IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIX, 2007, Numero 2, Pagina 125

 

 

Le radici storiche e culturali del federalismo europeo*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
La teoria del federalismo.
 
Non è facile elaborare in modo preciso, cioè scientifico, una definizione del federalismo. Non possediamo definizioni di questo genere, del resto, nemmeno per il liberalismo, il socialismo e così via, che sono ben più studiati e molto più discussi, nonostante l’affermazione e la crescita della tendenza ad impostare in modo scientifico il pensiero politico e sociale. Per quanto riguarda il federalismo è persino incerto, nello stato presente della cultura, se esso sia una idea da porsi sullo stesso piano dell’idea liberale, socialista, ecc., o se sia invece una idea di minore portata, di significato più ridotto.
In questa situazione si può, a mio parere, procedere verso una teoria sufficientemente realistica del federalismo solo scartando, per le ragioni che vedremo, la sua riduzione alla teoria pura e semplice dello Stato federale, e ampliando il campo di esame sino a prendere in considerazione, almeno in via di ipotesi, un comportamento sociale indipendente, caratterizzato da un aspetto di valore, un aspetto di struttura e un aspetto storico-sociale che gli sono propri.
Forse questa è la via per precisare, nella misura del possibile, le stesse nozioni di liberalismo, socialismo, ecc. Ma si tratta di un problema metodologico che non può essere affrontato in questa sede, anche se è opportuno tenerlo presente. In questa esposizione, che riguarda specificamente il federalismo europeo e soprattutto la sua storia, non mi occuperò dunque né di questo problema, né di quello di una ricostruzione esauriente dei fatti più importanti (sia nel campo teorico che in quello pratico) che si ricollegano al federalismo.[1] Dirò soltanto che, a mio parere, il federalismo presenta come aspetto di valore la pace, come aspetto di struttura la federazione o Stato federale,[2] e come aspetto storico-sociale, un momento, o una fase, dello sviluppo storico.
La pace non va naturalmente confusa, come purtroppo accade spesso, nonostante il rigore con cui Kant ne chiarì il concetto (mostrandone anche il rapporto con la libertà e la giustizia), con il semplice fatto che la guerra non è in atto. A situazioni di questo genere conviene in realtà il nome di «tregue», quando si fondano, come avviene, sui rapporti di forza fra gli Stati armati, cioè su Stati organizzati per la guerra (con le conseguenze morali, culturali, politiche, economiche e sociali che ciò comporta); e per i quali la guerra, dispiegata, minacciata, o semplicemente immaginata per calcolare le proprie possibilità nei confronti di quelle degli altri, è in effetti il criterio fondamentale per prendere le decisioni internazionali, sia che si tratti di sacrificare i propri interessi per evitarla, sia che si tratti di accettarne il rischio per difenderli.
La pace non va dunque confusa nemmeno con il pacifismo degli Stati (ONU), dei partiti (internazionalismo) o della coscienza individuale (concezioni religiose, morali o psicologiche). La pace è l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri. In quanto tale essa richiede specificamente l’allargamento dell’orbita del governo democratico da un solo paese a una pluralità di paesi; e per ciò che riguarda le relazioni tra la pace, la libertà e la giustizia, il diritto di tutti di partecipare alla formazione di tutte le decisioni politiche e sociali che li riguardano direttamente, cioè la creazione di orbite di governo democratico locale ad ogni livello di manifestazione concreta delle relazioni umane.
Dall’idea precisa della pace discende dunque l’idea federalistica della distribuzione del potere politico, e per ciò stesso l’esigenza di identificare le condizioni storico-sociali che consentono di instaurarla e di mantenerla nell’ambito di una parte del genere umano o di tutto il genere umano. Sono in questione momenti storici: la situazione delle tredici ex-colonie americane al momento della Convenzione di Filadelfia, quella degli Stati europei nel presente processo di integrazione, ecc. Ed è in questione, in prospettiva, una fase storica, quella del superamento dei conflitti fra le classi e le nazioni, della formazione di una società mondiale grazie allo sviluppo materiale della produzione e alla creazione di legami obiettivi fra tutti gli uomini.
Quanto ho detto sinora mostra che se si pretende di ridurre tutto il federalismo al concetto di Stato federale non si ottiene nemmeno una conoscenza adeguata del medesimo. In effetti si sa poco di uno Stato finché si conosce il meccanismo del suo funzionamento ma si ignora il carattere della società nel quale esso può funzionare e mantenersi. Ne consegue che non basta dire che il federalismo è la teoria dello Stato federale per liberarsi del problema della società federale, in altri termini del problema posto dal modo federalistico di pensare e di agire (una società è nota quando è noto il comportamento che la costituisce).
D’altra parte c’è, a questo riguardo, un fatto incontestabile. I comportamenti federalistici non sono l’immaginazione di un pensiero mitico, ma una realtà di senso comune. In primo luogo, noi dobbiamo pensare che abbiano qualche carattere federale le società nelle quali si mantengono degli Stati federali, ossia dobbiamo supporre esistenti dei comportamenti federalistici negli Stati federali. In secondo luogo, noi dobbiamo prendere atto dell’esistenza di comportamenti federalistici al di fuori dell’area degli Stati federali, e precisamente in Europa. Lungo tutto il corso dell’Ottocento, e sino alla seconda guerra mondiale, non ci furono in Europa che dei federalisti isolati. Trascurando ciò che accadeva negli Stati federali, si poteva perciò presumere che essi non fossero che un piccolo gruppo disperso di utopisti, che il loro pensiero non fosse che un sogno ad occhi aperti e che la prospettiva di una vera e propria condotta federalistica, concreta e socialmente rilevante, non esistesse che nella loro immaginazione. Tuttavia da una trentina d’anni a questa parte le cose sono cambiate. Dagli individui isolati e dalle piccole conventicole si è passati ai veri e propri movimenti federalistici, il che prova che esiste ormai un numero socialmente rilevante di persone che fanno del federalismo — come altri del liberalismo, del socialismo e così via — il proprio atteggiamento concreto di fronte al potere, alla società e al processo storico. Si tratta dunque di stabilire quale sia la natura di questo atteggiamento, e quale sia quella dei comportamenti federalistici che si danno nell’ambito degli Stati federali.
Sulla base di queste considerazioni si può formulare, come ho detto, una ipotesi sulla delimitazione del campo del federalismo. Esse hanno messo in evidenza tre gruppi di dati: quelli facenti capo al funzionamento effettivo del modello costituzionale dello Stato federale, quelli facenti capo ai comportamenti federalistici delle persone che vivono nell’ambito di Stati federali, e infine quelli facenti capo ai comportamenti federalistici di persone che non vivono nell’ambito di Stati di questo genere. Orbene, è ragionevole supporre che questi tre tipi di dati abbiano qualche cosa in comune, ed è egualmente ragionevole supporre che questo elemento comune costituisca il significato del federalismo. Se ciò è vero, questi sono, in ogni caso, i dati che identificano il campo da esplorare per giungere ad una definizione soddisfacente del federalismo, e ad una conoscenza migliore dello Stato federale.
 
Lo Stato federale.
 
