IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno II, 1960, Numero 1, Pagina 1

  

 

Comunismo e nazionalismo
 
ALTIERO SPINELLI
 
 
I
Nella sua prima fase di elaborazione dottrinale il comunismo si confondeva largamente con il socialismo, il quale non aveva sul problema nazionale idee sostanzialmente diverse da quelle della dottrina democratica. Anche il socialismo si considerava valido per l’umanità tutta quanta ed era perciò indifferente al quadro nazionale in cui si sarebbe applicato. Ma non aveva trovato nulla da eccepire contro la formazione dei moderni Stati nazionali. Li aveva anzi fatti rientrare senza difficoltà nello schema della propria dottrina, considerandoli come un’opera della borghesia, destinata perciò ad essere un giorno ereditata dal proletariato. Esso condivideva l’illusione degli economisti liberali dell’epoca, secondo i quali il capitalismo avrebbe annullato progressivamente il significato delle frontiere. Dopo avere nella sua fase nazionale liquidato l’antico regime monarchico-nobiliare, il capitalismo stesso avrebbe avviato con un moto dialettico il superamento delle divisioni nazionali, lasciando al suo erede il semplice compito di portare a termine questo processo. Il pensiero socialista concordava infine con quello democratico nella persuasione che i popoli fossero di per sé pacifici ed inclini alla fraternità, e poiché vedeva nel proletariato la frazione più importante del popolo, destinata anzi a diventarne la fortissima maggioranza, era persuaso che gli Stati nazionali, una volta diventati socialisti, si sarebbero automaticamente associati per promuovere il comune progresso, facendo così regnare la pace perpetua.
Fondandosi su questi sentimenti, e finché è rimasto nel suo iniziale atteggiamento di opposizione rivoluzionaria ai poteri esistenti, considerati espressione politica della borghesia, il socialismo — compresa la sua alta corrente comunista — è riuscito più a lungo della democrazia a credersi internazionalista. Col passare del tempo il socialismo ha però progressivamente perduto quell’atteggiamento, ed è diventato una particolare corrente delle singole democrazie nazionali. Ha assunto la forma di partito nazionale, ha prodotto leggi e riforme nazionali, ed ha perciò soggiaciuto, come tutta quanta l’esperienza democratica, al processo di involuzione nazionale. Il suo internazionalismo si è ridotto ad un vago amore per la pace, ad una assai poco impegnativa simpatia per le nazionalità oppresse, e si è accompagnato ad una crescente grettezza nazionale. Dapprima c’è stato il compiacimento per il proprio movimento operaio nazionale; poi è venuto l’interessamento per l’economia nazionale nel suo complesso, la quale attraverso il suo vigoroso sviluppo capitalistico preparava la strada all’avvento del socialismo; è sopraggiunta successivamente la solidarietà con lo Stato nazionale allo scoppio della prima guerra mondiale; ed è infine apparso il consapevole atteggiamento di egoismo nazionale dei socialisti che giungevano a partecipare all’attività governativa dello Stato.
 
II
Mentre il socialismo confluiva nella democrazia nazionale, il comunismo si è dapprima differenziato da esso, e se ne è poi staccato completamente, opponendoglisi in modo radicale, quando ha cominciato ad elaborare ed a tradurre in pratica l’idea del partito depositario esclusivo delle leggi della storia umana e destinato perciò ad assumere il governo totale della società. Affermando duramente la priorità dei propri valori politici rispetto a quelli statali, democratici e nazionali in mezzo ai quali vivevano, i comunisti hanno fatto del loro partito la suprema autorità, convertendolo in una specie di ordine politico-religioso. La loro unitaria disciplina mondiale si è espressa in un primo tempo nella Terza Internazionale, che abituò i singoli partiti a considerarsi come semplici sezioni nazionali di un’unica organizzazione politica, ed ha successivamente assunto la forma del dovere di fedeltà assoluta dei comunisti di tutto il mondo verso il partito dell’Unione Sovietica. Nel quadro dell’esperienza comunista il partito bolscevico è così venuto ad assumere un magistero analogo a quello assunto nel cattolicesimo dal vescovato di Roma.
 I comunisti si sono ovunque organizzati in partiti i cui territori coincidevano con quelli degli Stati nel cui ambito operavano, ma dei quali erano decisi a riconoscere la piena legittimità solo il giorno in cui se ne fossero impossessati e li avessero trasformati in strumenti del loro dominio totalitario. La democrazia è diventata per loro una forma politica del tutto provvisoria. Si battono per essa quando c’è un governo autoritario avverso a loro. Vi si attengono quando non si sentono ancora abbastanza forti da prendere il potere, e la vogliono allora la più debole e la più disordinata possibile allo scopo di potersi imporre come unico centro di reale forza politica. Ma sanno di doverla spazzar via, quando l’occasione se ne presenta, per imporre il dominio del loro partito. Col sottilissimo fiuto politico caratteristico di tutti coloro che aspirano al potere totale, i comunisti sono riusciti prima e meglio dei democratici a scoprire le caratteristiche proprie del nazionalismo. Ogniqualvolta si oppongono ad uno Stato fondato sul principio della sovranità nazionale, i comunisti sentono istintivamente di trovarsi innanzi ad un altro principio totalitario, e perciò necessariamente antagonista al loro. Mettono allora in moto tutta la loro pesante ideologia per condannare il nazionalismo, che considerano espressione politica del capitalismo; ne denunziano gli aspetti imperialistici ed illiberali, gli contrappongono il proprio internazionalismo. Quando però si tratta di una minoranza nazionale che resiste allo Stato-nazione dominante, di un popolo coloniale che si agita contro la metropoli, di una piccola nazione che vuole sottrarsi all’influenza di una grande, i comunisti comprendono che il sentimento nazionale può essere mobilitato contro lo Stato esistente e diventare un’importante forza esplosiva. Lasciando quindi nell’ombra l’internazionalismo, fanno proprie tutte le aspirazioni nazionali e persino nazionalistiche del popolo in questione. Tuttavia, anche quando sostengono il nazionalismo, ciò cui i comunisti mirano non è mai l’idea dello Stato al servizio della nazione, ma quella dello Stato al servizio del partito.
 
