IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVIII, 2006, Numero 3, Pagina 179

 

 

L’attuabilità degli Stati Uniti d’Europa
in una Unione europea allargata
 
RALPH ALEXANDER LORZ
 
 
I. La crisi dell’Europa come progetto politico.
 
Nell’antica Roma, un detto comune sottolineava la breve distanza che separava il Campidoglio — dal quale Roma era governata — dalla rupe Tarpea — da cui i traditori erano fatti precipitare; in realtà, la rupe costituisce la parte occidentale del colle del Campidoglio e quindi con pochi passi si passava dal potere alla morte. Sembra che i romani già conoscessero quanto poi è diventato un’osservazione comune: la stretta vicinanza tra successo e fallimento. E questa osservazione è vera anche nel caso dell’Unione europea. Essa rappresenta un esempio di successo senza precedenti nella storia: Stati che hanno combattuto tra loro acerrime guerre hanno unito le proprie forze per creare una comunità di pace e di prosperità. La guerra tra di loro è divenuta inconcepibile e il Mercato comune ha assicurato una continua crescita del loro standard di vita. Non dovrebbe sorprendere il fatto che questo successo abbia fortemente attratto fin dall’inizio i suoi vicini: la costante crescita delle Comunità europee prima e dell’Unione poi hanno quindi rappresentato un naturale sviluppo. L’unificazione europea che questo processo comporta ha quasi raggiunto il suo completamento quando i dieci nuovi Stati membri, tutti sfuggiti al blocco comunista, sono entrati nell’Unione nel 2004. E tuttora la forza di attrazione esercitata da questa Unione nei confronti degli Stati esterni non sembra esaurita, come dimostrano le numerose richieste di adesione ancora pendenti — di cui quella della Turchia rappresenta solo l’esempio più in vista.
Eppure, mentre l’Unione europea mantiene la propria capacità di attrazione per gli esterni, ciò non è più vero per quanto riguarda il rapporto con i propri cittadini. Come hanno chiaramente dimostrato i referendum costituzionali in Francia e in Olanda, il sostegno interno nei suoi confronti minaccia di svanire. Di questo fenomeno sono state date molte spiegazioni. Tuttavia, come ha osservato il Primo Ministro belga Guy Verhofstadt, tutte possono essere ricondotte all’esistenza di una insicurezza di fondo caratterizzata da sentimenti di paura e di dubbio, che sono ampiamente diffusi tra i popoli di molti dei «vecchi» Stati membri.[1] In Germania, per esempio, «l’idraulico polacco» è arrivato a rappresentare il simbolo del timore che la manodopera proveniente dagli Stati appena entrati possa sottrarre posti di lavoro. L’attuale situazione dei nostri sistemi di sicurezza sociale, contrariamente al loro nome, tende ad alimentare questa insicurezza, sebbene ciò non sia certo colpa dell’Europa. Lo stesso si può dire per il crimine organizzato, dato che la gente è convinta che l’apertura dei confini di cui noi tutti beneficiamo facilita anche le attività transfrontaliere dei criminali. Ed infine non bisogna sottovalutare il fatto che almeno una grossa parte dei popoli europei teme di perdere ciò che considera la propria «identità».[2]
Così, come in molte altre situazioni storiche, spesso il massimo del successo contiene i semi del fallimento, come dice l’equivalente tedesco del proverbio romano sopra citato. Nel nostro caso, è appunto l’impressionante allargamento dell’Unione europea, spinto dal suo successo senza precedenti, che ora mette in pericolo il suo ideale iniziale, cioè la creazione di una entità politica unificata. Il possibile accesso della Turchia segna il punto culminante di questo sviluppo: se la Turchia venisse accettata — e nel lungo termine questa sembra l’ipotesi più probabile — neppure gli Stati dell’ex-Jugoslavia e nemmeno l’Ucraina potrebbero essere tenuti fuori. Così, è probabilmente realistico prevedere che di qui a dieci anni gli Stati membri dell’Unione europea coincideranno sostanzialmente con quelli del Consiglio d’Europa. Ciò non è un male in sé, tutt’altro: la creazione di una zona di libero scambio e infine di un Mercato comune che va dall’Anatolia alla Groenlandia potrebbe dare una notevole spinta alle economie europee in generale e di conseguenza consentire all’Europa di mantenere il suo posto nella competizione economica globale, tenuto conto in particolare delle dimensioni degli altri grandi protagonisti di tale mercato, quali gli Stati Uniti, la Cina e l’India.[3]
Ma come unità politica, questa Unione europea non funzionerà. Una unità politica in questo contesto deve essere capace di agire in modo collettivo perseguendo un interesse comune, anche quando, in singoli casi, esso contrasta con gli interessi nazionali di determinati membri. Tale capacità presuppone che i membri concordino su di un interesse comune e vogliano assoggettarsi alla formazione di una volontà generale. Sembra ovvio che ciò sia fonte di tensioni e che quanto più numerosi sono i membri coinvolti, tanto più difficile sia fronteggiare queste tensioni. Con 35 o 40 membri in un futuro non lontano, è difficile immaginare come questo problema possa essere affrontato in modo convincente. Per quanto riguarda l’idea dell’unificazione politica, l’Unione diventerà quindi preda di quello che è stato chiamato uno «strategic overstretch».[4]
Questa analisi sottolinea il punto di partenza di qualsiasi tentativo di far ripartire il progetto europeo, per tornare all’idea originaria di un’entità politicamente unificata all’interno del continente europeo. Dato che l’Unione europea nelle sue attuali dimensioni non sarà capace di svilupparsi in tale entità politica unificata, sono necessari nuovi modelli di integrazione al fine di perseguire questo obiettivo. E, indipendentemente dal problema se sia davvero necessario un nuovo Stato per raggiungerlo — problema che solleva reazioni tanto numerose e forti, benché razionalmente infondate, e che perciò sarà qui tralasciato —, sembra molto chiaro che tutti questi modelli debbano infine produrre qualche tipo di struttura federata, indipendentemente dalla forma organizzativa che presenterà. Creare questa struttura risponderà a due obiettivi: primo, renderà l’Europa capace di azione politica comune, come sopra indicato; secondo, di conseguenza, i cittadini europei perderanno, almeno si spera, i loro sensi di paura e di dubbio se vedranno che l’Europa può davvero dare risposte a quelle che essi considerano come minacce, in particolare la perdita di posti di lavoro, la riduzione della sicurezza sociale e il crimine organizzato. Naturalmente, la creazione di questa Europa richiede che i cittadini siano preventivamente convinti a sostenere questo progetto, il che è già una sfida in sé stessa, e mette in luce il problema del loro coinvolgimento in qualsiasi processo di costruzione politica. Infine sembra inevitabile concludere che questa Europa unita — gli «Stati Uniti d’Europa», come saranno definiti qui in mancanza di un termine più adatto — includerà certamente un numero di Stati minore di quello degli attuali membri dell’Unione, il che solleva la questione del suo rapporto con quanti rimarranno fuori.
 
