IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno L, 2008, Numero 1, Pagina 51

 

 

Altiero Spinelli e il modello
economico-sociale e
uropeo
 
ALBERTO MAJOCCHI
 
 
1. Introduzione.
 
L’obiettivo di questo lavoro è di richiamare alcuni punti fondamentali del pensiero economico di Spinelli e di mostrarne l’attualità al fine di verificare in che misura la realizzazione di questi obiettivi sia possibile nella fase attuale del processo di globalizzazione, tenendo presenti i limiti che caratterizzano l’evoluzione dell’Unione europea.
L’analisi del pensiero economico di Spinelli è comunque limitata in quanto non terrà conto dell’attività svolta come Commissario CEE, né dell’azione sviluppata all’interno del Parlamento europeo. Quest’ultima, in particolare, ha avuto un ruolo importante in quanto l’azione di Spinelli volta a rafforzare i poteri di bilancio del Parlamento ha rappresentato il punto di partenza di un’iniziativa politica che ha portato prima alla costituzione del Club del Coccodrillo e successivamente all’avvio del processo destinato a concludersi con l’approvazione da parte del Parlamento del Progetto di Trattato sull’Unione europea il 14 febbraio 1984.
 
2. Il modello economico-sociale.
 
Il terzo capitolo del Manifesto di Ventotene, che tratta della riforma della società come uno dei compiti fondamentali del dopoguerra, riprende, come osserva Pistone nell’introduzione alla ristampa anastatica del Manifesto, «le tesi fondamentali del socialismo liberale di Carlo Rosselli orientate verso la ricerca di una sintesi fra il sistema liberaldemocratico, che negli Stati Uniti ha trovato la sua più rilevante realizzazione, e le esigenze di libertà e giustizia sociale espresse dal socialismo nelle sue diverse correnti». In sostanza, gli autori del Manifesto sottolineano la necessità di realizzare un’economia mista che, attraverso un mix di intervento pubblico e di funzionamento di libero mercato, sia in grado di garantire l’eguaglianza delle opportunità attraverso una serie di riforme, che si possono sintetizzare nei punti seguenti:
a) il passaggio alla proprietà pubblica dei monopoli e, in particolare, dei c.d. monopoli naturali — in sostanza delle public utilities che producono servizi a rete e delle imprese a carattere strategico — per evitare che il monopolio privato possa sfruttare i consumatori e le grandi imprese possano incidere in misura incontrollata sulla gestione delle politiche pubbliche;
b) la redistribuzione della ricchezza attraverso una riforma agraria che assegni la terra a chi la coltiva e una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori dei settori non controllati dal settore pubblico, attraverso le gestioni cooperative e l’azionariato operaio;
c) la riduzione delle diseguaglianze nelle posizioni di partenza attraverso l’istruzione pubblica aperta a tutti che garantisca un equilibrio fra domanda e offerta di lavoro e un relativo livellamento delle remunerazioni per tutte le categorie professionali;
d) un sistema generalizzato di protezione sociale che possa assicurare anche a chi si trovi nelle condizioni più disagiate un tenore di vita decente «senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio».
Come si può vedere si tratta di un programma economico-sociale illustrato schematicamente nel Manifesto — e che risente evidentemente anche del contributo rilevante del pensiero di Ernesto Rossi — assai moderno e che si è poi progressivamente realizzato, anche se con molti limiti, in Europa nel secondo dopoguerra. Ma questo programma è oggi sottoposto a critiche molto incisive che tendono a mettere in dubbio la possibilità di garantire la sopravvivenza del modello economico-socale che ha caratterizzato nel secondo dopoguerra l’economia europea.
 
3. Il Piano Marshall per il Terzo Mondo.
 
Un secondo aspetto importante del pensiero economico di Spinelli è illustrato nel suo volumetto intitolato: PCI, che fare?.[1] In particolare, nel capitolo dedicato a una diversa politica di sviluppo, Spinelli riprende un tema keynesiano mettendo in evidenza come le possibilità di crescita in Europa — una volta «esauritosi il grande serbatoio della domanda interna» — siano legate alla disponibilità «di un altro analogo serbatoio di domanda potenziale da attualizzare progressivamente e per un lungo periodo». E la risposta di Spinelli è che «i paesi in via di sviluppo — l’immenso Sud del mondo, ma senza dimenticare il piccolo Sud che è nell’interno dei paesi più avanzati — sono proprio quell’enorme riserva di domanda potenziale verso le economie dei paesi sviluppati, che può essere convertita progressivamente in domanda reale».
Un esempio storico di questa politica illuminata è stato il Piano Marshall, con cui gli Stati Uniti, mentre fornivano all’Europa i mezzi necessari per finanziare la politica di ricostruzione dell’apparato produttivo, garantivano al contempo la possibilità di riconversione dalla produzione bellica alla produzione propria dei periodi di pace all’industria americana, che veniva in sostanza sostenuta dalla domanda di importazioni proveniente dall’Europa.
Spinelli riprende questo tema suggerendo che «il Nord dovrebbe fare al Sud la grande proposta di trasferire di anno in anno, gratuitamente o a condizioni molto agevolate, mezzi monetari da adoperare non per sopperire ai bisogni delle popolazioni affamate — ciò deve restare nella categoria dell’elemosina — ma per la realizzazione di piani di sviluppo, preparati dai paesi stessi, se necessario con l’assistenza tecnica dei paesi avanzati». E questo piano dovrebbe essere supportato in primo luogo dall’Europa, che ha già avviato — a partire dal Trattato di Lomé — buone relazioni con i paesi associati.
Questa politica sarebbe nell’interesse non solo dei paesi che ricevono gli aiuti, ma anche dell’Europa la cui produzione verrebbe ad usufruire di un flusso costante e notevole di domanda in provenienza dai paesi in via di sviluppo. E, a corollario di questa politica di natura sostanzialmente keynesiana, ma gestita su scala sovrannazionale, Spinelli rileva che sicuramente l’espansione ridurrà la disoccupazione, ma non sarà certamente in grado di assorbire nell’attività produttiva tutta la forza lavoro disponibile. E, riprendendo un tema che è sviluppato ampiamente nei lavori di Ernesto Rossi, Spinelli conclude che «bisognerebbe organizzare nei nostri paesi un servizio obbligatorio del lavoro in cui dovrebbero essere arruolati per un certo periodo i giovani dei due sessi, selezionando i generi di lavoro che meglio si prestano ad essere così affrontati. Ciò implica l’introduzione nella società di elementi nuovi di etica e di solidarietà sociale».
E’ questo il tema del servizio civile obbligatorio che viene così a completare il quadro di una società che ha ripreso il dinamismo della crescita — accompagnata da una distribuzione più equa della ricchezza su scala internazionale —, e che è in grado di garantire eguaglianza di opportunità attraverso un sistema generalizzato di formazione permanente e di protezione sociale e di garantire lavoro a tutti utilizzando anche le opportunità offerte da un settore non-profit che sia capace di fornire servizi necessari per rispondere a bisogni sociali a cui il mercato non è in grado di far fronte.
 