III
Divenuti eredi dell’impero zarista, ed avendo potuto impiantare su quello sterminato territorio la loro prima esperienza, i comunisti hanno messo fine a tutte le direttive tradizionali dello zarismo in materia di nazionalità. Lo Stato ha cessato di essere lo Stato-nazione dei russi ed il primo nucleo del futuro Stato-nazione degli slavi. E’ cessata la politica di russificazione forzata delle innumerevoli nazionalità minori che vivevano nell’impero; il nuovo Stato comunista si è impegnato a proteggere e promuovere le loro lingue, i loro folclore, le loro culture, ed ha articolato il proprio apparato amministrativo in modo da dotare le singole nazionalità di istituzioni locali proprie.
Assai spesso, contrapponendo questa loro esperienza a quella delle democrazie nazionali, i comunisti si vantano di avere saputo risolvere il problema della convivenza di nazioni diverse in una unica comunità politica. In realtà essi possono giungere fino a riconoscere ed accettare la pluralità delle nazioni all’interno del loro Stato, ma non sono in grado di rispettarle nelle loro reali e spontanee espressioni. Poiché hanno in comune con l’antico Sacro Romano Impero e con la democrazia federale una concezione universale della comunità umana, essi hanno tolto alla nazione la pretesa di essere il principio formatore del potere politico e l’hanno ricondotta alla sua natura di comunità linguistica e culturale, riconoscendole senza difficoltà, in quest’ambito, istituzioni proprie. Ma per loro la nazione, come qualsiasi altra forma di vita associata, è un puro e semplice instrumentum regni. Ne rispettano la lingua, ma questa non deve essere altro che il veicolo attraverso il quale le idee e gli ordini dei governanti sono inculcati nell’animo dei governati più facilmente che se si adoperasse una lingua straniera. Riconoscono la cultura nazionale, ma riveduta e corretta da loro, meticolosamente espurgata non solo degli elementi nazionalisti e razzisti, ma anche di ogni elemento liberale e religioso. Ogni autonomia spirituale nella vita nazionale è soppressa. E’ il partito che decide quali ricordi storici bisogna coltivare, quali sopprimere — ed il criterio cambia continuamente a seconda delle congiunture politiche —, come interpretare questa o quella tradizione, come esaltare o reprimere la boria nazionale per rafforzare il lealismo verso lo Stato sovietico, talvolta persino quale lingua promuovere e quale sopprimere, come è accaduto per gli ebrei cui è stata proibita la lingua ebraica e consentito solo lo yiddisch.
La manipolazione dei sentimenti nazionali a scopo di dominio non è che un capitolo particolare della generale manomissione di qualsiasi attività umana, che i comunisti effettuano nel corso della loro esperienza; e la reazione dei loro sudditi in questo campo è anch’essa solo uno degli aspetti della loro tendenza istintiva ad utilizzare qualsiasi istituzione o costume esistente per cercare di attenuare l’opprimente e universale controllo. Per i russi propriamente detti (velikorusskie) questa latente opposizione non prende forme nazionalistiche, perché, costituendo essi la nazione più importante dell’U.R.S.S., e svolgendosi perciò l’esperienza comunista soprattutto nella loro lingua, è inevitabile un lento diffondersi della lingua, della cultura e perciò della nazione russa in tutto il territorio sovietico. La boria nazionale grande-russa è occasionalmente adoperata dai governanti, e può perciò con difficoltà diventare una linea di resistenza dei governati. Assai più facilmente accade invece che il senso di affinità e di solidarietà delle nazioni minori diventi un centro di coagulazione di resistenze elementari contro lo strapotere non dello Stato nazionale russo, ma dello Stato comunista; il che costringe il partito ad intervenire periodicamente contro sempre rinascenti deviazioni nazionaliste «piccolo-borghesi». Anche i capi comunisti indigeni subiscono spesso questo silenzioso richiamo nazionale, rendendosi colpevoli di deviazioni che finiscono poi per pagare ad assai caro prezzo. Quale fermento di avversione allo Stato comunista possa celarsi nelle minori comunità nazionali sovietiche, in apparenza così scrupolosamente rispettate e in realtà così profondamente violate dai comunisti, è apparso in varie occasioni, fra le quali ricordiamo qui solo gli episodi di collaborazione con gli invasori tedeschi durante la seconda guerra mondiale, cui hanno fatto seguito le spietate punizioni inflitte da Stalin dopo la vittoria, e le strane manifestazioni stalinistiche esplose in Georgia al tempo del disgelo, che erano certamente assai più occasioni per protestare contro Mosca che espressioni di amore per Stalin, la cui mano era stata sempre assai pesante verso la sua piccola patria georgiana.
Questi fenomeni di resistenza passiva di piccole nazioni, in genere assai meno differenziate di quelle europee, e che quasi mai avevano avuto un passato di Stati nazionali sovrani, stanno a dimostrare che anche nell’interno dell’Unione Sovietica i comunisti sono venuti a capo del nazionalismo in modo assai incompleto, pur avendo le migliori intenzioni di superarlo. Ma il problema è per loro divenuto assai più grave da quando, con la vittoria del 1945 e con la successiva rivoluzione cinese, l’U.R.S.S. e il partito comunista sovietico sono venuti a trovarsi al centro ed a capo di una vasta coalizione di paesi comunisti.
 