II. Le sfide per la creazione degli Stati Uniti d’Europa.
 
Quali sono le aree politiche nelle quali una «federalizzazione» di questo tipo è particolarmente necessaria? Un rapido sguardo alla struttura dell’Unione europea rivela immediatamente che la mancanza di coesione politica è maggiormente evidente nel secondo e nel terzo pilastro, cioè nella Politica estera e di sicurezza comune e nell’area comune di libertà, sicurezza e giustizia, mentre, nel primo pilastro, cioè nella Comunità europea, le carenze sono meno evidenti. Il cosiddetto «metodo comunitario», che dà corpo allo specifico concetto europeo di sovranazionalità, già contiene un gran numero di elementi federali.[5] La Comunità gode di ampie competenze riguardo alla realizzazione del Mercato comune e competenze quasi esclusive nel settore agricolo e in quello della politica commerciale comune.[6] La maggior parte delle decisioni in quest’area possono essere prese a maggioranza qualificata, che preclude l’esistenza di un reale potere di veto da parte di un qualsiasi Stato membro e la Comunità è generalmente in grado di promulgare leggi che si applicano direttamente agli Stati membri e non richiedono quindi ulteriori adempimenti. Tutte queste caratteristiche non sono poi tanto lontane da quelle di uno Stato federale e la storia dei successi della Comunità proprio in questi campi prova ampiamente che finora i suoi meccanismi hanno funzionato.
Tuttavia perfino nel primo pilastro rimangono parecchi problemi. Quello centrale consiste probabilmente nella discrepanza tra l’unificazione monetaria da una parte e la divergenza delle politiche economiche e sociali dall’altra — un problema che riemergerà in qualsiasi tentativo di creare gli «Stati Uniti d’Europa», a meno che questa nuova entità non coincida esattamente con l’eurozona, aspetto che riprenderemo in considerazione alla fine di questa analisi.[7] Per il momento, basti notare che l’introduzione di una moneta europea comune — certamente l’elemento più tangibile e di larga portata dell’integrazione europea dopo i Trattati di Roma — non è stata accompagnata dalla creazione di una corrispondente politica economica e sociale a livello della Comunità. La politica economica della Comunità, se si tralascia il cosiddetto Patto di stabilità, data la sua specifica rilevanza per la sola Unione monetaria, si limita ad alcune direttive e al metodo legalmente non costrittivo della «coordinazione aperta».[8] E lo stesso è sostanzialmente vero per la politica sociale europea, che in larga misura si limita a definire il livello minimo delle condizioni di lavoro e a imporre criteri di sicurezza sul lavoro.[9]
Questa discrepanza ha incontrato fortissime critiche fin dall’inizio e soprattutto molti economisti hanno considerato l’euro condannato in partenza, perché un’unione monetaria priva di una solida politica economica e sociale alla sua base sembra destinata al fallimento.[10] Fortunatamente, finora la storia dell’euro ha sfidato queste cupe previsioni, ma ciò non deve spingerci a scartarle con troppa facilità: perché se le situazioni economiche e sociali degli Stati membri che ne fanno parte diventassero troppo diverse, la Banca centrale europea non sarebbe più in grado di individuare una politica monetaria che corrisponda ai bisogni di tutti. Qualche avvisaglia di questo dilemma esiste già: mentre la maggiore delle economie europee, quella tedesca, ha languito per anni ed avrà bisogno almeno ancora per un po’ di tempo di bassi tassi di interesse, la Banca centrale deve anche tener conto del fatto che alcune delle economie degli Stati membri più piccoli sono già «surriscaldate» ed hanno bisogno di essere frenate.
Il problema qui descritto è esacerbato dal fatto che il campo della politica economica e sociale è proprio quello in cui l’attuale performance dell’Europa in generale non è affatto soddisfacente.[11] Di certo, la creazione di una politica europea unificata in questo settore da sola non garantisce che tale performance migliori; anzi, se si realizzasse una cattiva politica comune, dalla quale gli Stati membri non potessero più deviare, l’insieme degli «Stati Uniti d’Europa» sarebbe in grave pericolo. Tuttavia, una volta che la decisione fondamentale in favore di una unione monetaria è stata presa, è semplicemente ragionevole affiancarle anche una politica economica e sociale coerente. Questo non deve equivalere ad armonizzare o a tentare di fondere sistemi di sicurezza sociale nazionali tra loro incompatibili, ma gli «Stati Uniti d’Europa» avranno bisogno almeno di una strategia economica comune che assicuri una certa convergenza dello sviluppo economico dei suoi Stati membri. Ed è importante notare in questo contesto che l’Unione europea così com’è oggi semplicemente è priva delle competenze necessarie a questo scopo.[12] Per completare il Mercato comune e per porre rimedio alle carenze che ancora sono presenti potrebbero essere necessarie ulteriori misure; ma, come dimostra l’infinito e vano tentativo di sviluppare uno schema comune per imporre tasse sul valore aggiunto, questo trasferimento di poteri si ferma molto prima di quanto sarebbe necessario per una convergenza delle politiche economiche nazionali.
