsa principale dell’economia. Il capitale umano è l’elemento centrale dello sviluppo. Ne consegue un particolare interesse per tutta l’area della formazione che deve garantire non solo un’elevata preparazione di base — con maggiore interdipendenza fra i mondi della scuola, del lavoro, della ricerca — ma anche un aggiornamento continuo delle conoscenze dei lavoratori, con interruzioni di varia durata nel ciclo lavorativo. Si mette così radicalmente in discussione il criterio di separazione fra tempo della scuola e tempo del lavoro che ha dominato le società industriali.
La fine dell’esperienza scolastica ancora oggi coincide con la conclusione di un ciclo di vita. Con questo passaggio, la temporalità, soprattutto quella quotidiana, assume una diversa organizzazione e un differente significato. Da tempo prevalentemente «per sé», relativamente autogestito o comunque impiegato in attività finalizzate alla crescita personale, diventa un tempo non tanto «per gli altri», quanto vincolato in larga misura alle finalità strumentali del lavoro per il mercato. E’ come se nelle nostre società aleggiasse la regola inespressa secondo la quale in una certa fase della vita sia possibile, anzi doveroso, dedicare la giornata allo sviluppo delle proprie potenzialità ed in una fase successiva questo obiettivo non abbia più ragione d’essere. Vi sono casi privilegiati di chi può scegliere una professione che consente una certa flessibilità rispetto a questi tempi. Ma, per la maggioranza delle persone, vige una separazione netta fra una fase in cui «si studia, ci si forma» ed una in cui si lavora. Ciò finisce per creare una cesura fra l’età della curiosità intellettuale e quella del lavoro e basta. Come ha fatto notare recentemente anche Zamagni,[17] si crea una forma di diseguaglianza specifica delle società moderne: quella relativa a differenti gradi di libertà nell’organizzazione del tempo, in funzione dei propri bisogni di sviluppo personale. Il concetto di formazione permanente rovescia questa logica, introducendo l’idea che sia non solo possibile, ma doveroso, concepirsi in ogni momento della vita come persone in continuo «divenire».
Il secondo esempio di trasformazione qualitativa della temporalità connessa all’avvento del nuovo modo di produrre, riguarda la fine della fabbrica — o del posto di lavoro — tradizionale.
Non solo si sta esaurendo, come si è già visto richiamando l’analisi di Gorz, il modello tradizionale di organizzazione del lavoro di ispirazione fordista, con il conseguente sviluppo di sistemi di fabbrica «minima» estremamente flessibili. Per molte attività sta venendo meno l’idea stessa di fabbrica o di ufficio, intesi come luoghi fissi di riferimento collettivo per una parte rilevante del quotidiano. Oggi, le molteplici possibilità connesse al telelavoro stanno ridisegnando alcune aree di attività sulla base della separazione fra prestazione lavorativa e luogo di lavoro.
Poiché molte prestazioni lavorative si stanno riducendo all’elaborazione e trasmissione di informazioni via computer, non è più necessario che i lavoratori si trovino fisicamente nello stesso luogo in cui operano le macchine, governabili a distanza dagli elaboratori. Lo si può fare benissimo anche da casa. Il telelavoro non è più una fantasia, ma una realtà molto concreta, soprattutto se si guarda a contesti tecnologicamente avanzati, come gli Stati Uniti.
I mutamenti nello spazio del lavoro fanno venir meno la scansione rigida tra tempo di lavoro e altri tempi della vita quotidiana: quelli connessi ai trasferimenti dal luogo di residenza a quello di lavoro, quelli della cura familiare, quelli della vita di relazione nella comunità di vicinato e così via. La conseguenza più evidente e macroscopica, comunque, riguarda la trasformazione che questa destrutturazione di luogo e tempo di lavoro può indurre nell’organizzazione stessa della vita urbana.
Questi processi dischiudono un orizzonte completamente nuovo, difficile da cogliere oggi in tutti i suoi sviluppi. Tuttavia, alcune potenzialità ed alcuni rischi si possono già intravedere.
Da un lato, diventa pensabile la caduta degli steccati — temporali e spaziali — fra aree di attività prima tenute rigidamente separate nella giornata e nella vita degli uomini e governate da norme spesso contrastanti. Questo può consentire agli uomini di ricomporre in modo coerente una temporalità oggi molto frammentata e fonte di discriminazione fra chi ha e chi non ha autonomia nella gestione dei tempi e dei significati del proprio agire. Dall’altro lato, bisogna evitare che questa «ricomposizione» si traduca nella sopraffazione di una sola attività su tutte le altre o nella chiusura in un mondo privato, assolutamente autosufficiente, povero di relazioni con l’esterno, che finisce con la porta di casa.
C’è il problema di canalizzare le energie liberate e le maggiori risorse personali verso forme di vita civile in cui si possano dispiegare la partecipazione, la solidarietà, la comunicazione.
 
