IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XL, 1998, Numero 3, Pagina 205

 

 

La costruzione dell’Unione monetaria: due metodi a confronto[*]


 
GUIDO MONTANI
 
Metodo federalista e metodo intergovernativo.
 
    Jean Monnet racconta nelle sue Memorie[2] che, nel 1950, quando tra gli Stati europei le ferite della guerra non si erano ancora rimarginate, solo dopo aver constatato la reticenza del governo francese a sostenere la creazione della Federazione europea, propose il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Monnet aveva compreso che i tempi erano maturi solo per compiere il primo passo dell’unificazione europea con «un’azione immediata su un punto essenziale». Ma questo passo avrebbe progressivamente mutato il corso degli avvenimenti. In breve, la CECA è stata concepita da Jean Monnet come «les premières assises de la Fédération européenne».
    Il metodo di Jean Monnet, aprendo la via alla pacificazione franco-tedesca, il vero motore politico dell’unificazione europea, ha realmente mutato il corso degli avvenimenti: l’integrazione europea, a partire dal dopoguerra, è divenuta il punto di riferimento irrinunciabile della politica europea. Si è trattato di un processo non privo di contraddizioni, a volte contrastato e rifiutato dai governi e dalle forze politiche, ma di cui i paesi europei non hanno potuto fare a meno.
Il metodo della integrazione europea per settori, a piccoli passi, ha tuttavia un limite, di cui Jean Monnet era perfettamente cosciente. Esso si dimostra inadeguato quando è necessario affrontare il trasferimento di poteri sovrani dal livello nazionale al livello europeo, dunque quando si affrontano le questioni cruciali della difesa e della moneta. In questi casi, il gradualismo deve lasciar posto al metodo costituente.
    Ciò accadde, in effetti, con la difesa europea. Il problema di una Comunità europea di difesa (CED) si pose quando i governi europei, messi di fronte alla necessità di scegliere tra la ricostituzione dell’esercito tedesco e la creazione di un esercito europeo, dovettero prendere atto che non avrebbe avuto senso istituire una difesa europea senza un governo democratico europeo. Fu così che nel 1952 i Sei affidarono alla Assemblea parlamentare della CECA il compito di redigere un progetto di Comunità politica europea; in verità, una vera e propria costituzione. E’ noto che il Trattato della CED, dopo essere stato ratificato dalla Germania e dai paesi del Benelux, nell’agosto del 1954 venne respinto dalla Francia. Svanirono così, per un lunghissimo periodo, le speranze di una unione politica europea.
    Questo episodio va ricordato per comprendere quanto è avvenuto e sta avvenendo sul terreno della costruzione dell’Unione monetaria. In breve, negli anni più recenti, i governi nazionali hanno proceduto alla costruzione dell’Unione monetaria come se si trattasse di uno dei tanti problemi settoriali. Al contrario, la costruzione della moneta europea comporta un trasferimento di poteri sovrani dal quadro nazionale a quello europeo. Per questa ragione, dopo Maastricht, si è giunti ad una svolta: il metodo intergovernativo ha esaurito la sua funzione[3].
 
Le origini dell’Unione monetaria.
 
