IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVII, 1995, Numero 3, Pagina 156

 

 

La sovranità popolare e il popolo federale mondiale come suo soggetto
 
 
I. La legittimità
 
1. Premessa. 2. Lo Stato e la legittimità. 3. La legittimità come esigenza insoddisfatta. 4. Lo Stato come Giano bifronte.
 
1. Premessa. L’Europa e il mondo si trovano oggi in una fase di profonda trasformazione. Da una parte si manifestano rovinose spinte alla disgregazione di compagini statali esistenti, e alla fondazione, sulle loro ceneri, di entità fragili e artificiali che rivendicano a loro volta una natura statuale. Dall’altra si stanno svolgendo processi di segno opposto, di aggregazione di Stati. Tra essi quello in corso in Europa occidentale è arrivato alla soglia dell’unificazione federale. Vecchi Stati scompaiono, nuovi Stati nascono, e il tutto si svolge senza alcuna consapevolezza del senso storico delle trasformazioni in atto, in una confusione linguistica che rende assai difficile, per chiunque si senta sollecitato all’impegno politico dalla percezione dei pericoli che incombono e delle occasioni che rischiano di andare perdute, comprendere ciò che accade per orientarsi nell’azione.
I concetti che sono in gioco nei processi di nascita e di morte degli Stati costituiscono i cardini della filosofia politica e della filosofia del diritto e, come tutti i concetti che fondano un intero settore della conoscenza umana, hanno l’oscurità di ciò che è profondo. Essi sono da secoli al centro della riflessione politica e giuridica, ma non per questo cessano di opporre a chi li affronta le loro opacità e le loro contraddizioni. Ad essi bisogna quindi avvicinarsi con l’umiltà che deve imporre la consapevolezza dell’insufficienza dei propri strumenti conoscitivi. Ma essi restano ostacoli che non possono essere aggirati, soprattutto da chi, come i federalisti, è impegnato in un disegno politico che ha come proprio obiettivo la fondazione di uno Stato.
 
2. Lo Stato e la legittimità. La crisi secolare dell’idea di nazione, della quale i sussulti micronazionalistici che stanno tuttora devastando l’ex-Jugoslavia e l’ex-Unione Sovietica non sono che l’ultima manifestazione, e quella recente dell’ideologia comunista, danno ai processi di aggregazione e di disgregazione che sono in corso oggi nel mondo il senso della ricerca, da parte dei membri di collettività umane di diversa natura e dimensione, di nuove ragioni per vivere insieme come cittadini di un nuovo Stato. Ciò che è in gioco in questi processi è l’idea di legittimità.
Tra le infinite forme nelle quali gli uomini organizzano la loro convivenza politica e tra le infinite configurazioni che assumono, nella realtà storico-sociale, i rapporti di potere tra individui e tra gruppi, lo Stato costituisce un livello privilegiato, la cui specificità è costituita appunto dall’idea di legittimità. La legittimità è il riflesso della consapevolezza, da parte dei membri di una collettività, che esiste, al di là degli interessi particolari che si contrappongono nella società civile, un interesse generale, e che lo Stato ne è l’espressione. Essa costituisce quindi il fondamento del consenso dei cittadini (o quantomeno della loro grande maggioranza) nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni, cioè della accettazione da parte dei cittadini del vincolo che li unisce in un’unica comunità di destino, dei principi che stanno alla base della loro convivenza e delle regole che disciplinano la lotta politica. È proprio grazie alla superiore mediazione garantita dallo Stato che il confronto politico non degenera in guerra civile o comunque in una scomposta e caotica contrapposizione di interessi particolari, ma diviene uno strumento di avanzamento civile e di progresso sociale.
In quanto sede della legittimità, fondamento della convivenza civile e quadro in cui si realizza l’interesse generale, lo Stato è la suprema garanzia del rispetto del diritto. Esso è un’entità che non è legittimata da alcun ordinamento superiore, ma che legittima essa stessa ogni altro ordinamento.
Vi sono due concezioni classiche dello Stato che, per ragioni opposte, non riconoscono il ruolo cruciale dell’idea di legittimità e quindi perdono di vista proprio la caratteristica distintiva del fenomeno che studiano e la sua collocazione privilegiata nel complesso intreccio dei rapporti politico-sociali.
La prima, che è comune alla tradizione marxista e a buona parte della scienza della politica, vede nello Stato la pura manifestazione sovrastrutturale di un modo di produrre e della stratificazione sociale che ne deriva, o una delle molteplici configurazioni, non intrinsecamente diversa dalle altre, che possono assumere i rapporti di potere tra gli uomini, o tra i gruppi in cui gli uomini si organizzano. La costituzione dello Stato, per entrambi questi approcci, sarebbe quindi priva di autonomia, così come priva di autonomia sarebbe la disciplina che la studia. Il contenuto della costituzione non avrebbe nulla a che fare con l’interesse generale, ma rispecchierebbe senza residui i rapporti di forza tra le classi o i gruppi di potere che tentano di far prevalere nella società civile i propri interessi particolari su quelli degli altri.[1]
La seconda è la concezione giuspositivistica dello Stato, che ha avuto in Kelsen il suo interprete più rigoroso. Per questo approccio lo Stato, anziché ridursi a puro fatto, come nella concezione precedente, si riduce a puro diritto, cioè ad un sistema di norme spersonalizzate che, da un lato, fondano, sulla base di nessi di natura puramente logica, la legalità dell’ordinamento giuridico interno, e, dall’altro, sono fondate da norme di ordine superiore (quelle del diritto internazionale), in una piramide che ha il suo culmine in quella sorta di divinità misteriosa che è la Grundnorm, o norma fondamentale.
Ma in verità lo Stato non si risolve né in un insieme di rapporti di potere o di rapporti di produzione né in un sistema di norme spersonalizzate. Esso è più dell’una e dell’altra cosa, e la prerogativa che lo contraddistingue è appunto la legittimità. Questa non deve essere fraintesa come puro riflesso del potere, che si impone soltanto in quanto esiste, né confondersi con la legalità, che è la semplice conformità di un fatto ad una norma, o di una norma ad una norma superiore. Al contrario, essa esprime l’esigenza di individuare il luogo originario nel quale si realizza la fusione embrionale di fatto e norma, di potere e diritto.[2]
È proprio nell’idea di legittimità che trova il suo fondamento la distinzione tra costituzione materiale e costituzione formale di uno Stato. La costituzione formale è un insieme di norme che si distinguono dal resto dell’ordinamento soltanto in quanto richiedono una procedura più rigorosa per essere approvate, modificate o soppresse. La costituzione materiale è invece l’insieme dei principi, delle norme e delle istituzioni in cui si esprime la legittimità dello Stato. La loro descrizione normalmente costituisce parte integrante della costituzione formale, ma la loro esistenza è indipendente da questa, che del resto può anche non esistere, come avviene nel caso della Gran Bretagna.
 
3. La legittimità come esigenza insoddisfatta. L’idea di interesse generale, in quanto esigenza astratta e formale di garantire la pace sociale fondando i rapporti tra gli uomini sull’osservanza del diritto, è legata allo Stato in quanto tale, indipendentemente dalle forme concrete che esso assume nel tempo e nello spazio. Ma, calata nel flusso della storia, l’esigenza di far coincidere senza residui fatto e norma si svela nella sua impossibilità. Di fatto, nella storia, la legittimità è sempre solo parziale. È ben vero che anche il più barbarico degli Stati costituisce un enorme progresso nella realizzazione del diritto rispetto alla violenza generalizzata dello stato di natura (che non è affatto una finzione filosofica, ma una concreta possibilità della quale la storia, anche contemporanea, ci fornisce tragiche testimonianze).[3] Ma è altrettanto vero che la legittimità di ogni manifestazione storica dello Stato è sempre stata messa in discussione e continuerà ad esserlo in futuro. E ciò accade perché potere e diritto, che si fondono — o si dovrebbero fondere — nella legittimità sono termini insieme inscindibili e contraddittori. Di fatto l’idea di legittimità, come tutti i concetti che costituiscono i fondamenti ultimi della comprensione sia del mondo naturale che di quello umano, è un’idea circolare in quanto è l’espressione delle due esigenze contraddittorie di fondare la norma sul fatto e di fondare il fatto sulla norma. Del resto un problema che occupa da secoli il pensiero politico occidentale è quello dell’opposizione non risolta tra l’esigenza di garantire la giuridicità della convivenza grazie al potere irresistibile di un sovrano legibus solutus e quella di limitare i possibili arbitrii di quest’ultimo prescrivendogli l’osservanza di norme giuridiche superiori (il diritto naturale, o le lois du royaume di Bodin).
Peraltro l’esigenza non viene soppressa per il solo fatto di non poter essere soddisfatta. Il potere dello Stato, per mantenersi, deve presentarsi come legittimo. Ne discende che tra l’ideale, che è irrealizzabile, e la realtà, che non si può svelare nella sua lontananza dall’ideale, si insinua il mito: un mito che, come tutti i miti, contiene, confusa con la mistificazione, anche una parte di verità, ma nel quale la parte della mistificazione è tanto maggiore quanto più grande è la distanza che separa la realtà dall’ideale. Per questo la legittimità presenta, insieme al suo aspetto formale, e quindi sovrastorico, un aspetto mutevole in quanto inserito nella realtà storica concreta; e la storia dello Stato è la storia dell’emergenza di forme sempre nuove di legittimità, cioè di formule ideologiche in forza delle quali lo Stato tenta di giustificare di volta in volta la propria esistenza e di fondare il lealismo dei propri cittadini.
 
4. Lo Stato come Giano bifronte. Il luogo nel quale la contraddizione insita nell’idea di legittimità si manifesta con la massima evidenza è la sfera dei rapporti internazionali. Essendo infatti lo Stato il fondamento del diritto, e non esistendo uno Stato internazionale, i rapporti tra gli Stati sono sottratti al diritto, e quindi basati sulla forza. Vero è che in determinate circostanze storiche si sono formati, nell’ambito di una comune area di civiltà, sistemi di Stati che hanno creato nei fatti un argine alla violenza fondato sul riconoscimento da parte di ciascuno di essi della legittimità degli altri e della loro capacità di obbligarsi e di rispettare gli impegni assunti.[4] Così come è vero, e lo si vedrà meglio in seguito, che oggi si sta manifestando nel mondo l’aurorale consapevolezza di una forma di cittadinanza universale, che ha il suo punto di riferimento istituzionale nelle Nazioni Unite e che costituisce il fondamento dei tentativi in corso di fondare un ordine mondiale ragionevolmente stabile. Ma resta il fatto che l’efficacia del diritto internazionale, che è l’espressione di queste forme embrionali di riconoscimento di un interesse generale al di là dei confini degli Stati, e che comunque ha una grande importanza simbolica come segno di un’esigenza, è una realtà evanescente e priva di certezza; e che l’esistenza dello Stato rimane la discriminante tra la pace e la guerra, il diritto e l’anarchia, talché la legge della forza continua ad essere, come è sempre stata, la sola legge che regola in ultima istanza i rapporti tra gli Stati.
Lo Stato è quindi insieme il garante della pace e del rispetto del diritto al proprio interno e l’agente della violenza nei rapporti con gli altri Stati. E questi suoi due aspetti contraddittori non sono indipendenti l’uno dall’altro, perché la capacità dello Stato di difendersi mediante l’uso della violenza dalle minacce provenienti dall’esterno è la condizione sine qua non della sua capacità di imporre il dominio della legge nei rapporti tra i propri cittadini. D’altra parte, l’esercizio, o la minaccia dell’esercizio, da parte dello Stato, della violenza esterna compromette necessariamente la certezza dei rapporti giuridici al suo interno, perché i due ambiti non possono essere isolati. Lo Stato può quindi realizzare al suo interno una sfera di giuridicità soltanto a prezzo di tollerare, e spesso di promuovere, sia nelle relazioni internazionali che al suo interno, una sfera di rapporti sottratti al controllo del diritto. Soltanto pagando questo prezzo l’umanità ha potuto procedere fino ad oggi nel lungo, tormentato ed incompiuto cammino del superamento dello stato di natura. Ma la contraddizione che ne deriva carica lo Stato di un’ambiguità che rende tutte le sue manifestazioni storiche essenzialmente instabili.
 