Negli altri pilastri dell’Unione il risultato è ancora più ovvio, perché — in aggiunta ai fattori appena messi in evidenza — qui mancano completamente le caratteristiche tipiche della sovranazionalità, che sono almeno presenti nella Comunità europea. Cioè gli strumenti legali utilizzati in questi due pilastri normalmente non godono della diretta applicabilità all’interno degli Stati membri e, per di più, le decisioni corrispondenti sono tutte soggette al requisito dell’unanimità, cosa che in un’Unione a 25 o più membri rende l’azione comune quasi impossibile o almeno la riduce al minimo comun denominatore. Certo, il Trattato di Amsterdam ha introdotto qualche progresso a questo proposito perché ha trasferito all’ambito della Comunità europea considerevoli aree di regolamentazione che erano appartenute alla vecchia «Cooperazione nel campo della giustizia e della politica interna». Inoltre, la decisione quadro sul mandato d’arresto europeo e sulla sua applicazione all’interno degli Stati, sebbene il primo tentativo della sua applicazione in Germania sia stato un fallimento,[13] dimostra che la «Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia criminale», come ora viene chiamato il terzo pilastro, sta effettivamente migliorando. Ma resta ancora una lunga via da percorrere prima che la prevista «area di libertà, sicurezza e giustizia» possa essere realizzata e, soprattutto, sembra impossibile, senza il trasferimento di ulteriori competenze a livello europeo, creare per esempio un effettivo servizio investigativo o un coordinamento della pubblica accusa o una comune regolamentazione dell’immigrazione.
Lo stesso vale per la Politica estera e di sicurezza comune. Le guerre dei Balcani hanno dimostrato quanto impotente possa essere l’Unione europea; la guerra in Iraq è stata un clamoroso esempio del fatto che l’Europa semplicemente non è ascoltata se non parla con una sola voce. Se si intende cambiare questo stato di cose, un’Europa unita avrà bisogno di un proprio Ministro degli Esteri — e deve trattarsi di qualcuno che abbia il potere di fare qualcosa, non solo di definire una situazione o di fare raccomandazioni; essa deve sforzarsi di ottenere un servizio diplomatico comune e infine una struttura di difesa comune, cioè un esercito europeo o almeno qualcosa di simile alla Comunità europea di difesa che fallì nel 1954. Parecchi passi utili sono stati fatti in questo senso, specialmente l’introduzione di una Politica europea di sicurezza e difesa, compresa la costituzione di una «forza di reazione rapida». Ma, all’interno dell’attuale struttura della Politica estera e di sicurezza comune, ed in particolare a proposito della necessità dell’unanimità tra gli Stati membri, è difficile immaginare come questo processo possa essere completato.
Per concludere, una reale unificazione politica dell’Europa si trova di fronte ad una quantità di sfide fondamentali e per affrontarle — purché, naturalmente, si accetti l’idea che tale unificazione sia un obiettivo desiderabile — sarà necessario un considerevole numero di aggiustamenti istituzionali e legali. A proposito di questi aggiustamenti, due lezioni devono essere tenute presenti. Primo, come abbiamo già notato, non sarà possibile realizzare questi aggiustamenti simultaneamente con 25, 30 o 35 Stati membri. Qualunque sia la struttura che gli «Stati Uniti d’Europa» assumeranno, essa potrà essere realizzata solo con un numero più ristretto di Stati. Secondo, il Trattato costituzionale che è stato appena bocciato in Francia e in Olanda non contribuirebbe realmente a risolvere i problemi ricordati sopra, perché non produrrebbe alcun cambiamento sostanziale nelle corrispondenti competenze dell’Unione.[14] Perciò, la proposta apparentemente semplice che gli Stati membri che vogliono andare avanti con l’integrazione europea accettino questo Trattato come vincolante per loro non rappresenta un’opzione per il perseguimento di una reale unificazione politica.
 