    Il processo di integrazione europea sarebbe incomprensibile se non si tenesse in considerazione il contesto politico mondiale, cioè il bipolarismo USA-URSS. Per questo, nel 1957, i Trattati di Roma che istituivano il Mercato comune, contro ogni logica economica, ignorarono del tutto il problema della moneta europea. Il tacito presupposto era che gli Stati Uniti riuscissero a garantire il sistema delle parità fisse deciso a Bretton Woods. E, in effetti, il Mercato comune, poco più di una semplice unione doganale, grazie alla stabilità monetaria internazionale si rivelò un successo, consentendo ai paesi della Comunità di svilupparsi a tassi superiori a quelli medi dell’area occidentale, di ridurre considerevolmente la disoccupazione e di rivaleggiare con gli Stati Uniti come polo commerciale autonomo.
    Fu solo in prossimità del crollo del sistema di Bretton Woods, avvenuto nel 1971, che i governi europei furono costretti a concepire l’obiettivo di una Unione monetaria europea, per mettersi al riparo dalle crescenti ondate speculative generate dal mercato apolide dell’eurodollaro e dalla instabilità dei cambi. Il Piano Werner, redatto su mandato del Vertice dei Capi di Stato e di governo dell’Aja nel 1969, prevedeva in effetti la realizzazione di una Unione monetaria a tappe, entro il 1980.
L’obiettivo finale, nel Piano Werner, era definito con precisione, ma la realizzazione veniva purtroppo affidata alla buona volontà delle Banche centrali e dei governi. La bufera monetaria che si scatenò agli inizi degli anni Settanta, sia a causa della fine del regime delle parità fisse, sia a causa del disordine economico internazionale causato dalla crisi petrolifera, fece naufragare miseramente il piano Werner. ll progetto stesso del Mercato comune sembrava minacciato alle radici. Diventava, infatti, sempre più problematico difendere l’unità di un mercato fondato su un agglomerato di aree monetarie indipendenti, con tassi di inflazione, tassi di interesse e politiche fiscali divergenti.
    La prima reazione alla crisi del processo di integrazione europea venne dal Movimento federalista europeo. Il rilancio si sarebbe dovuto fondare su due progetti, uno di natura politica ed uno di natura economico-politica. Il primo consisteva nella elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, al fine di far partecipare cittadini e partiti al dibattito sulla costruzione dell’Europa, che fino ad allora era stato confinato nel settore della politica estera. La decisione sulla elezione europea venne effettivamente presa nel 1975. Il secondo progetto riguardò la moneta europea, come mezzo indispensabile della politica economica del governo europeo. Con questa proposta i federalisti intendevano contrastare un orientamento, allora dominante tra gli economisti e la classe politica, favorevole ai cambi fluttuanti ed alla illusoria «autonomia» della politica economica nazionale. Gli economisti federalisti (tra i quali va ricordato Robert Triffin), grazie anche al sostegno di P. Werner e di D. P. Spierenburg, che avevano giocato un ruolo rilevante nella prima fase di riflessione sull’Unione monetaria, organizzarono sin dal 1976 una serie di iniziative (a Pavia, Torino, Parigi, Lione, Eindhoven) culminate con l’importante convegno di Roma del giugno 1977 su L’unione economica e il problema della moneta europea[4], che ebbe una vasta risonanza nella Comunità. In effetti, la proposta della moneta europea venne subito ripresa dall’allora Presidente della Commissione, Roy Jenkins, in un lungimirante discorso tenuto a Firenze nell’ottobre del 1977. Jenkins presentò poco dopo le medesime idee al Parlamento europeo (1978). I fatti successivi sono noti: a Brema (1978) il Consiglio europeo decise di varare il Sistema monetario europeo, che entrò effettivamente in funzione nella primavera del 1979, poco prima che i cittadini europei si recassero alle urne per eleggere direttamente, per la prima volta nella storia, un parlamento sovranazionale.
    Vi sono due aspetti della proposta federalista che devono essere sottolineati. Il primo riguarda il rapporto tra moneta europea e bilancio europeo. Secondo i federalisti, l’istituzione della moneta europea avrebbe dovuto essere accompagnata da un rafforzamento delle politiche di bilancio e, per questo, ritenevano complementare al progetto dell’Unione monetaria il Rapporto MacDougall (1977), che indicava come dimensione minima di un bilancio europeo pre-federale il 2-2,5% del PIL comunitario. Il secondo aspetto riguarda i rapporti tra moneta europea e governo europeo. I federalisti erano consapevoli del fatto che la creazione del governo europeo avrebbe dovuto precedere la creazione della moneta europea, ma erano altrettanto consapevoli del fatto che il metodo con cui i governi avanzavano sul terreno della costruzione dell’Europa presentava contraddizioni con cui occorreva fare i conti. «E’ contraddittorio — così si esprimeva Mario Albertini nel 1976 —, come risulta dal fallimento del Piano Werner, il proposito di giungere ad una moneta europea prima di aver creato il potere europeo capace di avviare una politica economica europea. E’ priva di significato l’elezione europea per il Parlamento europeo privo di poteri, come è priva di significato una Unione che non si esprima con un vero e proprio governo europeo»[5]. Pertanto, se i governi avessero voluto inoltrarsi sulla via della costruzione della moneta europea senza adeguate riforme istituzionali avrebbero messo in moto un processo che li avrebbe posti di fronte a contraddizioni crescenti, sino a che non fosse stato istituito un governo democratico europeo. La moneta europea è un potere di natura federale, come insegna Lionel Robbins. Si può creare la moneta prima di creare lo Stato, ma solo come tappa intermedia di un processo costituente. Questo è il metodo che i federalisti hanno definito del gradualismo costituente e che, in effetti, i governi, seppure inconsapevolmente, hanno seguito sino ad ora.
 