 
II. Il potere costituente e la sovranità
 
1. Loro carattere originario. 2. Il primato della politica.
 
1. Loro carattere originario. Se lo Stato è sempre parzialmente illegittimo, e se la sua parziale illegittimità è il motore della sua evoluzione nella storia, bisogna che un termine della contraddizione che è insita nella legittimità acquisti, in certi momenti critici della vita dello Stato, una sua esistenza indipendente, si contrapponga allo Stato nella forma concreta che esso ha di volta di volta storicamente assunto e diventi l’agente della sua trasformazione, cioè della creazione di una nuova forma di legittimità e di una nuova costituzione materiale. Il suo oggetto deve essere la rifondazione di quel complesso di norme e di istituzioni che nella vita normale dello Stato si è visto essere sorretto dal consenso generale: ma, mentre quest’ultimo è, come dice Hauriou,[5] consuetudinario, e quindi passivo, l’agente della trasformazione della legittimità deve essere attivo, cioè identificarsi in un atto di volontà. Quella che si deve manifestare quando la costituzione materiale di uno Stato viene trasformata nei suoi fondamenti, o quando si crea uno Stato nuovo, è quindi la volontà generale.
L’espressione della volontà generale si è di volta in volta identificata nel linguaggio politico e nella storia del pensiero politico con l’esercizio del potere costituente o della sovranità. Questi due termini hanno origini diverse e sono stati storicamente usati in contesti diversi. Mentre l’idea di potere costituente è nata nella rivoluzione francese e appartiene alla tradizione di pensiero democratica in quanto, al di là di qualche incertezza, viene riferita, nel linguaggio politico e nella dottrina, quasi esclusivamente al popolo o ai suoi rappresentanti, quella di sovranità è nata nel Cinquecento, con l’opera di Bodin, parallelamente alla nascita dello Stato moderno nella forma della monarchia assoluta, come necessità di affermare il carattere originario dello Stato (o dell’autorità del monarca che ne era l’espressione concreta) e la sua indipendenza da qualsiasi altro ordinamento. Essa è servita allora al potere politico come strumento per far cessare i conflitti di religione che stavano insanguinando l’Europa e per giustificare e rafforzare il primato della monarchia su qualsiasi altro potere civile o religioso. In questo modo, essa ha consentito di superare la situazione di precarietà che aveva caratterizzato l’epoca medievale, nella quale i rapporti feudali e l’incerta delimitazione tra il ruolo delle istituzioni civili e quello delle istituzioni ecclesiastiche, non consentendo di porre con chiarezza il problema della legittimità, avevano gravemente ostacolato l’evoluzione pacifica della società civile.
Peraltro il campo semantico dei due termini si sovrappone largamente, perché entrambi denotano un potere che fonda il diritto in quanto non è vincolato da alcuna norma imposta da un potere superiore, e quindi decide nelle situazioni di emergenza, cioè di crisi delle istituzioni.[6] In entrambi i casi il problema della ricerca del loro titolare si risolve in quello dell’individuazione di un soggetto che si manifesta nella sua specificità in circostanze storiche eccezionali e che si pone al di fuori della costituzione materiale dello Stato (è legibus solutus) per poterla trasformare imponendo una legittimità che prima non esisteva, o imponendo una legittimità diversa da quella che esisteva precedentemente.
La rilevanza cruciale di questi termini tende ad essere oscurata dal ricorrente tentativo di costituzionalizzare sia il potere costituente che la sovranità. Rispetto al potere costituente ciò viene fatto riducendone l’esercizio al normale procedimento di revisione costituzionale. In questo modo il potere costituente viene ricondotto nell’ambito dell’ordinamento costituzionale precedente, di cui il processo di revisione non fa che applicare una norma. Il potere costituente implica invece, quali che siano le forme in cui si attua, una rottura della continuità formale dell’ordinamento. Il soggetto che esercita il potere costituente infatti non si limita a modificare norme che sono costituzionali soltanto in senso formale ma che di fatto hanno un rilievo secondario, e in quanto tali possono essere cambiate nel rispetto della lettera e dello spirito della costituzione vigente: ma trasforma i contenuti storici della legittimità, e quindi non può trarre la propria dalla conformità all’ordinamento precedente (anche se in qualche caso una rottura sostanziale può coesistere con la continuità formale).[7]
Lo stesso problema si pone per la sovranità intesa come potere di decidere in ultima istanza. Anche qui si tratta di comprendere se il decisore in ultima istanza è un soggetto collocato all’interno o al di fuori della costituzione. E anche qui il tentativo di costituzionalizzare la sovranità viene operato da una parte della dottrina, e da alcune costituzioni democratiche, attribuendo esplicitamente ad un organo costituzionale il potere di dichiarare, in situazioni eccezionali di crisi delle istituzioni, lo stato di emergenza e di sospendere le garanzie costituzionali per ripristinare la legalità. Ma anche in questo caso il vero titolare della sovranità sfugge a qualsiasi tentativo di disciplina da parte dell’ordinamento precedente. La verità è che nessuna costituzione può coerentemente dettare disposizioni per il superamento della propria crisi. Di fatto ogni costituzione considera i propri fondamenti di legittimità come permanenti e immodificabili. Mentre la possibilità di superare una situazione di difficoltà istituzionale in virtù di una disposizione costituzionale presuppone che ci si trovi in un quadro di sostanziale normalità, e che quindi la crisi non coinvolga il sistema nel suo complesso e non ne metta in gioco i fondamenti di legittimità, cioè non sia una vera crisi. A conforto di questa affermazione si può ricordare che, fino a che si rimane nell’ambito della costituzione, il potere di sospendere le garanzie costituzionali deve essere sottoposto a limiti precisi, e che l’osservanza di questi limiti deve essere controllata e imposta da altri organi costituzionali, il che rende circolare il problema di individuare, nell’ambito della costituzione, il decisore in ultima istanza. La realtà è che, quando il problema della sovranità si pone realmente, perché la crisi delle istituzioni coinvolge il sistema nel suo complesso e i suoi fondamenti di legittimità, il decisore in ultima istanza non può essere individuato che al di fuori della costituzione, ed il suo potere non può essere esercitato in forza di una norma, ma è un fatto che fonda una norma nuova.[8]
 
2. Il primato della politica. Da ciò si deve trarre la conclusione che, anche se nell’idea astratta di legittimità potere e diritto coincidono, nel corso del processo storico la fondazione — o la rifondazione — di uno Stato è un atto eminentemente politico, ed è la politica che fonda il diritto, e non viceversa, anche se si tratta di una politica che non si esaurisce nella lotta per il potere, ma che ha in sé il germe del diritto in quanto ha in vista il bene comune: la politica rivoluzionaria. Questa prima evidenza ci deve portare alla conclusione che il potere costituente non può mai essere esercitato dall’ordine giudiziario, il cui compito è quello di applicare la legge vigente e non quello di fondare i principi di un ordinamento giuridico nuovo. Nella stessa storia degli Stati Uniti, che pure è stata profondamente segnata dalle decisioni della Corte Suprema, queste non hanno mai intaccato i principi fondamentali della costituzione, tanto che sembra ragionevole sostenere che, dopo la fondazione della federazione, questa ha conosciuto soltanto tre veri momenti costituenti, nei quali i fondamenti della convivenza civile sono stati messi radicalmente in discussione: la Guerra di Secessione, il New Deal e le grandi battaglie per i diritti civili negli anni ‘60. La Corte Suprema ha certo esercitato una funzione fondamentale lungo tutto l’arco della storia dell’Unione: ma si è sempre trattato di una funzione svolta nel quadro di un ordinamento costituzionale i cui fondamenti, pur nel continuo flusso degli eventi e al di là della incessante trasformazione degli equilibri politici e sociali, sono rimasti, tra ogni fatto costituente e il successivo, inalterati. Tutto ciò non toglie che, in determinate circostanze di crisi profonda del potere, la politica si possa servire degli stessi giudici per affermare, anche se in forme perverse, il suo primato. Sono le occasioni in cui, sotto l’apparenza ingannevole della prevalenza del diritto sulla politica, si cela il fenomeno profondamente degenerativo della politicizzazione del diritto e della rinuncia da parte dei giudici ad esercitare con rigore e imparzialità la loro funzione.[9]
 
 
III. Il soggetto del potere costituente
 
1. Il popolo. 2. Il popolo nella costituzione e il popolo prima e al di sopra della costituzione. 3. Il popolo e lo Stato. 4. L’esercizio del potere costituente sottratto a qualunque forma predeterminata. 5. Potere costituente e democrazia.
 
1. Il popolo. L’identificazione tra potere e diritto insita nell’idea di legittimità, e la contemporanea impossibilità di far coincidere queste due entità in un soggetto empirico sono i termini della contraddizione che ha condizionato, nella storia del pensiero politico, la ricerca del titolare del potere costituente, o del «sovrano». La prerogativa della sovranità, per prendere quello dei due termini che ha la storia più lunga, è stata successivamente attribuita nel tempo a due entità: Dio e il popolo. Ma Dio è absconditus, e deve essere rappresentato in terra da qualcuno, che ha tutte le manchevolezze delle cose terrene. La legittimità di origine divina quindi non scioglie la contraddizione facendo coincidere il fatto con la norma, perché il fatto è il rappresentante terreno di Dio, con i suoi limiti e le sue insufficienze, e la norma è Dio con la sua invisibilità. Del resto, con la laicizzazione del potere imposta dallo Stato moderno e dalla rivoluzione francese, la legittimazione divina del potere ha perso la sua credibilità, ed il solo fondamento possibile della legittimità è rimasto il popolo. Il popolo realizza nella sua idea la coincidenza del fatto e della norma, perché in ipotesi vuole il proprio interesse, e il suo interesse è l’interesse generale, il cui perseguimento è la norma che legittima l’esercizio del potere. Esso è quindi il giudice in ultima istanza dell’adeguatezza del modo in cui il potere viene esercitato. Per questo Rousseau ha potuto dire che la volontà generale, quando è veramente tale, non può sbagliare.[10]
L’individuazione del popolo come unico titolare della sovranità confligge apparentemente con il fatto che all’origine dell’idea di sovranità sta la figura del monarca assoluto, la cui affermazione coincide con la nascita dello Stato moderno. Ma in realtà la figura del monarca assoluto (là dove si è affermata, e quindi con l’eccezione della Gran Bretagna) ha storicamente segnato la nascita del popolo (anche se in una forma ancora embrionale e inconsapevole), in quanto, superando la confusione e il conflitto delle legittimità (e quindi la mancanza di legittimità) caratteristici del Medioevo e della fase delle guerre di religione, e imponendone una sola in nome del diritto divino del monarca, ha insieme creato ed espresso per la prima volta, tra i suoi sudditi, una comunità di destino, unita dal lealismo nei confronti di un’unica autorità secolare e che di questa costituiva il reale fondamento di potere; e ha dato così un contenuto concreto all’idea di interesse generale, o di bene comune.[11] Non si dimentichi del resto che la monarchia assoluta ha prosperato in Francia, dove era nata, fino a che si è fondata sul consenso popolare per combattere le resistenze feudali della nobiltà, ed è caduta quando la coincidenza del suo interesse alla propria sopravvivenza con l’interesse generale è venuta a mancare.
 
2. Il popolo nella costituzione e il popolo prima e al di sopra della costituzione. Un importante contributo alla definizione del popolo come titolare del potere costituente (e quindi della sovranità) è stato dato da Carl Schmitt con la distinzione tra popolo nella costituzione e popolo prima e al di sopra della costituzione.[12] Il popolo nella costituzione è l’insieme dei cittadini-elettori di uno Stato, del quale esso costituisce un organo,[13] e che svolge la funzione che la costituzione gli assegna attraverso le procedure che essa determina (elezioni, referendum, iniziativa popolare). Ma non è in questa accezione che il popolo è il titolare del potere costituente, proprio perché in quest’ultima veste il popolo non è costituito da un ordinamento giuridico preesistente, ma costituisce esso stesso le forme essenziali dell’organizzazione del potere, cui il documento costituzionale (o alcune leggi ordinarie e la prassi, come in Gran Bretagna) dà una forma giuridica. Il popolo prima e al di fuori della costituzione è la «nazione» di Sieyès che, in Qu’est-ce que le Tiers-Etat?, scriveva: «La nazione esiste prima di tutto, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale, essa è la stessa legge».[14] «La volontà nazionale… non ha bisogno che della sua realtà per essere sempre legale, essa è l’origine di ogni legalità. Non solo la nazione non è sottomessa ad alcuna costituzione, ma essa non può esserlo, non deve esserlo, il che equivale a dire che non lo è».[15]
Il titolare del potere costituente è quindi il popolo prima e al di sopra della costituzione. Per chiarire con un esempio la differenza tra i due soggetti basti pensare a quei casi di profonda modifica degli assetti costituzionali degli Stati europei nel corso del XIX secolo e all’inizio del XX che sono stati gli allargamenti del suffragio prima a tutti i cittadini maschi e poi alle donne. Decisioni di questo tipo, anche se sono state prese con legge ordinaria, e quindi senza alcuna rottura formale della continuità giuridica, di fatto non si possono interpretare che come l’esercizio da parte del popolo del suo potere costituente. Ma si tratta di atti di volontà il cui soggetto non è stato l’elettorato così come era definito dall’ordinamento precedente (cioè prima dell’allargamento del suffragio), ma un’entità che si esprimeva in nome del nuovo elettorato. Tutte le grandi estensioni del suffragio nella storia degli Stati democratici sono state il coronamento di lotte che hanno visto in prima linea gli esclusi (oltre alla parte più avanzata dei ceti ai quali già era riconosciuto il suffragio), e nelle quali quindi il popolo sovrano era rappresentato anche da coloro che l’ordinamento precedente non riconosceva come suoi membri.
 
3. Il popolo e lo Stato. Se queste considerazioni sono corrette, se ne può concludere che la stessa espressione «popolo nella costituzione» è fuorviante, perché l’organo che elegge le assemblee o decide nei referendum di fatto viene più correttamente designato con il termine «corpo elettorale» o con altre espressioni equivalenti, che mettono chiaramente in vista che si tratta di un’istituzione tra le altre, per quanto essenziale essa sia nei regimi democratici. Il popolo in realtà è soltanto quello che si manifesta prima e al di sopra della costituzione. Esso ha un’attività intermittente e, nelle fasi normali — quelle che Hauriou chiamerebbe «di movimento lento»[16] — si «nasconde», per così dire, nelle istituzioni che esso ha creato nella precedente fase costituente e che ora sorregge attraverso il consenso consuetudinario. Esso quindi non è rappresentato soltanto dalle assemblee elettive, ma dalla totalità degli organi, delle regole e delle procedure nei quali si articola la costituzione materiale. Ed è importante rilevare che, in tutti i regimi democratici, alcuni di questi organi, regole e procedure hanno la funzione specifica di garantire i diritti fondamentali dei cittadini contro gli arbitrii che possono nascere dal comportamento della maggioranza del corpo elettorale e degli organi che lo rappresentano.[17]
Resta il fatto che se, nelle fasi costituenti, il popolo cessa di identificarsi con le istituzioni esistenti, esso si identifica comunque con un progetto istituzionale, talché è impossibile pensare ad un’entità «popolo» che esista indipendentemente dal modo in cui esso è organizzato o progetta di organizzarsi. L’atto di volontà con il quale, secondo l’espressione kantiana, «la moltitudine diventa popolo»[18] (o ridiventa tale dopo una crisi di legittimità) è perciò sempre anche un atto costituente. Ogni pactum unionis è sempre anche un pactum constitutionis. Il popolo quindi si identifica con lo Stato e la storia del popolo è la storia dello Stato. Ma si tratta di una identificazione soltanto tendenziale, tant’è vero che la differenza tra i due termini non può essere soppressa nel linguaggio politico. E la differenza è radicata nella distanza che separa l’idea di popolo, che è quella dell’autogoverno, dal popolo empirico, che non realizza se non in parte la sua idea, e quindi non supera l’opposizione tra governanti e governati. Il popolo empirico ha bisogno, per esistere, dell’imposizione del potere dell’uomo sull’uomo; e lo Stato è l’organizzazione del potere, e proprio in quanto tale è la garanzia contro il suo abuso e quindi di quel tanto di autogoverno che il popolo empirico è in grado di esprimere.
 