6. La prospettiva federalista per la civiltà del «tempo scelto».
 
I motivi di riflessione proposti sin qui mostrano come le opportunità che si profilano già oggi per ridefinire il tempo di lavoro comportino trasformazioni che rendono pensabile un nuovo modello di civiltà, quella del «tempo scelto».[18]
Negli anni ‘80, gli autori di La Rivoluzione del tempo scelto scrivevano: «Nulla vieta di pensare con maggior precisione alla morfologia delle aree di azione nelle quali si potrebbero dispiegare le attività umane generate dalla liberazione del tempo: alcuni compiti di amministrazione locale potrebbero essere oggetto di una riappropriazione diretta da parte della collettività, affiancandosi ai servizi reciproci tipici dei rapporti di vicinato; la manutenzione degli immobili, del patrimonio artistico, di ogni bene di interesse sociale o individuale (…) ritroverebbe una propria funzione riconosciuta; la partecipazione multipla alle realtà associative, la formazione di una produzione artistica parallela a quella ufficiale sono altrettante espressioni possibili per le microculture nascenti, piccole ma efficaci generatrici di senso la cui vitalità può mettere in ridicolo l’iconografia standardizzata dei mass-media».[19]
Oggi non si tratta più di «pensare» questa trasformazione, ma di incominciare a realizzarla, promuovendo la riduzione dell’orario di lavoro, i cambiamenti della fabbrica tradizionale, la nascita delle nuove professioni e, soprattutto, creando un assetto istituzionale che consenta a tutti il pieno sviluppo delle capacità di partecipazione alla vita civile e sociale.
Nello sfruttamento di queste opportunità, vi sono molti ostacoli oggi per i cittadini europei. Se non si completa al più presto l’unione economica e politica del continente, c’è addirittura il rischio che l’Europa perda «il treno della storia». Il lavoro può cambiare solo se si compie decisamente il salto verso il modo di produrre post-industriale. Solo così l’economia europea potrà tornare competitiva rispetto alle altre potenze tecnologicamente avanzate e realizzare, ad esempio, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro in condizioni di abbondanza di risorse, capaci di garantire livelli di vita dignitosi per tutti.
Il rilancio dell’economia europea comporta investimenti infrastrutturali di così ampia portata da poter essere compiuti soltanto a livello europeo. Pensiamo ad esempio alle infrastrutture necessarie per dispiegare tutte le potenzialità dell’informatica: negli USA le autostrade informatiche sono in corso di allestimento da anni, mentre l’Europa sta ancora discutendo fino a che punto si possa realizzare — con quali fondi, quali poteri, ecc. — il Piano Delors, che contempla investimenti prioritari in questo settore.
Il rilancio economico è condizione necessaria, ma non sufficiente, per portare a compimento la «rivoluzione del tempo scelto». Bisogna porsi, fondamentalmente, il problema di quale sia il quadro politico-istituzionale più adeguato ad incentivare e soddisfare le richieste — crescenti nella prospettiva di una dilatazione del tempo libero — dei cittadini di partecipare alla vita politica, sociale e culturale.
La prospettiva del tempo scelto risulta difficile da pensare per chi guardi solo al contesto in cui oggi si svolge la vita pubblica: quello disegnato dagli Stati nazionali, attualmente caratterizzato da una grave crisi della politica e dal venir meno della comunità locale come centro integrato di vita, il quale è stato favorito da una pianificazione del territorio che ne ha mortificato le potenzialità. In questo quadro, si può addirittura temere un aumento del tempo libero, che ad alcuni appare come un incubo dominato dalla noia o dalla rincorsa senza fine di attività puramente ludiche o estetiche.
Il problema è che non si riflette mai a sufficienza sul fatto che, quando si afferma un nuovo modo di produrre, non nasce solo un nuovo lavoratore. Si sviluppa anche e soprattutto un modo diverso con cui l’uomo si concepisce come cittadino: ripensa lo Stato, rinnova le forme della partecipazione alla vita pubblica, cerca strade e spazi diversi per affermare la politica come massima espressione della moralità.
E’ il problema che il pensiero federalista pone al centro della riflessione sulle potenzialità di rinnovamento della democrazia nello Stato federale e sulla nuova cittadinanza che nascerà con la Federazione europea.