IV
L’aspirazione del comunismo al dominio universale, dopo essere stata a lungo un sogno dotato di tutte le caratteristiche dell’utopia, e che si sarebbe probabilmente dissolto se non ci fosse stata la prima guerra mondiale e la liquefazione dell’impero zarista, è diventata una forza operante a partire dalla creazione del potere sovietico, ed ha assunto forme diverse col passare degli anni e col mutare degli eventi.
In un primo periodo l’azione comunista ha puntato insieme sul consolidamento del nuovo Stato sovietico e sulla rivoluzione mondiale. Le due prospettive erano tenute presenti contemporaneamente e non sembravano ai comunisti cose scindibili. L’U.R.S.S. non era il paese-guida; al contrario si sentiva profondamente e chiaramente la sua estrema arretratezza, ed il regime comunista russo era sentito soltanto come la prima vittoria della incombente rivoluzione mondiale. I comunisti russi si consideravano un’avanguardia, la quale, grazie a circostanze eccezionali, aveva conquistato per prima una posizione importante, ma in fondo del tutto provvisoria. Quel che si attendeva anzitutto era la rivoluzione in Germania; da Marx in poi questo era stato a tal punto il grande sogno di tutti i socialisti e di tutti i comunisti, che, se di un paese-guida si poteva allora parlare, bisognava riferirsi alla ancora inesistente Germania comunista. Parallelamente alla rivoluzione tedesca i comunisti russi contavano sulle rivolte dei popoli coloniali, dai quali non si attendevano la realizzazione del socialismo, ma che consideravano come possenti alleati nella lotta contro il capitalismo mondiale.
Nel giro di pochi anni il sogno della rivoluzione mondiale sparì. Il mondo capitalista, malgrado tutti i suoi difetti, non crollava; la Germania si avviava, sì, verso una rivoluzione, ma nazionalista anziché comunista; la rivolta coloniale maturava assai più lenta ed incerta del previsto. Viceversa riusciva il consolidamento dello Stato sovietico sotto la dittatura del partito bolscevico, e non era più possibile continuare a considerarlo come qualcosa di provvisorio. Dopo alcuni anni di incertezze e di improvvisazioni, il partito comunista sovietico sotto la guida di Stalin ha infine accantonato l’inutile ed erronea teoria marxista secondo cui il socialismo è il punto d’approdo del capitalismo mondiale giunto al massimo del suo sviluppo, ed ha affrontato il problema della trasformazione totale del paese secondo l’ideale collettivista, indipendentemente dal grado di evoluzione economica in cui esso si trova.
Comincia così un secondo periodo. L’esperienza comunista si rinchiude nello Stato sovietico, ed i comunisti scoprono progressivamente la propria più vera natura: essi non sono la transitoria incarnazione di una provvisoria dittatura rivoluzionaria, come erano stati i giacobini, ma i costruttori, a lunghissima scadenza, di una società totalitaria che avrà bisogno in permanenza del loro dominio. La rivoluzione russa non avrà alcun Termidoro. L’U.R.S.S. è governata spietatamente perché è il paese in cui si sta costruendo il socialismo, e perché proprio per questo motivo è minacciata all’interno dalle vecchie classi e all’esterno dall’imperialismo capitalista. La disciplina totalitaria e la politica economica comunista rivelano una iniquità ed una crudeltà, rispetto alle classi lavoratrici, che fanno impallidire quelle del nascente capitalismo, ma si mostrano efficacissime nel promuovere la modernizzazione accelerata dell’economia, dell’educazione pubblica e della potenza militare in un paese arretrato. L’U.R.S.S. mostra per la prima volta che cosa sia in realtà l’esperienza comunista, e diventa il modello di ogni sua futura realizzazione — un modello che susciterà un’assai forte repulsione in tutti i paesi nei quali il terribile sforzo di sovracapitalizzazione e di sottoconsumo che Marx chiamava accumulazione primitiva è uno sgradevole ricordo storico, ma che eserciterà viceversa una assai fotte attrattiva presso le élites politiche dei popoli arretrati.
Durante questo periodo l’U.R.S.S. diventa il paese-guida dei partiti comunisti di tutto il resto del mondo, i quali consacrano ad essa ed al partito che la dirige una fedeltà assoluta, riconoscendo la priorità dell’U.R.S.S. e del suo partito su ogni altra esigenza, concependo se stessi anzitutto come agenti dell’U.R.S.S in campo nemico, e subordinando per principio ogni loro esigenza politica a quella del partito sovietico. E’ noto di che lacrime grondi e di che sangue questa fusione delle speranze comuniste con la potenza dello Stato sovietico, ma, alla fine di questo periodo, l’ordine politico-religioso capace d’obbedire perinde ac cadaver, e di comandare senza freni e senza scrupoli, è forgiato.
I partiti comunisti, che avevano subito crisi laceranti durante il passaggio dal primo al secondo periodo dell’esperienza comunista, sono ormai capaci di accettare senza batter ciglio, e perdendo solo alcuni militanti marginali, persino atti come l’alleanza dell’U.R.S.S. con la Germania nazista, l’aggressione della Finlandia e la spartizione della Polonia.
Nel terzo periodo l’U.R.S.S. ha ormai portato molto avanti la propria industrializzazione e militarizzazione, e si sente abbastanza forte da intraprendere la propria espansione territoriale, contribuendo a scatenare la seconda guerra mondiale e profittandone per procedere ad una vasta serie di annessioni. Una parte della Polonia, i Paesi baltici, la Bessarabia cadono nelle sue mani; ed ha inizio la guerra per la conquista della Finlandia. Stalin conta su una lunga guerra di esaurimento fra la Germania e i suoi nemici occidentali, analoga alla prima, e si propone di restarne fuori, mantenendo intatte le proprie forze per potere intervenire al momento opportuno come arbitro e come avvoltoio. Nel frattempo realizza conquiste marginali che tendono a restituire all’U.R.S.S. territori e zone di influenza che erano state dell’impero zarista. Al Cremlino contano ormai solo cinici calcoli di potenza. Se i partiti comunisti del resto del mondo restano fedeli all’U.R.S.S., si tratta di un vero e proprio miracolo della fede, perché Stalin li tratta ormai come zavorra da gettare via, in caso di necessità, senza esitazioni, pur di far meglio navigare la nave del nuovo imperialismo. Come suole accadere a tutte le politiche ultra-realistiche, anche questa termina con un disastro che porta l’U.R.S.S. sull’orlo della rovina.
 
V
L’ultimo periodo, tuttora aperto, ha inizio quando l’U.R.S.S. esce vittoriosa dalla guerra e diventa di colpo una delle due massime potenze che dominano la scena mondiale. Fino al 1945 il ruolo di guida che il partito bolscevico e l’U.R.S.S. si erano assegnati non era esercitato su nessun paese, ma solo su partiti comunisti che in nessuna parte del mondo disponevano del potere. Con la fine della guerra 120 milioni di Europei cadono sotto il controllo sovietico, che dapprima è solo militare, ma viene adoperato in modo da immettere nel giro di pochi anni queste popolazioni nell’esperienza comunista. Pochi anni dopo, il lungo caos cinese si conclude con la formazione di uno Stato comunista di 600 milioni di asiatici. Essere paese-guida e partito guida diventa un formidabile problema diplomatico e militare, politico e ideologico.
La principale difficoltà generata da questa improvvisa ed enorme dilatazione del campo di esperienza del comunismo è costituita dal fatto che il partito comunista sovietico non ha potuto introdurre le strutture politiche che sarebbero state naturali per un’esperienza comunista in espansione ed ha dovuto contentarsi di surrogati tutt’altro che scevri di pericoli. Mentre la meta ideale della democrazia è un insieme di comunità aperte, e perciò suscettibili d’unirsi con un vincolo federale, la meta ideale del comunismo è quella di una comunità chiusa e tendente tuttavia a diventare universale. Comunità chiusa, perché il partito pretende di controllare e dirigere ogni attività dei suoi sudditi, non può concepire che questi siano in parte soggetti ad altro potere che non sia il suo; ed è perciò, per sua natura, diffidente verso qualsiasi influenza dottrinale, politica, o economica che venga dal di fuori a turbare il suo potere totale. Comunità tuttavia universale, perché valida per tutta l’umanità, e mirante quindi a conglobarla nell’unica grande famiglia umana governata dall’unico unitario ordine comunista depositario del pensiero e dell’azione politica.
La formula istituzionale dell’U.R.S.S. corrisponde a questa doppia esigenza. Lo Stato sovietico controlla rigorosamente i suoi sudditi, e si sforza di mantenerli appartati dal resto del mondo; tuttavia qualsiasi popolo può entrare a far parte dell’Unione sovietica, poiché il suo apparato amministrativo non è legato a nessuna particolare nazione ed è capace di articolarsi nei modi più vari, arrivando persino a darsi le apparenze di una struttura federale. In realtà questa varietà di istituzioni rispecchia non una molteplicità di centri autonomi di vita politica, ma solo la molteplicità dei modi e delle direzioni in cui si esercita l’unico ed unitario potere del partito. L’espansione della società comunista avrebbe perciò dovuto consistere nella progressiva annessione di nuovi territori, e nella corrispondente riduzione dei loro partiti a sezioni dell’unico partito sovietico.
In realtà l’U.R.S.S. ha praticato questo metodo solo per quei territori che prima della Rivoluzione avevano appartenuto agli zar, con qualche arricchimento marginale che va da Königsberg alle foci del Danubio ed alla parte meridionale dell’isola di Sakhalin. Per l’insieme dei territori caduti sotto il controllo dei comunisti questo metodo non è stato nemmeno tentato, e le ragioni che non solo lo sconsigliavano, ma addirittura lo rendevano impossibile, sono in parte interne al sistema sovietico, in parte di politica internazionale. L’annessione dell’Europa orientale sarebbe stata l’assorbimento non già di modeste provincie di frontiera, ma di popolazioni che oltrepassavano la metà di tutta la popolazione sovietica, e che avrebbero sconvolto tutto il durissimo ma anche fragile equilibrio politico ed economico interno dell’U.R.S.S., poiché per questi paesi la dura esperienza comunista cominciava appena ora, e non si poteva perciò contare su un grado di obbedienza e di disciplina analogo a quello cui era ormai allenato il popolo sovietico. L’U.R.S.S. doveva inoltre tener conto dei nuovi avversari cui si preparava a tener testa nel dopoguerra. Portare le frontiere sovietiche sull’Elba e sull’Adriatico, avrebbe significato fornire all’America ed al mondo democratico la prova irrefutabile di una volontà di conquista del tutto analoga a quella di Hitler, ed avrebbe portato immediatamente ad un nuovo conflitto mondiale che l’U.R.S.S. non si sentiva in grado di affrontare. A questi ostacoli si aggiungeva, in Estremo, Oriente, la fierezza e l’ambizione del partito comunista cinese, il quale aveva portato a termine con le proprie forze la conquista di un popolo di antichissima civiltà, tre volte più numeroso di quello sovietico; e che, a differenza del partito bolscevico, aveva dato una fortissima impronta nazionalista alla propria battaglia ed alla propria costituzione politica. Il partito cinese era disposto, per amore alla dottrina comunista e per convenienza politica, a riconoscere il titolo di guida al partito bolscevico ed all’U.R.S.S.; ma a patto che non se ne forzasse troppo il significato unitario, e che lo si lasciasse di fatto pienamente sovrano sui territori del Celeste Impero.
Avendo dovuto per necessità di cose rinunziare all’ideale dell’unico e unitario Stato comunista, preludio dello Stato mondiale, e non potendo adottare forme federali, perché inconciliabili con qualsiasi struttura politica dittatoriale, i comunisti si sono adattati ad accettare le comunità statali così come le trovavano al momento del loro arrivo al potere, e ad organizzare perciò la loro esperienza sulla base di un insieme di Stati comunisti sovrani. In Europa orientale ciò significava accettare i molteplici Stati nazionali emersi dalla decomposizione degli imperi turco, absburgico e zarista. Il correttivo al pericolo della decomposizione rapida di questo insieme di Stati comunisti sovrani è stato ricercato nell’approfondimento in senso imperiale del principio, secondo cui l’U.R.S.S. e il partito bolscevico hanno il ruolo di Stato e partito guida. Essendo talvolta troppo pericolosa, talvolta impossibile, l’annessione dei nuovi paesi comunisti nell’unico universale Stato sovietico, l’U.R.S.S. ha creato, sotto il nome di «campo socialista», un insieme di Stati vassalli dello Stato egemonico, cioè un impero militare, economico, diplomatico e ideologico.
 