Quando l’integrazione europea viene discussa, capita spesso di sentir dire, perfino da parte di insigni europeisti, che la differenza tra confederazione e federazione sarebbe di poco momento, oppure che la federazione sarebbe l’ultimo gradino di una scala evolutiva che parte da un sistema di Stati nazionali a sovranità assoluta e giunge al livello federale dopo aver attraversato non si sa quali livelli crescenti di «sovranazionalità».
Opinioni di questo genere, che ignorano che la federazione è uno Stato mentre la confederazione non lo è, che ignorano che un gruppo di Stati nazionali mantiene le sue caratteristiche essenziali fino al momento nel quale viene sostituito da uno Stato federale, possono manifestarsi solo perché «le idee sono malleabili». Ma «le cose sono dure ed angolose», ed è per questo che le sole idee che valgono, che servono agli uomini per operare, sono quelle che fanno davvero i conti con le cose, per dure ed angolose che siano.
Chi si occupa dell’integrazione europea deve dunque, se non vuole parlare a sproposito e agire ciecamente, tener conto delle cose, cioè, in concreto, del fatto che ha dato luogo alla comparsa del federalismo come elemento nuovo della storia umana. Basta il richiamo a questo fatto, la Convenzione di Filadelfia, per constatare che un abisso separa la federazione dalla confederazione, e per comprendere che con la federazione è nato un nuovo tipo di Stato.
La Convenzione di Filadelfia, realizzando la prima costituzione federale della storia, costruì il modello del meccanismo politico dal quale Kant si attendeva la pace fra gli Stati e la instaurazione universale del diritto. Hamilton, scrivendo con Jay e Madison, durante la lotta per la ratifica della Costituzione federale, i saggi del Federalist allo scopo di illustrare i suoi vantaggi rispetto alla formula confederale, sviluppò, senza esserselo proposto, i primi rudimenti della teoria di questo meccanismo politico, cioè dello Stato federale. Per inquadrare teoricamente il suo pensiero bisogna perciò tener presente che i saggi del Federalist sono formalmente soltanto degli scritti di propaganda politica, sia pure elevatissima, e bisogna inoltre, e soprattutto, risalire al fatto storico dal quale questa propaganda prese le mosse: l’elaborazione di un testo costituzionale da parte di una assemblea.
È noto che la Costituzione degli Stati Uniti d’America rappresenta il frutto di un compromesso, e di un compromesso nel senso più stretto della parola, tant’è che i punti più importanti della Costituzione furono concepiti esclusivamente come pure e semplici transazioni tra le opinioni divergenti delle parti in contrasto, e per nulla affatto come le singole parti di un edificio coerente. Nonostante la loro natura queste transazioni identificarono di fatto gli ingranaggi fondamentali del meccanismo federale, e fondarono un solido edificio. È un risultato singolare, ma perfettamente spiegabile. Alla fine della guerra di indipendenza, dal punto di vista istituzionale, la classe politica americana era divisa in due correnti, una piuttosto unitaria e l’altra piuttosto pluralistica. Entrambe avevano un fondamento che non si poteva eliminare a breve scadenza: l’Unione e gli Stati. Il loro contrasto aveva perciò una via d’uscita solo nel compromesso, e il compromesso si poteva fare in un modo solo: salvando l’Unione con un governo panamericano veramente indipendente, ossia attivo sui cittadini e non sugli Stati, e salvaguardando nel contempo, con l’indipendenza degli Stati stessi, il pluralismo. La difficoltà stava nel trovare la formula di un governo centrale che, pur agendo direttamente sui cittadini degli Stati associati, non distruggesse la loro indipendenza. In conclusione, si giunse ad una federazione perché non si poteva che giungere ad una federazione.
Ma la formula federale, che costituisce il filo conduttore di questa interpretazione dei fatti, era sconosciuta a coloro che li vissero, e le cose si svolsero pertanto in un modo molto più complesso. La formula federale era non solo sconosciuta, ma addirittura impensabile, dato il legame che il pensiero politico tradizionale stabiliva tra indipendenza del governo e sovranità assoluta e indivisibile dello Stato. Questo legame rendeva impossibile l’attribuzione dell’indipendenza tanto al governo centrale quanto a quelli degli Stati, e costringeva la mente degli uomini ad una scelta tra l’unità indivisibile e il pluralismo che non stava nelle cose, che non corrispondeva di fatto ad una scelta possibile. L’azione umana non riusciva ad organizzare il pluralismo nell’unità, la situazione lo esigeva. La corrente unitaria avanzò pertanto dei progetti di organizzazione del governo centrale nei quali non c’era posto per la indipendenza degli Stati, e quindi in ultima istanza per il pluralismo; mentre la corrente pluralistica, a sua volta, non andò oltre la pura e semplice difesa della lega confederale, che garantiva la indipendenza degli Stati solo al prezzo della loro sovranità assoluta, e quindi anche al prezzo della paralisi dell’Unione, della disgregazione lenta ma fatale dell’unità.
Naturalmente questi progetti restavano sulla carta, lasciavano il problema insoluto e il contrasto aperto. Questa situazione durò a lungo finché il nodo non si sciolse da solo quando, per iniziativa della corrente unitaria, le due correnti si scontrarono su un terreno che metteva sul tappeto il problema, non consentiva di aggirarlo e obbligava a una scelta: la Convenzione per la revisione del sistema federale di governo, comunemente nota come Convenzione di Filadelfia. Giunte a questo punto entrambe le correnti tentarono di imporre la loro volontà, ma si resero presto conto che ciò non era possibile e si fermarono a mezza strada. La fortuna volle che si fermassero al punto giusto. La prova di forza si ebbe a proposito della composizione del legislativo, che metteva in gioco la questione della sovranità. I difensori dell’Unione volevano una rappresentanza proporzionale, i difensori degli Stati una rappresentanza eguale per ciascuno Stato. Si finì con l’accettare il primo criterio per la Camera dei Rappresentanti, e il secondo per il Senato, sacrificando nella Camera bassa la sovranità degli Stati, e quella dell’Unione nella Camera alta. Dopo questa prova di forza la Costituzione venne completata rapidamente. Ma, e qui sta il punto, noi diciamo «costituzione» col senno di poi. I delegati di Filadelfia non potevano invece sapere se si trattava veramente di una costituzione, di un meccanismo funzionale. Ciò che sapevano con certezza era di aver fatto un compromesso, e di averlo fatto proprio contro il loro modo di concepire lo Stato. Solo con una nuova teoria dello Stato, e con la prova dei fatti, essi avrebbero potuto ottenere una conoscenza adeguata di ciò che era avvenuto. Nella coscienza degli uomini un velo separò così, per un certo periodo di tempo, la realtà dalla sua rappresentazione.
Questo fu, inizialmente, l’atteggiamento degli uomini di fronte alla prima federazione della storia. Era necessario ricordare questo aspetto della storia della fondazione degli Stati Uniti d’America per mettere in evidenza le circostanze nelle quali Hamilton riuscì ad elaborare i primi rudimenti della teoria dello Stato federale. È un fatto che Hamilton squarciò il velo che separava la coscienza dalla realtà; proprio il Federalist mostra che egli vide, prima ancora che la Costituzione cominciasse a funzionare, come essa avrebbe funzionato. È vero che la sua previsione presenta delle incertezze, che si manifestò in pieno solo nella tensione spirituale della lotta per la ratifica e quando egli aveva il testo della Costituzione come punto di riferimento obbligato, e infine che in altre circostanze egli mutò opinione, e giunse persino ad esprimere dei giudizi negativi sulla costituzione federale. Ma ciò non lo sminuisce. Il prevedere non dà la sicurezza del vedere, e non possiede la sua nettezza di contorni. Hamilton si batté incessantemente per il consolidamento dell’unità americana, prima cercando di fondare un governo panamericano, poi cercando di potenziarlo. Le sue incertezze sono perciò tanto più comprensibili. Del resto in questa sede non conta il fatto che egli abbia avuto delle incertezze, ma importa invece metterle in evidenza, precisando il carattere federalistico di alcune idee che egli formulò in termini generali mentre esse sono valide solo nel contesto federalistico al quale egli di fatto, e implicitamente, si riferiva.
Hamilton ha descritto, con grande chiarezza e profondità, il carattere e le conseguenze dell’allargamento dell’orbita del governo rappresentativo dall’area di uno solo a quella di molti Stati. Dai suoi scritti risulta inoltre che nel sistema federale si può attribuire davvero al potere giudiziario la capacità di subordinare tutti i poteri alla legge costituzionale, come si può d’altra parte, mediante la riunione delle cariche di capo dello Stato e di capo del governo nella stessa persona, conferire all’esecutivo la forza indispensabile per governare bene senza correre i rischi della tirannide e del cesarismo. Ma egli ha lasciato in ombra il legame tra questi perfezionamenti del potere esecutivo e di quello giudiziario, decisivi per stabilire lo Stato di diritto e per consolidare la democrazia, e la divisione del potere che si produce nel quadro federale, nel quale il governo centrale è arginato dai governi degli Stati membri, e nel quale col potere giudiziario, troppo debole per resistere allo strapotere del legislativo o dell’esecutivo — del resto più fusi che distinti — negli Stati unitari, stanno a volta a volta il governo federale o i governi degli Stati, a seconda che la decisione giudiziaria converga con l’interesse del primo o dei secondi. Ed infine egli ha lasciato in ombra il fatto che solo a questo grado di perfezionamento del potere esecutivo e soprattutto di quello giudiziario, emerge in forma tipica — e non solo come accidente storico — lo Stato costituzionale, la comunità che piega davvero tutti i poteri alla legge costituzionale.
Con complementi di questo genere il pensiero di Hamilton può essere considerato la prima formulazione della teoria dello Stato federale. Non si trova invece nel pensiero di Hamilton un esame sistematico dei rapporti tra la nuova Costituzione e la società americana di allora. E questo esame è indispensabile se si vuole cercare di stabilire una teoria completa del federalismo. La teoria dello Stato federale descrive una organizzazione, non l’ambiente umano nel quale essa può nascere e mantenersi; identifica la struttura politica di un comportamento, non la sua base sociale e il suo quadro storico (da stabilire insieme perché i dati sociali hanno natura storica). Di conseguenza essa non permette di comprendere il federalismo in tutti i suoi aspetti e nel suo svolgimento storico, e nemmeno di situare Hamilton nella storia del pensiero federalistico e la Federazione americana nel corso storico generale. Si tratta quindi di riesaminare la fondazione degli Stati Uniti d’America per vedere se è possibile mettere in evidenza anche l’aspetto storico-sociale, dopo quelli di struttura e di valore, del federalismo.