[1] G. Aznar, Lavorare meno per lavorare tutti, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
[2] Per non fare che qualche esempio, è noto che in Germania, sulla scia del successo dell’esperimento alla Volkswagen, la riduzione dell’orario è oggi il nodo nella trattativa fra governo e sindacati; in Francia, in molti settori si sta studiando la fattibilità della settimana di quattro giorni; in Italia i progressisti (La Repubblica, 23/3/95) hanno presentato una proposta di legge — dal titolo «Norme per modulare i tempi della vita, ridurre la durata del lavoro, affermare il diritto del tempo scelto» — che collega la riduzione dell’orario di lavoro con il cambiamento dei tempi della città.
[3] Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. Libro Bianco, Bollettino delle Comunità europee, Supplemento 6/93.
[4] J. Delors, «Il Libro Bianco: un piano d’azione e uno stimolo alla riflessione» in Istituto Europeo di Studi Sociali IESS-AE, Il futuro del lavoro in Europa, Bari, Cacucci, 1994, pp. 33-4.
[5] Anche recentemente, ad esempio, Alfonso Jozzo («La sfida per l’Europa della riduzione dell’orario di lavoro», in Il Federalista, XXXVI (1994) pp. 139-148) ha riproposto questi temi, mettendo in luce la connessione tra riduzione del tempo di lavoro, ripensamento della democrazia e servizio civile.
[6] N. Elias, Saggio sul tempo, Bologna, Il Mulino, 1986.
[7] J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977.
[8] G. Simmel, La filosofia del denaro, Torino, Utet, 1984.
[9] A. Gorz, Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
[10] Qui Gorz richiama direttamente le analisi di Weber su etica protestante e spirito del capitalismo e sul concetto di Beruf.
[11] J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, Bologna, Il Mulino, 1986.
[12] A. Gorz, cit., p. 120.
[13] Ibidem, pp. 77-8.
[14] D. Blondel, «Mort et résurrection de la pensée économique», in Le Monde, 1/4/1986.
[15] A. Gorz, cit., p. 97.
[16] Ibidem, p. 100.
[17] S. Zamagni, «Lavoro ridisegnato dal tempo», in Il Sole-24 Ore, 15/2/1995.
[18] Questa espressione è stata usata da un’équipe coordinata da Jacques Delors (Echanges et Projets, La rivoluzione del tempo scelto, Milano, Angeli, 1986) che già nei primi anni ‘80 aveva posto le questioni oggi nuovamente al centro del dibattito sulla temporalità.
[19] Echanges et Projets, cit., p. 137.

 

 

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