VI
La forma più semplice e più immediata dell’impero sovietico è quella del dominio militare, che è stato applicato in tutti i paesi diventati poi comunisti ad eccezione della Jugoslavia e della Cina. L’esercito sovietico, occupata per diritto di guerra l’Europa Orientale, ha costituito in un primo momento il solo potere reale ivi esistente, ed ha determinato l’avvenire di questi paesi. I pochi anni di relativa libertà politica di cui tali paesi hanno goduto nei primi tempi dell’occupazione militare sovietica, hanno mostrato che essi, lasciati a se stessi, avrebbero rifiutato l’esperienza comunista. Ma ciò aveva assai scarsa importanza per i comunisti, che ripongono la giustificazione del loro potere non nel consenso dei governati ma nella propria missione di instauratori della società perfetta. Attraverso una serie di manipolazioni politiche e di colpi di mano effettuati dai comunisti indigeni su ordine e sotto protezione dell’esercito e della polizia politica sovietica, in ciascun paese sono stati installati al potere i rispettivi partiti comunisti. Compiuta questa operazione, l’U.R.S.S. ha cambiato titolo, ma non sostanza, alla sua occupazione, fondando la sua presenza e il suo diritto di intervento militare su trattati di alleanza conclusi con i nuovi regimi. Come questo dominio si eserciti in caso di necessità è apparso in modo assai crudo nella repressione della rivoluzione ungherese.
L’impero militare è una forma di dominio assai duro e nello stesso tempo assai fragile. Finché l’esercito è presente o incombente, e finché il dominatore è deciso ad adoperarlo senza scrupoli, è praticamente impossibile non solo la rivolta o la secessione del paese assoggettato, ma nemmeno alcuna sia pure lieve divergenza dalla volontà del dominatore. Tuttavia un impero puramente militare suscita un’avversione inestinguibile nel popolo dominato, e si disfa perciò come neve al sole, se per una qualsiasi ragione interna o internazionale l’intervento militare diventa impossibile o anche solo incerto. Se la presenza della forza militare ha reso possibile prima l’insediamento dei governi comunisti nei vari paesi dell’Europa Orientale, poi il loro perfetto allineamento sulla politica sovietica, ed infine la riconquista in extremis dell’Ungheria; la sua assenza ha invece reso possibile la secessione jugoslava, ed il periodo di discordie nel seno del governo e del partito sovietico durante la lotta per la successione di Stalin ha indotto l’U.R.S.S. prima a sgombrare l’Austria orientale, ottenendone l’impegno alla neutralità, ma lasciando anche sparire da essa ogni traccia di influenza comunista, e più tardi a tollerare la deviazionistica liberalizzazione del regime comunista polacco.
 