4. L’esercizio del potere costituente sottratto a qualunque forma predeterminata. Dal carattere originario del popolo prima e al di sopra della costituzione discende che non esiste alcuna procedura predeterminata attraverso la quale esso debba esercitare il proprio potere costituente. Ricordiamo ancora Sieyès: «…una nazione è indipendente da qualsiasi forma; e, quale che sia il modo in cui essa vuole, è sufficiente che la sua volontà appaia perché qualunque diritto positivo perda ogni validità di fronte ad essa…».[19] Ciò non toglie che il potere costituente si debba necessariamente manifestare, in certe fasi del processo, attraverso determinate procedure: ma si tratta di procedure che sono esse stesse l’espressione dell’esercizio del potere costituente nella sua completa autonomia, e quindi non ne vincolano in alcun modo la manifestazione. È dunque arbitrario sostenere che esiste comunque una forma attraverso la quale la volontà generale si esprime naturalmente, come quella dell’assemblea costituente o del referendum. L’esito di qualunque elezione per un’assemblea costituente e di qualunque referendum, come quello di ogni altra consultazione popolare, dipende da un grande numero di fattori: dalla composizione del corpo elettorale, dal modo in cui è formulato il quesito referendario, dall’intensità del dibattito che precede la consultazione, dal grado di partecipazione degli elettori e dalla loro consapevolezza della posta in gioco; talché in genere si deve considerare che l’esito di una qualsiasi consultazione popolare non è necessariamente il risultato di una vera manifestazione di volontà, ma può non essere che l’espressione di un consenso passivo e guidato. La volontà generale può venire correttamente espressa da una decisione presa da un numero ristretto di attori, o anche da uno solo, sostenuti dalla partecipazione attiva e consapevole del popolo, così come può essere del tutto falsata da un referendum o da un’elezione manipolati, o indetti in un momento inopportuno.
È sempre in questa ottica che si deve sottolineare che la fase decisiva dell’esercizio del potere costituente non coincide necessariamente con la redazione e l’approvazione di un documento costituzionale in senso formale, anche se queste operazioni costituiscono momenti del processo costituente in senso lato. Talvolta infatti esse vengono compiute quando la nuova legittimità è già stata imposta da un atto rivoluzionario che ha cambiato gli equilibri di potere esistenti e tracciato le linee-guida di un nuovo assetto istituzionale. In questi casi, la fase della redazione della costituzione formale, che può intervenire anche molto tempo dopo, come è accaduto nei primi anni della storia dell’Italia repubblicana, non costituisce che l’esecuzione di una sorta di mandato, esplicito o implicito, che trae la sua efficacia vincolante dall’atto attraverso il quale si è espressa la volontà generale. In altre circostanze la manifestazione conclusiva della volontà popolare avviene dopo la redazione del documento, come è accaduto nel caso della Costituzione americana dal 1787, rispetto alla quale la fase decisiva del processo costituente è stata rappresentata dalle ratifiche degli Stati. In altre circostanze ancora, un testo costituzionale può essere usato come strumento nella lotta per imporre una nuova legittimità (come è accaduto nel caso del progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo su iniziativa di Spinelli il 14 febbraio 1984 e non adottato dai governi della Comunità).
 
5. Potere costituente e democrazia. Il potere costituente, o la sovranità popolare, sono quindi qualcosa di essenzialmente diverso dall’espressione del suffragio che costituisce il fondamento della democrazia. È certo vero che in una situazione storica matura l’esercizio del potere costituente del popolo (o la sovranità popolare) non può dare origine che a un regime democratico, e che quindi oggi il potere costituente del popolo (o la sovranità popolare) è il fondamento della legittimità dei regimi democratici (anche se, in situazioni particolari, sono ipotizzabili soluzioni di emergenza, e quindi transitorie, non formalmente democratiche; e anche se esistono comunque manifestazioni della democrazia così profondamente diverse tra di loro che il passaggio dall’una all’altra, come quello dalla democrazia nazionale alla democrazia internazionale, presuppone un vero e proprio salto rivoluzionario, e quindi l’esercizio del potere costituente). Resta il fatto che le due figure sono distinte, perché qualunque regime democratico è un regime costituito; e che è quindi errato considerare il risultato di una qualsiasi elezione, il cui soggetto è il corpo elettorale così come è definito dalla costituzione e dalla legge elettorale (e non il popolo) e nella quale si esprimono normalmente soltanto preferenze e interessi particolari, come una manifestazione della volontà generale, in quanto tale sottratta alla critica perché non può sbagliare.
Mette conto ricordare che a questo riguardo il pensiero di Rousseau viene normalmente interpretato in modo unilaterale nella misura in cui gli si attribuisce l’affermazione generica secondo la quale l’attività legislativa nel suo complesso sarebbe l’espressione della volontà generale. È certo che il pensiero di Rousseau è ambiguo, e che in alcuni contesti egli attribuisce al Sovrano (che corrisponde al popolo prima e al di sopra della costituzione) il compito di fare le leggi, e al popolo (che corrisponde al popolo nella costituzione, o al corpo elettorale) quello di governare. Ma vi sono passaggi del Contratto sociale nei quali egli identifica l’oggetto della volontà generale espressa dal Sovrano con le norme che dettano i grandi principi regolativi della convivenza di ogni comunità umana indipendente e il governo con la legislazione ordinaria (oltre che con l’attività propriamente esecutiva e amministrativa), tant’è vero che l’esercizio della volontà generale può dar luogo, secondo Rousseau, a regimi democratici, ma anche a regimi monarchici o aristocratici. Nell’ultimo capitolo del libro II del Contratto Sociale, in particolare, Rousseau divide le leggi in quattro categorie: le leggi politiche o fondamentali, le leggi civili, le leggi penali e le consuetudini. Tra queste, le leggi politiche o fondamentali sono quelle attraverso le quali si manifesta «l’azione dell’intero corpo [politico] in quanto agisce su sé stesso, ossia il rapporto del tutto rispetto al tutto, o del Sovrano rispetto allo Stato». «Tra queste diverse classi, egli conclude, le leggi politiche, che costituiscono la forma del governo, sono le sole alle quali mi riferisco».
Tutto ciò non significa che la democrazia e la volontà generale siano due cose del tutto diverse. Al contrario esse, al limite, coincidono, anche se si distinguono nella storia. E la radice della loro diversità sta nel fatto che gli uomini storici non sono esseri compiutamente razionali. Essi non sono quotidianamente motivati dall’ideale della promozione del bene comune, e quindi non sono in grado di creare forme di autogoverno nelle quali tutte le decisioni siano prese all’unanimità. Per questo essi hanno bisogno di una costituzione, che tuteli l’interesse generale, garantisca ad ogni cittadino il godimento dei diritti fondamentali e impedisca alla maggioranza di prevaricare sulla minoranza, anche limitando il potere delle istituzioni nelle quali si identifica più propriamente la democrazia. E la volontà generale si manifesta soltanto quando si pone il problema di cambiare i principi basilari sui quali si fonda la costituzione, cioè la concezione concreta del bene comune. Ma in un’ideale società perfetta gli uomini non avrebbero bisogno di una costituzione perché la tutela dei diritti che è compito della costituzione assicurare sarebbe garantita a ciascuno per il solo fatto di partecipare al processo quotidiano di formazione di una volontà che, avendo come proprio scopo permanente la realizzazione del bene comune, sarebbe sempre unanime, e quindi generale. Ed è questo l’ideale punto d’arrivo — che è irraggiungibile, ma che dà un senso all’intero processo — della storia costituzionale dell’umanità.
Sta in questa duplicità di livelli di riflessione, quello sul modello e quello sulla realtà storica, la causa dell’ambiguità del pensiero di Rousseau che, in certi contesti, rifiuta di riconoscere l’infinita distanza che separa il modello dell’assemblea del popolo che delibera all’unanimità dalle forme nelle quali si è tentato di realizzarlo nella storia (anche se egli mantiene ferma la convinzione che il modello sia comunque realizzabile soltanto nel quadro del piccolo Stato); mentre in altri contesti è costretto a fare i conti con la realtà e quindi a riconoscere che la volontà generale si manifesta esclusivamente nel momento della creazione delle leggi politiche, cioè delle costituzioni.
 
 
IV. Il popolo come processo. I popoli nazionali
 
1. La contraddizione tra l’idea di popolo e le sue manifestazioni empiriche. 2. Il popolo come processo. 3. Necessità di identificare il punto d’arrivo del processo di realizzazione dell’idea di popolo. 4. La formazione dei popoli nazionali. 5. La sovranità nazionale e la nazione come suo soggetto.
 
1. La contraddizione tra l’idea di popolo e le sue manifestazioni empiriche. L’idea di popolo è problematica e apparentemente contraddittoria. Questa sua natura deriva dal fatto che la volontà generale non emerge empiricamente come tale dalle vicende attraverso le quali gli Stati si formano e si trasformano nella storia: in esse infatti è impossibile imputare ad un entità «popolo» atti unanimi di volizione che ne costituiscano la manifestazione. Nella realtà storica gli Stati sono creati e trasformati dall’azione di minoranze. Questo fatto mette in questione la correttezza dell’attribuzione al popolo della titolarità del potere costituente.
Le vie d’uscita da questa impasse pensabili in astratto sono tre. La prima è quella «realista», che consiste semplicemente nel lasciar cadere l’idea di popolo come fondamento della legittimità. Il riferimento al popolo come titolare del potere costituente sarebbe puramente ideologico e servirebbe unicamente come giustificazione degli interessi di potere delle élites dal cui confronto e dal cui scontro nascono e vengono modificate le forme dello Stato.[20] Non vi sarebbe quindi un fondamento della legittimità di una costituzione diverso dalla forza che l’ha imposta, il che significa che quello della legittimità sarebbe un falso problema, e che tutti i regimi, dal più civile e democratico al più barbaro e totalitario, non sarebbero né legittimi né illegittimi, ma avrebbero soltanto la «fattività» dell’esistente.
Questa risposta non è accettabile. È un dato di fatto che il popolo è un’entità della quale è difficile definire i contorni. Ma questo non basta per considerarne l’idea come una pura mistificazione. La stessa insopprimibilità dell’esigenza della legittimazione del potere e delle forme del suo esercizio è la dimostrazione che il potere non può fondarsi sul puro fatto della propria esistenza. E la circostanza che certi agenti collettivi non si siano mai manifestati nella storia come entità pienamente adeguate al loro concetto, e capaci di esprimere una volontà forte e univoca, non costituisce un argomento per negare la loro esistenza. È quindi vero che fino ad oggi il popolo è stato in parte una finzione: ma lo è stato soltanto in parte, se è vero che a questa finzione, nell’una o nell’altra forma, il potere ha dovuto fare ricorso fin dalle proprie origini per garantire la propria sopravvivenza. Come è vero che, in alcuni momenti di svolta della storia, questa entità imperfetta e indefinita ha fatto irruzione nel succedersi degli eventi rovesciando gli equilibri di potere esistenti in nome di valori universali e segnando in questo modo le tappe fondamentali del processo di emancipazione umana. Il popolo quindi è una realtà, anche se si tratta di una realtà la cui natura è difficile da racchiudere in una formula, e in quanto tale si presta ad un uso ideologico.
La seconda via d’uscita ipotizzabile è costituita dalla teoria secondo la quale il popolo sarebbe un organismo, che come tale non si risolverebbe nell’insieme degli individui che lo compongono, ma avrebbe una autonoma capacità di volere attraverso gli organi deputati allo svolgimento delle sue funzioni. Questa teoria, che è comparsa soprattutto là dove l’idea di popolo è stata identificata con quella di nazione,[21] svuota del tutto di contenuto l’idea di popolo, proprio in quanto la riduce senza residui all’azione dei suoi organi, e la trasforma, come la precedente (anche se, diversamente da quella, in modo non esplicito) in una pura ideologia che ha la sola funzione di conferire legittimità all’azione di istituzioni che di fatto non rappresentano il popolo, ma soltanto particolari gruppi di potere.
 