Prima della guerra di indipendenza le colonie della fascia costiera orientale dell’America del Nord erano giunte ad un grado di sviluppo materiale e ideale sufficiente per la formazione del governo rappresentativo. Esse costituivano tredici piccole società del sistema imperiale britannico. Al di sopra di queste società c’era soltanto il punto di riferimento politico e sociale costituito dalla grande comunità inglese. I coloni non cominciarono a pensare di essere collegati profondamente tra loro e di formare una società originale e indipendente — la società americana — che quando la loro lotta per le libertà inglesi si trasformò in guerra aperta contro la Madre Patria. La guerra distrusse completamente l’affetto per la Corona britannica e ne creò uno nuovo, quello per l’Unione americana. Alla fine della guerra i coloni non erano più degli inglesi, erano americani.
Essi erano però organizzati con governi indipendenti nel contesto di solide istituzioni al solo livello delle ex-colonie. Al livello americano c’era semplicemente una unità di fatto con la sua soprastruttura confederale. Il sentimento americano non fu pertanto, al suo inizio, che la manifestazione della convergenza spontanea del comportamento dei coloni. La radice profonda di questo atteggiamento stava, naturalmente, nell’ambiente storico e geografico. Ma bisogna tener presente che i rapporti di produzione e di scambio non avevano ancora generato in America del Nord una interdipendenza fitta e stabile dei comportamenti dei coloni, il che mostra che fu la guerra, con la moltiplicazione e la intensificazione dei rapporti interamericani, a trasformare l’embrionale unità americana in una vera e propria unità di fatto. A causa della sua immaturità, questa unità non sarebbe durata a lungo senza uno stabilizzatore politico, senza un governo, ma essa ebbe nondimeno una propria realtà autonoma per un certo periodo di tempo. Proprio perché semplice riflesso di una situazione di fatto, e non dell’appartenenza allo stesso Stato, l’unità americana in questione va considerata, almeno a fini analitici, come un dato sociale grezzo, piuttosto che come un dato politico specifico, anche se in questo caso come in molti altri la distinzione tra dati sociali e politici non è molto netta.
Questa unità di fatto, sufficiente per mantenere il sentimento americano, era invece insufficiente per attenuare gravemente o addirittura distruggere i tredici patriottismi locali, ben difesi dalla autonomia statale, dalle tradizioni storiche e dalla loro stessa natura di «nazioni» nel senso etimologico della parola (l’orizzonte territoriale della nascita, della vita e della morte degli individui). Il sentimento americano si aggiunse pertanto ai vecchi patriottismi locali senza soppiantarli, e la combinazione di questi sentimenti, egualmente forti, produsse un diffuso comportamento sociale contrassegnato da una vera e propria bipolarità, dalla divisione del lealismo tra l’Unione e gli Stati. Così nacque il comportamento sociale che univa tutti i coloni in una sola, e vasta, società, ma che nel contempo li divideva in società più piccole, distinte fra loro e dalla prima, ciascuna delle quali aveva propri confini territoriali ben stabiliti nell’ambito dei confini della società comune a tutti. Si può chiamare federale questo comportamento. Esso è costitutivo di ciò che si può chiamare a sua volta società federale (popolo federale nel contesto politico), ossia di una comunità con differenze sociali autonome a base territoriale. Più precisamente: con gruppi sociali a base territoriale forti a sufficienza per sostenere governi indipendenti e sovrastare ogni altra differenza sociale, ma non tanto da produrre delle società separate, proprio perché formati da uomini fedeli nel contempo anche ad una società più larga. In questa forma il fenomeno era, e resta, nuovo. È vero che la tendenza umana ad appartenere a diversi cerchi sociali è generale, ma è anche vero che essa non può produrre una vera e propria bipolarità né nelle repubbliche unitarie, dove l’accentramento statale e l’ideologia nazionale fanno prevalere il sentimento nazionale a scapito di tutti gli altri sentimenti di gruppo, né nelle società imperiali a base feudale, dove la soffoca il fatto che i membri sono dei sudditi, cioè degli individui che non possono dare espressione autonoma ai loro sentimenti sociali.
Queste osservazioni mettono a nudo gli stretti rapporti tra il nuovo comportamento sociale emerso in America del Nord e la novità della Costituzione federale, la divisione della sovranità. Risulta ora chiaro che il contrasto di Filadelfia dipendeva proprio dal carattere fondamentale della società americana, anche se esso in quanto tale, come contrasto e non bipolarismo, aveva una causa politica: l’incapacità di dividere la sovranità. Risulta inoltre chiaro che la necessità di un compromesso, e il fatto che esso fosse possibile solo in termini federali, mettono in evidenza, oltre al processo di creazione delle istituzioni federali, anche e proprio il loro rapporto con una società che poteva funzionare solo con istituzioni di questo genere, una società in effetti troppo unitaria per un semplice sistema di Stati sovrani in equilibrio, e troppo diversificata, e nello stesso tempo troppo tendente ad estendere i propri confini, per la forma chiusa e compatta dello Stato unitario. Risulta infine chiaro che il federalismo ha un proprio rilievo sociale. Si tratta pertanto di precisare il carattere di questo rilievo sociale, ossia, in altre parole, di valutare la consistenza della società federale emersa in circostanze eccezionali alla fine del diciottesimo secolo in America del Nord e, più in generale, di stabilire il quadro storico del comportamento sociale federalistico.
Per la sua incompatibilità sia con la repubblica unitaria che con l’impero a base feudale, questo comportamento può manifestarsi solo in aree pluristatali che abbiano raggiunto le condizioni materiali e ideali della libertà politica e un certo grado di unità. Ma ciò non basta. Esso non può mantenersi senza la scomparsa, o almeno l’attenuazione, della lotta di classe e della potenza militare. La lotta di classe spegne la solidarietà tra proletari e borghesi dei gruppi sociali a base territoriale, e subordina questi gruppi alla generale divisione dell’intera società in classi sociali antagonistiche. D’altra parte la potenza militare promuove l’accentramento del potere nel governo centrale, spezza l’equilibrio politico tra il centro e la periferia e impedisce così la bipolarità nel dominio sociale. Di fatto nell’America del Nord, durante il periodo nel quale il federalismo si è mantenuto, la situazione insulare (così ben descritta da Hamilton) ha permesso di garantire la sicurezza della società americana senza la formazione di una vera e propria potenza militare. D’altra parte, nello stesso periodo, la situazione eccezionalmente favorevole dell’offerta del lavoro ha effettivamente frenato nella società americana la lotta di classe, sino a sbarrare la strada al socialismo.
Nel caso americano, come in tutti quelli, reali o possibili, basati sulla semplice attenuazione della lotta di classe e della potenza militare, o delle loro conseguenze, il federalismo non può manifestarsi tuttavia che in modo parziale e precario. La parzialità dipende dal fatto che, dei due poli del comportamento sociale federalistico, uno tende a svilupparsi troppo, e l’altro troppo poco. Si sviluppa poco quello costituito dal gruppo sociale a base territoriale perché, senza la scomparsa delle differenze di classe, questi gruppi non possono divenire in ogni senso del termine delle libere comunità, e quindi non possono sviluppare fino alle estreme conseguenze lo spirito comunitario. Si sviluppa troppo, invece, quello costituito dalla società complessiva perché l’esistenza della potenza militare nelle altre parti del mondo si ripercuote anche sugli individui che appartengono a società poco armate, e sviluppa il loro lealismo verso la loro società complessiva in un modo simile a quello nazionalistico delle società armate. La precarietà dipende a sua volta dal fatto che in un mondo armato nessuna società può, alla lunga, sfuggire alla logica della potenza e della ragion di Stato. In un mondo simile solo alcune circostanze naturali o storiche eccezionali possono, per breve tempo, consentire a società particolarmente fortunate di restare poco armate, e di mantenere così l’equilibrio tra il governo federale e gli Stati membri.
In sostanza, finché il quadro storico presenta soltanto l’attenuazione della lotta di classe e della potenza militare o delle loro conseguenze, il federalismo non può manifestarsi che in settori privilegiati della popolazione mondiale, e in modo instabile e imperfetto. Il che equivale a dire che esso può manifestarsi in modo pieno e stabile solo in un quadro storico ben definito: quello della scomparsa delle differenze di classe e della potenza militare, vale a dire ad uno stadio di sviluppo della produzione materiale, e della conseguente interdipendenza umana, nel quale sia già stata superata la divisione delle società in classi, e nel quale sia ormai superabile la divisione dell’umanità in nazioni. E ciò dimostra che, nella loro essenza profonda, i due poli del comportamento sociale federalistico sono la comunità e il cosmopolitismo.
A conclusione di queste considerazioni, vorrei osservare che la Convenzione di Filadelfia, la Costituzione americana e il suo primo grande commento, il Federalist, qualora vengano presi in esame nella loro unità, e quindi nella loro realtà effettiva, permettono di intravedere in modo nuovo i problemi delle istituzioni e del corso della storia. Su questa base, il federalismo permette di allargare l’orizzonte delle interpretazioni e delle valutazioni politiche e sociali, che è andato sempre più restringendosi nelle visuali del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Non è in causa, ovviamente, il valore di queste conquiste fondamentali del pensiero politico, ma il fatto, pienamente dispiegato di fronte agli occhi di tutti, del distacco crescente della prassi dal pensiero universale dei classici (fino a Marx), distacco forse irrimediabile a mano a mano che diventano più remote le situazioni storiche nelle quali le grandi ideologie tradizionali hanno espresso pienamente il loro vigore misurandosi con ciò che doveva essere abbattuto.
In ogni caso, non mi pare dubbio che il federalismo dovrebbe essere tenuto presente da tutti coloro che si pongono il problema di nuove forme di partecipazione alla vita politica e sociale — cioè di nuove istituzioni, di nuovi mezzi di decisione — ma non mettono in discussione lo Stato nazionale, che con la sua sovranità indivisibile impedisce la formazione di vere autonomie regionali e locali, e con la sua sovranità esclusiva, dipendente dall’unificazione di nazione e Stato, impedisce la formazione di vere e proprie solidarietà politiche e sociali al di sopra degli Stati nazionali.
 