VII
Consapevoli della fragilità del loro imponente impero militare, i sovietici hanno sviluppato anche l’imperialismo economico allo scopo di sormontare o quanto meno attenuare la tendenza di ogni singolo partito a creare nel proprio paese un sistema economico chiuso, e per ciò stesso privo di ogni solidarietà con gli altri.
In un primo periodo il dominio economico è consistito soprattutto nell’imposizione di rapporti commerciali spietatamente favorevoli alla potenza egemonica. Esigere molto e dare poco era la cinica applicazione del principio secondo cui per l’avvenire del comunismo l’interesse dell’U.R.S.S. aveva una priorità assoluta su quello di qualsiasi altro paese del mondo. Una volta stabiliti questi veri e propri tributi ed essersene assicurata la percezione, l’U.R.S.S. ha incoraggiato i singoli governi comunisti a copiare in piccolo i suoi grandi piani di industrializzazione, a strappare ovunque i contadini dalla terra con collettivizzazioni forzate, a sviluppare ovunque l’industria pesante. Questi piani, assai poco ragionevoli dal punto di vista economico, soddisfacevano insieme le naturali tendenze autarchiche dei singoli Stati comunisti e la vanità del partito sovietico che elevava la propria costruzione ad archetipo inderogabile di qualsiasi costruzione socialista. Il socialismo universale diventava una somma di socialismi in singoli paesi, fra i quali l’unico legame economico era quello dello sfruttamento dei più deboli da parte del più forte. Purché i dittatorelli indigeni pagassero il tributo al grande dittatore, lo temessero e gli rendessero omaggio, potevano inebriarsi, e massacrarsi tra loro nel tentativo di costituire altrettante presuntuose U.R.S.S. in miniatura.
Un così aberrante sistema economico non poteva mantenersi che grazie al terrore esercitato dalle forze armate e dalla polizia sovietica non solo sui popoli, ma anche sui governanti comunisti dei paesi satelliti. Perciò il tentativo di introdurlo in Jugoslavia senza quel sostegno si è concluso con la secessione di Tito, e con la Cina non se ne è nemmeno tentata l’applicazione. Le rivolte berlinesi, polacca ed ungherese hanno fatto comprendere allo Stato-guida che lungi dall’attenuare l’odiosità dell’occupazione militare mediante l’integrazione economica, esso aveva aggiunto a quella l’odiosità dello sfruttamento economico, rendendo la situazione del campo socialista non solo ancor più fragile, ma addirittura simile a quella di una polveriera. Mosca si è allora decisa a dare un’altra più ragionevole forma al proprio impero economico. I rapporti commerciali con i paesi satelliti sono diventati più equi; l’U.R.S.S. ha cominciato ad esportare verso di essi capitali e servigi; e ad esercitare sui governi comunisti dell’Europa orientale una pressione diretta a far sì che le loro pianificazioni cessassero di essere ridicole copie di quella sovietica e fossero concepite e realizzate in modo da portare ad una crescente complementarità delle economie dei singoli Stati con quella sovietica. L’integrazione fra i singoli Stati dell’Europa orientale continua ad essere invece poco desiderata, sia dall’U.R.S.S. che teme ogni processo di avvicinamento fra i suoi satelliti, sia dai governanti di questi che son troppo gelosi di quel che resta loro di autonomia nel quadro dell’impero sovietico per essere disposti a fonderla con quella dei vicini.
Questa seconda tappa dell’integrazione economica non ha esercitato nessuna attrattiva su Tito, ed ha coinciso con un brusco cambiamento della politica economica cinese in senso esattamente opposto. Il partito cinese era l’unico che potesse realmente proporsi di ripetere l’impresa di trasformarsi a tappe forzate in una grande potenza mondiale moderna, pur partendo da condizioni assai misere. Con una mescolanza di idealismo eroico e di ferocia che sembra voler fare impallidire persino gli orrori dell’epoca staliniana, la Cina, anziché aprirsi all’integrazione economica con l’U.R.S.S., si è chiusa in sé per procedere alla «costruzione del comunismo» — formula questa che lascia ben scorgere la punta polemica contro la politica economica sovietica.
Ma anche negli assai più docili satelliti dell’Europa orientale il nuovo programma sovietico di integrazione economica incontra non lievi ostacoli, perché in nessun caso, e meno che mai in quello delle rigide economie statizzate, l’unificazione economica è un prodotto spontaneo delle cosiddette forze economiche, ma presuppone una volontà politica permanente che tenga ferma la meta dell’unità politica, di cui quella economica non è che un aspetto. La permanenza di questa volontà si esprime normalmente in istituzioni politiche, e le naturali istituzioni dell’esperienza comunista sono quelle di un unico ed unitario Stato al servizio di un unico partito. In mancanza di questo strumento, l’U.R.S.S. completa e giustifica il suo imperialismo militare ed economico con l’imperialismo ideologico.
 
VIII
Formalmente il campo comunista è, come quello democratico, una coalizione di Stati sovrani la cui solidarietà si esprime attraverso le forme tradizionali della diplomazia — ambasciate, conferenze intergovernative, accordi, trattati, alleanze —; è facilitata dalla presenza di uno Stato fortemente predominante e dall’asprezza dell’antagonismo con la coalizione avversa; e si fonda idealmente sulla consapevolezza dei gruppi dirigenti dei vari Stati di portare innanzi una grande comune esperienza politica. Ma questa consapevolezza nel campo socialista ha un peso assai maggiore che nel campo democratico, perché non resta un semplice generico sentimento di affinità, ma si traduce in un ben preciso rapporto gerarchico fra i partiti che detengono il potere nei rispettivi paesi. La subordinazione di tutti i partiti comunisti a quello sovietico, messa a punto e collaudata già prima della nascita dell’impero, è diventata la formula con cui questo è oggi tenuto insieme politicamente. Gli organi direttivi del partito bolscevico hanno la responsabilità della politica interna ed esterna non solo dell’U.R.S.S., ma anche di tutti gli altri Stati comunisti, i cui partiti dispongono di un potere totale ed arbitrario rispetto ai loro sudditi, ma hanno simultaneamente il dovere dell’obbedienza ideologica e politica più completa e più leale al partito sovietico ed al suo capo. Nella misura in cui questo sistema funziona, dire che non possono sorgere contrasti insormontabili fra i vari partiti e paesi è una tautologia.
I comunisti sono stati i più radicali sprezzatori di ogni autonomo valore etico e religioso nella storia umana, e non hanno voluto scorgere in questa alcuna realtà più profonda dei contrasti di natura economica e dei rapporti di forza che ne derivano. Può essere considerato come un’ironia della storia il fatto che essi siano giunti a fondare il loro potere mondiale su una vera e propria religione, sia pure atea, che fa del partito sovietico e del suo capo i misteriosi unici depositari della saggezza universale, e si basa sul principio puramente morale della fedeltà incondizionata rispetto a quel partito ed a quel capo. In realtà questa fedeltà funziona tutt’altro che bene, perché la religiosità comunista, su cui si fonda, non raggiunge le profondità dell’animo umano, ma si esaurisce tutta nelle realizzazioni politiche ed economico-sociali, e non possiede perciò quelle riserve spirituali che permettono alle grandi religioni di risollevarsi periodicamente dalle loro fasi di mondanizzazione e di ritrovare se stesse. Il partito comunista sovietico, dopo essersi impossessato dell’antico impero russo e aver portato sufficientemente innanzi il processo di industrializzazione e di modernizzazione economica e sociale, si trova ad avere irreparabilmente logorato tutti i suoi miti, e ad averli ridotti a volgari instrumenta regni che i governanti manipolano e stravolgono cinicamente nella loro propaganda senza più rispettarli, e che i governati fingono rassegnatamente di accettare, ben sapendo che si tratta solo, per così dire, di maschere dello spirito che bisogna indossare per elementare prudenza. La vera e permanente problematica del partito e dei suoi capi diventa sempre più quella della conservazione, dell’amministrazione e dell’accrescimento del proprio potere.
Il passaggio dal mito della palingenesi sociale alla realtà del potere totalitario tende però a generare forti e crescenti tensioni nell’impero comunista. Per il partito sovietico è assai difficile, per non dire impossibile, subordinare la visione degli interessi interni ed internazionali della potenza sovietica alla visione degli interessi complessivi del campo socialista, ed elaborare una politica che non riduca questo a campo di espansione ed a cintura di sicurezza dell’U.R.S.S. Gli altri partiti si trovano dinnanzi al problema, che è sempre stato di assai difficile soluzione per i vassalli ed i satrapi di tutti gli imperi, del come conciliare la superba coscienza del potere assoluto rispetto ai sudditi con l’umiltà della obbedienza assoluta verso l’autocrate.
 