III. Le «cooperazioni rafforzate» nei Trattati esistenti.
 
C’è però un’opzione per un’ulteriore integrazione che è già contenuta nei Trattati esistenti: il meccanismo della «cooperazione rafforzata», introdotto dal Trattato di Amsterdam e leggermente modificato a Nizza.[15] L’idea generale che sta dietro a questi meccanismi non è nuova: considerazioni a questo proposito sono state fatte almeno da tre decenni, sotto lo stimolo dell’ingresso di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca nella Comunità.[16] Inoltre la situazione, negli anni ‘70, era in qualche modo simile: allora il voto a maggioranza non era affatto accettato come un modo normale di prendere decisioni e l’esigenza del voto all’unanimità di fatto esistente si rivelò già un problema con nove Stati membri. È una delle maggiori e più stupefacenti realizzazioni del successivo sviluppo dell’integrazione europea il fatto che addirittura con un cerchio ancora più ampio di membri questo ostacolo sia stato superato in campi di vitale importanza come l’Unione economica e monetaria prevista dal primo pilastro dell’Unione. Ma a dispetto di questa impressionante esperienza, la speranza di un simile balzo in avanti con 25 o più Stati membri per raggiungere una politica economica e sociale coerente, una reale politica estera e di difesa comune e l’istituzione di servizi comuni di polizia e giudiziari, è probabilmente destinata a subire una delusione.
Davanti a questo panorama, sembra inevitabile trarre la modesta conclusione che, sebbene un problema analogo abbia accompagnato il processo di integrazione praticamente dal suo inizio, non solo è stato necessario un tempo estremamente lungo per introdurre formalmente il meccanismo della «cooperazione rafforzata», ma — fatto forse ancora più caratteristico a questo proposito — tale meccanismo semplicemente non viene utilizzato, almeno per creare trasferimenti di potere formali come previsto dall’Art. 43 del Trattato sull’Unione europea. Finora la cooperazione rafforzata ha avuto luogo solo su base informale e limitatamente alla realizzazione di alcune idee specificamente accettate dagli altri Stati membri. Vi sono diverse ragioni per cui la formale attivazione della cooperazione rafforzata incontra tanta riluttanza all’interno dell’Unione: la procedura è complicata; le condizioni concrete elencate nell’Art. 43 del Trattato sono troppo numerose e al tempo stesso troppo vaghe; il fatto che la cooperazione rafforzata sia dichiarata espressamente solo come un mezzo «di ultima istanza» (Art. 43a) ha un effetto deterrente; il fatto che essa sia aperta a tutti gli Stati membri, richiesto dall’Art. 43, non è realistico; i limiti procedurali, i quali prevedono che vi devono partecipare almeno otto Stati membri e che una maggioranza qualificata debba approvare il tutto, sono troppo elevati, eccetera.[17]
Ma la ragione più importante del fatto che questo strumento non è utilizzato sta nella mancanza di volontà politica, sostenuta dal timore generalizzato che l’Europa vada in frantumi. In tale contesto viene sottolineato che l’Unione europea è stata fondata sul consenso e ne ha ancora bisogno e che la cooperazione rafforzata potrebbe essere la prima crepa nel complesso di questa costruzione. Un altro elemento di critica è che potrebbe essere utilizzata per ricattare paesi che altrimenti userebbero il loro diritto di veto per bloccare politiche comuni. Ma se si accetta l’ipotesi che queste politiche comuni siano necessarie e che sarebbe illusorio aspettare che tutti gli Stati membri concordino su di esse, tale pericolo non può essere evitato. Allora è probabilmente meglio definire queste politiche entro un quadro istituzionale separato e trasparente piuttosto che utilizzare meccanismi che manifestamente non funzionano. Tuttavia, di nuovo, il Trattato costituzionale non sarà in grado di svolgere tale compito. Alleggerirebbe un po’ le condizioni richieste per le cooperazioni rafforzate, specialmente nel campo della politica estera e della sicurezza, ma non realizzerebbe un’importante revisione dei meccanismi corrispondenti.[18] Perciò l’affermazione precedente che il raccomandarne semplicemente l’entrata in vigore tra gli Stati che lo vogliono non sia un’opzione essenziale rimane vera. Quindi un nuovo accordo istituzionale tra gli «Stati Uniti d’Europa» richiederà un nuovo strumento legale.[19]
Prima di parlarne in dettaglio, tuttavia, è importante osservare che la scelta di stabilire una più stretta cooperazione tra un gruppo limitato di Stati al di là delle procedure definite dal Trattato non è stata affatto rara durante lo sviluppo dell’integrazione europea. Al contrario, alcuni dei passi più importanti sono stati intrapresi solo da una frazione degli Stati membri. Ciò è generalmente avvenuto in due diverse forme: o gli Stati membri desiderosi di cooperare hanno semplicemente concluso un trattato di diritto internazionale pubblico separato, oppure sono state inserite negli stessi Trattati europei delle clausole di «opt-out». Gli esempi principali sono il regime di Schengen, l’Unione monetaria, e la Politica europea di sicurezza e di difesa già ricordata; ma si potrebbe anche ricordare il rifiuto della Gran Bretagna di partecipare alla Politica sociale comune. Nessuna di queste eccezioni nelle quali è stata accettata la cooperazione rafforzata ha di fatto messo in pericolo l’esistenza dell’Unione come un tutto; anzi, Schengen, l’euro e perfino la Politica europea di sicurezza e di difesa sono diventati così attraenti che altri Stati membri al di fuori del cerchio originale hanno ben presto raggiunto il gruppo. Tuttavia ciò non è probabilmente raccomandabile come prassi ordinaria, perché accentua la mancanza di trasparenza di cui soffrono generalmente le strutture europee. Di nuovo, la soluzione migliore sarebbe quella di creare un quadro istituzionale separato e trasparente che possa soddisfare il desiderio di un selezionato numero di Stati membri di cooperare più strettamente e contemporaneamente di stabilire chiaramente i rapporti con gli altri — e questo è ciò a cui dovrebbe mirare il progetto degli «Stati Uniti d’Europa». Ma la promettente lezione che si deve trarre da Schengen, dalla Politica europea di sicurezza e di difesa e dall’euro consiste nella dimostrazione che la creazione di più stretti legami istituzionali tra un gruppo selezionato di Stati membri non mette necessariamente in pericolo la coesione dell’Unione nel suo insieme.
 