Nascita del federalismo europeo.
 
Cerchiamo ora di applicare un’analisi consimile all’idea della Federazione europea, al federalismo militante, per isolarne, analogamente, le caratteristiche proprie. Come ogni fatto politico, anche il federalismo europeo ha una sua radice storica. Per metterla subito in evidenza, si può partire dalla constatazione di una coincidenza curiosa. Quando, con la rivoluzione francese, il principio nazionale moderno si è concretamente affermato nei fatti, è cominciata anche una storia di idee, non di fatti, che hanno natura federalistica, anche se imprecisa. Io penso che la causa di questa coincidenza — lasciata ancora in ombra dalla cultura dominante — sia questa: lo Stato nazionale era un nuovo principio di organizzazione sociale, politica ed economica. Era, inoltre, la formula che consentiva l’immissione della democrazia nelle vecchie strutture dello Stato assoluto. Ma in quanto tale, e proprio perché portava gli interessi di tutti i cittadini nel quadro della politica di governo, rendeva ormai precario il funzionamento del vecchio meccanismo internazionale, che si basava sulla formula dello Stato dinastico, sull’aristocrazia come fenomeno sociale europeo, sul carattere autoritario, ma limitato, del potere, fatti tutti che rendevano possibile un certo equilibrio internazionale grazie ai limiti stessi delle pretese degli Stati.
Con la nuova formula dello Stato nazionale diventava dunque necessaria anche la ricostruzione in termini nuovi della convivenza internazionale. È la storia di questo bisogno che spiega, da Saint-Simon in poi, cioè dal 1814, data di pubblicazione del suo saggio sulla riorganizzazione della società europea (che prende in considerazione proprio la fine della politica dell’equilibrio), il cambiamento intervenuto nella letteratura pacifistica. Non si tratta più, ormai, di progetti astratti, ma del tentativo, sia pure embrionale, di risolvere una contraddizione nuova del processo storico, che con la formula nazionale aveva affermato i diritti dell’uomo e del cittadino nel quadro dei vecchi Stati, ma con la stessa formula li aveva del tutto negati, persino come diritto di vivere e di non uccidere, nel quadro internazionale. La soluzione di questa contraddizione esige il controllo popolare delle relazioni internazionali. E il controllo popolare delle relazioni internazionali si può avere solo col federalismo, che affida direttamente ai cittadini, col mezzo del voto, sia il controllo degli Stati che quello di un insieme organizzato di Stati. Vista così, la storia delle affermazioni federalistiche in Europa perde il carattere, attribuitole a torto, di una vicenda puramente ideale, ed acquista invece quello della concreta storia umana, del tentativo, faticoso e incerto come tutti i tentativi umani, ma proprio per questo realistico, di risolvere un problema posto dallo sviluppo storico, e non semplicemente immaginato dal perfezionismo di qualche illuminato. In sostanza, la storia del federalismo europeo non è che la storia del manifestarsi della contraddizione tra l’affermazione della democrazia nel quadro nazionale e la sua negazione nel quadro internazionale. Ciò equivale a dire che il federalismo europeo è, a partire dalla rivoluzione francese, un aspetto della storia europea, aspetto molto più esteso di quanto non si pensi (anche se impreciso come tutte le tendenze storiche non ancora giunte a maturità), nel quale, a fianco di una avventura del pensiero iniziata filosoficamente da Kant, sta il lento svolgersi della componente universale delle grandi ondate rivoluzionarie. Sono in questione il liberalismo, per quanto attiene ai diritti del cittadino, la democrazia, per quanto attiene ai diritti del popolo e il socialismo, per quanto attiene ai diritti economico-sociali del popolo.
Queste tre grandi ideologie, che hanno progressivamente riempito di contenuti democratici e sociali lo Stato nazionale, presentano di fatto, sin dalla loro origine, una componente federalistica, anche se con una coscienza incerta per la confusione teorica del federalismo con il suo opposto, l’internazionalismo, che affida ai dirigenti, invece che al popolo, la soluzione dei problemi internazionali.
Questa confusione teorica, praticamente giustificata dalla mancanza delle condizioni obiettive per la realizzazione del federalismo sino alla seconda guerra mondiale, comporta tuttavia il rischio del cedimento al nazionalismo, che si è in effetti verificato ogni volta che nella scala dei valori realmente perseguita la nazione ha preso il primo posto rispetto alla libertà, alla democrazia e al socialismo. Le manifestazioni di questo cedimento sono imponenti, dallo statalismo dei liberali, al nazionalismo ingenuo dei democratici, alle «vie nazionali» del socialismo. In questo contesto, il fallimento della II Internazionale nei confronti della prima guerra mondiale, e la costruzione del socialismo in un paese solo, sembrano assumere il carattere di una svolta storica che avrebbe consacrato definitivamente la priorità della nazione, sostenuta brutalmente dai razzisti e accettata da tutti gli Stati dietro la copertura formale del principio della sovranità assoluta della nazione e della non ingerenza negli affari degli altri Stati. Ma, nella loro essenza, le lotte per la libertà, la democrazia e il socialismo riguardano tutti gli uomini e non solo i propri connazionali. È per questa ragione che la loro componente federalistica, nonostante tutti i cedimenti, non può essere tolta di mezzo.
La storia del federalismo europeo come aspetto della storia europea non può essere svolta in questa sede. Si può tuttavia ricordare il pensiero di Proudhon per mostrare come si potrebbe, con questa ricostruzione storica ancora da fare, illuminare la faccia nascosta della storia europea dopo la rivoluzione francese. In Proudhon non c’è soltanto il «federalismo integrale» (economico, sociale e politico), e con questa concezione un fondamentale criterio per il socialismo qualora non voglia sacrificare il fine, la libertà umana, al mezzo, la trasformazione della proprietà. In Proudhon c’è anche una critica dello Stato nazionale e delle relazioni internazionali che giunge sino al punto concreto della demistificazione dell’idea di nazione. Da «grande presbite» quale egli era, Proudhon ha previsto quale sarebbe stato il limite tragico della democrazia nazionale qualora non avesse trovato i suoi correttivi nella democrazia locale e nella democrazia europea. Con questo sguardo lucido, egli ha visto, dietro la facciata delle nazioni moderne, la loro realtà effettuale di mito politico prodotto dall’accentramento dello Stato, dalla «repubblica una e indivisibile».
In una pagina troppo dimenticata egli ha scritto testualmente che la nazione francese (la «nazione» per eccellenza) non esiste, che la Francia è il raggruppamento artificiale, politico, di quindici nazionalità. Questa affermazione poteva sembrare, fino a qualche anno fa, una boutade. Ma la sua verità sta ormai di fronte agli occhi di tutti perché la crisi storica dello Stato nazionale ha fatto ricomparire, in Francia, le nazionalità brettone, basca, occitanica, mostrando quanto ci fosse di artificiale non solo nella chiusura della vita politica in uno Stato centralizzato ed esclusivo, nella separazione degli interessi dei lavoratori dei diversi paesi europei, ma perfino nel fatto stesso nazionale che ha svelato la sua facciata ideologica, costringendo addirittura de Gaulle a rivolgersi in brettone ai brettoni.
La connessione del federalismo europeo con la storia d’Europa può essere mostrata nel suo intero arco se si tiene presente non solo il suo significato per il passato, ma anche quello per il presente e l’avvenire. Il federalismo europeo è di fronte ad un grande compito. Come forma nuova dello Stato moderno, il federalismo è un fatto americano. Ma gli Stati Uniti d’America per costituirsi non hanno dovuto superare delle nazioni storicamente assestate e quindi non hanno dovuto risolvere tutti i problemi ai quali si trovano di fronte gli europei. L’unità, in Europa, comporta una profonda rivoluzione. In Europa si tratta di superare le nazioni storicamente costituite, le nazioni per eccellenza: la Francia, la Germania, l’Italia, in prospettiva, restituendola alla democrazia, la Spagna, e così via.