IX
Per consolidare il proprio potere nell’ambito del loro Stato i comunisti mirano a concentrare nel partito tutti gli interessi, tutte le attività, tutti i sentimenti ammessi nel paese. Se perciò la struttura dello Stato di cui si sono impadroniti è quella dello Stato-nazione, essi tendono istintivamente e con tenacia, per uno strano ma costringente paradosso, verso comunità nazionalcomuniste, chiuse, perfettamente sovrane, e divergenti nel loro sviluppo, perché problemi, ostacoli, tradizioni e necessità politiche sono diverse da paese a paese. Il partito bolscevico ha potuto mantenersi in notevole misura immune dal nazionalcomunismo, in un primo tempo perché l’U.R.S.S. era uno Stato plurinazionale e successivamente perché gli è toccato di amministrare un impero. I partiti comunisti dell’Europa orientale governano invece Stati che coincidono con nazioni, e sono assai più soggetti alla involuzione verso il nazionalcomunismo.
Per tener vivo il lealismo e la subordinazione, che soli permettono lo sviluppo di politiche convergenti fra i vari Stati, il partito sovietico è costretto ad intervenire continuamente dal di fuori con raccomandazioni, con ordini, con destituzioni, con stermini di dirigenti indigeni, a seconda delle necessità e delle proprie possibilità. Insofferenza e viltà, rancore e servilismo diventano quindi le componenti principali dell’animo dei dirigenti comunisti dei paesi satelliti. Quando Mosca è forte e sicura di sé, come è accaduto sotto Stalin, e torna ad accadere da quando Kruscev ha definitivamente raccolto la successione di Stalin, l’obbedienza prevale, ma a dettarla non è più in realtà la fedeltà comunista, bensì la paura che spinge a tutte le abiezioni. I satrapi che vengono a trovarsi a capo dei paesi satelliti possono giungere ai peggiori eccessi di servilismo; ma allora intorno ad essi si fa il vuoto, non solo nel paese, ma anche nel seno del loro stesso partito, e il loro potere dipende esclusivamente dal sostegno che è loro concesso da Mosca. Quando questa diventa incerta nelle sue decisioni e malsicura nelle sue azioni, la paura diminuisce, e l’insofferenza ed il rancore emergono, ed il grandioso edifizio imperiale, fino a un momento prima solidissimo, mostra improvvise fratture e cedimenti.
Lasciamo qui da parte il problema dei rapporti fra Russia e Cina, la cui crisi è latente, ma con ogni probabilità si manifesterà solo il giorno in cui la Cina sarà effettivamente diventata una grande potenza mondiale e metterà fine all’attuale solitario predominio dell’U.R.S.S. nel campo socialista. Fra i satelliti europei la prima frattura, che non è stata più risanata, è avvenuta con la secessione jugoslava. La seconda si è manifestata con le rivolte di Berlino, di Polonia e d’Ungheria durante l’interregno che ha fatto seguito alla morte di Stalin. A differenza delle crisi che maturano nel campo democratico, quelle comuniste restano a lungo nascoste sotto l’uniforme unità totalitaria, il che induce assai spesso non solo gli amici, ma anche gli avversari a negarne l’esistenza fino al momento in cui esplodono; ed a dimenticarle di nuovo non appena siano state soffocate. Ma finché il sistema comunista dell’Europa orientale resta fondato sulla fedeltà di partiti che governano Stati nazionali, esse sono permanentemente all’ordine del giorno. Latenti o scoperte, esse posseggono un naturale centro di cristallizzazione, costituito dalla nazione con le sue spontanee forme di solidarietà umana e dallo Stato, che, sia pure sotto la direzione comunista, rappresenta la nazione, e che, nella misura in cui conserva o riacquista una certa sovranità, tende a generare una politica nazionale. Il nazionalismo dei comunisti — o, come essi lo chiamano, la «via nazionale verso il socialismo», — si alimenta della loro speranza di sottrarsi al pesante giogo imperiale del partito-guida, e di assumere quella pienezza di poteri che è la loro meta suprema. Accanto ad esso, c’è, anche se ufficialmente non ammesso, un nazionalismo popolare che si alimenta della speranza democratica di riacquistare, con l’indipendenza nazionale, qualche libertà. Poiché ciascuna di queste due correnti è troppo debole difronte all’impero sovietico, esse tendono istintivamente ad accostarsi, accentuando il momento nazionale che le unisce, più che quello politico-ideologico che le separa. I comunisti nazionali, come Tito, Gomulka, Nagy, vengono in tal caso a godere di una simpatia popolare che è negata ai loro compagni che si attengono del tutto alla fedeltà verso il partito sovietico. Per non perdere la forza che vien loro da questa simpatia, i comunisti nazionali sono portati a lasciare cadere le misure più impopolari e più dure della politica comunista. Senza rinunziare alla dittatura, cercano di giustificarla facendo appello a superiori necessità nazionali, e mettendo in rilievo le divergenze rispetto all’ortodossa esperienza del paese-guida. Le conseguenze si fanno sentire anche nel settore diplomatico, perché i partiti che tentano la secessione, o anche solo una certa autonomia, cercano di ottenere qualche forma di sostegno dal campo democratico, il quale ha naturalmente tutto l’interesse di accordarlo. L’unico paese dell’Europa orientale in cui questa sottile ma possente forza di attrazione fra nazionalismo e comunismo non funziona, è la Repubblica Democratica Tedesca che non è uno Stato-nazione, ma un puro e semplice Stato comunista installato su un pezzo di nazione; ma di essa dovremo parlare più innanzi.
Le tendenze centrifughe del comunismo nazionale costituiscono un’assai grave minaccia per l’esperienza comunista, la quale proprio perché si realizza sempre in comunità chiuse, ha bisogno ancor più che non l’esperienza democratica di corpi politici assai più vasti dei piccoli Stati-nazione dell’Europa orientale.
 