4. Il modello sociale europeo e le sfide della globalizzazione.
 
Se questo, in estrema sintesi, è il modello economico-sociale che emerge dai lavori di Spinelli, il problema che dobbiamo porci è in primo luogo se esso risponda ancora oggi alle esigenze della società europea e, quindi, se sia compatibile con lo sviluppo di un mondo globalizzato. In effetti, negli ambienti politici e fra gli economisti è opinione largamente diffusa che l’Europa non sia attrezzata per far fronte alla grande sfida della globalizzazione. E questa tesi viene suffragata identificando i fattori di crisi dell’Europa nella rigidità strutturale del mercato del lavoro e dei prodotti, nell’elevato costo imposto alle imprese per il finanziamento del sistema di sicurezza sociale e, soprattutto, nell’eccessivo livello della pressione fiscale. Da queste osservazioni vengono poi generalmente tratte due indicazioni politiche di carattere generale:
 — per accrescere l’occupazione, l’Europa deve deregolamentare il mercato del lavoro e dei prodotti, seguendo l’esempio americano e favorendo la flessibilità e una maggiore concorrenza;
 — per rendere più competitiva la produzione al fine di far fronte con successo alla concorrenza internazionale, l’Europa deve abbandonare i propri costosi sistemi di sicurezza sociale e contrarre le dimensioni dell’intervento pubblico in modo tale da poter ridurre il livello della pressione fiscale, rilanciando così i consumi — grazie all’aumento del reddito disponibile delle famiglie — e conseguentemente la produzione, grazie anche alla riduzione dei costi.
La revisione dello stato sociale, la riduzione delle pensioni, la contrazione della dimensione del settore pubblico vengono dunque normalmente presentate come una conseguenza inevitabile del processo di globalizzazione che ha investito l’economia mondiale. Ma, in realtà, non si tratta di un giudizio di fatto, quanto di un pregiudizio ideologico, che prende il pretesto della globalizzazione per ridurre il grado di protezione sociale e per svilire il ruolo dell’intervento pubblico, anche quando giustificato da un fallimento del mercato. Su questo punto occorre quindi fare chiarezza perché le politiche che mirano a limitare il ruolo dello stato sociale rischiano di alienare il sostegno dell’opinione pubblica nei confronti del processo di unificazione europea, rendendo così difficile il varo di un’azione volta a superare i limiti della cooperazione intergovernativa e a promuovere una revisione in senso federale delle disposizioni istituzionali del Trattato di Maastricht.
 
5. Il processo di globalizzazione.
 
La globalizzazione, cioè la tendenziale unificazione dei rapporti economici e sociali a livello planetario, è il naturale prodotto dello sviluppo delle forze produttive, lo stesso fattore che, nell’Ottocento, in Italia e nello spazio tedesco, ha spazzato via gli anacronistici mercati regionali spingendo verso la creazione di mercati nazionali e, nel Novecento, ne ha sentenziato l’agonia storica per promuovere l’integrazione europea. Va osservato che la tendenziale unificazione dei rapporti economici e sociali, cioè la nascita di un mercato mondiale, è destinata prima o poi a produrre l’unificazione politica del pianeta, se è vero che — come insegnava Robbins — non può esserci un mercato senza un governo che garantisca il rispetto delle leggi fondamentali che devono ordinarlo. E va osservato anche che l’attuale governo del mercato mondiale — quale si manifesta oggi attraverso l’egemonia americana, un’egemonia fondata sulla potenza militare e sulla superiorità tecnologica sostenuta dalle commesse pubbliche — non è in grado di assicurare uno sviluppo del mercato mondiale capace di promuovere l’interesse generale, e non soltanto l’interesse di alcuni gruppi privilegiati.
Si tratta di fenomeni di straordinario rilievo. E’ un fatto che il processo di globalizzazione è stato promosso soprattutto dagli sviluppi tecnologici nel settore dell’informatica e dei trasporti, ed è stato sostenuto da una larga diffusione delle tecnologie mature, una diffusione che ha consentito ai sistemi economici dotati di una sovrabbondante offerta di manodopera di diventare competitivi anche nella produzione industriale.
In questo modo la globalizzazione ha consentito a molti paesi di avviare finalmente un processo accelerato di sviluppo economico. Ma la diffusione della tecnologia non sarebbe stata in grado di sostenere da sola l’avvio dello sviluppo senza un’adeguata disponibilità di capitali. Da questo punto di vista l’elemento decisivo di innovazione è stata la liberalizzazione del mercato dei capitali, che ha indotto lo spostamento di enormi flussi di risorse finanziarie dalle aree caratterizzate da un eccesso di risparmio rispetto agli investimenti verso quelle capaci di assorbire tale surplus al fine di finanziare il livello crescente di investimenti necessario per sostenere il decollo della produzione industriale.
A sua volta, la crescita della produzione industriale nei paesi in via di sviluppo ha potuto trovare sbocchi adeguati grazie all’apertura dei mercati sostenuta dalla progressiva caduta degli ostacoli al commercio internazionale promossa dai successivi round di negoziati commerciali nell’ambito del GATT. In questo modo si è avviata una progressiva redistribuzione nella localizzazione delle attività produttive, con una specializzazione dei paesi in via di sviluppo nelle produzioni più tradizionali ovvero nei settori intermedi a tecnologia matura, mentre quelli avanzati mantengono un controllo dei mercati nei settori più innovativi. In un quadro di politica internazionale caratterizzato dalla fine dell’equilibrio bipolare e dall’emergere degli Stati Uniti come unica potenza egemone dopo il crollo dell’Unione Sovietica, questa progressiva integrazione del mercato mondiale è stata infine sostenuta da una riaffermazione del dollaro come moneta di riferimento, in un contesto monetario internazionale in cui giocano un ruolo decisivo le scelte della Federal Reserve americana.
 