Il progetto di Unione del Parlamento europeo.
 
    Nel corso della sua prima legislatura, il Parlamento europeo è sembrato intenzionato ad adottare il metodo costituente per la costruzione dell’Unione europea. In effetti, grazie all’iniziativa di Altiero Spinelli, il 14 febbraio 1984, a larghissima maggioranza, il Parlamento europeo approvò un progetto di Trattato di Unione europea le cui caratteristiche essenziali possono essere così riassunte: a) un sistema di governo democratico dell’Unione, grazie alla trasformazione della Commissione in un esecutivo responsabile di fronte al Parlamento europeo (artt. 25-29), l’attribuzione al Parlamento europeo di un effettivo potere di codecisione legislativa e di approvazione del bilancio insieme al Consiglio (artt. 14-17), la trasformazione del Consiglio in un seconda Camera degli Stati, deliberante a maggioranza (artt. 20-23); b) l’attribuzione all’Unione europea di una «competenza concorrente» per quanto riguarda la trasformazione del Sistema monetario europeo in una «unione monetaria completa» (art. 52); c) l’istituzione di «finanze proprie» dell’Unione, la cui composizione, destinazione ed ammontare sarebbero state decise da una autorità di bilancio, composta dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Unione (artt. 70-81); d) per quanto riguarda la politica estera, il riconoscimento all’Unione della personalità giuridica (art. 6); la Commissione veniva indicata come l’organo che avrebbe rappresentato l’Unione «nelle sue relazioni con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali» e che avrebbe negoziato «gli accordi internazionali a nome dell’Unione» (art. 65).
    Questa breve sintesi del progetto di Unione europea, che Maurice Duverger [6] considera come la Guida Michelin di tutte le future riforme, è sufficiente per mostrare quale avrebbe potuto essere la via alternativa che si sarebbe potuta seguire per costruire l’Unione monetaria. Se il progetto di Unione europea fosse stato ratificato dai paesi membri, la competenza «concorrente» dell’Unione per quanto riguarda il Sistema monetario europeo avrebbe potuto diventare una competenza «esclusiva» di fatto, con l’attribuzione all’Unione della sovranità monetaria prima che iniziasse il processo di convergenza tra le economie nazionali. Ciò avrebbe comportato una transizione dalle monete nazionali alla moneta europea mediante un processo in cui le autorità monetarie e di bilancio nazionali avrebbero potuto cooperare strettamente con le autorità monetarie e di bilancio dell’Unione. In breve, le riserve dell’Unione sarebbero state gestite subito dalla Banca centrale europea[7]. Inoltre, con risorse proprie, l’Unione avrebbe goduto di una capacità di spesa giudicata necessaria, sulla base del principio di sussidiarietà, per facilitare il processo di convergenza tra le economie nazionali.
    Tuttavia, come è noto, il progetto di Trattato del Parlamento europeo non venne sottoposto alle ratifiche nazionali. Nonostante il sostegno esplicito della Francia, della Germania, dell’Italia e dei paesi del Benelux, esso incontrò l’esplicito e insormontabile rifiuto della Signora Thatcher. Fu così che i governi europei decisero di proseguire il cammino dell’integrazione europea mediante il metodo intergovernativo. Nella convinzione che si potesse procedere senza la creazione preliminare di un governo europeo, venne varato il progetto del mercato interno (Atto Unico, 1986) e poi quello dell’Unione economica e monetaria (Trattato di Maastricht, 1991). Ma l’adozione del metodo intergovernativo ha comportato dei costi via via crescenti che possono essere così riassunti: a) allungamento dei tempi ed accrescimento delle difficoltà della convergenza; b) mancanza di una politica di sviluppo e dell’occupazione; c) un eccesso di centralismo europeo; d) ritardi ed inefficacia nella realizzazione di una politica estera dell’Unione.
 
L’allungamento dei tempi ed i crescenti ostacoli della convergenza.
 