Il superamento delle nazioni storicamente costituite dovrebbe significare, culturalmente, il superamento di uno stadio dell’evoluzione storica e costituire, proprio per questo, un modello nuovo di sviluppo per i paesi del Terzo mondo e, in generale, per l’umanità intera che si sta avvicinando rapidamente al momento della scelta fra l’unità (prefigurata, ma non realizzata, con l’ONU) e la catastrofe ecologica.
Ma, prima di affrontare il problema di questo ampio significato storico conviene analizzare, brevemente, il significato sociale e politico della Federazione europea nei suoi aspetti obiettivi. Non si mette mai in luce che il passaggio dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo comporta una trasformazione «materiale» di grande importanza; un vero cambiamento sociale di base. Si ha l’abitudine di considerare la parola «sociale» come un semplice sinonimo di «classe» e di «lotta di classe», ma la realtà è più complessa. In questo modo si dimentica l’enorme importanza sociale del fatto nazionale. Lo Stato nazionale è la comunità politica che tenta di rendere, e in parte vi riesce, omogenei tutti i nuclei comunitari esistenti nel suo interno. In fondo, la sua natura tendenzialmente totalitaria si manifesta già nel fatto che questo tipo di Stato è in grado di vivere solo se riesce a rendere la lingua unica e omogenei i costumi su tutto il suo raggio d’azione (anche se, per i costumi, è riuscito a imporre l’illusione, più che la realtà, della loro unificazione). Questa base sociale artificiale fa sì che un uomo che nasce a Torino si senta uguale a un uomo che nasce a Palermo e diverso, diverso nella sua origine umana, da qualsiasi uomo nato in un altro Stato (anche se, di fatto, e a prescindere dall’origine comune di tutti gli uomini, c’è più diversità fra un torinese e un palermitano che, ad esempio, tra un torinese e un lionese).
Al contrario, non è possibile costruire lo Stato europeo su questa base sociale, o provocare la formazione di questa base con l’aiuto di uno Stato europeo. È stato possibile creare la lingua italiana come lingua nazionale partendo da Firenze, la lingua francese partendo da Parigi. Per l’Europa, non è possibile fare nulla di simile. Nessun centro di potere è in grado di imporre una lingua unica in Europa, di ottenere che i francesi cessino di parlare in francese e gli italiani in italiano. A maggior ragione, nessun centro di potere è in grado di imporre in Europa l’illusione, e in parte la realtà, dell’unificazione dei costumi. Per illustrare con una formula questa situazione, i federalisti non si stancano di ripetere che in Europa sarà possibile la formazione di un popolo di nazioni, non di un popolo nazionale. Questa formazione non riguarda un avvenire lontano ed imprecisabile. L’elezione generale europea è prevista dai Trattati di Roma ed è sostenuta da uno schieramento di forze che non ha certamente minori possibilità di successo dello schieramento contrario. E va da sé che il primo voto europeo sarebbe la prima espressione di un nuovo fattore politico popolare: il popolo europeo. Ma questo popolo sarà pluralistico, non monolitico, sarà, come vuole la storia, il popolo delle nazioni europee.
Si tratta di un aspetto concreto, di natura sociale, che non può non essere preso in considerazione quando si parla di unità europea. Il secondo aspetto concreto che si deve tener presente è di carattere politico-istituzionale. Bisogna premettere che le accuse di «istituzionalismo» rivolte ai federalisti sono prive di senso. È ovvio che non esistono istituzioni senza una base sociale corrispondente e che non si può lottare per alcune istituzioni che quando si ritiene che vi sia una base sociale su cui fondarle e farle funzionare. Spesso il supremo dovere politico è proprio quello di distruggere le istituzioni che soffocano nuovi sviluppi sociali e di creare nuove istituzioni per sviluppi nuovi. Bisogna anche precisare che chi rifiuta l’istituzionalismo europeo accetta, di fatto, l’istituzionalismo nazionale, anche se non se ne rende conto, e considera «organico» un processo, quello della nazione, che esige in realtà una condizione istituzionale preliminare: il quadro nazionale organizzato di espressione delle forze storiche.
Detto questo, si può affrontare rapidamente l’argomento con l’ausilio di una chiave presa in prestito dalla cultura anglosassone. La cultura europea del continente presenta una lacuna, rispetto alla cultura anglosassone. In quest’ultima si fa una netta distinzione fra il principio unitario (nazionale) e il principio federale (pluralista). Nello Stato nazionale, la rappresentanza sovrana è unitaria. La «repubblica una e indivisibile» ne è la naturale conseguenza. Ma questa repubblica riduce ad una pura forma apparente la divisione dei poteri, che dovrebbe invece costituire la garanzia politica della libertà. E con risultati veramente demoniaci essa affida al centro di potere che ha in mano la spada, l’esercito, anche la scuola, la cultura.
Questo Stato non può — ogni aspirazione in un altro senso resta marginale, velleitaria — non servirsi della scuola e della cultura per fare dei cittadini dei buoni soldati. E lo fa. La storia nazionale, che ci perseguita dalla scuola elementare fino all’università, mette a nudo, a cominciare dai racconti edificanti per i ragazzi, il rispetto della cultura storico-sociale per le necessità pratiche, autoritarie e bellicose, dello Stato. È questa cultura che ritroviamo nell’aspetto statale dei comportamenti sociali — elezioni nazionali senza alcuna altra elezione autonoma, servizio militare nazionale — e nei riti politici.
Ed è ancora questa cultura che si manifesta nel riferimento arbitrario dei dati universali della realtà storica e dell’attualità politica e sociale ai quadri nazionali, con una insidia ancora maggiore perché questa manipolazione, per l’assenza del lato scopertamente edificante, fa tacere la coscienza di aver servito il potere invece della verità. Questa cultura, che dipende dallo Stato, fa dello Stato nazionale il padrone della coscienza degli individui.
Nello Stato federale, al contrario, vi è lo sdoppiamento della funzione sovrana, della sovranità. La lotta politica non si sviluppa in un solo quadro, per un solo potere, il quale controlla poi con i prefetti tutti i poteri a livello inferiore. Essa si sviluppa nel quadro federale e nel quadro degli Stati membri. La differenza è basilare. La divisione del potere su scala territoriale, invece di essere esclusivamente funzionale, trova una base sociale concreta. E questa distribuzione del potere su una base territoriale, nella sua più tipica espressione, non può sopravvivere senza il primato della costituzione sul potere.
La sua unità si fonda in effetti su una regola, quella della distribuzione del potere fra ogni Stato membro e il governo federale, mentre nello Stato unitario l’unità risiede in un centro di potere al quale tutto è subordinato, giudice e parte di fatto della stessa costituzione. Non è per caso che la teoria del giudizio costituzionale dei tribunali — e non solo la Corte costituzionale, frutto tardivo della decadenza dello Stato nazionale — è nata con il primo Stato federale della storia, la Federazione americana. Non è per caso che la Federazione americana, embrione e residuo del primo fatto federale, non ha un ministro per l’educazione, un ministro dell’interno, né prefetti.
L’Europa avrebbe dunque questa base sociale, questo carattere istituzionale, questa distribuzione legale del potere. È la ragionevole previsione di una situazione possibile, anche se bisogna ammettere che non sarebbe ancora perfettamente federalistica. È una previsione, non un sogno, perché questa situazione non dipenderebbe dall’arbitrio individuale, ma dall’impossibilità di formare uno Stato nazionale europeo, unitario e centralizzato.
 