IV. I concetti teorici dell’integrazione approfondita.
 
Con questa lezione in mente, possiamo ora rivolgerci alla questione di come questi legami istituzionali possano essere costruiti e quindi di come gli «Stati Uniti d’Europa» possano essere organizzati. Vi sono due livelli di approccio a tale questione: primo, vi è il problema più teorico del modello generale da scegliere, e, secondo, bisogna affrontare la difficoltà pratica di come questa nuova entità possa adattarsi entro le strutture già esistenti. Entrambi gli aspetti vanno affrontati separatamente.
L’idea di una integrazione differenziata risale alla metà degli anni ‘70, quando l’ex-Cancelliere tedesco Willy Brandt prima ed il Primo Ministro belga Leo Tindemans poi avanzarono le prime proposte di tale differenziazione.[20] Da allora, è stato avanzato un impressionante numero di diversi suggerimenti.[21] Senza pretendere di essere esaurienti, qui ne considereremo brevemente sette.
Innanzitutto vi è il concetto di «Europe à la carte», originariamente legato al nome di Ralf Dahrendorf che lo presentò nel 1979. Egli lo ha definito come «un insieme di politiche comuni laddove vi sono interessi comuni senza alcun obbligo per coloro che non possono, in un dato momento, prendervi parte».[22] Questo concetto prevede un obiettivo comune stabilito per tutti gli Stati membri, ma punta su di una moltitudine di accordi limitati tra gruppi variabili di Stati membri. La sua idea ultima è quella di creare un «mercato delle possibilità» nel quale ciascuno Stato membro può scegliere con cura, finché, secondo il principio del «trial and error», verranno trovati gli accordi migliori per ciascuno. Questo modello è probabilmente il più lontano dall’idea di un’Europa unita politicamente; ciononostante offre un’interessante lezione, perché mette in luce il pericolo che si nasconde in un’estensiva applicazione della strategia di Schengen, della Politica europea di sicurezza e di difesa e dell’euro: bisogna stare attenti con la creazione di meccanismi di cooperazione separati, al di fuori dei Trattati, perché, se se ne introducono troppi, il risultato pratico sarebbe una «Europe à la carte».[23]
Una versione in qualche modo ammorbidita di questo modello è «l’Europa a geometria variabile».[24] Questo concetto non consente a ciascuno degli Stati membri di scegliere con cura e liberamente, ma vuole già dividerli in gruppi. È tuttavia correlato all’idea «à la carte» nella misura in cui la composizione di tali gruppi può variare da settore a settore. Gli Stati membri che vanno avanti in certe aree di integrazione non devono necessariamente essere in prima linea anche in altre e l’appartenenza ai diversi gruppi può essere sovrapposta. Così, i risultati sarebbero la creazione di gruppi più o meno avanzati di Stati membri per ciascun settore di integrazione e la libertà per ciascuno Stato di scegliere a quale dei rispettivi gruppi aggregarsi — di nuovo, non si può presumere che ciò spinga verso l’idea di unità politica.
Un terzo modello potrebbe essere definito «integrazione stratificata». Questo concetto almeno è fedele al proposito di perseguire obiettivi comuni da parte di tutti gli Stati membri, presupponendo quindi un consenso fra di essi circa l’ulteriore sviluppo generale dell’integrazione. Esso autorizza un certo numero di Stati membri ad andare avanti e a creare uno «strato» separato di integrazione approfondita, preservando contemporaneamente la possibilità di «opt-in» da parte degli altri. L’Unione monetaria, definendo certi criteri come prerequisiti per la partecipazione, rappresenta il principale esempio già attuato di tale strategia.
Il quarto concetto — «l’Europa a più velocità» — è strettamente correlato a questo modello, ma più impegnativo. Non solo richiede a tutti gli Stati membri di condividere gli stessi obiettivi comuni, ma presuppone che tutti gli Stati continuino a perseguire tali obiettivi in tutte le aree politiche, sebbene, come indica il nome del concetto, con velocità diverse. Si riduce quindi essenzialmente all’assicurare eccezioni temporanee a determinati Stati membri: permette di «opt-out», ma solo per un periodo di tempo limitato e la sua idea è che alla fine tutti gli Stati membri si troveranno di nuovo insieme allo stesso livello di integrazione. Di certo, questo modello consente limiti di tempo indefiniti, ma non bisogna dare adito all’illusione che in un’Europa a 35 o 40 membri tutti raggiungano alla fine un’identica profondità di integrazione in tutte le aree politiche.