    Dopo gli anni di disordine monetario e finanziario seguiti alla crisi di Bretton Woods, in cui tra i paesi della Comunità si erano manifestati consistenti differenziali nei tassi di inflazione (sino al 15%), il Sistema monetario europeo si proponeva di avviare un processo di convergenza. Di fatto, lo SME è consistito in un sistema di cambi fissi, con margini ristretti di variazione intorno all’Ecu. Esso è stato dunque concepito, inizialmente, come un sistema simmetrico, nel senso che le economie europee avrebbero dovuto convergere verso valori medi di inflazione, in un sistema di cambi fissi di cui l’Ecu rappresentava il punto di riferimento. Tuttavia, dopo pochi anni, apparve evidente che il vero punto di riferimento delle politiche monetarie nazionali non era l’Ecu, ma il marco tedesco. Lo SME poteva continuare a funzionare come sistema di cambi fissi solo alla condizione che tutti i paesi della Comunità convergessero verso l’economia a più basso tasso di inflazione, che veniva pertanto accettata come modello della politica economica europea. Tuttavia, questo sistema asimmetrico o egemonico dell’economia europea non avrebbe potuto funzionare a lungo, senza creare tensioni politiche insostenibili tra i paesi europei. Prima o poi, si sarebbe dovuto indicare un punto di arrivo stabile, in cui tutti i paesi avrebbero potuto condividere i medesimi oneri ed i medesimi privilegi. Questo traguardo non poteva essere che l’Unione economica e monetaria[8].
    Il Comitato Delors venne istituito dal Consiglio europeo di Hannover (1988) con il compito di proporre le tappe per la creazione dell’Unione economica e monetaria. Esso completò i suoi lavori entro la primavera del 1989 con l’indicazione che, dopo la liberalizzazione della circolazione dei capitali, la seconda tappa avrebbe dovuto consistere nella istituzione del Sistema europeo di banche centrali (SEBC); nella terza sarebbero state fissate irrevocabilmente le parità. Tuttavia, nel novembre del 1989 l’Europa venne investita da una inattesa turbolenza politica: la caduta del muro di Berlino e l’avvio della disgregazione del sistema sovietico. La riunificazione tedesca, avvenuta nel 1990, rappresentò una svolta drammatica perché fece ricomparire nella politica europea lo spettro di una egemonia economico-politica tedesca. Senza questi avvenimenti, non si spiegherebbero né la celerità con cui si giunse al Trattato di Maastricht, né i suoi contenuti. Esso rappresentò un compromesso. Da un lato, la Germania comprese che solo il sacrificio della sovranità sul marco avrebbe consentito il proseguimento del cammino comune. Dall’altro, la Francia rifiutò di accettare adeguate riforme istituzionali (in particolare il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo), come chiedeva la Germania. Per questo, la Germania subordinò i tempi dell’unificazione monetaria europea alle esigenze di aggiustamento dell’economia tedesca causate dall’unificazione. Secondo l’opinione autorevole di uno dei partecipanti al Comitato Delors, «dal Rapporto Delors (1989) al Consiglio europeo di Roma (1990), l’idea che la Banca centrale europea dovesse essere creata all’inizio della seconda fase venne mantenuta; tra Roma e Maastricht (1991) questo risultato fondamentale andò perduto, ed è stato l’unico, vero arretramento rispetto alle conclusioni di Roma.... Il rifiuto di ogni cessione parziale di sovranità prima dell’ora x del passaggio alla fase finale, venne, soprattutto dalla delegazione tedesca, impropriamente invocato per rinviare la creazione della Banca centrale europea, persino prevalendo sugli impegni assunti a Roma dal cancelliere Kohl»[9].
    Fu così che la data inizialmente individuata per la creazione del Sistema europeo di banche centrali, cioè il 1994, venne rinviata al 1997, nel caso in cui una maggioranza di Stati membri fosse stata disponibile, oppure, al più tardi, al 1999 (art. 109 J del Trattato di Maastricht). Questo allontanamento repentino della prospettiva dell’unificazione monetaria ha comportato gravissime conseguenze nel sistema delle aspettative degli operatori economici e della classe politica. Le incertezze relative al processo di ratifica del Trattato di Maastricht, specialmente in Francia, hanno poi fatto il resto. Il clima di «euro-euforia» che aveva caratterizzato la fase di realizzazione del mercato interno europeo, sino alla progettazione dell’Unione monetaria, si mutò improvvisamente in «euro-scetticismo», perché poteva essere messa in discussione la volontà dei governi di arrivare veramente alla moneta unica. Fu così che la speculazione internazionale si abbatté sulla lira sterlina e sulla lira italiana nella consapevolezza che la convergenza sarebbe stata un processo lungo e difficile. In effetti, a Maastricht i governi europei avevano non solo fissato alcuni parametri di riferimento monetari e finanziari (protocollo sull’art. 109 J), ma avevano anche deciso che ciascun governo fosse tenuto a realizzare la convergenza con le proprie forze, senza mettere in atto alcuna politica economica europea per lo sviluppo e l’occupazione. Inoltre, come conseguenza di questa procedura, diventò inevitabile introdurre una distinzione tra paesi «in», che sarebbero riusciti a partecipare all’Unione monetaria, e paesi «out», esclusi dall’Unione. In conclusione, sembra ragionevole sostenere che la creazione di un’Europa a più velocità abbia aggravato il processo di convergenza, sia per le tensioni di tipo monetario, finanziario ed economico che si sarebbero potute generare tra i due gruppi di paesi, sia per le difficoltà istituzionali che devono necessariamente sorgere negli organi comuni, come il Parlamento europeo, la Commissione e il Consiglio.
 