X
Malgrado tutti gli orrori attraverso cui l’esperienza comunista è passata in Russia e sta passando in Cina, è ragionevole prevedere che essa sia ormai diventata qualcosa di acquisito per la storia di questi due paesi. U.R.S.S. e Cina sono comunità statali consolidate la prima da alcuni secoli, la seconda da alcuni millenni. Le loro tradizioni politiche, praticamente ininterrotte, sono quelle del dispotismo. Prendendo possesso di questi paesi, ed applicandovi le loro dottrine, i rispettivi partiti comunisti si sono trovati e si trovano dinanzi a problemi formidabili, ma anche a popoli ed a territori di dimensioni adatte alla realizzazione dei loro ambiziosi progetti. La loro ideale perfetta società comunista non vedrà mai la luce, ma essi hanno formato la classe dirigente che ha trasformato l’U.R.S.S. da paese arretrato in una moderna potenza mondiale, e che ha risvegliato in Cina le immense energie di uno sterminato popolo da una decadenza secolare e da circa mezzo secolo di anarchia, facendone sin d’ora una delle prime potenze asiatiche, e ponendole innanzi una grande meta di potenza e di modernità. La fierezza che a giusto titolo i comunisti russi e cinesi provano per la loro costruzione — quando non capita loro l’infortunio di essere liquidati dai loro compagni come traditori — non può non essere largamente condivisa dai loro popoli, anche se questi gemono in silenzio per le sofferenze con cui pagano questa grandezza. E’ certo che questi due Stati subiranno trasformazioni assai profonde man mano che giungeranno a maturità; ma, a meno di imprevedibili disastri provocati dal caso o da straordinari errori dei loro capi, è ragionevole ammettere che il loro futuro sarà caratterizzato da una evoluzione dei loro regimi attuali, sia pure con probabili momenti assai drammatici, e non da nuove rivoluzioni che li spazzino via, così come le rivoluzioni comuniste hanno spazzato via i precedenti regimi, e che diano luogo ancora una volta a esperienze politiche del tutto nuove e diverse. Nell’U.R.S.S. è già evidente che la fase della sovracapitalizzazione e del sottoconsumo volge al termine; e che si sta tentando di passare dalla fanatica tensione verso una irraggiungibile società perfetta alla più ordinata amministrazione di una dinamica ma assestata società industriale moderna, dalla politica estera del sovvertimento universale a quella dell’equilibrio mondiale, dal clericalismo comunista a qualche forma di dispotismo illuminato. La Cina attraversa oggi un periodo di trasformazioni violente analogo a quello dei piani quinquennali di Stalin, ma per quanto si possa compiangere quel disgraziato popolo e pensare che forse gli stessi risultati si potrebbero ottenere con altri metodi, resta assai probabile che nel giro di alcuni decenni la Cina uscirà completamente rinnovata da questa esperienza.
Nulla di simile a questa vitalità torbida ma vigorosa dell’U.R.S.S. e della Cina comunista può scorgersi nei regimi dell’Europa orientale. Si tratta di Stati sorti, in virtù del principio nazionale, dalle decomposizioni dei più antichi imperi absburgico, zarista e turco, contrariamente a ogni più ragionevole esigenza politica ed economica, in un’epoca in cui in quelle regioni occorreva non la frantumazione in più Stati sovrani ed in più sistemi economici, ma l’unità politica e quella economica. Causa di disordine nella politica e nell’economia europea nel breve periodo in cui furono veramente sovrani, e oggetto di manovre e di ambizioni da parte delle grandi potenze dell’epoca, tali Stati hanno vissuto sempre nella precarietà e nella reciproca rivalità, ed hanno finito per essere soggiogati di nuovo prima dalla Germania hitleriana e poi dall’Unione Sovietica.
Anche questa loro attuale condizione è tuttavia quanto mai incerta. Dopo la vittoria del 1945 l’U.R.S.S. ha esteso il suo dominio su tutti i territori non tedeschi dell’antico impero absburgico, su quasi tutti i territori europei dell’antico impero turco, sulla Polonia e sulla Germania orientale. Per ragioni di prestigio ideale, di ambizione politica, di sicurezza militare — e fino a qualche anno fa anche a scopo di sfruttamento economico — si è sentita e si sente impegnata a fondo a conservare questo impero ed a fargli compiere l’esperienza comunista, ma non è riuscita a dargli una struttura politica stabile.
 
XI
Può darsi che lo sviluppo interno e la situazione internazionale rendano un giorno l’U.R.S.S. così potente, e così padrona delle sue decisioni, da permetterle di assorbire questi paesi nel suo Stato, facendoli partecipi delle glorie e delle miserie dell’unitaria società comunista, allo stesso titolo delle sue numerose altre nazionalità. Può anche darsi che un contrario corso degli eventi obblighi invece l’Unione Sovietica a ridurre la sua presa su questo o quello Stato satellite, lasciandolo andare sul cammino del comunismo nazionale. Il modello di questo sviluppo è dato dal partito jugoslavo, che si era insediato al potere con le proprie forze, e che è riuscito a sormontare finora la prova dell’indipendenza adottando una formula di comunismo attenuato, conforme alle modeste possibilità di quel paese, accettando un’assai spiacevole stagnazione economica e consacrandosi alla ottocentesca missione di fondere le diverse stirpi di quello Stato nella nuova nazione jugoslava. Ma le dittature comuniste di tutti gli altri paesi sono state imposte dall’U.R.S.S. e sono sinonimo di umiliazione e di frustrazione non solo per i loro popoli, ma anche per i loro stessi dirigenti. E’ assai poco verosimile che riuscirebbero a mantenersi a lungo senza il sostegno esterno dell’U.R.S.S.
Ai partiti che dirigono questi Stati manca per forza di cose la prospettiva della costruzione di una grande comunità moderna, che anima i comunisti russi e cinesi; la loro dittatura non rinnova da capo a fondo quei popoli, ma resta qualcosa di estrinseco e di avventizio, una pura e semplice prepotenza estera priva di qualsiasi intima giustificazione che bisogna subire, ma di cui ci si sbarazzerebbe completamente, se circostanze favorevoli si presentassero. In tal caso riapparirebbero di colpo le istituzioni democratiche, che in quei paesi non sono del tutto ignote e che si potrebbero introdurre senza eccessive difficoltà, anche se sarebbe poi abbastanza difficile farle effettivamente funzionare senza il sostegno delle confinanti democrazie occidentali.
Nella misura in cui i partiti comunisti nazionali riuscissero a salvarsi dalle rivolte democratiche ed a conservare i loro regimi, non potrebbero nemmeno tentare di dar loro un senso nuovo, sostituendo all’attuale unità imperiale sovietica un’autonoma unità politica dell’Europa orientale, che mettesse questa regione al livello politico della Cina. Fra Stati comunisti, in ciascuno dei quali il potere sui sudditi è per definizione totale e indivisibile, non è infatti possibile l’unione federale (fuorché sulla carta), ma solo la fusione in uno Stato unitario, sotto l’unitaria egemonia di un partito unico. Ciò rientra tra le possibilità, anche se non attuali, del soverchiante partito e Stato sovietico, non fra quelle di alcuno dei vari partiti e Stati nazionali dell’Europa orientale, poiché nessuno di questi possiede l’autorità e la forza necessarie per compiere una tale unificazione.
L’eventuale declino del predominio sovietico in questa regione avrebbe perciò come conseguenza immediata l’apparire di un insieme di Stati nazionalcomunisti, o nazionaldemocratici, politicamente instabili, condannati alla stagnazione economica e alle tendenze autarchiche, pieni di reciproche diffidenze, poiché la loro principale ragion d’essere sarebbe di nuovo il principio nazionale. Ciò equivarrebbe alla ricaduta in quel caos di piccoli nazionalismi che ha caratterizzato la storia dell’Europa orientale fra le due guerre mondiali, e di cui le astiose polemiche fra la Jugoslavia e i suoi vicini sono un assai chiaro preludio.
Se si riflette su queste circostanze si giunge alla conclusione che l’U.R.S.S. può subire per forza maggiore sviluppi di questo genere in qualche parte del suo impero, se le circostanze l’obbligheranno a cedere qualcosa, ma che farà il possibile per evitare sia il diffondersi del nazionalcomunismo sia le restaurazioni democratiche. Per ora gli Stati dell’Europa orientale sono dunque costretti a restare a mezza strada fra la condizione di Stati sovrani e quella di provincie sovietiche, subendo e facendo subire all’U.R.S.S. gli inconvenienti di entrambe le situazioni. Per tener testa alle tendenze centrifughe del comunismo nazionale ed a quelle esplosive della restaurazione democratica nazionale, l’Unione Sovietica è costretta a mantenere in piedi duro ed immobile il triplice suo imperialismo militare, economico e ideologico, quantunque le nuove tendenze che si sviluppano nell’U.R.S.S. dopo quaranta anni di esperienza comunista, e le esigenze della coesistenza competitiva, richiedano una notevole apertura a tentativi nuovi, e rendano perciò difficile la politica della pura e semplice conservazione imperiale.
Poiché la religiosità comunista si è fortemente inaridita grazie alle sue stesse realizzazioni e all’ingente massa di nuovi problemi politici, economici e sociali da queste suscitati, l’U.R.S.S. avrebbe tutto l’interesse a trasferirla progressivamente nel campo dei ricordi storici e a permettere nuove elaborazioni d’idee soprattutto da parte delle nuove generazioni che arrivano a maturità. Ma se il comunismo ha perso quasi ogni significato nella vita etico-politica dell’U.R.S.S. ed è provvisoriamente rimpiazzato sempre più dall’ambizione di raggiungere e superare gli Stati Uniti, esso è rimasto il principio religioso che solo giustifica e legittima il sistema imperiale sovietico, poiché su di esso si fonda il lealismo dei partiti satelliti e di quello cinese. I primi tentativi di revisione effettuati da Kruscev e da Mikoian, nel corso della lotta per la successione di Stalin, hanno messo in moto un così vasto e pericoloso moto di secessioni nazionalcomuniste e nazionaldemocratiche, da costringere i governanti sovietici a fare precipitosamente marcia indietro. Qualcosa di simile accade nel campo della politica mondiale. L’U.R.S.S. è interessata a concordare con l’America una riduzione della presenza militare di entrambe le grandi potenze in Europa, ma nello stesso tempo ne teme le conseguenze negative per il lealismo dei suoi domini imperiali, il che la induce a svolgere una tortuosa attività diplomatica, che i democratici considerano assai perversa, ma che in realtà è quasi altrettanto poco coerente quanto la loro, e per ragioni abbastanza simili.
 