2. Il popolo come processo. Rimane da esplorare una terza via, che consente di continuare a vedere nel popolo non un puro e semplice mito, ma una realtà agente nella storia in quanto composta di individui concreti. Si tratta di partire dal presupposto che il senso profondo dell’idea di popolo non può essere compreso che nel suo sviluppo temporale. Oggi vi è un diffuso sentimento di disagio nei confronti dei meccanismi della democrazia, che nasce dal fatto che essi producono decisioni in un orizzonte temporale ristretto, che tengono in conto soltanto gli interessi a breve termine degli elettori, o piuttosto di una loro parte, e non anche i loro interessi a lungo termine, né a maggior ragione quelli di coloro che non sono ancora nati e ne subiranno gli effetti in futuro. Questo disagio è il sintomo del bisogno di attribuire valore costituzionale a nuove regole di convivenza e di fondare la legittimità dello Stato su nuovi valori, pur nel rispetto delle regole e dei valori consegnatici dalla storia. Di fronte ad alcuni dei problemi più gravi del mondo di oggi, come quelli della salvaguardia dell’equilibrio ecologico e della conservazione delle risorse, emerge quindi con evidenza la necessità di dar voce ad un popolo capace di farsi interprete di una volontà generale che esprima anche quella virtuale delle generazioni future e sappia assumere la responsabilità delle conseguenze lontane delle proprie decisioni: un popolo più profondo, che sia immerso nella durata, e che trovi nella memoria del passato le risorse morali e culturali necessarie per garantire la solidarietà tra le generazioni viventi e quelle che le seguiranno.
È in questa prospettiva che si può intravedere la soluzione di un problema che è stato accanitamente dibattuto nel corso della rivoluzione francese: se la volontà generale abbia il potere di obbligare sé stessa. In questo dibattito si contrapponevano la consapevolezza che la volontà generale ha in sé il criterio della propria legittimità, e quindi non può essere vincolata da norme anteriori, e l’esigenza di non ridurre la volontà generale all’espressione di umori irrazionali dell’opinione pubblica, interpretati da assemblee volubili e irresponsabili. Per questo alcune delle numerose costituzioni votate negli anni della rivoluzione si dichiaravano sottratte alla revisione costituzionale per periodi di tempo più o meno lunghi e comunque ne rendevano l’esercizio particolarmente difficile: ma ciò non impediva che esse venissero rapidamente spazzate via da una nuova ondata rivoluzionaria, in spregio alle clausole che decretavano la loro immodificabilità.[22] Questa contraddizione mostra che il dibattito aveva come oggetto un falso problema. La verità è che la volontà generale è insieme incoercibile e creatrice di risultati destinati a durare nel tempo. Essa, come si è visto, non si identifica con l’atto formale dell’elaborazione di un documento costituzionale. Il carattere duraturo di un assetto costituzionale non può essere imposto da una norma, ma riposa sull’affermazione nelle coscienze di nuovi valori e sull’accettazione generalizzata di nuove regole, che sono il risultato di un intero processo rivoluzionario nel quale, al di là delle formulazioni contraddittorie prodotte dal tumultuoso e confuso succedersi degli avvenimenti, il popolo profondo, esprimendo una volontà forte ed univoca, trasforma irreversibilmente i fondamenti della convivenza civile. È così che, indipendentemente dal carattere effimero dei documenti che in quel periodo si succedettero rapidamente, la rivoluzione francese ha lasciato nella storia costituzionale un sedimento permanente, che è divenuto patrimonio comune dell’umanità e senza il quale non sarebbero venute ad esistenza le moderne costituzioni democratiche. La volontà generale quindi, in quanto agisce soltanto nelle grandi fasi di svolta della storia dell’emancipazione dell’umanità, di fatto modifica sé stessa soltanto dopo che una lunga evoluzione ha reso le basi stesse di un assetto costituzionale inadeguate a rispondere alle esigenze della vita civile e ha posto le premesse per una riformulazione del patto sociale destinata a sua volta a durare a lungo nel tempo.
Il popolo dunque, quale titolare del potere costituente (o della sovranità), non si identifica con qualunque moltitudine volubile ed esposta alle suggestioni momentanee della demagogia, ma si manifesta nella durata, cioè negli atti di volizione collettiva lungamente maturati che costituiscono le tappe fondamentali del processo di emancipazione umana. Ciò significa che esso non può essere semplicemente identificato con il soggetto di tutti i processi che danno luogo all’entrata in vigore di una costituzione in senso formale, quale che essa sia. Si tratta quindi di identificare, almeno nelle grandi linee, le condizioni nelle quali una trasformazione istituzionale configura realmente l’esercizio del potere costituente, o della sovranità, ed ha perciò il popolo come soggetto, e non deve invece essere interpretata come l’espressione solo formalmente costituzionale di un sussulto effimero della pubblica opinione o addirittura come l’espressione patologica di un momento del processo di dissoluzione di una comunità di destino.
Per questo il popolo nella storia deve essere pensato in prima istanza come progetto, cioè come un’entità che è certo imperfetta, ma che contiene in sé l’idea della propria realizzazione compiuta. Ciò significa, in primo luogo, che l’idea di popolo è un’esigenza imprescindibile, che fonda l’esistenza dello Stato moderno. Ma un’esigenza non comporta di per sé la necessità della sua realizzazione. Si tratta quindi di andare più in là, e di definire il popolo come una realtà che esiste fin dall’inizio della storia in modo virtuale, e che esplica progressivamente nel corso della stessa le determinazioni che sono insite nel suo concetto. È soltanto con questo approccio che, di fronte a trasformazioni storiche di diversa natura, è possibile stabilire quando si è e quando non si è in presenza dell’entità «popolo» quale titolare del potere costituente, o della sovranità, ed evitare l’identificazione dell’esercizio del potere costituente, o della sovranità, con la trasformazione storica tout court, talché il popolo possa essere preso a pretesto per giustificare qualsiasi nefandezza in nome di una volontà generale che, essendo soltanto virtuale, ha un significato radicalmente equivoco.
Se non si vuole cadere di nuovo nel positivismo che legittima tutto ciò che esiste in quanto esiste, è essenziale quindi distinguere tra diverse forme dell’esistente, identificando i fatti che sono intrinsecamente fondatori di legittimità. E in questo tentativo bisogna guardarsi una volta di più dalla tentazione di cercare di uscire dall’impasse affermando che sono fondatori di legittimità soltanto i fatti, cioè gli atti di volontà, che si adeguano ad una norma superiore, e quindi di ricorrere di nuovo al diritto come fondamento del fatto, cadendo in questo modo in una petizione di principio. Superare questa antinomia significa dimostrare che il popolo non è né un puro fatto che fonda una nuova legittimità attraverso l’espressione di una volontà arbitraria, né un soggetto privo di autonomia che si limita a riconoscere una legittimità superiore al di fuori di sé: ma un fatto che è insieme anche un principio di legittimità, e la cui autorealizzazione nella storia è il processo della realizzazione della piena legittimità del potere, cioè della coincidenza, al limite, tra diritto e politica.
Il concetto di popolo come progetto deve quindi essere affinato in quello di popolo come processo. E la storia deve essere pensata non già come il succedersi della nascita, della crescita e della morte di una pluralità di popoli intesi come individualità distinte, dotate di una propria realtà naturale e inconsapevole: ma come lo sviluppo di un’unica idea, a partire da uno stadio embrionale in cui essa si manifesta in forme molteplici, ma sempre come esigenza non soddisfatta, fino ad un ideale stadio finale in cui essa si realizza come espressione piena e permanente della volontà generale. Il che non toglie evidentemente che le figure che l’idea assume nelle diverse fasi della sua evoluzione, scandite dai momenti nei quali viene esercitato il potere costituente, acquistino una propria fisionomia autonoma, anche se imperfetta e imprecisa, che rende inevitabile, in alcuni contesti, l’uso del termine «popoli» al plurale.
 
3. Necessità di identificare il punto d’arrivo del processo di realizzazione dell’idea di popolo. Il criterio di massima che consente di discriminare le trasformazioni storiche che danno veramente origine ad una nuova legittimità dalle convulsioni insensate che si producono nelle fasi degenerative dell’evoluzione della convivenza civile non può essere che quello dell’avvicinamento alla realizzazione delle condizioni della piena espressione della volontà generale. Peraltro, per attribuire un effettivo valore interpretativo a questo criterio è necessario tentare di dare all’idea di volontà generale un contenuto più preciso.
Perché un atto di espressione della volontà generale possa dirsi veramente tale, esso deve presentare i requisiti dell’autonomia, dell’unanimità e dell’universalità. Si tratta di aspetti che sono radicati nell’idea stessa della ragion pratica, e ognuno dei quali è pensabile soltanto in presenza degli altri due, perché ciò che è razionale è insieme espressione dell’autonomia della coscienza individuale e fatto obiettivo, la cui realtà si impone a tutti. La volontà generale postula dunque l’esistenza di una comunità umana perfettamente razionale e trasparente, e come tale infinitamente distante da qualunque comunità umana concreta, le cui manifestazioni di volontà non possono non essere pervertite dall’inerzia, dalla menzogna e dalla violenza. Rimane però vero che la storia ha un senso soltanto in quanto è il cammino, anche se si tratta di un cammino senza fine, attraverso il quale gli uomini superano progressivamente gli ostacoli strutturali che si oppongono alla realizzazione dell’ideale della volontà generale.
Questi ostacoli strutturali sono tre. Il primo è costituito dal dominio dell’uomo sull’uomo e dalle disuguaglianze legate alla divisione del lavoro sociale, che rendono impossibile qualunque autonoma manifestazione di volontà, in quanto questa è possibile soltanto in condizioni di libertà dall’oppressione e dal bisogno. Il secondo è l’accentramento dello Stato, che costringe gli uomini a formulare ed esprimere le proprie istanze per il tramite di organizzazioni burocratiche di massa come i partiti e i sindacati, capaci di giungere a decisioni politiche soltanto attraverso il meccanismo impersonale del conteggio dei voti e la prevalenza della maggioranza sulla minoranza.
Un passo importante verso la realizzazione di condizioni che rendano possibili manifestazioni autonome e unanimi di volontà collettiva è quindi lo sviluppo di un contesto sociale nel quale sia realizzato un grado avanzato di libertà politica e di uguaglianza delle opportunità materiali, e di un contesto istituzionale federale, nel quale il processo di formazione della volontà politica incominci al livello della comunità locale — dove il dialogo diretto e personale e quindi l’elaborazione di un’opinione e di una volontà realmente condivise da tutti è possibile — e da lì salga, attraverso una lunga serie di mediazioni, ai livelli territorialmente più estesi.
Il terzo ostacolo è la divisione dell’umanità in nazioni sovrane. Una volontà, anche unanime, espressa soltanto dal popolo di uno Stato, e diversa da quella dei popoli degli altri Stati, è per definizione una volontà particolare e persegue un interesse particolare (che in realtà non è l’interesse di nessuno, come dimostra la storia di tante guerre devastatrici volute a furor di popolo). Ma non si tratta solo di questo. Un’intera tradizione storiografica ha studiato il profondo condizionamento esercitato sui rapporti politici e sulla struttura costituzionale di uno Stato dalla sua collocazione nel contesto internazionale.[23] Un atto costituente nel quadro di un singolo Stato quindi non solo non è l’espressione di una volontà veramente generale, ma non è nemmeno, se non parzialmente, un’espressione di volontà tout court, se è vero che la volontà presuppone la libertà di un popolo di decidere del proprio destino, al di là di ogni condizionamento esterno.
 
4. La formazione dei popoli nazionali. È possibile a questo punto tentare di indicare, sulla base del criterio dell’avvicinamento alla realizzazione delle condizioni della piena espressione della volontà generale, il senso dell’evoluzione dell’idea di popolo nella storia. L’idea di popolo è antica quanto lo Stato, e comunque è chiaramente visibile, anche se in forme embrionali, nel mondo greco e romano. Nel mondo moderno le condizioni materiali della sua esistenza sono state create, come si è accennato, dalla monarchia assoluta dei secoli XVI e XVII. Ma sembra corretto far coincidere l’inizio della sua storia consapevole con le rivoluzioni americana e francese e con l’Illuminismo che di quelle ha costituito il terreno culturale. La rivoluzione francese in particolare ha segnato l’inizio della fase storica della nascita dei popoli nazionali, caratterizzata dal tumultuoso processo di formazione delle classi, dei loro conflitti e del superamento di questi nel quadro di equilibri politico-sociali più avanzati. Nel corso del XIX secolo, in Europa occidentale, ogni nuova classe che assumeva un ruolo attivo nel processo produttivo e ne rivendicava uno corrispondente nella gestione del potere politico si presentava come classe universale, ed in quanto tale impersonava una figura nuova e più avanzata dell’idea di popolo: per poi, una volta giunta al potere, gestirlo, almeno in parte, nel proprio interesse particolare. Ma, così facendo, essa promuoveva la consapevolezza, da parte di sempre nuovi strati subalterni della società, che nella fase precedente avevano condotto un’esistenza inerte e appoggiato passivamente quella che allora era la classe rivoluzionaria, del proprio ruolo nel processo produttivo e delle proprie responsabilità nel processo politico, e li spingeva a rivendicare il diritto di partecipare alla gestione del potere in nome dei valori universali della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale.
Si deve sottolineare che le grandi rivoluzioni del XIX secolo, che hanno segnato gli episodi decisivi di questo processo, sono state altrettante manifestazioni del potere costituente di un popolo in divenire che, cambiando la propria identità, ha cambiato la forma dello Stato da quella dello Stato assoluto dell’Antico regime in quella dello Stato sociale contemporaneo, e così facendo ha avvicinato le forme della convivenza civile degli Europei al modello dell’autogoverno. Con l’emancipazione del proletariato e la nascita dello Stato sociale si può dire conclusa, quantomeno in Europa occidentale, la fase della formazione dei popoli nazionali (anche se si tratta di una formazione comunque incompleta, sia per il persistere di discriminazioni di natura non classista, sia perché i meccanismi della rappresentanza nello Stato nazionale unitario, da un lato, e la preponderanza del lavoro materiale nel tempo di vita degli uomini, dall’altro, continuano a fare della volontà politica reale il monopolio di una ristretta minoranza). Ma il fascismo e le due guerre mondiali hanno fatto emergere un tragico nodo, che nella fase precedente era rimasto nascosto alla coscienza collettiva degli Europei e alla stessa cultura, e che impediva all’idea di popolo di fare ulteriori avanzamenti verso la propria realizzazione: quello dell’identificazione dell’idea di popolo con quella di nazione.
 