6. I rischi ambientali legati alla globalizzazione.
 
Una volta riconosciuti questi effetti positivi che sono derivati a tutti i paesi — inclusi quelli in via di sviluppo — da una progressiva liberalizzazione del commercio internazionale, occorre porre l’accento sui problemi che possono emergere nel quadro di una crescente integrazione dell’economia mondiale, sul piano ambientale, sociale e della stabilità dei sistemi economici coinvolti nel processo di globalizzazione.
Sul piano ambientale il problema di fondo riguarda le relazioni fra sviluppo del commercio e protezione dell’ambiente. Molti osservatori sostengono che un maggior flusso di scambi internazionali è, per definizione, favorevole all’ambiente in quanto accresce le risorse disponibili che possono essere utilizzate anche per la sua difesa. E’ un fatto che la protezione dell’ambiente è un bene caratteristico dei paesi ricchi. L’aumento del reddito nei paesi emergenti, quindi, non dovrebbe produrre che effetti positivi al riguardo. Questa tesi coglie, però, soltanto una parte della verità, in quanto lo sviluppo dell’economia rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente, per conseguire una più efficace tutela dell’ambiente. In realtà, la crescita del commercio internazionale produce effetti ambientali positivi nelle aree che vengono progressivamente integrate nell’economia mondiale, se queste sono dotate di una buona politica ambientale capace di internalizzare nei prezzi anche il corrispettivo per l’uso delle risorse ambientali. Se questo non è il caso, alla crescita della produzione si accompagna necessariamente un deterioramento delle condizioni ambientali, sia per un uso eccessivo delle risorse naturali, sia per l’inquinamento dell’aria e dell’acqua, l’aumento delle quantità di rifiuti, il degrado del territorio e così via.
L’accelerazione della liberalizzazione degli scambi promossa dal WTO dovrebbe quindi essere accompagnata da un rafforzamento delle politiche ambientali. Ma questo non è compito del WTO, che in ogni caso non disporrebbe dei poteri necessari per imporre il rispetto di norme ambientali adeguate, né vi sono altre istituzioni sopranazionali capaci di garantire che vengano osservati gli obblighi di tutela ambientale, come è dimostrato con grande evidenza dalle difficoltà di applicazione del Protocollo di Kyoto.
Inoltre, in molti Paesi l’accresciuta integrazione nell’economia mondiale impone il rispetto dei vincoli imposti dal FMI per garantire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti e la stabilità monetaria necessaria per ottenere i finanziamenti del Fondo. A questo fine i paesi in questione, spesso a uno stadio iniziale di sviluppo, sono spinti a sostenere la crescita delle esportazioni, che sono costituite in larga misura da prodotti naturali, agricoli o forestali, provocando così uno sfruttamento più intensivo dei terreni, una più estesa deforestazione con grave perdita sia di caratteristiche di biodiversità, sia di depositi di anidride carbonica — con un conseguente aggravamento dell’effetto serra —, e un generale degrado delle condizioni ambientali.
 
7. I rischi sociali legati alla globalizzazione.
 
L’apertura del commercio internazionale e l’accresciuta mobilità dei fattori hanno reso più fragili le economie dei paesi industrializzati. Il primo effetto che si è prodotto è rappresentato dalla delocalizzazione di attività produttive verso paesi di nuova industrializzazione, che dispongono delle stesse tecnologie impiegate nei paesi ricchi, ma che offrono altresì ampia disponibilità di manodopera a buon mercato. Questo fenomeno di per sé deve essere valutato positivamente in quanto redistribuisce la produzione verso aree prima escluse dal processo di industrializzazione. Ma nei paesi da cui emigra la produzione si manifesta una contrazione dell’occupazione nel settore industriale che deve essere compensata o da una accresciuta domanda per servizi alle imprese o alle famiglie, o dall’immissione sul mercato di nuovi prodotti, frutto di processi di innovazione e, quindi, tecnologicamente avanzati. Dove questo non avviene — o avviene soltanto in misura inadeguata — emergono forti tensioni sociali legate alla crescita della disoccupazione, che sfociano generalmente nella richiesta di una maggiore protezione del mercato nazionale. Si tratta di una risposta sbagliata, ma a cui alla lunga è difficile resistere.
Un altro aspetto problematico consegue al fatto che la crisi occupazionale richiede un maggior utilizzo delle misure di protezione sociale, ma nel mondo globalizzato vi è una forte spinta alla riduzione della spesa pubblica, e quindi del prelievo fiscale, sia per la difficoltà di colpire una base imponibile che è diventata sempre più mobile internazionalmente, sia per promuovere una maggiore competitività dell’industria nazionale attraverso una riduzione dei costi. Il rischio che si manifesta è quindi che, in nome della competitività, si apra una race to the bottom sia per le misure di politica ambientale, sia per le misure di protezione sociale, con un conseguente peggioramento della qualità della vita nei paesi industrializzati. Anche in questo caso si tratta di una risposta sbagliata, ma per quanto riguarda l’Europa si tratta di vedere se si è in grado di mettere in campo soluzioni alternative che consentano di mantenere inalterato il modello sociale europeo.
 