XII
Se confrontiamo il rapporto dell’esperienza democratica e rispettivamente di quella comunista con il nazionalismo, possiamo constatare alcune somiglianze ed alcune divergenze. Il principio dello Stato-nazione è capace di entrare in simbiosi sia con l’esperienza democratica che con quella comunista, ma per entrambe è un residuo di un’epoca passata che esse vorrebbero e dovrebbero superare, poiché, nella misura in cui esso continua a sussistere, costituisce una vera e propria malattia politica, e perciò un pericolo per le loro probabilità di riuscita.
In entrambi i campi il nazionalismo opera contemporaneamente in senso contrario all’egemonia della potenza guida ed alla solidarietà fra i paesi minori, costituendo perciò un puro e semplice fattore di caos nella politica mondiale, perché, nella misura in cui si afferma, obbliga le grandi potenze ad arretrare le loro linee di impegno, ma non fa sorgere un ordine nuovo e stabile nello spazio diventato libero. Finché altre e più solide forme di unità non sorgono, la solidarietà democratica e la fedeltà comunista riescono a prevalere sulle tendenze centrifughe dei nazionalismi solo in virtù ed in proporzione della paura che ciascuno dei due campi ha di essere aggredito e distrutto dall’altro. Nella misura in cui si diffonde invece la convinzione che le regole della coesistenza competitiva saranno assai difficilmente violate, viene meno l’elemento puramente negativo della paura e le due coalizioni tendono a disgregarsi.
Poiché la coalizione democratica si fonda più sul consenso e sulle influenze indirette, mentre quella comunista poggia più sull’ortodossia ideologica e sulla forza, le modalità del processo di disgregazione sono nei due casi differenti. La decomposizione della solidarietà democratica è più facile e tende a verificarsi come progressivo estraniamento fra alleati, accompagnato da polemiche abbastanza aperte. La decomposizione della fedeltà comunista, dovendo sormontare ostacoli rigidi, è più difficile e tende a manifestarsi in crisi brusche e dure precedute e seguite da periodi di conformismo-ipocrita, al di sotto del quale si accumulano silenziosamente i contrasti.
Per venire a capo di questi pericoli occorre in entrambi i casi metter fine al principio stesso della sovranità nazionale, introducendo forme di organizzazione politica adeguate alle esigenze rispettive dell’esperienza democratica e di quella comunista nella nostra epoca. Esse sono quelle federali nel primo caso, e quelle dell’assorbimento nel seno di una grande potenza comunista plurinazionale nel secondo. La soluzione perfetta sarebbe in astratto la creazione di un unico Stato federale democratico e di un unico Stato unitario comunista, ma nelle circostanze attuali l’una e l’altra prospettiva sono assai inverosimili. Mentre l’Europa occidentale soffre infatti della sua attuale divisione in Stati nazionali, e si può perciò ragionevolmente fare l’ipotesi che venga fuori e finisca con l’imporsi una volontà di unificazione federale, gli Stati Uniti si trovano oggi in condizioni di vita sostanzialmente sane che non permettono l’apparire di un forte desiderio di cambiamento della loro struttura politica. Nel campo comunista mentre gli Stati satelliti dell’Europa e quelli dell’Estremo Oriente potrebbero a rigore essere assorbiti rispettivamente nei vasti complessi sovietico e cinese, i rapporti di questi due colossi totalitari non possono essere che quelli fra potenze sovrane.
Anche le soluzioni parziali — federazione europea occidentale e annessione sovietica dell’Europa orientale o di sue parti — incontrano ostacoli di natura diversa ed hanno probabilità differenti di realizzazione. Dal punto di vista formale della tecnica costituzionale l’unificazione è più facile per l’Unione Sovietica, la quale non avrebbe che da deciderla senza tener conto del consenso di nessuno, come ha fatto per i Paesi baltici e per gli altri territori da essa annessi, mentre assai complesso e difficile sarebbe il cammino per l’Europa occidentale, tenuta alla constatazione di un effettivo consenso prevalente fra i paesi che si uniscono, ed al rispetto di una procedura costituente democratica.
Se però esaminiamo i due problemi dal punto di vista sostanziale dell’equilibrio mondiale, giungiamo a conclusioni opposte. La federazione europea occidentale sarebbe un corpo politico necessariamente pacifico, in ragione stessa della limitatezza dei poteri federali e del superamento delle politiche nazionaliste. Essendo un fattore di ordine e di potenza autonomi, sarebbe inoltre capace di metter fine alla presenza militare americana in Europa, d’accordo con gli Stati Uniti e mercanteggiando questo passo con l’U.R.S.S. La sua nascita sarebbe quindi un fattore assai importante di distensione ed andrebbe nello stesso senso in cui sono costrette a muoversi le grandi potenze mondiali per evitare il conflitto mondiale. Invece l’annessione, anche se graduale, di paesi dell’Europa orientale, significherebbe l’accrescimento diretto della potenza sovietica e l’ulteriore avanzamento delle sue frontiere verso il cuore dell’Europa. Passi di questo genere sarebbero possibili solo in un’atmosfera di assai forte tensione internazionale e contribuirebbero ad acuirla ancor di più. Nella misura dunque in cui l’U.R.S.S. e gli Stati Uniti sono interessati a cercare di stabilire regole di coesistenza competitiva, si può dire che il passaggio dal sistema degli Stati-nazione democratici a quello dell’unità federale è possibile solo che gli europei lo vogliano compiere, e che, lungi dal mettere in pericolo la pace mondiale, contribuirebbe a rafforzarla; mentre il passaggio dal sistema degli Stati-nazione comunisti a quello dell’unità sovietica sarebbe in così flagrante contraddizione con la politica della distensione e della competizione pacifica, che l’U.R.S.S., anche se desiderasse compierlo, assai probabilmente vi rinuncerebbe contentandosi di mantenere, pur con tutti i suoi inconvenienti, l’attuale sistema dei protettorati imperiali.

 

 

 

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