5. La sovranità nazionale e la nazione come suo soggetto. Fin dalla rivoluzione francese, la nazione e la sovranità nazionale sono state gli strumenti ideologici attraverso i quali si è tentato di conciliare l’idea della sovranità popolare con l’esistenza di una molteplicità di Stati, cioè di popoli, sovrani. Al di là dei suoi contenuti specifici, che ne hanno fatto l’ideologia di un tipo di Stato, con una precisa collocazione storica e geografica,[24] l’idea di nazione è, più in generale, la corruzione dell’idea di popolo determinata dal fatto che quest’ultima si è finora incarnata nella storia in una pluralità di soggetti. In questo modo viene corrotta l’idea stessa di interesse generale che, pur trovando nello Stato nazione il solo quadro all’interno del quale si può di volta in volta realizzare nella misura storicamente possibile, si frantuma, nei rapporti internazionali, in una contrapposizione tra interessi particolari, Questa contraddizione si manifesta nel sentimento nazionale, o patriottismo, nel quale il sacrificio dell’interesse particolare dei cittadini in nome del bene comune è inscindibilmente legato al perseguimento dell’interesse particolare della propria nazione a scapito di quello delle altre, in spregio al bene comune dell’umanità.
A sua volta l’idea di sovranità, quando viene applicata alla nazione, si corrompe essa stessa, perché il riconoscimento dell’esistenza di più decisori in ultima istanza costituisce la negazione del concetto stesso di decisore in ultima istanza. Da questa contraddizione il diritto internazionale tenta di uscire con l’affermazione del diritto di non ingerenza, che stabilisce l’illegittimità di qualsiasi interferenza da parte di uno Stato-nazione negli affari interni degli altri in forza della sovranità di ognuno di essi sul proprio territorio. Il diritto di non ingerenza si basa sull’idea di indipendenza, cioè sul presupposto che più «società politiche», per usare la terminologia di Austin,[25] possano vivere le une accanto alle altre, sempre che siano disposte a rinunciare ad ogni reciproca ingerenza, come mondi separati ed autosufficienti, senza conflitti tra di loro e in piena autonomia nelle loro decisioni interne. Ma in realtà l’indipendenza è una pura finzione. Il mondo è interdipendente, e non è certo una norma astratta del diritto internazionale che può sopprimere la realtà concreta delle controversie tra le nazioni: e queste, se mettono in gioco interessi vitali, non possono essere risolte attraverso l’applicazione di regole giuridiche ma, una volta fallito il metodo del negoziato, soltanto attraverso lo strumento della guerra, che resta così il solo vero decisore in ultima istanza.
In questo contesto quindi la sovranità non si presenta come la manifestazione della volontà di autoemancipazione degli uomini espressa al suo grado più elevato di autonomia, come accade nei contesti nei quali si identifica con il potere costituente; ma come il potere di fare la guerra. E in questo modo nega la sua ragion d’essere più profonda, che è quella di garantire la pace sociale imponendo un potere legittimo accettato da tutti.
Queste contraddizioni si ripercuotono sull’idea di nazione in quanto tale e ne mettono in evidenza l’intrinseca ambiguità. Nei rapporti internazionali, le nazioni, come portatrici di interessi particolari, si pongono come individui distinti, e quindi si prestano ad essere pensate come organismi, composti non da individui a loro volta, ma da organi, e la cui volontà non è quella dei loro cittadini, ma quella dei loro organi, cioè dei detentori del potere. Questo del resto corrisponde al fatto che nei rapporti internazionali le decisioni attraverso le quali si manifesta la sovranità nazionale devono essere prese con rapidità e spesso preparate in segreto. Esse quindi non possono essere il risultato di un tumultuoso e confuso processo decisionale, come quello che è caratteristico delle fasi costituenti, anche se spesso esse devono essere sostenute attraverso la manipolazione del consenso. La nazione quindi (nella sua specificità, cioè in quanto sia pensata come qualcosa di diverso dal popolo) non è un’entità reale, capace di volere, ma un’entità fittizia, che serve soltanto da giustificazione ideologica delle decisioni del potere.
Non a caso quindi nella tradizione costituzionalistica francese la teoria della sovranità nazionale, che pure, nelle fasi iniziali della rivoluzione e nel pensiero degli illuministi, si identificava con la sovranità popolare, è andata via via contrapponendosi ad essa in quanto la nazione non veniva concepita come un insieme di individui, ma come un’astratta entità collettiva, che agisce soltanto per il tramite delle istituzioni che la rappresentano. Ma ciò significa che la nazione si identifica senza residui con lo Stato; e la sovranità, riferita alla nazione, cessa di essere una prerogativa del popolo che questo esercita contro lo Stato esistente, e che si manifesta soltanto in momenti privilegiati dello sviluppo storico (il che avviene allorché essa è intesa come potere costituente), ma diventa un elemento costitutivo, e permanentemente attivo, dello Stato-nazione.[26] Si deve ricordare a questo proposito, per chiarezza, che anche il popolo si identifica al limite con lo Stato, ma che per il popolo questa identificazione non è mai assoluta perché esso è un’entità in divenire, che tende in ogni momento a differenziarsi dalle forme di organizzazione della propria esistenza che di volta in volta si dà. Ed in questo suo carattere processuale risiede la sua capacità di volere attraverso atti di volizione concreti, quantomeno di una parte degli individui che lo compongono, che sfuggono alla costrizione di qualsiasi rapporto organico. Questo del resto non può avere il suo fondamento che in un potere superiore, sottratto a qualsiasi messa in questione. Perciò il popolo è il titolare reale della sovranità, mentre la nazione è un’entità astratta che funge soltanto da giustificazione ideologica di un assetto di potere che con la volontà generale non ha nulla a che fare.
L’opposizione tra l’idea di popolo e quella di nazione riflette quella, già sottolineata, tra la natura dello Stato nei rapporti interni e nei rapporti internazionali. Peraltro il carattere ambiguo dell’idea di nazione è rimasto parzialmente latente, tanto da far apparire i termini di «nazione» e di «popolo» come sinonimi (per esempio in Siéyès) fino a che l’intensità dei rapporti tra gli Stati europei non è stata tale da condizionare, se non in parte, la loro capacità di promuovere forme sempre più avanzate di convivenza civile. Ma quando il fascismo e le due guerre mondiali hanno negato radicalmente, in nome della nazione, i grandi valori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale, l’idea di nazione ha storicamente perduto, in Europa, il suo carattere di fondamento della legittimità, anche se, in mancanza di principi alternativi, essa ha continuato, nelle convulsioni della sua agonia, a condizionare i comportamenti degli uomini: e lo ha fatto in modo tanto più virulento quanto più incompatibile essa era diventata con le condizioni della prosecuzione del processo di emancipazione del genere umano.[27]
 
 
V. L’unificazione europea. Il popolo federale europeo
 
1. Il processo di unificazione europea. 2. Natura del processo costituente europeo. 3. Il popolo federale europeo. 4. L’indivisibilità della sovranità. 5. Istituzioni e coscienza di sé del popolo in divenire. 6. Federazione e confederazione.
 
1. Il processo di unificazione europea. Con la crisi dell’idea di nazione, che ha raggiunto il suo culmine alla fine della seconda guerra mondiale, l’idea di popolo è entrata in una fase ulteriore della sua storia: quella che si identifica con il processo di unificazione europea. Con l’inizio e il procedere di questa fase si è posto il problema di chi sia il detentore del potere costituente europeo. Si tratta di un problema che, ad un primo approccio, sembra ammettere soltanto una alternativa: quella tra il popolo europeo (che in quanto soggetto unico potrà fondare la federazione soltanto con un atto unilaterale di volontà costituente) e i popoli europei (la cui volontà di unirsi in una federazione si deve manifestare in un patto). L’incertezza del linguaggio di molti politici europeisti e anche di molti federalisti su questo punto è il segno che su di esso non si è ancora raggiunto un grado sufficiente di chiarezza.
Si tratta di un problema che non si è manifestato per la prima volta in Europa. Esso si è posto già nella prima fase della vita costituzionale degli Stati Uniti. Mentre i padri fondatori (e con particolare energia Hamilton) avevano basato la loro lotta sulla convinzione che esistesse un popolo degli Stati Uniti (convinzione che viene espressa nel preambolo della Costituzione americana, che inizia con la frase «We, the People of the United States»), la corrente impegnata nella difesa dei diritti degli Stati (che troverà nei primi decenni dell’Ottocento la sua espressione teorica più rigorosa negli scritti di John Calhoun) riteneva che i soggetti ai quali spettava il potere costituente fossero i popoli dei singoli Stati.[28]
 
2. Natura del processo costituente europeo. In realtà il problema è assai più complesso. Come i popoli nazionali sono nati progressivamente attraverso la formazione e l’assimilazione delle classi, così, con il superamento della dimensione nazionale, nasce progressivamente il popolo europeo, e contemporaneamente si dissolvono i popoli nazionali. L’errore che falsa in ultima analisi la prospettiva di Calhoun, e che falserà, più tardi, quella di Carl Schmitt, è proprio quello di non vedere la natura processuale del popolo, ma di considerare i popoli come individui distinti, che certo nascono, evolvono e muoiono, ma che nel corso della loro vita mantengono una identità precisa e permanente. Se invece si concepisce la storia costituzionale come la successione di diverse manifestazioni di quella che rimane un’unica entità in divenire, la nascita di uno Stato federale — e ciò è particolarmente evidente nel caso dell’unificazione europea — si identifica con la trasformazione progressiva di una serie di popoli nazionali in un unico popolo federale (entrambi manifestazioni empiriche dell’idea di popolo tout court). È quindi arbitrario contrapporre una tesi secondo la quale oggi esisterebbe soltanto un popolo europeo come unico titolare del potere costituente ad un’altra secondo la quale esisterebbero soltanto i popoli nazionali, talché la Federazione europea non potrebbe nascere che da un patto tra i loro rappresentanti. La realtà è che ci troviamo di fronte ad un popolo europeo in formazione e a popoli nazionali in dissoluzione, e che il processo costituente europeo sarà la risultante di una manifestazione di volontà congiunta del primo e dei secondi. La creazione della Federazione europea non sarà soltanto il risultato dell’espressione della volontà costituente di un soggetto nuovo, né quello della stipula di un contratto tra soggetti preesistenti, ma quello di un atto complesso che conterrà in sé l’una e l’altra, e il cui risultato sarà un documento che avrà insieme le caratteristiche di una costituzione e quelle di un trattato.[29]
Il fatto che la Federazione europea, se e quando nascerà, sarà l’espressione non già della volontà costituente di un’entità completamente formata, ma di quella di due entità imperfette — una perché in via di formazione e l’altra perché in via di dissoluzione — è quindi spiegato dalla teoria del popolo come processo. Il popolo prima e al di sopra della costituzione, che è il titolare del potere costituente, è sempre un’entità in fieri, che assume successivamente figure diverse nel corso della sua evoluzione ma che nelle fasi cruciali di questa — quelle del passaggio dall’una all’altra figura — può manifestarsi contemporaneamente nella forma di entrambe. La creazione di un nuovo equilibrio costituzionale non arresta quindi il processo di formazione del popolo, anche se nei periodi di movimento lento la sua evoluzione è inconsapevole. Ne discende che ogni manifestazione del potere costituente non si limita ad esprimere i tratti fondamentali, già compiutamente definiti, della fisionomia del popolo che ne è stato il soggetto, ma li modifica e li completa, talché ogni fase di sviluppo dell’idea di popolo raggiunge paradossalmente il suo più elevato grado di realizzazione dopo che, avendo espresso la sua volontà costituente attraverso la definizione di nuove regole della convivenza civile, esso riprende un’esistenza soltanto virtuale, che si manifesta attraverso il consenso consuetudinario. La frase di Massimo d’Azeglio «Fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani» conteneva una forzatura, perché per fare l’Italia era necessario che esistesse comunque un popolo italiano in formazione e che questo popolo esprimesse un atto di volontà: ma è fuori di dubbio che, perché il processo di formazione del popolo italiano potesse continuare fino a dare un contenuto compiuto all’entità designata con questa espressione, era necessario che esso si potesse esprimere in una realtà istituzionale adeguata.
 
3. Il popolo federale europeo. Nello stesso modo il popolo europeo completerà il processo della sua formazione soltanto dopo che la Federazione europea sarà stata costituita. E la sua formazione coinciderà con la scomparsa dei popoli nazionali. Quest’ultima è una affermazione che potrebbe sollevare perplessità all’interno della stessa cultura federalista, del cui patrimonio consolidato fa parte la cognizione che la fondazione della Federazione europea, privando le nazioni della loro sovranità assoluta, non le sopprimerà, ma le supererà (quindi le negherà e le conserverà insieme). Ma questa apparente difficoltà si risolve con l’introduzione della nozione di «popolo federale».[30] Il riferimento al «popolo federale europeo» significa che quello al quale la fondazione della Federazione europea contribuirà a dare una fisionomia compiuta sarà un solo popolo, unito in una stessa comunità di destino; ma che si tratterà di un popolo pluralistico, la cui caratteristica distintiva sarà la molteplicità dei lealismi dei cittadini, che avranno come termini di riferimento sia la comune appartenenza alla federazione sia quella agli Stati dalla cui unione la federazione nascerà; nonché quella a comunità via via più ristrette, che riemergeranno grazie al superamento del carattere esclusivo del lealismo nazionale. Nella storia dell’idea di popolo, il processo di unificazione europea segna dunque il passaggio dalla figura del popolo nazionale a quella del popolo federale.[31]
L’unicità tendenziale del popolo federale europeo trova fin da oggi una conferma nella circostanza difficilmente contestabile che, se è vero che i popoli nazionali mantengono ancora un’esistenza residuale in quanto sono coinvolti nel processo costituente europeo, essi non possono più essere considerati come detentori del potere costituente a livello nazionale. La verità è che, in tutti gli Stati europei, la sola rivoluzione oggi possibile è quella del superamento della dimensione nazionale in un quadro federale europeo.
 