Il quinto modello — «Core Europe» — giunge più vicino all’obiettivo di creare un’entità unificata politicamente. Consiste essenzialmente in una partizione geografica dell’Europa: entro un quadro regionale limitato, mira alla creazione di nuovi campi di attrazione. Si suppone che un piccolo gruppo di Stati membri — non necessariamente i sei fondatori, sebbene il modello sia di solito identificato con essi — realizzi per conto proprio un’integrazione molto più approfondita, e che gli altri rimangano alla periferia. Tuttavia, sperando che il nucleo si dimostri attraente, questi ultimi possono essere inclusi se soddisfano le condizioni dell’integrazione approfondita.
L’idea della «Core Europe» è stata ulteriormente sviluppata dal sesto concetto, quello dell’Europa «a cerchi concentrici», sulla base del quale l’Europa è ancora suddivisa secondo linee geografiche, tuttavia la linea di ripartizione in questo caso si estende oltre i due elementi originari del «nucleo» e della «periferia». Vi sono invece parecchi gruppi o «cerchi» di Stati membri che circondano il nucleo, ed il grado di integrazione decresce in modo continuo da cerchio a cerchio man mano che ci si allontana dal nucleo. Questo concetto assomiglia all’idea di una «integrazione stratificata», ma utilizza una prospettiva leggermente diversa ponendo gli Stati membri che non appartengono al gruppo del nucleo in differenti orbite attorno ad esso.
Infine, settimo, vi è l’idea di uno Stato federale europeo. Da quando l’antico Impero di Carlo Magno si è sfaldato, più di mille anni fa, molti filosofi e utopisti hanno sognato la sua resurrezione e uno Stato federale sarebbe probabilmente l’equivalente moderno che maggiormente si avvicina a questa visione. Ma perfino i più ostinati «integrazionisti» europei dovranno ammettere che la prospettiva della possibile costituzione di uno Stato europeo resta piuttosto oscura. Il Trattato costituzionale in fondo non è fallito per il suo nome, che ha ricordato troppo da vicino a molti cittadini europei le strutture del loro Stato e suscitato il loro desiderio di non imitarle a livello europeo? Ma tornando alle sfide illustrate all’inizio, bisogna di nuovo sottolineare un punto importante: al fine di creare un’Europa capace di azione politica come entità unificata, non basta lo sviluppo di nuove strutture, è necessario soprattutto il sostegno dei cittadini a questo progetto. Perciò, se è corretta l’ipotesi che troppi di questi cittadini sono in qualche modo spaventati dai termini «costituzione» e «Stato» nel contesto dell’integrazione europea, sarebbe meglio evitare tali termini.
Ma è possibile far ciò senza rinunciare all’obiettivo finale di creare un’Europa realmente unificata dal punto di vista politico? Questo dipende da che cosa in realtà è necessario per ottenere questo obiettivo: è necessario qualche tipo di struttura federata per fronteggiare le sfide del futuro. Tale struttura non può essere istituita con la partecipazione di 25 o più Stati membri e di conseguenza è necessario un nucleo federato entro l’attuale Unione europea. Ma questo nucleo non deve prendere la forma di uno Stato. Potrebbe anche essere realizzato attraverso uno degli altri modelli, ad esclusione, naturalmente, dell’Europa «à la carte» o «a geometria variabile», per non parlare dell’Europa «a diverse velocità»; ma potrebbe esserlo, forse, utilizzando ad esempio «l’integrazione stratificata» o l’Europa «a centri concentrici». Se l’uso di questi termini può aiutare a raggiungere l’obiettivo fondamentale di fare un’Europa forte e capace di far fronte ai grandi compiti sopra indicati, non bisognerebbe rimanere attaccati alle parole. In fin dei conti i nomi non contano; essi non sono, come dice un proverbio tedesco, altro che suono e fumo. Per tale ragione, la questione cruciale da porre in questo contesto è la seguente: come può una «Core Europe» con strutture federali — gli «Stati Uniti d’Europa», come viene prefigurato qui — essere creata entro l’Unione europea esistente? Qualsiasi tentativo di rispondere a questa domanda deve tener conto delle seguenti questioni.
 