8. La difficoltà di finanziare una politica espansiva.
 
La possibilità di garantire la sopravvivenza del modello economico-sociale europeo e di sostenere lo sviluppo delle aree arretrate del Terzo mondo è evidentemente legata a un’accelerazione del tasso di crescita, dopo un lungo periodo in cui lo sviluppo dell’economia europea è stato inferiore a quello americano e, ancor di più, a quello dei paesi industrialmente emergenti. In particolare, la crescita della produttività, che in tutto il dopoguerra è stata più elevata in Europa rispetto agli Stati Uniti, è stata invece inferiore in Europa a partire dal 1995. Il divario negli andamenti della produttività ha inciso sia sulla crescita del prodotto, sia sulla competitività esterna dell’economia europea.
Per l’Europa è quindi ineludibile l’esigenza di promuovere una politica di rilancio dell’economia. Ma l’avvio di politiche espansive non passa attraverso lo strumento tradizionale del sostegno della domanda interna di tipo keynesiano, ma richiede invece politiche adeguate dal lato dell’offerta sul fronte interno e trasferimenti di risorse in misura adeguata per favorire la crescita delle aree più arretrate del mondo. Il finanziamento di queste politiche è tuttavia reso particolarmente difficile, da un lato, dai vincoli di finanza pubblica imposti prima dal Trattato di Maastricht e successivamente dal Patto di Stabilità; d’altro lato, dall’incapacità di aumentare nella misura necessaria le entrate fiscali, a sua volta legata a una duplice serie di fattori:
a) le basi imponibili in ciascun paese sono diventate più volatili nel quadro del processo di globalizzazione. In particolare, la volatilità dei capitali impedisce una tassazione adeguata delle rendite finanziarie, rendendo così inevitabile, al fine di mantenere inalterata la pressione fiscale, aumentare il prelievo sui fattori della produzione relativamente immobili, e in particolare sul lavoro, con conseguenze negative sul reddito disponibile, e quindi sui consumi, e sull’occupazione;
b) in un’economia mondiale sempre più integrata l’obiettivo privilegiato di politica economica è rappresentato dal rafforzamento della competitività, e a questo fine l’opinione prevalente nella classe politica — suggerita dal pensiero dominante a livello accademico — è che sia assolutamente imprescindibile una riduzione del livello della pressione fiscale. Più in generale, si ritiene inevitabile limitare le dimensioni dell’intervento pubblico, che inciderebbe in modo negativo sulla competitività in quanto, attraverso il prelievo necessario per finanziarlo, grava sui costi di produzione delle imprese europee.
Questi vincoli finanziari contribuiscono a rendere difficile la realizzazione dell’Agenda di Lisbona e di una politica efficace per sostenere la crescita della domanda nei paesi in via di sviluppo. Da un lato, quindi, in Europa non si riesce a promuovere una maggiore competitività della produzione europea e, al contempo, non si riesce ad attivare la domanda potenziale dei paesi arretrati economicamente, che potrebbe contribuire a fornire sbocchi ulteriori alla produzione europea. Occorre quindi uscire da questa situazione di stallo se si vuole eliminare il divario che separa la crescita della produttività in Europa rispetto agli Stati Uniti e avviare un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile dell’economia europea.
 
9. Il rilancio dell’economia europea attraverso la crescita della produttività.
 
In effetti, il rilancio dell’economia europea richiede una crescita della produttività e questa a sua volta presuppone una serie di misure che devono essere decise e attuate a livello europeo per essere efficaci, nel quadro di una situazione dell’economia mondiale che appare del tutto diversa rispetto al passato. Una nuova rivoluzione tecnologica si è ormai affermata e gli Stati Uniti hanno saputo trarne il massimo profitto con tassi molto elevati di crescita della produttività e del prodotto, mentre i nuovi paesi industrialmente emergenti competono ormai in molti settori, e non solo in quelli a tecnologia matura, con i paesi di antica industrializzazione. L’Europa si trova quindi stretta in una duplice morsa e stenta a ritrovare la strada di una crescita stabile e sostenibile.
In realtà, occorre prendere atto che una fase dello sviluppo dell’economia europea — che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso — si è ormai definitivamente conclusa. Il fattore determinante della crescita era rappresentato da uno sviluppo tecnologico di tipo imitativo: bastava, in sostanza, importare le tecnologie migliori dai paesi più avanzati per aumentare la produttività e accrescere quindi continuamente il tenore di vita della popolazione. Oggi l’Europa ha raggiunto la frontiera tecnologica e non è quindi pensabile di avviare una nuova fase di sviluppo di tipo passivo in quanto determinata prevalentemente dall’import di tecnologie dall’esterno dell’area europea. Se vuole crescere l’Europa deve far conto unicamente sulle proprie risorse e, in particolare, su una rinnovata capacità di produrre innovazione.
La crescita della produttività negli Stati Uniti è stata sostenuta da uno sviluppo tecnologico particolarmente accelerato e determinato contemporaneamente da diversi fattori: a) un livello di istruzione superiore certamente più elevato rispetto a quello prevalente nei paesi europei; b) un domanda pubblica, soprattutto legata al settore della difesa, che ha reso possibili investimenti di carattere fortemente innovativo; c) un mercato interno di dimensioni continentali, da tempo integrato e sostenuto da una moneta di riserva di fatto utilizzata come moneta mondiale. Di qui la superiorità tecnologica degli Stati Uniti che ha generato un ritardo sempre più accentuato dell’economia europea.
Questo insieme di fattori non si ritrovano in Europa, dove la risposta che viene più frequentemente proposta per far fronte alla sfida americana è di procedere a una più completa liberalizzazione del mercato interno, liberando dai residui ostacoli il mercato del lavoro e dei prodotti in modo tale da rafforzare la concorrenza e quindi spingere la produzione verso livelli più elevati di efficienza. Un primo obiettivo da conseguire per rilanciare la crescita riguarda dunque il completamento della liberalizzazione del mercato interno, che oggi è messa in discussione a fronte dell’allargamento e della sfida che proviene dai paesi industrialmente emergenti, caratterizzati da un livello notevolmente più basso del costo del lavoro.
 