4. L’indivisibilità della sovranità e lo Stato federale. Il processo di unificazione europea, inteso come successione di eventi che avrà come sua conclusione la fondazione di uno Stato federale europeo in luogo di un insieme di Stati nazionali, chiama in causa l’idea di sovranità: sia nella sua accezione interna (come potere costituente) che in quella esterna (come sovranità nazionale che si tratta di superare con la creazione dello Stato federale). E fa emergere una caratteristica della sovranità, in entrambe le accezioni, che è rilevante sia per la definizione della natura dello Stato federale come punto d’arrivo del processo sia per l’individuazione del percorso attraverso il quale esso può essere fondato: la sua indivisibilità, che discende dalla sua natura di potere di decidere legittimamente in ultima istanza. È infatti evidente che se, sullo stesso territorio, il potere di decidere legittimamente in ultima istanza spettasse a più soggetti, nessuno di essi potrebbe legittimamente imporre agli altri le proprie decisioni, e ne conseguirebbe l’anarchia.
Del resto l’indivisibilità della sovranità discende dal fatto stesso che il suo titolare è il popolo, e che il popolo è a sua volta indivisibile, in quanto non ha nessuno al di sopra di sé, e costituisce una sola comunità di destino (anche se, come si è visto, esso può essere, pur mantenendo la sua unità, un soggetto pluralistico, capace, nell’esercizio del suo potere costituente, di darsi e — nelle fasi di movimento lento — di sostenere con il suo consenso consuetudinario, un’organizzazione istituzionale basata su diversi livelli di governo indipendenti e coordinati).
Tutto ciò comporta che l’idea, corrente anche all’interno della cultura federalista, che lo Stato federale realizzi la divisione della sovranità tra i livelli in cui si articola è erronea, e deve essere corretta. Lo Stato federale realizza la divisione del potere e delle competenze tra i vari livelli di governo, ma non quella della sovranità, il cui unico titolare rimane il popolo.
Il principio dell’indivisibilità della sovranità fornisce anche un criterio per orientare la scelta tra metodo costituente e metodo funzionalistico come opzione di fondo che condiziona la strategia della lotta per la Federazione europea. Se la sovranità fosse divisibile, l’Europa si potrebbe fare per gradi, mediante trasferimenti progressivi di sovranità dagli Stati nazionali ad un’entità sovranazionale destinata a formarsi attraverso un processo continuo, senza crisi e senza scosse. Ma se è vero che la sovranità è indivisibile, ciò non può accadere: essa deve appartenere interamente agli Stati nazionali o interamente alla federazione, talché il processo non può non attraversare un momento, o meglio una fase, costituente, nella quale si realizza il suo trasferimento dagli uni all’altra. Si tratta del momento, o della fase, in cui il popolo federale europeo prende coscienza di sé come nuovo soggetto storico, e sostituisce i popoli nazionali come fondamenti di una legittimità superata.
Peraltro, accettare il metodo costituente non significa negare la necessità storica di un processo graduale di avvicinamento alla fase costituente. Significa soltanto essere consapevoli che le tappe della marcia di avvicinamento non comportano di per sé cessioni di sovranità. Né significa d’altro canto ritenere che il passaggio di sovranità debba necessariamente prodursi attraverso una istantanea fiammata rivoluzionaria. La fase costituente ha comunque una durata;[32] e nel suo corso, come si è visto, la titolarità del potere costituente può essere divisa tra due diverse espressioni dell’idea di popolo nel suo processo di evoluzione. Ma ciò che ne costituisce la specificità è il fatto che si tratta di una fase di crisi acuta o di movimento rapido, che trasforma le basi del consenso consuetudinario di Hauriou. La crisi riguarda sia l’assetto istituzionale che i principi che fondano la legittimità dello Stato, e non si risolve in un nuovo equilibrio relativamente stabile se non nel momento in cui il trasferimento della sovranità si è compiuto e si è ristabilita l’unità del suo titolare.
 
5. Istituzioni e coscienza di sé del popolo in divenire. In ogni caso può essere fuorviante far coincidere la nascita della federazione con una specifica trasformazione istituzionale. Se il titolare della sovranità è il popolo, ogni trasferimento di sovranità coincide con l’assunzione da parte del popolo di un suo nuovo modo di essere nella storia. Ora, è un dato di fatto che il popolo si manifesta nella storia in quanto esercita il suo potere costituente, e che l’esercizio del potere costituente è anche creazione di nuove istituzioni. Ma è vero altresì che in molte delle grandi rivoluzioni della storia (e anche nel processo di unificazione europea) gran parte del processo di trasformazione istituzionale viene realizzato dal vecchio ordine nel tentativo di controllare le spinte prodotte dalle forze nuove che si stanno formando nel sottosuolo della società civile, e di incanalarle in forme compatibili con gli equilibri di potere esistenti; mentre in altre il nuovo ordine si impone impadronendosi delle istituzioni del vecchio, rimaste immutate, e solo successivamente realizza le proprie (è ancora una volta il caso della Resistenza in Italia). È quindi impossibile identificare il momento che segna il passaggio dall’ordine vecchio all’ordine nuovo fino a che si rimane prigionieri della sola ottica istituzionale. In realtà, il tornante fondamentale è quello in cui il popolo fonda la nuova legittimità prendendo coscienza di sé nella sua nuova forma e diventa esso stesso l’agente della prosecuzione del processo di trasformazione istituzionale. Questo momento, nel processo di unificazione europea, sarà quello in cui si realizzerà l’evento — più politico che istituzionale — dello spostamento del quadro della lotta politica dalle nazioni all’Europa.[33]
 
7. Federazione e confederazione. La Comunità, o Unione, europea, è una struttura istituzionale che non ha precedenti nella storia delle unioni di Stati, e molti sostengono che essa supera definitivamente la contrapposizione tra federazione e confederazione.[34] Ora, se si accetta, da un lato, il principio dell’indivisibilità della sovranità e, dall’altro, quello della non necessaria coincidenza tra il trasferimento della sovranità e una specifica trasformazione istituzionale, questa conclusione deve essere respinta. In realtà l’Unione europea è ancora una confederazione, pur presentando alcune caratteristiche istituzionali di tipo federale, perché il popolo federale europeo, pur essendo in formazione, non ha ancora preso coscienza di sé e quindi non ha ancora provocato la nascita di una legittimità europea. E comunque, anche nella misura in cui essa presenta caratteri istituzionali federali, e quindi può già essere considerata, sotto certi profili, una formazione ibrida, essa è essenzialmente instabile, e quindi destinata a consolidarsi nella forma di una vera e propria federazione o a ricadere in quella di una confederazione, o addirittura nell’anarchia. Altro è quindi riconoscere che la realtà storico-sociale, come la natura, non facit saltus e presenta quindi sempre forme di transizione tra le figure ideal-tipiche che ne consentono l’interpretazione, e altro è erigere queste forme di transizione a tipi ideali esse stesse.
 
 
VI. La crisi della sovranità nazionale.
Il popolo federale mondiale
 
1. Interdipendenza e crisi della sovranità nazionale. 2. Il popolo federale mondiale. 3. Il popolo nella storia. 4. L’espansione del federalismo. 5. La sovranità popolare.
 
1. Interdipendenza e crisi della sovranità nazionale. Il processo di unificazione europea segna l’inizio del corso federalista della storia mondiale. Esso non mette in questione soltanto la sovranità nazionale dei paesi immediatamente coinvolti nel processo, ma l’idea di sovranità nazionale in quanto tale. Certo, la divisione del mondo in Stati, che è il presupposto della sovranità nazionale, costituisce da sempre la negazione della volontà generale, e quindi dell’idea di popolo. Ma nella storia passata la minore intensità dell’interdipendenza dei comportamenti umani a livello mondiale ha spesso reso gli Stati relativamente liberi dai condizionamenti della politica internazionale, lasciando alla politica interna un grado di autonomia. In questo modo l’interesse generale dell’umanità tendeva ad avvicinarsi alla somma degli interessi dei popoli che la componevano, e l’idea di sovranità nazionale manteneva una forte credibilità in quanto la nazione poteva apparire come il quadro nel quale si formava e si esprimeva la volontà generale.[35] Ma oggi l’interdipendenza a livello mondiale è diventata assai stretta, e si intensifica con ritmo accelerato. Viene così in sempre maggiore evidenza il carattere particolare degli interessi nazionali e la loro incompatibilità con l’interesse generale dell’umanità. Ciò mina le basi stesse della legittimità dello Stato inteso come comunità politica esclusiva, e l’idea di sovranità nazionale viene messa in questione in quanto tale. Ne sono evidenti testimonianze, da un lato, la crescente esigenza (peraltro insoddisfatta) di una presenza attiva ed efficace dell’ONU nei focolai di crisi che si vanno moltiplicando con impressionante rapidità nel mondo del dopo guerra fredda; e, dall’altro, la nascita sempre più frequente, al di fuori dell’Europa, di raggruppamenti regionali di Stati.[36]
Finora il problema concreto del superamento della sovranità, cioè dell’affermazione del federalismo, si è posto in termini espliciti soltanto in Europa. L’Europa è quindi il laboratorio nel quale l’umanità sta tentando di elaborare la risposta istituzionale alla crisi della sovranità. Ma la specificità dell’esperienza costituente che si sta vivendo in Europa ne mette in vista il carattere incompiuto, di semplice stadio, per quanto decisivo, di un processo che la trascende. Questa specificità consiste nel fatto che la Federazione europea non avrà una legittimità diversa da quella, puramente negativa, del superamento della legittimità nazionale: una legittimità profondamente contraddittoria in quanto il popolo federale europeo, quale che sia destinata ad essere la sua dimensione, sarà pur sempre un popolo tra gli altri, e manterrà per ciò stesso una connotazione nazionale.
La contraddittorietà della legittimità del futuro Stato federale europeo ha del resto un riscontro concreto nella significativa circostanza che la futura estensione geografica della Federazione europea appare oggi largamente indeterminata.
 
2. Il popolo federale mondiale. Ma ciò significa che il vero soggetto della volontà generale (cioè il popolo adeguato alla sua idea) è un popolo di uomini liberi ed uguali, articolato in una scala di comunità autonome di diversa dimensione, che abbracci in un’unica comunità di destino l’intera umanità: il popolo federale mondiale. Questo a sua volta, nel suo divenire, e quindi con il necessario apporto dei popoli regionali che lo avranno storicamente preceduto, sarà il titolare del potere costituente mondiale, cioè del potere di fondare la federazione cosmopolitica. In una Federazione mondiale, a sua volta articolata in una successione di livelli di governo coordinati tra di loro, e alla base della quale si trovi la comunità locale autonoma come vero e solo contesto politico-sociale della realizzazione piena della persona, dell’attuazione del dialogo tra i cittadini in vista della definizione del bene comune e dell’espressione unanime della volontà di perseguirlo, si potranno creare le premesse per la manifestazione compiuta della volontà generale e si potrà così considerare avviata a conclusione la storia costituzionale del genere umano. E verrà tendenzialmente a cadere la distinzione tra popolo nella costituzione e popolo prima e al di sopra della costituzione.
Questa distinzione infatti ha il suo fondamento nel fatto che la realtà dei popoli storici, così come essi si autodefiniscono nelle varie costituzioni, non corrisponde all’idea di popolo come popolo federale mondiale. E i momenti costituenti della storia sono quelli in cui il popolo federale mondiale, da idea astratta, si fa carne per avvicinare i popoli empirici, attraverso l’espressione, per quanto imperfetta, della volontà generale, all’idea di popolo realizzata. La storia umana può quindi essere letta come la storia della formazione del popolo federale mondiale, del cui processo di formazione i popoli storici costituiscono soltanto i gradini intermedi e che, nel momento ideale della sua realizzazione compiuta, non avrà più bisogno di una costituzione perché esprimerà la volontà generale nella spontaneità del proprio agire quotidiano.
 