Il federalismo come superamento della divisione del genere umano.
 
La conclusione cui siamo giunti nel capitolo precedente non è sufficiente per una analisi del federalismo militante. I federalisti si assumono la responsabilità dell’imperfezione europea alla quale ho fatto allusione, e del fatto che tale imperfezione corrisponde in effetti a una negazione insufficiente dei valori autoritari e bellicosi dello Stato nazionale. Per questa ragione il loro discorso va oltre l’Europa, e in modo ben preciso. Per questa ragione, quando le servitù della lotta restringono troppo l’orizzonte e nasce il bisogno di guardare lontano, i federalisti dicono che bisogna ancora fare politica per preparare il giorno in cui gli uomini non saranno più costretti a fare politica. I federalisti si battono per la Federazione europea, e non per la Federazione mondiale, solo perché la coscienza rivoluzionaria non permette di evadere dalla realtà.
A questo proposito, vorrei sottolineare due cose. La prima è che nessuno obbligherà i federalisti, anche se col loro contributo si formerà l’Europa per la quale si battono, a fiancheggiare il governo europeo. Anche a costo di essere scherniti, come si è verificato, i federalisti più coscienti hanno sempre sostenuto che il loro posto, in Europa, sarà all’opposizione. L’Europa lo permetterà. L’Europa avrà una opposizione. È singolare che le sinistre europee non ne tengano conto, e giungano così ad immaginare uno Stato europeo più compatto, più totalitario, dello Stato nazionale. In realtà, le sinistre nazionali dovrebbero chiedersi se una opposizione europea non sarebbe più feconda delle opposizioni nazionali.
Ma voglio spiegare questo paradosso: la partecipazione alla costruzione di uno Stato che sappiamo già di dover criticare. Non è affatto sconcertante. È il paradosso di ogni progresso sulla strada della rivoluzione. La rivoluzione è mondiale e universale. Per tale ragione ogni progresso su questa via perde il suo senso, per chi se ne assume la responsabilità, se egli non accetta questo destino: restare all’opposizione dopo aver assolto il proprio compito. Ciò è sempre accaduto nella forma positiva del distacco dal potere o nella forma negativa del rovesciamento delle prospettive storiche nell’animo di coloro che hanno accettato, dopo la responsabilità di una trasformazione di carattere rivoluzionario, anche quella della gestione del potere.
Spiegherò meglio questo paradosso, spero, sottolineando il secondo punto. Le grandi tappe della rivoluzione hanno sempre avuto due significati: uno pratico, immediato, accertabile nelle nuove istituzioni e nei nuovi comportamenti politici e sociali, e uno storico, accertabile solo nella cultura, se per cultura si intende ciò che motiva in profondità la formazione del pensiero umano. La rivoluzione francese, valutata in confronto non alla vita di prima, ma agli ideali dell’incendio rivoluzionario, ha avuto un esito modesto: lo Stato che oggi condanniamo con l’espressione «giacobino-napoleonico», senza con ciò disconoscere le barriere che ha fatto cadere, le forze storiche che ha liberato.
In ogni modo, lo Stato «giacobino-napoleonico» non ha distrutto il significato globale della rivoluzione francese. Con la rivoluzione francese è stato affermato nella cultura dell’umanità il principio democratico. Nonostante la sua realizzazione imperfetta, nonostante tutte le sconfitte della democrazia, questo principio ha messo salde radici nel cuore dell’uomo, non è stato più tolto di mezzo. Il fascismo, che lo negava apertamente, è stato spazzato via. Gli Stati socialisti a partito unico, che lo negano di fatto nella pratica, non possono smentirlo nella teoria e nei riti della vita politica.
Una osservazione analoga vale per la rivoluzione sovietica. Il distacco tra le aspirazioni rivoluzionarie e lo Stato sovietico è così forte che ormai è ovvio concludere che non si è realizzato il comunismo, ma un rigido capitalismo di Stato. Tuttavia, dicendo «capitalismo di Stato», si mette in evidenza un aspetto empirico della realtà sovietica a danno del suo significato storico. Siamo consapevoli che il comunismo non si è realizzato. Ma dovremmo anche essere consapevoli del fatto che, dopo la rivoluzione sovietica, non è più legittima, sotto il profilo culturale, la proprietà privata dei mezzi sociali di produzione. La vera proprietà sociale dei mezzi di produzione è ancora lontana, come è ancora lontana, d’altra parte, la democrazia vera e propria. Ma come l’assolutismo è morto, io credo per sempre, nel cuore degli uomini, così sta morendo, nel cuore degli uomini, il principio della legittimità della proprietà privata dei mezzi sociali di produzione.
La pratica si adatta alla democrazia imperfetta, guidata e manipolata, dell’Occidente; alla gestione, guidata e manipolata, della produzione collettiva, in Oriente. La cultura, no. Ed è la cultura che segna il distacco tra ciò che è e ciò che deve essere, motivando così le correnti più profonde della vita.
Alla luce di queste osservazioni mi pare che non si possa valutare lo Stato europeo senza tener presente, accanto a ciò che negherà in pratica, ciò che negherà in teoria, per mettere in evidenza non solo ciò che affermerà praticamente, immediatamente, ma anche ciò che affermerà nella sfera della cultura.
In pratica, lo Stato europeo negherà, con le conseguenze già esposte, la divisione dell’Europa in Stati nazionali. In teoria, negherà le nazioni, o meglio, la fusione della nazione e dello Stato, l’asservimento della nazione, che di per sé è cultura e universalità, allo Stato unitario, cioè chiuso, che di per sé è potenza e particolarismo. Nel suo messaggio natalizio del 1954 Pio XII ha definito, a mio modesto avviso giustamente, questo tipo di Stato come una delle creazioni più demoniache della storia umana, proprio per questa ragione. Ed è significativo che una critica di questo genere, che si ritrova nelle espressioni più coerenti del liberalismo, della democrazia e del socialismo, si sia manifestata anche nel quadro della religione, che è quello nel quale il criterio della trascendenza permette di distinguere più nettamente ciò che resta sempre aperto, ciò che rinnova la vita, da ciò che si è chiuso per sempre, che spegne e mortifica la vita.
Si tratta dunque di accertare quale sia il significato di questa negazione teorica. La Federazione americana non permette di constatarlo. Ci sono ragioni storiche. Essa si è formata in quella che era ancora una via marginale della storia, al riparo dai grandi conflitti fra gli Stati e fra le classi. Ed essa ha negato — è la constatazione specifica — tredici piccoli Stati senza storia statale e nazionale.
Ma la Federazione europea dovrà negare, nel senso dialettico del termine, la Francia, la Germania, l’Italia: le grandi nazioni storiche. Queste nazioni hanno reso tipica l’idea di nazione come divisione organica del genere umano; sono l’espressione laica, storicamente concreta, della cultura della divisione politica del genere umano. La loro negazione equivarrà dunque alla negazione della cultura della divisione politica del genere umano.
È vero che la Federazione europea sarà uno Stato fra gli Stati. Sdoppierà il lealismo dei cittadini, affiancando una elezione europea alle elezioni nazionali. Si può pensare che romperà l’equazione cittadino eguale soldato, abolendo il servizio militare obbligatorio. Ma dovrà difendere la sua autonomia anche con mezzi militari, come potenza fra le potenze. Con la pratica, resterà sul terreno della divisione politica del genere umano, anche se l’esame della sua ragion di Stato, che richiederebbe un altro discorso, induce a ritenere che sarà meno brutale, e socialmente meno compressa, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America.