10. Il completamento del mercato interno.
 
Di fatto, dall’inizio degli anni Novanta l’unico fattore che ha continuato a sostenere la crescita europea è stato il completamento del mercato interno, accompagnato dall’ampliamento delle dimensioni del mercato stesso conseguente soprattutto all’allargamento ai paesi dell’Europa centro-orientale, usciti dall’orbita dell’Unione Sovietica. Questo processo ha trovato un ulteriore rafforzamento con la creazione della moneta unica, che ha favorito un’integrazione più in profondità all’interno dell’area dell’euro. Ma questi fattori di sviluppo non sono stati sufficienti per garantire un tasso di crescita adeguato all’Unione europea: il divario in termini di reddito pro capite e di produttività del lavoro rispetto agli Stati Uniti è andato progressivamente crescendo e molti hanno parlato di un irreversibile declino dell’Europa. Occorre dunque procedere con decisione lungo questa strada, ma al contempo rendersi conto che altre misure sono ormai necessarie.
Il completamento del mercato interno deve riguardare prioritariamente l’apertura del mercato dei servizi. Non è pensabile di escludere dal mercato unico un settore che rappresenta il 70% del PIL europeo e in cui lo scarto di produttività rispetto agli Stati Uniti è più rilevante. L’integrazione è particolarmente importante per i servizi alle imprese, per cui le dimensioni del mercato condizionano gli investimenti in R&D, e quindi in innovazione. Per altri servizi, come i servizi alla persona, che per loro natura si fondano sul vicinato, e per i servizi che possono essere forniti a distanza, l’integrazione è meno rilevante. Ma è certo che l’Europa non può rinunciare a questo fattore di promozione della produttività e della crescita.
Un secondo obiettivo di rilievo è rappresentato dal completamento dell’integrazione finanziaria. Questa è ancora largamente incompleta, anche all’interno della zona euro, per ragioni industriali, regolamentari e fiscali. Il paradosso più evidente in questo campo è che l’ostacolo maggiore, ossia l’esistenza di monete diverse, è stato superato con costi e sacrifici elevati, ma i benefici di questo sforzo risultano in larga misura vanificati dal nazionalismo finanziario e dalla concorrenza fra le autorità nazionali di regolamentazione.
Come ha dimostrato l’esperienza dell’ultimo decennio, il completamento del mercato interno e l’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro rappresentano certamente un fattore positivo per favorire la crescita dell’economia europea, ma da soli non sono sufficienti. Per rilanciare lo sviluppo europeo è necessario un sostegno da parte della domanda pubblica per favorire una crescita qualitativa della produzione europea e per metterla in grado di competere su un piede di parità in un mondo globalizzato. E qui entra in gioco il ruolo del bilancio europeo.
 
11. Un piano per rilanciare l’Agenda di Lisbona.
 
Nell’attuale fase congiunturale che, dopo due anni di una buona ripresa, vede apparire all’orizzonte un nuovo indebolimento del tasso di crescita dell’economia europea, l’obiettivo prioritario appare quello di promuovere a livello europeo un piano coordinato di investimenti — pubblici e privati — capaci di colmare il gap di infrastrutture materiali e immateriali che in molti paesi dell’Unione è stato indotto dalle politiche restrittive necessarie per la correzione degli squilibri di finanza pubblica sulla base dei vincoli del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità, e al contempo di garantire un piano di spese per rafforzare la competitività e favorire l’avvio di un modello di sviluppo sostenibile.
In prima approssimazione, questo piano potrebbe prevedere, in linea con gli obiettivi di Lisbona:
 — investimenti per il completamento delle reti europee nel settore dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni, tenendo conto anche delle esigenze di connessione emerse a seguito dell’allargamento;
 — un piano di spese di ricerca e sviluppo e di promozione dell’istruzione superiore, per rafforzare la competitività della produzione europea;
 — investimenti pubblici e privati nelle tecnologie d’avanguardia e finalizzati a promuovere la formazione di campioni europei nelle industrie di punta;
 — il finanziamento di una serie di progetti per migliorare la qualità della vita dei cittadini dell’Unione e garantire la sostenibilità dello sviluppo (mobilità sostenibile, depurazione delle acque, energie rinnovabili, nuove fonti di energia pulita, etc.);
 — investimenti per garantire la conservazione e promuovere l’utilizzo dei beni culturali.
Nell’ambito di questo piano di rilancio dell’economia europea l’aumento della spesa per R&D e per la formazione superiore appare di particolare rilievo al fine di migliorare la produttività e rendere più competitiva la produzione europea. Nell’ultimo decennio gli Stati dell’Unione hanno investito in R&D l’1.9% del PIL contro il 2.6% degli Stati Uniti, mentre gli investimenti pubblici e privati per l’istruzione superiore in Europa raggiungono l’1.3% del PIL contro il 3.3% negli Stati Uniti. Secondo le valutazioni di Aghion l’Unione dovrebbe aumentare le spese per l’istruzione superiore di almeno un punto di PIL nel prossimo decennio (avviando al contempo una profonda riforma del sistema di governance delle Università).
 