3. Il popolo nella storia. Va da sé che la Federazione mondiale nascerà imperfetta, e che l’identificazione del popolo federale mondiale con il popolo come idea della ragione non potrà essere che tendenziale. Ma l’averla identificata come ideale punto d’arrivo del processo ci consente comunque di precisare ulteriormente la definizione del criterio per l’uso corretto del termine «popolo», e correlativamente di quelli di «potere costituente» e di «sovranità». L’uso della parola «popolo» sarà corretto — per quanto embrionale sia la realtà che essa designa — quando indica un’entità che incomincia a prendere coscienza della necessità di governare l’aumento dell’interdipendenza in una regione del mondo attraverso l’abbattimento delle barriere politiche e sociali tra gli uomini e l’allargamento dell’orbita della solidarietà statale. Come sarà corretto l’uso dell’espressione «potere costituente» (o «sovranità» nell’accezione interna) ogniqualvolta un atto collettivo di volontà produce una trasformazione politica e istituzionale che segni un passo avanti verso l’obiettivo della Federazione mondiale.
Così sarà legittimo parlare della formazione di popoli nazionali come soggetti del processo che, attraverso alcuni grandi mutamenti istituzionali, ha portato all’integrazione tra le classi in Francia e in Gran Bretagna e alle unificazioni nazionali italiana e tedesca nel corso del XIX secolo. Così ancora sarà legittimo indicare nel popolo il soggetto delle lotte di liberazione coloniale, nelle quali la posta in gioco era l’imposizione al mondo del riconoscimento dell’esistenza di individualità storiche che non erano mai state unite alla «madrepatria», ma da quella erano state soltanto oppresse e negate: e quindi l’estensione dell’interdipendenza tra gli uomini immettendo intere comunità, che prima ne erano escluse, nel circuito mondiale dei rapporti internazionali, del commercio e della comunicazione. Così infine sarà legittimo parlare del popolo europeo come protagonista di un processo che costituisce il primo passo verso l’unificazione federale mondiale. Mentre sarà illegittimo usare lo stesso termine nei contesti nei quali esso svolge soltanto la funzione di giustificare l’oppressione o di fomentare spinte secessionistiche. Tipica a questo proposito è — quantomeno nella maggior parte dei contesti — la formula del «diritto dei popoli all’autodeterminazione» che, nella misura in cui serve come strumento di disgregazione della solidarietà statale, disgrega lo stesso significato del termine popolo privandolo di ogni capacità di denotare un soggetto determinato.
 
4. L’espansione del federalismo. La crisi della sovranità nazionale, unita all’accelerazione del processo storico, induce a pensare che la diffusione del federalismo — una volta che questo si sia affermato in Europa — acquisterà una tale rapidità da sopprimere, almeno per lunghi periodi storici, la contrapposizione tra fasi di movimento lento e fasi di movimento rapido nell’evoluzione dell’assetto costituzionale dell’Europa. L’esempio (peraltro imperfetto) dei continui allargamenti della Comunità europea suggerisce che, una volta creatosi, in Europa, un nucleo di Stati comunque uniti da vincoli di tipo federale, questo nucleo avrà una dinamica espansiva così forte da non consentirgli di acquisire, in nessuno degli stadi del suo processo di allargamento, una struttura istituzionale definitiva prima dell’inizio dello stadio successivo. La storia del federalismo diverrebbe in questo modo una sorta di permanente caduta in avanti verso equilibri sempre più avanzati, destinati a non consolidarsi, quantomeno prima della formazione nel mondo di un numero limitato di grandi blocchi federali di dimensione continentale. Questi, da parte loro, una volta assestatisi in un nuovo equilibrio, diventerebbero i protagonisti della fase finale del processo: quella della costruzione della Federazione mondiale.
 
5. La sovranità popolare. La sovranità è la prerogativa che distingue lo Stato da qualsiasi altra forma di organizzazione del potere, e con lo Stato il popolo che con esso si identifica dialetticamente. Negarlo significherebbe perdere di vista il fondamento della convivenza civile. Affermare quindi che la fase federalista della storia mondiale è l’altra faccia del processo di manifestazione della crisi della sovranità nazionale significa affermare che con il suo inizio è entrato in crisi lo Stato stesso in quanto agente della violenza nei rapporti internazionali. Gli sviluppi di questa crisi coincideranno con la progressiva presa di coscienza di sé, attraverso la creazione di federazioni regionali, del popolo federale mondiale in formazione, e la sua soluzione sarà la fondazione della federazione cosmopolitica. Ma questa, facendo del genere umano la prima e la sola società politica indipendente della storia, non abolirà la sovranità in quanto tale, bensì la avvicinerà più di quanto sia mai accaduto prima d’ora alla realizzazione della sua idea attraverso la sostituzione della realtà provvisoria ed equivoca della sovranità nazionale con quella compiuta della sovranità popolare. E questa sarà il fondamento di uno Stato che, a sua volta, si avvicinerà più di quanto sia mai accaduto prima d’ora alla realizzazione della propria idea liberandosi del suo volto violento ed assumendo come sua sola missione quella del perseguimento del bene comune dell’umanità.[37]