Ma, con la teoria, lo Stato europeo sarà sul terreno della negazione della divisione politica del genere umano. Questa è la cosa storicamente più importante. La cultura nazionale, come teoria della divisione politica del genere umano, è la cultura che ha legittimato nei fatti, mistificando il liberalismo, la democrazia e il socialismo, sovietico o non, il dovere di uccidere. La cultura della negazione della divisione politica del genere umano è la negazione storica di questo dovere; è l’affermazione, nella sfera del pensiero, del diritto politico, e non solo spirituale, di non uccidere, e perciò il quadro storico della lotta per affermarlo anche in pratica, al di là della Federazione europea, con la Federazione mondiale.
Questa analisi potrà apparire astratta e insensata. Ma è possibile escludere dall’orizzonte del pensiero l’alba e il crepuscolo, la prima luce incerta nella quale le cose nascono, la semioscurità nella quale muoiono? Un punto fermo, in queste considerazioni, c’è. Una negazione vale per quel che nega. Ed è la nazione che ha legittimato in teoria, perché non poteva toglierlo di mezzo nella pratica, il dovere di uccidere. Negare, con la Federazione europea, la nazione, rompere la funesta identità di nazione come Stato e nazione come cultura, superare storicamente il riferimento pratico alla nazione come riferimento ultimo dell’azione umana nella sfera politica e sociale, significa pertanto negare il fondamento della legittimità del dovere di uccidere, e togliere di mezzo l’oscurità della cultura nazionale che ha impedito persino di riconoscere che non si possono attuare il liberalismo, la democrazia e il socialismo senza l’affermazione del diritto supremo di non uccidere.
Questa interpretazione del significato storico-culturale della Federazione europea, come del resto ogni altro faticoso tentativo di capire il senso della storia contemporanea che non si riduca ad uno sguardo sul presente con gli occhi del passato, potrà sembrare non solo astratta o insensata, ma anche troppo ambiziosa, troppo arbitraria.
Ma la storia degli uomini, nel suo farsi che non è il suo semplice ripetersi, è ambiziosa a giusta ragione perché il distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme. D’altra parte, c’è qualcosa di non arbitrario in questa interpretazione, e precisamente il fatto che non si tratta di una escogitazione solitaria, ma del significato che sono andate assumendo le motivazioni della lotta dei federalisti.
Da ormai trent’anni, questa lotta tiene isolati i federalisti dal grosso delle forze. Per questo, i federalisti vedono l’unità europea in un modo radicalmente diverso da tutti gli altri. Allo stato dei fatti, quanto ho detto sinora ha perciò senso solo nel quadro dell’esperienza della lotta federalista, e potrà avere un senso per tutti solo con l’avvento della Federazione europea, e solo se la Federazione europea, nella sua duplice natura di fatto pratico e di fatto teorico, presenterà effettivamente gli aspetti pratici e gli aspetti culturali che oggi, come motivazioni e come previsioni, sostengono la lotta dei federalisti. Ma alcune cose hanno già senso per tutti, anche se si tratta di problemi non sciolti per l’ostinazione nel pensare il nuovo con le idee vecchie.
In primo luogo, c’è il fatto nudo, elementare, dell’unità europea, come aspirazione e come processo storico reale. Milioni di persone, e fra esse grandi statisti, uomini di cultura, uomini politici, pensano che l’unità europea sia necessaria. Ma quando ci si rende conto che l’unità europea è necessaria, e anche quando ci si rende conto che l’unità può essere assicurata solo da una federazione, è una illusione credere, come di fatto avviene, di essere giunti ad una conclusione. In questo modo si è trovato solo il punto di partenza di una esperienza nuova che rende problematico tutto ciò che si presenta come certo, che rimette in questione globalmente, con lo Stato nazionale (cioè con l’italianità per gli italiani, e lo stesso per gli altri) il passato e il presente. La prova di ciò sta nel fatto che chi si sottrae a questa esperienza predica bene e razzola male.
In secondo luogo, c’è la crisi delle ideologie, e a causa di questa crisi la perdita dell’identità storica. Ci sono i fatti del passato e del presente non spiegabili nel quadro del pensiero politico e sociale dominante. I federalisti cominciano a scorgere un nuovo filo conduttore nella storia d’Europa, che nonostante le cosiddette revisioni europee continua ad essere, per gli altri, la storia d’Italia, di Francia e così via. Questo filo conduttore sarà giusto o sbagliato. Ma è vero che il sistema europeo degli Stati è morto, che esso è stato soppiantato dal sistema mondiale degli Stati. Ed è vero che bisogna ancora sciogliere i nodi creati dalla rivoluzione francese e non sciolti dalla rivoluzione sovietica. Chi ha creduto nella libertà individuale, nel governo del popolo, nella proprietà sociale dei mezzi di produzione, ha dovuto fare i conti, nel quadro stesso del riconoscimento della libertà individuale, del governo del popolo, della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, con l’incapacità degli uomini di essere liberi, di esercitare l’autogoverno, di controllare socialmente la produzione. E non basta dire che nessun valore è acquisito per sempre. Si tratta, ogni volta, di riconoscere le condizioni storiche della lotta per i valori.
A questo proposito, si impone una constatazione. Il liberalismo, la democrazia, il socialismo, che concettualmente si pongono al di là della ragion di Stato, di fatto si trovano ancora a combattere, perdendo più spesso che vincendo, contro la ragion di Stato dentro l’area stessa della ragion di Stato, che governa ancora il mondo.
Perché, allora, non riprendere in esame il pensiero di coloro che hanno previsto questo sviluppo o l’hanno criticato a mano a mano che si svolgeva? Non è in questione solo la storia del federalismo militante, è in questione anche la storia di tutti, è in questione il nucleo federalistico presente nelle ideologie che hanno costituito, di volta in volta, il pensiero e l’azione dominanti. La ragione permette di affermare, come ho detto, che il pensiero liberale, il pensiero democratico e il pensiero socialista non potevano essere formulati in altro modo che come soluzioni valide per tutti gli uomini e non solo per i cittadini del proprio paese.
Questa sostanza internazionale a tendenza federalistica, in seno alle ideologie stesse che hanno animato il processo storico del secolo scorso, è molto più consistente di quanto non si creda abitualmente. È vero, ed è un fatto indicativo, che Lenin nel 1915 ha dovuto prendere posizione sulla «parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa». Questa parola d’ordine era ancora così forte da costituire un ostacolo per l’affermazione della sua linea politica, e Lenin, in ciò che scrisse a tale proposito, non ha voluto, né in fondo poteva, smentire il significato positivo degli Stati Uniti d’Europa, ma si è limitato ad affermare la necessità della premessa della rivoluzione socialista in Europa. E bisogna anche tener presente che allora egli la riteneva prossima, il che equivale a dire che egli manteneva l’obiettivo della costruzione degli Stati Uniti d’Europa nell’orizzonte di un futuro vicino e delineabile.
I federalisti hanno almeno il merito di aver valutato questi fatti, di aver riletto gli autori che li hanno previsti o li hanno criticati, di aver tenuto conto, nel loro tentativo di capire la situazione storica nella quale tutti ci troviamo ad agire, di ciò che deve essere attribuito alla ragion di Stato e di ciò che può essere attribuito al germe federalistico presente nelle grandi ideologie. Ciò ha permesso loro, come ho detto, di mettere in evidenza la contemporaneità dell’affermazione pratica dello Stato nazionale e dell’affermazione ideale degli Stati Uniti d’Europa. Ciò ha permesso loro di tentare di spiegarla, e di intravedere così la natura dell’esile filo europeo che va dalla componente cosmopolitica della rivoluzione francese sino al processo di integrazione europea in corso.