Mancanza di una politica dello sviluppo e dell’occupazione.
 
    Nel suo discorso del 1977, il Presidente della Commissione Jenkins proponeva, in accordo con i federalisti, che l’Unione monetaria fosse accompagnata da una politica europea per l’occupazione e da un sistema fiscale federale. Il Comitato Delors prese un’altra via. Una discussione sulle risorse finanziarie avrebbe sollevato il problema della sovranità fiscale. Poiché l’unanimità sarebbe stata impossibile su tale questione, il Comitato scelse la via più facile. Esso si concentrò solo sull’obiettivo della costruzione dell’Unione monetaria: l’ipotesi implicita era pertanto che l’Unione monetaria si potesse costruire senza alcun rafforzamento del bilancio europeo.
    La realtà, tuttavia, non poteva essere sfacciatamente ignorata: l’inerzia dell’Unione aveva consentito che, negli anni Novanta, i tassi di disoccupazione superassero ormai la soglia del 10%. Una volta ratificato il Trattato di Maastricht, Delors stesso cercò di rimediare alla mancanza di una politica europea dell’occupazione e dello sviluppo con una nuova proposta, oggi conosciuta come Piano Delors, cioè il Libro bianco della Commissione su «Crescita, competitività, occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo», approvato dal Consiglio europeo di Bruxelles nel 1993.
    Le proposte del Piano Delors sembravano sufficienti per rovesciare la tendenza alla stagnazione dell’economia europea e dimezzare (questa era la previsione) il tasso di disoccupazione europeo entro il 2000. In effetti, un piano di grandi investimenti comunitari per reti stradali, ferroviarie e telematiche, accompagnato da adeguate politiche nazionali per la flessibilità del mercato del lavoro, avrebbe consentito alle imprese europee di affrontare la sfida della globalizzazione da posizioni di avanguardia. Tuttavia, questi obiettivi non sono stati raggiunti. Il rilancio dell’economia europea non è avvenuto. Il difetto del Piano Delors è consistito nel fatto che la sua realizzazione veniva fatta dipendere dal sistema decisionale dell’Unione plasmato dal Trattato di Maastricht. Avvenne così che il Consiglio dei ministri finanziari (Ecofin) impose, di riunione in riunione, la logica del rispetto dello status quo: nessuna nuova risorsa di bilancio venne attivata, sino a che la Commissione europea stessa rinunciò al progetto. Per questo, la politica dell’occupazione in Europa, oggi, è ridotta al semplice coordinamento di piani nazionali, il cui obiettivo di fondo è solo la flessibilità del mercato del lavoro.
    E’ una politica suicida, perché, se è fuori discussione che il mercato del lavoro debba essere reso più flessibile, non dovrebbe nemmeno essere messo in discussione il fatto che l’Unione europea debba affrontare la sfida, proveniente in particolare dagli Stati Uniti e dal Giappone, delle tecnologie d’avanguardia, che richiedono per il loro sviluppo investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica e una politica industriale efficace su alcuni fronti sensibili, come l’aeronautica e la missilistica, oggi fondamentale per lo sviluppo del settore delle telecomunicazioni. Ma poiché questo tipo di industria ha evidenti implicazioni per la difesa e la sicurezza, i governi europei sono refrattari a superare la soglia di cooperazione che metterebbe in discussione la sovranità nazionale. Così, la difesa del passato mette in pericolo il benessere attuale e futuro degli europei.
 