[1] V. il bel saggio di Konrad Hesse, Die normative Kraft der Verfassung, Tübingen, I.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1959, nel quale peraltro il fondamento dell’autonomia della costituzione viene identificato in un atto di volontà (Wille zur Verfassung). Si omette in questo modo di identificare la specificità del potere costituente e la differenza, che verrà approfondita in seguito, tra il suo esercizio e il consenso consuetudinario che caratterizza le fasi di stabilità dell’evoluzione costituzionale degli Stati.
[2] V. Carl Schmitt, Die Diktatur, 1922, consultato nella quinta edizione del 1989 (Berlino, Duncker & Humblot); Legalität und Legitimität, 1932, consultato nella quarta edizione del 1988 (Berlino, Duncker & Humblot).
[3] Va da sé che nessuna forma di convivenza umana è possibile senza istituzioni. Anche in una situazione come quella che si è realizzata in Libano, in Bosnia, in Somalia o in Rwanda, esistevano ed esistono forme di organizzazione della vita civile. Ma si tratta di forme embrionali e precarie, che non sono in grado di garantire quella sicurezza che solo lo Stato può dare e senza la quale nessuna comunità umana può trovare lo spazio di libertà che è la condizione per l’espressione di tutti i valori della vita sociale.
[4] Questo è il tema che Carl Schmitt ha trattato in Der Nomos der Erde, Berlino, Duncker & Humblot, 1955.
[5] Maurice Hauriou, Précis de Droit Constitutionnel, Parigi, Sirey, 1929, pp. 23 sgg. e 94 sgg.
[6] V. Carl Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre der Souveränität, pubblicato per la prima volta nel 1922 e consultato nella quinta edizione del 1990 (Berlino, Duncker & Humblot).
[7] V. Carl Schmitt, Verfassungslehre, Berlino, Duncker & Humblot, 1928, pp. 75 sgg. Lo stesso Schmitt, nella stessa opera (p. 89), richiamandosi a W. Burckhardt, nota che, se il fondamento della legittimità di una costituzione dipendesse dal fatto che essa è stata approvata secondo le procedure previste dalla costituzione previgente, nessuna costituzione sarebbe legittima perché, ripercorrendo a ritroso nel tempo la genealogia delle successive costituzioni, si giungerebbe comunque, prima o dopo, ad una costituzione illegittima, che quindi trasmetterebbe la propria illegittimità a tutte le successive.
[8] Questo problema, anche se posto nel contesto diverso, e a mio parere deviante, dell’analisi della differenza tra «dittatura commissariale» e «dittatura sovrana», costituisce l’oggetto del saggio di Carl Schmitt Die Diktatur, cit.
[9] I termini del problema della politicizzazione della giustizia sono stati messi in evidenza con grande efficacia da Carl Schmitt in Der Hüter der Verfassung, pubblicato per la prima volta nel 1931 e consultato nella terza edizione del 1985 (Berlino, Duncker & Humblot, pp. 12 sgg.). Trad. it.: Il custode della costituzione, Milano, Giuffrè, 1981.
[10] Contratto sociale, libro II cap. III.
[11] Scrive Ranke nella sua grande Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation: «In che cosa consiste il bisogno naturale degli uomini di avere un principe, se non in quello che la molteplicità delle loro aspirazioni si unifichi e trovi un equilibrio in una coscienza individuale; che una volontà sia insieme la volontà generale, che la diversità dei bisogni maturi in un solo petto, dando luogo ad una decisione capace di superare le contraddizioni? In questo risiede anche il mistero del potere: esso arriva ad utilizzare tutte le sue risorse soltanto nel momento in cui tutte le forze obbediscono spontaneamente al comando». (pp. 459-60 del I Vol. della raccolta Rankes Meisterwerke, Monaco e Lipsia, Duncker & Humblot, 1914).
[12] Verfassungslehre, cit., pp. 238 sgg.
[13] Una trattazione classica dell’elettorato come organo dello Stato si trova in R. Carré de Malberg, Contribution à la théorie générale de l’Etat, Parigi, Librairie de la Société du Recueil Sirey, 1922, pp. 332 sgg.
[14] Cap.V.
[15] Ibid.
[16] Op. cit., pp. 71 sgg.
[17] Il consenso consuetudinario riguarda tanto il regime, cioè l’insieme di istituzioni che esprimono i grandi orientamenti di valore della convivenza civile in un quadro spaziale determinato, quanto la comunità, cioè il quadro stesso entro il quale la convivenza civile si svolge, e che a sua volta non è per nulla neutrale rispetto a quei valori. Questo consenso continua ad esistere anche quando non si manifesta in atti concreti di volontà, ma può ridiventare attivo quando i principi che fondano la legittimità della convivenza vengono messi in questione. In questi casi si ha crisi di regime, o, quando è in questione addirittura il quadro politico, crisi di comunità. L’una e l’altra non possono sfociare che nell’apertura di una nuova fase costituente, nella quale il popolo come soggetto della volontà generale torna a distinguersi da un assetto istituzionale che di fatto ha cessato di esistere: oppure in un lungo processo di disordine politico e di decadenza civile.
Per la sottolineatura del rilievo costituzionale della comunità, come dimensione dello Stato, in quanto distinta dal regime, v. Mario Albertini, «La politique de la minorité du MFE», in Le Fédéraliste, 1962 (IV), pp. 257 sgg.; «La stratégie de la lutte pour l’Europe (Rapport présenté à l’XI Congrès du MFE)», Ibid., 1966 (VIII), pp. 154 sgg. Per quanto riguarda la permanenza virtuale del potere costituente del popolo, al di là della sue manifestazioni concrete, v. Carl Schmitt, Verfassungslehre, cit., pp. 91-3. V. anche E.-W. Böckenförde, «Die verfassunggebende Gewalt des Volkes. Ein Grenzbegriff des Verfassungsrechts», in Staat, Verfassung, Demokratie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1991, pp. 90 sgg., dove peraltro l’autore, mosso dalla preoccupazione di disciplinare l’esercizio del potere costituente del popolo, che egli considera come una sua prerogativa permanente, tende ad attribuire questo compito alla costituzione, e quindi a trasformare il potere costituente del popolo in potere costituito.
[18] Si tratta di un’espressione di Kant nella Pace perpetua (Primo articolo definitivo).
[19] Op.cit., cap. V.
[20] V. per esempio Pietro Giuseppe Grasso, voce «Potere Costituente», in Enciclopedia del Diritto, Vol. XXXIV, Milano, Giuffrè, 1985.
[21] Le esposizioni classiche della teoria organicistica del popolo, o più propriamente della nazione, in una prospettiva giuspubblicistica si trovano in A. Esmein-Nézard (Eléments de droit constitutionnel français et comparé, Parigi, Sirey, 1909, pp. 225 sgg.) e in Carré de Malberg (op. cit., pp. 167 sgg.).
[22] La costituzione votata dalla Convenzione il 26 giugno 1793 giungeva a decretare la propria assoluta immodificabilità. Per un’ironia della storia essa non ebbe nemmeno il tempo di entrare in vigore. Sulla problematica costituente nel corso della rivoluzione francese rimane tuttora essenziale l’opera di Egon Zweig, Die Lehre vom Pouvoir Constituant, Tübingen, I.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 1909.
[23] Si veda per tutte la classica formulazione di Otto Hintze, «Staatenbildung und Verfassungsentwicklung» (1902), ora in Staat und Verfassung, Göttingen, Vandenhoek & Ruprecht, 1970, pp. 34 sgg.
[24] La teoria della nazione come ideologia di un tipo di Stato è stata formulata per la prima volta da Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Milano, Giuffrè, 1960.
[25] Austin (Lectures on Jurisprudence, 1861, consultato nella VII edizione, Londra, John Murray, 1911, pp. 219 sgg.) in realtà concepisce la sovranità non come una prerogativa del popolo, e nemmeno della nazione, ma come un rapporto di dipendenza dei soggetti rispetto ad una persona o ad una istituzione, che ne è la vera detentrice. Ciò non toglie che la sovranità si possa manifestare soltanto nel quadro di una «independent political society», anche se, secondo Austin, si deve riconoscere «che la parte veramente indipendente… non è la società, ma la parte sovrana della società», la quale comunque «non deve trovarsi in un rapporto di obbedienza abituale nei confronti di una persona o di un’istituzione che le sia superiore» (pp. 221-22). Resta il fatto che i concetti di sovranità e di indipendenza della «società politica» nella quale la sovranità si manifesta non si possono dissociare.
[26] Si veda per esempio a quali conclusioni giunge Carré de Malberg quando affronta il problema della sovranità nazionale (op.cit., p. 166): «…Rousseau non vede la vera natura giuridica dello Stato quando pone come tesi generale e come principio assoluto che la sovranità risiede, all’inizio, nei cittadini…». «Lo Stato soltanto ha la caratteristica di essere sovrano e non vi è nello Stato alcuna sovranità anteriore a quella dello Stato stesso. Quanto ai cittadini, la verità è che essi trovano nella costituzione dello Stato la fonte originaria dei poteri che essi possono essere chiamati ad esercitare a titolo di partecipazione alla sovranità statale…». V. anche Dominique Turpin, Droit Constitutionnel, Parigi, PUF, pp. 157 sgg.
[27] La riflessione di Carl Schmitt, uno dei più profondi costituzionalisti del nostro secolo, è stata radicalmente inquinata dalla sostituzione dell’idea di nazione a quella di popolo. «Nazione e popolo» scrive Schmitt (Verfassungslehre, par. 8) «vengono spesso considerati come sinonimi. Tuttavia il termine nazione è più pregnante e meno equivoco. Esso designa il popolo come unità capace di azione politica, dotata della consapevolezza della sua specificità politica e della volontà di esistere politicamente, mentre il popolo che non esiste come nazione è un raggruppamento umano legato da qualche forma di affinità etnica o culturale ma non necessariamente politica. La dottrina del potere costituente del popolo presuppone la volontà consapevole di esistere politicamente, cioè una nazione». In questo modo Schmitt è costretto a imputare il potere costituente ad un’entità che per definizione è contrapposta ad altre nazioni e che non può andare al di là di sé stessa. È così che Schmitt, che pure sottolinea ripetutamente e con grande vigore che l’esercizio del potere costituente è un atto di volontà, non coglie il valore cruciale dell’idea rousseauiana di volontà generale, che è intrinsecamente incompatibile con la specificità politica, cioè con il carattere particolare, della nazione. Ne consegue che, sulla base della teoria di Schmitt, la presa del potere da parte di Hitler non potesse non essere interpretata come l’esercizio del potere costituente della nazione tedesca. Questo limite spiega la sua compromissione con il regime nazista.
[28] Questo è uno dei temi dominanti della meditazione costituzionale e dell’attività pubblicistica di John Calhoun (v. in particolare A Discourse on the Constitution and Government, pubblicato postumo a New York, negli anni 1851-1856, in Works of John Calhoun, a cura di Richard K. Crallé, ed ora disponibile in Union and Liberty. The Political Philosophy of John Calhoun, a cura di Ross M. Lence, Indianapolis, Liberty Fund, 1992. V. in particolare le pp. 186 sgg.). La lettura degli scritti di Calhoun è di grande interesse perché essi erano dominati dalla preoccupazione che l’egemonia esercitata dagli Stati del Nord sugli Stati del Sud potesse portare alla disgregazione dell’Unione, della cui permanenza egli era un convinto difensore. Di qui la sua insistenza sul procedimento di revisione costituzionale in luogo del ricorso alla Corte Suprema come mezzo per la soluzione dei conflitti di competenza tra Stati e tra Stati e potere federale. Il procedimento di revisione della costituzione, per Calhoun, era una sorta di rifondazione del patto federale in occasione della quale la sovranità sarebbe ritornata ai popoli degli Stati, che ne erano i detentori originari, rimanendo nello stesso tempo nell’alveo della Costituzione del 1787. In questo modo le posizioni di Calhoun venivano viziate da una contraddizione di fondo, perché contraddittorio era il suo tentativo di conciliare il permanere della federazione con quella della sovranità degli Stati membri. Peraltro, la procedura di revisione prescritta dalla Costituzione americana prevede comunque una decisione presa a maggioranza qualificata dalle Assemblee legislative degli Stati membri, preceduta o seguita da una decisione presa dal Congresso degli Stati Uniti. Essa quindi, nella misura in cui funziona, cioè produce decisioni che la minoranza dissenziente è costretta ad accettare, è evidentemente incompatibile con l’affermazione del permanere della sovranità degli Stati membri, il che del resto vale per ogni procedura di revisione costituzionale in uno Stato federale. In realtà gli Stati membri di una federazione possono recuperare la loro sovranità soltanto attraverso l’evento traumatico e incostituzionale della secessione. Nel diverso contesto del processo di unificazione europea, e quindi con riferimento ad una situazione di transizione, un orientamento simile a quello di Calhoun ispira la sentenza del 12 ottobre 1993 della Corte costituzionale tedesca, che si esprime sulla costituzionalità del Trattato di Maastricht. «La Repubblica federale di Germania, vi si dice, è…, anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Unione, membro di una associazione di Stati (Staatenverbund) il cui potere comune deriva dagli Stati membri e ha effetti vincolanti nella sfera giurisdizionale (Hoheitsbereich) tedesca esclusivamente in forza dell’ordine di applicare le sue norme che promana dall’autorità tedesca (kraft des deutschen Rechtsanwendungsbefehls). La Germania è uno dei ‘Signori del Trattato’ (’Herren des Vertrages’), che hanno motivato il loro vincolo al Trattato di Unione, stipulato ‘a tempo indeterminato’ (Art. Q), con la loro volontà di farne parte per un lungo periodo, ma che in ultima analisi possono revocare la loro appartenenza attraverso un atto di segno contrario». Il fondamento di questa conclusione sta nel fatto che «Il Trattato di Unione fonda… una associazione di Stati avente lo scopo di realizzare una unione sempre più stretta dei popoli d’Europa organizzati in Stati (Art. A), e non uno Stato basato su di un popolo (Staatsvolk) europeo».
[29] Va da sé che si tratta di un passaggio già prefigurato in occasione della fondazione degli Stati Uniti e di quella della Confederazione elvetica nella sua forma attuale, ma che nel caso dell’Europa assume il carattere dell’inizio di un processo destinato ad andare al di là del suo ambito originario, e che quindi non corre il rischio, come è accaduto per gli Stati Uniti e per la Svizzera, di trasformare di nuovo, arrestandosi, il popolo federale in un popolo nazionale.
[30] Non si deve dimenticare peraltro che, come il processo costituente europeo, al pari di tutti i processi costituenti, non è vincolato ad una procedura determinata, così il popolo europeo in formazione e i popoli nazionali in dissoluzione non sono rappresentati necessariamente da specifiche istituzioni. È in questo contesto che si inquadra la teoria di Albertini del centro occasionale di decisione, o della leadership occasionale come momento essenziale del processo di unificazione europea. Secondo la teoria di Albertini («La fondazione dello Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo intrapreso da De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali», in Il Federalista, 1977 (XIX), pp. 5 sgg.; «La Comunità europea, evoluzione federale o involuzione diplomatica?», ibid., 1979 (XXI), pp. 163 sgg.) le grandi svolte del processo di unificazione europea sono state compiute quando il popolo europeo in formazione ha potuto riconoscersi in grandi leaders nazionali che, in alcune fasi cruciali, hanno preso la guida del processo. Questa considerazione varrà a maggior ragione per la fase propriamente costituente. Il punto che deve essere sottolineato è che, in questo caso, il popolo europeo viene rappresentato, oltre che dalle minoranze attive costituite dai movimenti federalisti e — peraltro non sempre — dalle istituzioni europee, anche da personalità che si sono impegnate nella lotta politica nel quadro nazionale e che sono venute a contatto con il popolo europeo soltanto dopo che hanno raggiunto, in questo quadro, il livello di massima responsabilità.
[31] Dobbiamo la nozione di «popolo federale» a Mario Albertini («L’Europe des Etats, l’Europe du Marché commun et l’Europe di Peuple fédéral européen», in Le Fédéraliste, 1962 (IV), pp. 187 sgg.; «Vers une théorie positive du fédéralisme», ibid., 1963 (V), pp. 251 sgg.). Prima della formulazione precisa di questo concetto, la consapevolezza che le istituzioni di uno Stato federale possono vivere soltanto se sostenute da un popolo pluralistico era stata espressa da autori come A.V. Dicey, The Law of the Constitution, Ottava ed. 1914, consultato nell’edizione Liberty Classics, Indianapolis, 1982, pp. 75-6, e K.C. Wheare, Federal Government, Oxford, O.U.P., quarta ed. 1963, pp. 35 sgg. Trad. it.: Del governo federale, Milano, Comunità, 1949.
[32] L’elemento della durata nelle trasformazioni costituzionali è stato messo in luce da Mario Albertini con la teoria del «gradualismo costituzionale». Si veda in particolare «La Comunità europea, evoluzione federale o involuzione diplomatica?», cit. Nel processo di unificazione europea il gradualismo costituzionale, la cui teoria era stata elaborata da Albertini con riferimento all’elezione diretta del Parlamento europeo in assenza di uno Stato europeo, è ulteriormente esemplificato dal fatto che due momenti di indubbia rilevanza costituzionale, come l’Unione monetaria e la riforma delle istituzioni in senso democratico e federale si pongono oggi nel dibattito politico come due obiettivi distinti. È fuori discussione infatti che, in teoria, la moneta unica è l’espressione di un potere sovrano europeo, e quindi presuppone la realizzazione dell’Unione politica, in quanto momento ideale nel quale la sovranità si trasferisce. Ma spesso nella storia, per usare i termini di Aristotele, ciò che viene prima per natura, viene dopo per generazione: questo rapporto di implicazione non significa quindi necessariamente che le due cose debbano venire ad esistenza contemporaneamente, o che l’Unione politica debba precedere l’Unione monetaria. È al contrario probabile che l’Unione monetaria, che si presenta come più facile da realizzare, precederà l’Unione politica e, proprio perché non potrà trovare un assetto stabile senza di essa, ne accelererà la nascita. Se ciò avverrà, l’Unione monetaria sarà comunque un momento essenziale del trasferimento della sovranità dalle nazioni all’Europa, e ne metterà in evidenza il carattere gradualistico.
[33] Si tratta di un concetto che ritorna spesso nella riflessione di Mario Albertini. Si veda per esempio «Le problème monétaire et le problème politique européen», in Le Fédéraliste, 1972 (XIV), pp. 77 sgg.
[34] V. tra gli altri Arnim von Bogdandy, «L’Unione sovranazionale come forma di potere politico», in Teoria Politica, X, n. 1, 1994, pp. 133-151.
[35] «Lo scopo o fine specifico di uno Stato sovrano (sovereign political government), ossia lo scopo o fine per il quale esso dovrebbe esistere è quello della massima possibile promozione della felicità umana: tuttavia, per conseguire nel modo migliore il proprio scopo o fine, ossia per promuovere nella misura del possibile la prosperità o il bene dell’umanità, esso deve operare direttamente e in particolare per promuovere nella misura del possibile la prosperità della propria comunità. Il bene della società universale formata dall’umanità è il bene aggregato delle società particolari nelle quali l’umanità è divisa: così come la felicità di ognuna di queste società è la felicità aggregata dei suoi singoli membri. Sebbene quindi il benessere dell’umanità sia il vero oggetto dello Stato (government), e sebbene il criterio della sua condotta sia il principio dell’utilità generale, esso deve perseguire direttamente e in particolare il benessere della comunità particolare che la Divinità gli ha assegnato perché la governi. Se esso adegua veramente la sua condotta al principio dell’utilità generale, esso normalmente si proporrà di raggiungere direttamente il fine particolare e più concreto piuttosto che quello generale e meno determinato». (John Austin, op. cit., pp. 290-91).
[36] Questa tendenza si è riflessa nell’evoluzione del diritto internazionale. Quando la guerra aveva ancora un’incidenza relativamente debole sulla convivenza civile, il reciproco riconoscimento degli Stati europei come soggetti sovrani aveva dato luogo al concetto di justus hostis. Questo termine significava che il nemico in guerra non era un criminale, e che la guerra non era la punizione di un crimine, ma il solo mezzo al quale Stati che si riconoscevano come sovrani potevano ricorrere per risolvere in ultima istanza le loro controversie. Ciò imponeva agli eserciti in guerra l’osservanza di certe regole, che esprimevano una forma di rispetto per un nemico al quale si riconosceva la prerogativa della legittimità. Il concetto di justus hostis scompare dal linguaggio del diritto internazionale all’epoca della prima guerra mondiale. Al suo posto si afferma l’idea della messa fuori legge della guerra (patto Kellogg) mentre, contemporaneamente, ricompare il concetto di «guerra giusta», che costituirà più tardi il fondamento filosofico-giuridico implicito del processo di Norimberga, e che sarà utilizzato, ai giorni nostri, da una parte della dottrina giuridica e politologica per giustificare l’intervento americano, sotto l’egida dell’ONU, in occasione della guerra del Golfo e, più recentemente, il riarmo della Bosnia. Entrambi i concetti non hanno una giustificazione logica e sistematica fintantoché la sovranità nazionale rimane il fondamento dei rapporti internazionali. La loro apparizione (o riapparizione nel caso del bellum justum) è però una spia importantissima del diffondersi della percezione ancora indistinta del nuovo carattere che la guerra ha assunto nelle condizioni del XX secolo e che si accentua sempre più con il passare dei decenni. Gli uomini si stanno rendendo conto del fatto che l’interdipendenza a livello mondiale, la potenza distruttiva delle armi moderne e il raggio d’azione dei loro vettori hanno di fatto trasformato l’intera umanità in una sola comunità di destino e quindi ogni guerra in una guerra civile. La guerra diventa quindi una violazione criminale delle regole che disciplinano la convivenza a livello planetario, che deve essere impedita e per la quale, quando ciò non è possibile, deve essere individuato e punito il colpevole (l’aggressore). Queste esigenze manifestamente contraddittorie pongono il problema della creazione di un governo mondiale che, imponendo un ordinamento giuridico planetario, realizzi le condizioni effettive per l’abolizione della guerra e per la trasformazione di quella parte di violenza che comunque rimarrebbe nei rapporti tra gli uomini in violenza interna, come tale perseguibile con gli strumenti del diritto. Per una diffusa analisi di questa problematica, anche se in una chiave non chiaramente mondialistica, si veda Carl Schmitt, Der Nomos der Erde, cit. Un sintomo più recente della stessa esigenza è costituito dalla nozione di diritto di ingerenza umanitario che si va diffondendo negli ultimi tempi (anche se per il momento soltanto nei rapporti delle democrazie occidentali con alcuni regimi del terzo mondo). Si tratta di una nozione che nega il principio di non ingerenza, e come tale mette direttamente in questione l’idea di sovranità nazionale, della quale il principio di non ingerenza costituisce un aspetto essenziale.
[37] Si vedano a questo proposito le belle riflessioni di Umberto Serafini in «Sovranità popolare e federalismo», in Comuni d’Europa, n. 6, giugno 1991.

 

 

 

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