Nel quadro, appena delineato, del significato che la Federazione europea ha ormai assunto per i federalisti, vorrei riprendere in considerazione l’elemento più roccioso di questa storia, per ricollegarlo alle due guerre mondiali e alla situazione attuale. Ho detto che la nuova formula dello Stato nazionale era incompatibile con il vecchio sistema europeo di Stati assoluti ma limitati.
Questo limite era molto netto nella politica internazionale, perché l’aristocrazia era una società europea con una solidarietà europea al di sopra degli Stati. Fino alla rivoluzione francese l’identificazione ultima e fondamentale della personalità politica non si manifestava come un legame né con lo Stato né con la nazionalità, ma con la cristianità, o secondo la versione laica, con la Repubblica europea degli uomini di lettere. Metternich stesso pensava in questo modo e credeva veramente a un ordine — e perfino a un ordine giuridico, il diritto europeo — al di sopra degli Stati.
Questo limite, d’altra parte, era molto forte anche nei condizionamenti interni della politica internazionale, sia perché la cultura popolare (la nazionalità) non rappresentava ancora un elemento vitale per lo Stato, sia perché l’amalgama degli interessi economici di tutti e delle motivazioni della politica degli Stati, che si è sviluppato con la rivoluzione industriale e la piena realizzazione dello Stato burocratico moderno, non si era ancora formato.
La fusione dello Stato e della nazione ha soppresso questi limiti, che lasciavano fuori dalla sfera d’azione dello Stato, in una sorta di contesto supernazionale, molti valori ideali e materiali. I rapporti fra gli Stati sono quindi diventati molto difficili. L’Europa ha conosciuto l’esperienza di una divisione quale non aveva mai conosciuto nel passato. Questo aspetto dell’ultima fase della vita del sistema europeo degli Stati nazionali dovrebbe, a mio parere, essere maggiormente presente nel nostro spirito e dovrebbe essere studiato più a fondo. In ogni caso, un fatto è certo: l’affermarsi del principio nazionale in Italia e in Germania, corrispondente al definitivo superamento della politica internazionale dei sovrani illuminati, è sfociato nella prima guerra mondiale e spiega il carattere nuovo, generalizzato e totale, di questa guerra. D’altra parte, l’universalizzazione del principio nazionale in Europa, che è stata generata dalla prima guerra mondiale, ha, a sua volta, portato alla seconda guerra mondiale, cioè alla fine dell’Europa, che può ormai ritrovare un ruolo attivo nella storia solo se saprà finalmente risolvere, con la sua riunificazione, il problema internazionale posto dalla creazione dello Stato nazionale.
La potenza, cioè il potere effettivo di decisione a livello internazionale, è emigrata dall’Europa verso l’America del Nord, verso il territorio che comprendeva l’Impero degli Zar e che è stato consolidato dall’Unione Sovietica, e verso la Cina. Non si tratta però di un avvenimento che potremmo fin da ora iscrivere nell’idea dei cicli storici come esaurimento di vecchie forze storico-sociali e affermazione di forze nuove. Si tratta, al contrario — e la partita non è ancora chiusa poiché l’Europa può ancora essere unificata — dell’esaurimento storico di una formula politica, la formula dello Stato nazionale, e dell’affermazione irresistibile di nuove forme statuali, più vaste e più complesse, su una base implicitamente o esplicitamente multinazionale (la Cina è una civiltà, come l’Europa, non una nazione, gli Stati Uniti d’America sono, come si è detto, una specie di federazione europea riuscita e l’Unione Sovietica uno Stato multinazionale) con una struttura federale o praticamente imperiale dietro il velo dell’ideologia.
Questa situazione si può accettare o rifiutare. I federalisti militanti hanno iniziato la loro esperienza perché si sono trovati di fronte a questa situazione e l’hanno rifiutata. Il loro pensiero era liberale, democratico, socialista o cristiano-sociale. Ma una cosa appariva loro chiara: l’Europa è divisa dagli Stati nazionali e la divisione, per l’Europa, significa ormai la morte storica. Può darsi che tutto ciò che hanno pensato, e che ho cercato qui di riassumere con l’inevitabile limite personale di chi parla anche a nome di altri, sia completamente sbagliato. Ma ciò che non è certamente sbagliato è che la divisione è funesta per gli europei. Ma ciò che non è sbagliato è che, di fronte ai mali della divisione, l’unico punto di riferimento certo è il dovere di battersi per l’unità. E il dovere basta a sé stesso, anche quando tutto è incerto e difficile.
I federalisti possono ridiscutere tutto. Non possono però ridiscutere quanto ha scritto, in modo lapidario, il più saggio italiano del nostro secolo: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli Stati italiani della fine del Quattrocento costarono agli italiani la perdita della indipendenza lungo tre secoli; ed il tempo della decisione, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’Unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente ad impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nord-americana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare ad una assurda indipendenza militare ed economica».
Si tratta di una nota scritta da Luigi Einaudi il 1° marzo 1954, nel momento in cui esercitava l’ufficio di Presidente della Repubblica italiana, fatto che non gli impediva di giudicarla per quel che è realmente.
Tutte le realtà storiche sono nel tempo e hanno un tempo. Einaudi, mettendo in relazione l’Europa col tempo, ha messo in relazione l’Europa con l’azione umana, ha dato un volto all’Europa che sta davanti a noi. Non basta battersi per l’unità europea, bisogna non perdere tempo, non perdere l’occasione storica. Discutendo, cinquant’anni dopo, la Marcia su Roma, Amendola ha usato proprio questa espressione: «il valore politico del tempo che passa». Nel primo dopoguerra i partiti attraverso i quali si esprimono le grandi ideologie avevano perso, con il senso storico, il senso del valore politico del tempo, e il fascismo vinse. Il modo con cui hanno condotto la politica europea nel secondo dopoguerra mostra che non lo hanno ancora riacquistato.
È questo l’elemento irriducibile che divide i federalisti dai partiti. I federalisti erano, e restano, una piccola avanguardia separata dal grosso delle forze perché non vogliono perdere tempo. I federalisti hanno cercato, e cercano, con la loro organizzazione, e la loro politica, di offrire un esempio vivente di unità europea avanti lettera perché si vive nel tempo, e solo la vita può sconfiggere la morte. Battendosi contro tutto ciò che divide l’Europa, l’idea di ciò che l’Europa potrà essere ha preso nel loro pensiero una certa figura. Questa figura presenta tutte le incertezze di una previsione. Ma la realtà contro la quale i federalisti si battono non è incerta. I federalisti sono stati, sono, e saranno sempre, i nemici dello Stato nazionale, della divisione nazionale delle forze politiche e sociali.


* In Mario Albertini, Andrea Chiti-Batelli, Giuseppe Petrilli, Storia del federalismo europeo, Torino, ERI, 1973.
[1] V. in proposito Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, 1993 (1a edizione, Milano, 1963).
[2] Storicamente una «federazione» è una associazione di Stati dotata di potere proprio (l’insieme), associazione che, a causa di questo potere che la distingue dalla confederazione, è stata chiamata anche «Stato federale».

 

 

 

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