Un eccesso di centralismo europeo.
 
    Non è possibile dire, nel caso in cui il progetto del Parlamento fosse stato ratificato, come l’Unione europea avrebbe affrontato il problema della convergenza delle economie nazionali. Tuttavia, è possibile osservare che ben diverso sarebbe stato il grado di coesione politica tra i popoli europei nel caso in cui fosse stata approvata una Costituzione in cui fossero stati affidati al Parlamento europeo e alla Commissione i poteri sufficienti per affrontare la costruzione dell’Unione monetaria. Il problema della convergenza, in questo contesto, si sarebbe mostrato nella sua vera natura: un problema di squilibri regionali (dove gli Stati nazionali avrebbero svolto il ruolo di «regioni») all’interno di uno Stato federale. La via più ragionevole per la costruzione di una unione monetaria europea sarebbe dunque stata quella di affidare subito la sovranità monetaria al governo federale, al fine di mettere al riparo le economie più deboli dalla speculazione internazionale. Il cambio delle monete nazionali nella moneta europea avrebbe potuto essere fatto in un secondo tempo. Ciò avrebbe consentito alla Banca centrale europea, sino al momento in cui i cambi non fossero stati fissati irrevocabilmente, di effettuare aggiustamenti tra le monete comunitarie. In questo modo, i tassi di interesse nazionali avrebbero potuto convergere senza tensioni verso un valore medio europeo e le politiche nazionali di risanamento finanziario sarebbero risultate meno gravose.
    Il problema dei limiti ai deficit eccessivi di bilancio non avrebbe potuto, in ogni caso, venir eluso. Anche in una Unione federale, a causa della particolare importanza della spesa pubblica nazionale rispetto al bilancio europeo, si sarebbero dovuti fissare alcuni vincoli per evitare indebitamenti eccessivi, come è stato fatto a Maastricht. Ma il rispetto di questi vincoli sarebbe dipeso prioritariamente da un patto politico, perché ogni Stato dell’Unione si sarebbe impegnato, ratificando la Costituzione europea, alla realizzazione dell’Unione monetaria, di cui quei parametri rappresentano una condizione essenziale. Non sarebbero state dunque necessarie «sanzioni» contro i paesi devianti, come è previsto nel Patto di stabilità. Né sarebbe stato necessario prevedere che tutti i paesi dell’Unione raggiungessero i valori concordati nel medesimo tempo. Si sarebbe potuto, senza alcuna difficoltà, prevedere tempi di aggiustamento differenti per paesi con particolari difficoltà.
    Ciò che più conta, tuttavia, sarebbe stato il fatto che il processo di convergenza avrebbe potuto essere accompagnato da efficaci politiche comunitarie per lo sviluppo e l’occupazione, il settore in cui è più evidente la necessità di applicare il principio di sussidiarietà, perché i singoli governi non sono in grado di realizzare, su questo fronte, politiche efficaci. Non si sarebbe certo perso tempo, come si sta facendo, a discutere del coordinamento delle politiche nazionali di sviluppo: una somma di politiche nazionali non è una politica europea. Inoltre, l’Unione avrebbe avuto le competenze per affrontare, sulla base di un aperto dibattito europeo, la questione delle risorse finanziarie necessarie per varare un efficace Piano (simile al Piano Delors) per lo sviluppo sostenibile e l’occupazione. Il processo di convergenza delle economie nazionali avrebbe così potuto essere realizzato dai singoli governi non in una situazione di depressione economica, di dominante euroscetticismo e di incertezza, ma in un clima di fiducia e di ripresa.
    In definitiva, la difesa ad oltranza (ma solo nominale) della sovranità nazionale, ha costretto i governi europei, pur di non subordinare la loro politica economica ad un governo europeo, a subordinarla a parametri uniformi ed immutabili.
 
Mancanza di una politica estera.
 