12. Il finanziamento con Union bonds di una politica di rilancio della crescita in Europa.
 
A fronte delle minacce di recessione che hanno colpito l’economia americana e frenano le prospettive di sviluppo dell’economia mondiale, l’Amministrazione Bush ha reagito proponendo una manovra fiscale espansionistica pari all’1% del PIL e la Federal Reserve ha ridotto a più riprese il tasso di interesse sui Fed Funds. In Europa, invece, la prospettiva di avviare una politica di sostegno della crescita appare del tutto irrealistica dato che la BCE è vincolata dal Trattato di Maastricht al conseguimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi e, d’altra parte, nessuna spinta può derivare dai bilanci nazionali vincolati dai piani di rientro per osservare le regole del Patto di Stabilità. E il bilancio europeo, con le regole attuali, non è assolutamente in grado di giocare un ruolo per sostenere il rilancio della crescita.
La strategia di rilancio della crescita su base continentale richiede invece un ruolo attivo del bilancio europeo. Ma la strategia per sostenere la crescita in Europa deve essere sostanzialmente diversa da quella americana. Mentre negli Usa si punta su un rilancio dei consumi attraverso una riduzione dei tassi di interesse e una politica di sgravi fiscali alle famiglie, l’Europa dovrebbe privilegiare una forte ripresa degli investimenti per rafforzare la competitività del sistema delle imprese attraverso una crescita della produttività e per accrescere il benessere delle famiglie attraverso un forte aumento dei consumi collettivi. Al contempo, e anche in questo caso con forti divergenze rispetto alla scelta americana, l’avvio di una politica espansiva in Europa dovrebbe avvenire in un quadro di stabilità finanziaria, garantita da un lato dalla politica della BCE attenta a non drogare la ripresa attraverso un’eccessiva riduzione dei tassi — con i rischi di lungo periodo messi in evidenza dall’esperienza americana — e, dall’altro, dai vincoli imposti dal Trattato di Maastricht e dal Patto di Stabilità rispetto a fenomeni di slittamento della finanza pubblica a livello dei paesi membri dell’Unione monetaria. Si tratta in sostanza di seguire la strada indicata dal Piano Delors del 1993, la cui linee di fondo sono state poi parzialmente riprese nell’Agenda di Lisbona.
Si deve dunque pensare a un piano di sviluppo dell’economia europea di un ordine di grandezza analogo a quello americano e pari dunque a circa un punto di PIL (si tratta sostanzialmente delle stesse dimensioni previste dal piano Delors). Fatta questa scelta, due strade sono possibili per trovare le risorse necessarie per sostenere il rilancio dell’economia. La prima è quella di finanziare il piano europeo di sviluppo con l’emissione di Union bonds — ossia di obbligazioni dell’Unione con garanzia del bilancio comunitario — con il supporto della Banca Europea degli Investimenti. Data la reputazione dell’Unione sul mercato mondiale e la forza attuale della moneta europea, queste obbligazioni potrebbero essere emesse a basso tasso di interesse e contribuirebbero, oltre che a rafforzare il mercato finanziario europeo, a favorire l’attrazione di una larga fetta del risparmio mondiale che attualmente, in assenza di valide alternative, trova ancora collocazione sul mercato americano nonostante la perdita progressiva di valore del dollaro. D’altra parte, finanziare con l’indebitamento la politica di sostegno alla crescita appare giustificata anche dalla scelta fatta di privilegiare gli investimenti — a redditività differita nel tempo — rispetto agli incrementi del consumo privato.
Se l’ipotesi di una riforma del bilancio di questo tipo appare di difficile realizzazione, sarà inevitabile che venga seguita una strada alternativa, ossia di applicare una golden rule a livello nazionale — e non a livello europeo —, esentando le spese previste dal piano europeo di sviluppo dai vincoli del Patto di Stabilità e garantendo quindi la possibilità di finanziarle attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico. In questo caso si potrebbero raggiungere risultati simili, ma con i rischi impliciti in un allentamento delle regole che hanno consentito all’Europa di muoversi verso condizioni di stabilità finanziaria. E’ bensì vero che la peer pressure e il monitoraggio a livello europeo potrebbero ridurre i rischi di finanza creativa potenzialmente insiti nell’applicazione della golden rule a livello nazionale; ma, in ogni caso, l’alternativa di applicare una golden rule europea appare più coerente con una linea evolutiva verso la fondazione di una finanza federale in Europa in cui il livello centrale di governo può manovrare i saldi di bilancio in funzione delle scelte macroeconomiche di stabilizzazione, mentre il livello nazionale rimane vincolato a una politica di bilancio in equilibrio dalle norme del Trattato e del Patto di Stabilità.
 