V. Problemi pratici nella creazione degli «Stati Uniti d’Europa».
 
1. La partecipazione dei cittadini.
 
La prima questione è direttamente connessa al problema di ottenere il sostegno dei cittadini. Essa riguarda la procedura con cui una simile nuova entità può essere fondata e specialmente il grado di partecipazione dei cittadini. In generale, vi sono due vie per gestire questo processo: il referendum o la ratifica.
La ratifica implica la conclusione di un trattato tra gli Stati membri che vogliono prendervi parte da ratificare attraverso i parlamenti nazionali. Questa è stata la scelta originaria per l’istituzione delle Comunità europee e per la fondazione dell’Unione; è il modo classico secondo il diritto pubblico internazionale per istituzionalizzare le cooperazioni tra Stati ed è certamente il metodo meno problematico rispetto a possibili opposizioni da parte dei cittadini. Avendo in mente le esperienze negative dei referendum sul Trattato costituzionale in Francia e in Olanda,[25] non sarebbe in realtà sorprendente che soprattutto gli «integrazionisti» europei rifuggissero da ulteriori referendum e chiedessero un ritorno alla procedura classica per l’adozione dei trattati.
Tuttavia, se bisogna fare un serio tentativo di ottenere il sostegno popolare per una invenzione di così grande portata come i nuovi «Stati Uniti d’Europa» — e, come sopra affermato, ottenere questo sostegno è probabilmente indispensabile per il successo dell’intero progetto —, la sfida del referendum non può essere evitata — e forse non sarebbe neppure il caso di esserne spaventati. Inoltre vi è una sola possibilità di rendere questo processo veramente europeo, e quindi di far nascere la coscienza pubblica necessaria a proposito dell’importanza del passo da compiere e di ridurre il rischio di un risultato determinato più da politiche nazionali di partito che dall’oggetto sul quale si vota: non dovrebbero esserci referendum separati in ciascuno dei possibili Stati membri, come nel caso del Trattato costituzionale, ma un solo referendum da tenersi nello stesso giorno in tutti gli Stati membri che prendono in considerazione la partecipazione. Alla fine i voti possono essere conteggiati separatamente per stabilire qual è la volontà del singolo popolo, poiché nessun popolo europeo può essere forzato a far parte degli «Stati Uniti d’Europa» contro il suo volere — ma è di fondamentale importanza che i voti siano espressi insieme.
 
2. Il rapporto fra la Federazione e l’Unione esistente.
 
Supponendo che il sostegno dei cittadini possa essere acquisito in un numero sufficiente di Stati per far partire questo progetto — riservandoci di affrontare tra un momento la questione dei partecipanti necessari e possibili —, il successivo stringente problema sarebbe quello di conciliare questa nuova entità con le strutture dell’Unione europea. Il fatto di porre la questione in questo modo comporta già naturalmente un assunto di base: che la continuazione dell’esistenza dell’Unione come tale sia qualcosa di desiderabile per tenere insieme il resto dell’Europa e per legarlo strettamente a quel qualcosa che apparirà come il suo nuovo nucleo — in altre parole occorre evitare qualsiasi soluzione che causi la disgregazione dell’Unione esistente. Però, se si accetta questa ipotesi, si elimina la possibilità che gli Stati del nucleo abbandonino semplicemente l’Unione e creino qualcosa di totalmente nuovo. Perciò, gli «Stati Uniti d’Europa» e l’Unione europea devono essere considerati in futuro come due entità distinte, ma interconnesse.
Una seconda considerazione, anche se non del tutto implicita nella prima, sembra allora inevitabile. Riguarda «l’acquis communautaire» dell’Unione, cioè l’intero insieme di principi e di regole, regolamenti e direttive, legislazione primaria e secondaria sviluppatosi finora al suo interno. Se i nuovi «Stati Uniti d’Europa» tentassero di modificarlo per conto proprio o di stabilire quadri giuridici diversi in aree che sono già comprese nelle politiche della Comunità o dell’Unione — ad esempio se gli Stati del nucleo volessero stabilire un diverso regime di concorrenza o modificare le regole sull’aiuto statale alle imprese —, allora sarebbe difficile immaginare come ciò possa essere amichevolmente negoziato con i restanti Stati membri dell’Unione. Ma simili deviazioni potrebbero non essere realmente necessarie, poiché il punto critico principale a proposito dello stato attuale dell’Unione, come si è detto all’inizio, non è che l’Unione segue cattive politiche; il problema centrale deriva piuttosto dal fatto che in troppe aree l’Unione non è sufficientemente capace di condurre una propria politica coerente. Questo si è visto praticamente in relazione a tutte le principali sfide che si trova a fronteggiare: i problemi economici e sociali, così come le sue strutture di politica estera e di difesa e perfino la lotta contro le attività criminali e terroristiche. Perciò i nuovi «Stati Uniti d’Europa» dovrebbero accettare «l’acquis communautaire» e continuare a partecipare alle politiche dell’Unione nella misura in cui essa è in grado di esercitare attualmente tali competenze.
Se, tuttavia, la caratteristica centrale che differenzia gli «Stati Uniti d’Europa» fosse quella di elaborare e portare avanti politiche comuni in aree nelle quali l’Unione, per ragioni legali o politiche, non può agire, allora questa nuova entità potrebbe trovare il proprio posto all’interno dell’Unione con relativa facilità. Il paragone migliore per illustrare questo tipo di situazione è probabilmente lo status di cui gode attualmente l’Unione europea in seno all’Organizzazione mondiale del commercio. L’Unione ne è membro così come lo sono i suoi Stati membri, ma è comunemente accettato che, a causa della distribuzione delle competenze al suo interno, molti aspetti della politica commerciale siano negoziati unicamente a livello dell’Unione. Quando si tratta di votare su questioni sulle quali essa dispone di competenza l’Unione vota in blocco e il suo voto viene conteggiato come un voto collettivo di tutti i suoi Stati membri. In modo analogo, gli «Stati Uniti d’Europa» potrebbero essere formalmente integrati negli attuali Trattati europei come un nuovo membro e rimpiazzare semplicemente i propri Stati membri nelle procedure decisionali dell’Unione, conteggiando il suo voto come la somma di tutti i voti ponderati degli Stati membri.
Naturalmente, i rimanenti Stati membri dell’Unione dovrebbero accettare questa soluzione, non solo come questione di cortesia, ma come vincolo giuridico, dato che i Trattati esistenti dovrebbero essere conformemente modificati. Ma si tratterebbe davvero solo di una modifica e non di un completo rinnovamento dei Trattati, perché «l’acquis communautaire» rimarrebbe intatto e le competenze dell’Unione nei vari campi politici non verrebbero neppur esse toccate. Tutto quello che sarebbe necessario per far posto agli «Stati Uniti d’Europa» all’interno dell’Unione sarebbe l’estensione formale dello status di membro alla nuova entità ed alcuni aggiustamenti istituzionali e procedurali. E poiché i cambiamenti necessari sarebbero limitati a questo, c’è anche la speranza realistica che il resto dell’Unione non si opponga a questa nuova entità, dato che non c’è motivo di temere che l’Unione non sia in grado di preservare quanto è già stato raggiunto. Ci ritroveremmo con un nucleo europeo federato al centro di un grande Mercato comune esteso dalla Groenlandia all’Anatolia — e forse anche oltre.
 