    Il Trattato di Maastricht, per la prima volta, ha incluso la politica estera e della sicurezza tra le competenze dell’Unione europea. Ma la gestione di questa politica viene affidata interamente al Consiglio dei ministri, in cui nessuna decisione rilevante può essere presa se non viene raggiunta l’unanimità. Inoltre, poco o nulla viene previsto sui mezzi di intervento. Non ci si deve dunque stupire se, alla prova dei fatti, la politica estera dell’Unione europea si è rivelata un fiasco.
    In effetti, il primo severo esame è consistito nella sfida proveniente dall’Est europeo, quando dai Paesi Baltici alla Jugoslavia si è invocata l’Unione europea per superare la divisione che la cortina di ferro aveva artificiosamente creato. Inizialmente, la risposta dell’Unione europea è stato un impacciato silenzio. La politica più efficace che l’Unione europea avrebbe potuto sviluppare nei confronti di questi paesi, bisognosi non solo di aiuti materiali ma di stabilità e democrazia, sarebbe stato un immediato piano per il loro ingresso nell’Unione come paesi membri. Questa risposta è tardata a venire. Di fatto, solo il Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997 ha potuto tradurre un impegno morale in un preciso piano politico. Ma nel frattempo, i paesi dell’Est hanno dovuto far fronte alle loro difficoltà con forze inadeguate. Alcuni paesi sono riusciti a far sopravvivere le fragili conquiste democratiche della prima ora. Altri hanno ceduto alle insidie dell’odio nazionalistico, del secessionismo e della pulizia etnica.
    L’incapacità dell’Unione europea nel fronteggiare la sfida dell’allargamento deriva dai limiti istituzionali del Trattato di Maastricht. Un allargamento immediato da 12 membri a 26 o più, in una situazione in cui il Consiglio dei Ministri può essere bloccato dal veto di un solo paese, avrebbe certamente cambiato la natura dell’Unione europea, trasformandola in una semplice area di libero scambio, senza più prospettive di unità politica. Per questo, le decisioni sull’allargamento sono state rinviate alla fine della Conferenza intergovernativa, che avrebbe dovuto sciogliere alcuni nodi istituzionali essenziali. Tuttavia, ad Amsterdam (1997) queste difficoltà non sono state affatto superate, così che le decisioni sull’allargamento rischiano, ancora, di compromettere il processo di unificazione politica del continente.
    Anche in questo caso, non è possibile affermare che i drammi dei popoli dell’Est europeo avrebbero potuto essere evitati del tutto se il progetto di Unione del Parlamento europeo fosse stato ratificato. Ma è certo che la sfida dell’allargamento avrebbe potuto essere affrontata con mezzi ben più efficaci. L’esistenza di un governo europeo avrebbe, in effetti, consentito di porre in primo piano le questioni politiche e non quelle economiche. La partecipazione, a breve scadenza, dei popoli dell’Est alle istituzioni comunitarie, prima tra tutte al Parlamento europeo, mediante l’elezione diretta di propri deputati, avrebbe senza dubbio rappresentato un fattore di primaria importanza per quanto riguarda il rafforzamento e la stabilizzazione della democrazia. Inoltre, l’ingresso di nuovi paesi non sarebbe stato in contrasto con la costruzione dell’Unione monetaria, perché sia che la moneta europea fosse già stata istituita, sia che non lo fosse, il trasferimento della sovranità monetaria dagli Stati nazionali all’Unione avrebbe potuto essere fatto senza causare traumi all’economia, con percorsi draconiani di convergenza, come si sono imposti a Maastricht. Infine, non sarebbe sembrata una eresia, come la si considera attualmente, l’ipotesi di un aumento del bilancio comunitario per consentire gli aiuti necessari al superamento degli squilibri economici tra Europa occidentale ed orientale.
    L’Unione avrebbe dunque avuto la possibilità di offrire alla Jugoslavia la prospettiva di entrare subito, unita, nell’Unione. In ogni caso, anche se messa di fronte alla follia della divisione etnica, l’Unione europea avrebbe potuto intervenire per riportare la pace e l’unità con mezzi europei (con l’Eurocorpo o iniziative simili) e non con una falange di armate nazionali, coordinate dagli Stati Uniti.
 
Conclusioni.
 