13. Una politica di sviluppo sostenibile su scala mondiale.
 
Se in Europa il rilancio della crescita presuppone una politica dell’offerta, volta ad aumentare la produttività attraverso una serie di misure che vanno da un rafforzamento delle spese di R&D delle imprese a un rilevante incremento della quota di reddito destinato all’istruzione superiore, dalla creazione delle infrastrutture materiali e immateriali per legare fra di loro le diverse aree dell’Unione al completamento del mercato interno, attraverso una profonda integrazione in particolare del settore dei servizi destinati alle imprese, su scala mondiale è invece ineludibile l’esigenza di avviare finalmente una politica di tipo keynesiano a sostegno dello sviluppo dei paesi più arretrati dal punto di vista economico, e in primo luogo a favore dei paesi africani.
In effetti, il processo di sviluppo messo in moto dalla globalizzazione non ha toccato nella stessa misura tutte le aree del mondo. In molti paesi, e in particolare nei paesi africani, le condizioni iniziali erano talmente arretrate da non consentire loro di inserirsi proficuamente nell’espansione del commercio internazionale. Anche se per l’Africa si è manifestata certamente negli ultimi dieci anni un’accelerazione nel tasso di crescita dell’economia a seguito della accresciuta domanda di beni primari da parte dei paesi industrialmente emergenti, questo sviluppo non è stato sufficiente per consentire il decollo di queste economie — e quindi il progressivo riassorbimento delle masse di disoccupati — e uno sviluppo della domanda interna conseguente a una crescita significativa del reddito disponibile. E, in effetti, la debolezza dei sistemi politici usciti dal processo di decolonizzazione e la scarsità di tecnici e di manodopera qualificata hanno finora reso difficile il sostegno di capitali internazionali — e in particolare di investimenti delle società multinazionali — per ovviare alla scarsità di capitali domestici e avviare il processo di industrializzazione al di fuori del settore delle materie prime.
Per uscire da queste condizioni di cronica arretratezza Spinelli suggeriva l’opportunità di lanciare un nuovo Piano Marshall per il Terzo mondo, fondato sull’interesse dei paesi donatori, e non soltanto su uno spirito di solidarietà transnazionale. In effetti, trasferendo risorse finanziarie in particolare ai paesi dell’Africa, l’Europa riuscirebbe a trasformare un’enorme domanda potenziale in domanda effettiva, favorendo così — grazie a un aumento delle esportazioni — la transizione verso un nuovo modello di sviluppo resa necessario dal processo di globalizzazione. Ma questo Piano Marshall suggerito da Spinelli non dovrà tradursi in trasferimenti incondizionati di reddito — che servirebbero unicamente a sostenere la corruzione delle classi dominanti —, bensì nel finanziamento di piani regionali di sviluppo, promossi da aggregazioni regionali di Stati che si stanno finalmente avviando anche nel continente africano.
Ma c’è di più. L’Africa è un continente estremamente fragile dal punto di vista ambientale e le sue condizioni rischiano di essere ulteriormente deteriorate da due fattori: da un lato, l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio rende sempre più difficile l’approvvigionamento energetico del continente, favorendo in misura sempre maggiore il ricorso all’abbattimento delle foreste (già oggi il 49% dell’offerta di energia primaria non è legato all’uso di combustibili fossili), con distruzione conseguente di risorse di biodiversità e di depositi di anidride carbonica; in secondo luogo, i cambiamenti climatici accentuano il processo di desertificazione, aggravando i problemi di rifornimento alimentare in paesi che in larga misura vivono già ai limiti della sussistenza. L’avvio di una politica per promuovere una crescita sostenibile dell’economia africana non può quindi essere ulteriormente dilazionata.
 
14. Le responsabilità dell’Europa.
 
Questa politica non è soltanto necessaria per favorire l’avvio dello sviluppo in Africa, ma è altrettanto indispensabile per consentire all’Europa la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile. Su scala mondiale si sta realizzando un enorme ridistribuzione della ricchezza. I c.d. BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) sono diventati i simboli di questo processo. Ma a questa crescita economica si accompagna un progressivo degrado delle condizioni ambientali. La domanda di risorse naturali cresce a ritmi troppo sostenuti per far fronte alla crescente domanda mondiale di beni e servizi. Per far fronte alla sfida ambientale occorre quindi adottare modelli di consumo più compatibili con la conservazione della qualità dell’ambiente.
Anche su questo fronte è forte la responsabilità dell’Europa, dove maggiore è la consapevolezza sia dell’opinione pubblica che della classe politica che le tendenze attuali di crescita della produzione e dei consumi sono ormai incompatibili con l’equilibrio ecologico su scala mondiale. Si tratta quindi di avviare da un lato una riconversione dei processi produttivi in una direzione più rispettosa dell’ambiente e, dall’altro, un contenimento della crescita dei consumi di beni prodotti dal mercato per fare spazio a un’espansione dei consumi necessari per far fronte a bisogni primari della popolazione, e soprattutto delle fasce più deboli (si pensi in primo luogo all’assistenza delle persone anziane, afflitte da malattie o gravate da handicap, alla conservazione dei beni collettivi e del territorio, alla tutela dei beni culturali e così via) soprattutto attraverso un più ampio ricorso al settore non-profit. E anche su questo terreno le indicazioni di Spinelli per un servizio civile obbligatorio sono oggi più che mai attuali e urgenti.
L’Europa ha quindi una duplice responsabilità. In primo luogo, deve avviare al suo interno e in tempi brevi un processo di riconversione ecologica della produzione e dei consumi per far in modo che alla crescita del prodotto si accompagni un aumento del benessere — e non una riduzione della qualità della vita come avviene attualmente. Al contempo, mentre mette in atto una politica di austerità all’interno, deve promuovere lo sviluppo sostenibile del continente africano, finanziando unicamente progetti che siano in grado di ridurre la dipendenza energetica da combustibili fossili e favoriscano la conservazione di risorse ambientali e naturali. Di queste enormi trasformazioni non si scorgono segnali e, d’altra parte, nonostante le ripetute affermazioni di principio in favore di uno sviluppo sostenibile avanzate sia a livello nazionale che da parte della Commissione e del Parlamento europeo, è difficile attendersi un cambiamento sostanziale verso un tipo di sviluppo più rispettoso dell’ambiente in assenza di un governo europeo dotato di un potere reale e capace quindi di imprimere una direzione diversa alla politica europea.
 