    Il progetto di un’Europa unita nella pace è stato concepito nel corso della seconda guerra mondiale da uomini che avevano maturato un fermo proposito: «mai più guerre». Mai più la barbarie della guerra totale avrebbe dovuto minacciare la sopravvivenza della civiltà. Da allora, molti anni sono passati e il processo di unificazione si è avventurato lungo sentieri che rischiano di far smarrire alle giovani generazioni il significato profondo della costruzione europea. Troppe occasioni sono state perse. Ma ogni volta in cui si è esitato, il timore che le divisioni nazionali del passato potessero ripresentarsi ha alla fine rimosso ogni ostacolo. I governi europei hanno dunque mantenuto attivo il processo di integrazione solo perché non esistono alternative ragionevoli. La necessità, non la ragione, li ha condotti sulla via della moneta, sino alle soglie della Federazione.
    I partiti politici, non meno dei governi, hanno gravi responsabilità. I partiti sono stati i grandi assenti della politica di unificazione europea. Per questo, nel 1985, i governi hanno potuto respingere il Trattato di Unione del Parlamento europeo, senza sollevare clamori e senza incontrare resistenze.
    Oggi, forse, la via verso il governo europeo, che è la via della ragione, può essere percorsa sino in fondo. La moneta europea è un potere destinato ad imprimere un nuovo corso non solo alla politica europea, ma agli stessi equilibri mondiali. Per la prima volta nella sua storia il dollaro dovrà fare i conti con una moneta internazionale altrettanto forte e competitiva. Con la moneta europea si avvia dunque un processo che potrebbe condurre alla costruzione di un nuovo ordine mondiale.
    Ma l’Unione europea potrà diventare un soggetto attivo della politica mondiale solo se riuscirà a darsi un governo efficace. Un potere federale (la moneta europea) non può venir governato da un organismo intergovernativo (il Consiglio dei Ministri). Nell’epoca della democrazia, nessun potere è efficace se non è legittimo; e nessun potere è legittimo se non si fonda sulla sovranità popolare. Se questa contraddizione non verrà superata, la costruzione della moneta europea potrebbe risolversi in un drammatico scacco, non solo per l’Europa, ma per il mondo intero.
 
 


[*] Relazione al seminario Il progetto europeo nel pensiero degli economisti italiani del Novecento, organizzato dal Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Pisa il 16 gennaio 1998.
[2] J. Monnet, Mémoires, Parigi, Fayard, 1976, capp. 11 e 12; trad. it. parziale Cittadino d’Europa, Milano, Rusconi, 1988.
[3] In effetti, Jean Monnet ha proposto, nel 1973, la formula del Consiglio europeo solo come «governo europeo provvisorio», il cui compito avrebbe dovuto essere quello di provvedere alla elezione diretta del Parlamento europeo e di avviare i trasferimenti di sovranità necessari per l’istituzione di un vero governo federale. Cfr. J. Monnet, Mémoires, cit., cap. 21.
[4] Gli Atti di questo convegno sono contenuti nel volume L’Unione economica e il problema della moneta europea (a cura del Movimento europeo e del Movimento federalista europeo), Milano, Franco Angeli, 1978; sulle prime fasi del dibattito cfr. inoltre R. Jenkins, P. Werner, R. Triffin, D. Biehl, G. Montani, Una moneta per l’Europa, Torino, Istituto universitario di studi europei, 1978.
[5] M. Albertini, «Elezione europea, governo europeo e Stato europeo», in Il Federalista, 1976, p. 209.
[6] M. Duverger, L’Europe dans tous ses États, Parigi, Presses Universitaires de France, 1995, p.44.
[7] Già in un saggio del 1940, Lionel Robbins faceva notare che in una federazione sarebbe stato possibile, qualora i governi nazionali avessero voluto sfruttare la possibilità di modificare i rapporti di cambio per utilizzare anche questo strumento di politica economica, attribuire la sovranità monetaria su tutte le monete al governo federale, mantenendo per una fase transitoria le monete nazionali in circolazione. Cfr. L. Robbins, «Economic Aspects of Federation», in Federal Union, A Symposium, Londra, Jonathan Cape, 1940; trad. it. in L. Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985.
[8] Per una analisi più approfondita di questa interpretazione dello SME rimando a G. Montani, «Il governo europeo dell’economia», in Il Federalista, XXXIX (1997), pp. 124-177.
[9] T. Padoa-Schioppa, L’Europa verso l’Unione monetaria, Torino, Einaudi, 1992, p. XXIII. Cfr. inoltre D. Gros e N. Thygesen, European Monetary Integration, Londra, Longman, 1992, pp. 317-23.

 

 

 

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