15. Il finanziamento del bilancio con nuove risorse proprie.
 
Naturalmente, nella prospettiva di una riforma in profondità del bilancio europeo, occorre agire non soltanto attraverso il riconoscimento della possibilità di finanziare gli investimenti previsti da un piano europeo di sviluppo con l’emissione di titoli di debito pubblico, ma prevedendo altresì il ritorno a un sistema di vere e proprie risorse proprie. La c.d. quarta risorsa non è altro che un contributo nazionale proporzionale al PIL e, per trasformarsi in una vera risorsa propria, dovrebbe essere sostituita da una sovrimposta europea sulle imposte nazionali sul reddito, versata direttamente dai cittadini al bilancio europeo in modo tale da garantire una maggiore trasparenza del prelievo e rafforzare al contempo la responsabilità del livello europeo di governo che preleva le risorse.
Una nuova risorsa potrebbe poi essere assicurata al bilancio europeo con la ripresa della Proposta di Direttiva per introdurre una carbon/energy tax. In una situazione in cui più chiari appaiono ormai i rischi legati ai cambiamenti climatici e sempre più urgente emerge la necessità di sostituire combustibili fossili con fonti di energia alternativa — anche a seguito degli aumenti rilevanti del prezzo del petrolio —, un’imposta commisurata anche al contenuto di carbonio delle fonti di energia appare uno strumento adeguato per avviare processi virtuosi di energy-saving e di fuel-switching, riducendo l’impatto negativo sull’ambiente del consumo di energia e favorendo l’introduzione di processi produttivi meno energy-intensive.
Nel processo di riforma del bilancio dovrebbe rientrare una revisione delle regole che reggono la formazione delle scelte di bilancio. Innanzitutto, l’approvazione delle Prospettive finanziarie pluriennali dovrebbe coincidere con l’avvio dell’attività del Parlamento e la loro durata dovrebbe coincidere con la durata della legislatura. Le Prospettive finanziarie dovrebbero essere approvate con maggioranze altamente qualificate e rappresentare per cinque anni il quadro di riferimento per le scelte annuali di bilancio. Si dovrebbe anche prevedere una partecipazione dei livelli inferiori di governo nella scelta sulla ripartizione delle risorse fra il livello di governo nazionale e il livello europeo. Una volta approvato il piano pluriennale, le decisioni per l’attivazione di nuove risorse proprie necessarie per coprire le spese dovrebbero essere prese a maggioranza, e non più all’unanimità, con una co-decisione del Parlamento e del Consiglio, e senza richiedere la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali.
 
16. Conclusioni.
 
Il rilancio dell’economia europea presuppone con sempre maggior urgenza la necessità di avviare finalmente a realizzazione l’Agenda di Lisbona e la riforma del bilancio dell’Unione, la cui struttura dovrebbe riflettere le nuove priorità definite nell’Agenda. Anche il finanziamento delle politiche comuni dovrebbe essere profondamente riformato, introducendo una sovrimposta europea sulle imposte nazionali sul reddito in sostituzione della quarta risorsa, una nuova carbon/energy tax per promuovere uno sviluppo sostenibile e facendo ricorso alle emissioni di Union bonds per finanziare la realizzazione delle necessarie infrastrutture materiali e immateriali e per rilanciare la competitività della produzione europea.
E’ comunque un fatto che Lisbona non avanza, come è stato illustrato con grande evidenza dal rapporto Kok, e le riforme proposte dalla Commissione sono in realtà ben lontane dal favorire il raggiungimento di questo obiettivo. Le giustificazioni del fallimento di Lisbona vanno quindi cercate in altra direzione e sono state messe in evidenza con grande chiarezza da Collignon,[2] che sottolinea la natura di bene pubblico degli obiettivi definiti nell’Agenda di Lisbona. Gli Stati membri hanno quindi convenienza ad agire come free riders per sfruttare i benefici delle riforme e delle iniziative portate avanti dagli altri paesi senza pagarne il costo. Anche se una soluzione cooperativa sarebbe in grado di portare maggiori benefici per tutti i paesi che prendono parte all’accordo, la strategia dominante è quella non-cooperativa che non consente di avanzare lungo la strada che porta alla realizzazione degli obiettivi fissati.
Per questa ragione, se si vuole realizzare sul serio un effettivo rilancio dell’economia europea, occorre passare da un sistema di governance without government, secondo la terminologia di Rhodes,[3] a un sistema di governance of a government, ossia alla creazione di un governo europeo dell’economia capace di superare le inefficienze del metodo aperto di coordinamento previsto a Lisbona e consolidato nei suoi elementi di debolezza dalla decisione del Consiglio europeo del 22-23 marzo 2005. Ma di questa esigenza non sembra che esista consapevolezza nella classe politica europea, che non è neppure riuscita a portare a compimento le riforme istituzionali previste dal Trattato costituzionale che, su questo terreno, aveva comunque realizzato passi in avanti del tutto insufficienti per garantire una capacità di governo adeguata per promuovere un effettivo rilancio dell’economia europea. E il primo passo da fare consiste nel prendere coscienza del fatto che non può esserci un governo senza la costruzione di uno Stato federale in Europa, con poteri limitati, ma reali, e che non si può pensare di governare l’economia europea — a maggior ragione a fronte degli enormi problemi che si presentano oggi in un mondo globalizzato — attraverso il coordinamento di politiche nazionali gestite da Stati che mantengono il potere ultimo di decisione in questo campo. E’ questo un insegnamento che Spinelli ci ha lasciato e che oggi mantiene intatta la sua validità.


[1] A. Spinelli, Pci, che fare?, Torino, Einaudi, 1978.
[2] S. Collignon, The European Republic. Reflection on the Political Economy of a Future Constitution, London, Federal Trust, 2003.
[3] R.A.W. Rhodes, «The New Governance: Governing without Government», In Political Studies, n. 3, 1996, pp. 652-667.

 

 

 

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