3. Un problema particolare: la zona euro.
 
Ma definire il rapporto tra gli «Stati Uniti d’Europa» e l’Unione europea non è solo un problema di conciliazione. Poiché una politica economica e sociale coerente è inestricabilmente intrecciata con i problemi monetari,[26] è anche necessario considerare il rapporto tra questa nuova entità e la zona euro, a meno che gli Stati membri di entrambi non siano identici — il che non è in realtà un’opzione probabile. Inoltre questo è un problema più complesso rispetto a quello di integrare gli «Stati Uniti d’Europa» nell’Unione, perché la questione se l’unificazione politica e quella monetaria possano essere portate avanti separatamente o debbano procedere di pari passo va a toccare alcune delle più fondamentali opinioni in campo economico.
Vi sono due principali indirizzi di pensiero economico a questo proposito, sebbene con molte varianti che meriterebbero un nome a sé stante: la cosiddetta teoria del «coronamento» postula che una unione politica sia il prerequisito necessario per qualsiasi unione monetaria.[27] Presa alla lettera, questa teoria richiederebbe che l’unione politica esista prima di essere coronata dall’unificazione monetaria. Una versione leggermente più moderata di questa teoria ammette che l’unione politica e quella monetaria possano essere realizzate contemporaneamente, ma in ogni caso un’unione monetaria senza unificazione politica è considerata condannata in partenza.
La seconda linea di pensiero non vede un collegamento obbligatorio tra unione politica e monetaria. Nella sua forma di base, presume che integrazione politica e integrazione monetaria siano due questioni separate e che ciascuna possa esistere indipendentemente dall’altra.[28] La versione più ottimista, alla quale vengono dati nomi promettenti come teoria del «motore» o della «prima pietra», considera addirittura l’unificazione monetaria come un possibile mezzo per raggiungere in un secondo tempo livelli di unificazione politica più elevati.
L’esperienza storica sembra sostenere più la prima linea di pensiero che non la seconda, poiché la massima parte delle unioni monetarie che non hanno mai ricevuto un puntello politico alla fine sono fallite.[29] I sostenitori della teoria della «separazione» nelle sue varie versioni, tuttavia, sostengono che l’Unione monetaria europea è un caso a parte e — proprio come la stessa Unione europea — non ha precedenti storici. Questo è certamente vero nella misura in cui il modello europeo è caratterizzato da elementi specifici che nel loro insieme non si sono finora mai trovati in alcun altro caso: una moneta completamente unificata sotto il controllo di una Banca centrale indipendente, una clausola di «no-bail-out» per preservare la responsabilità degli Stati partecipanti, un patto di stabilità — sebbene la sua affidabilità sia nel frattempo divenuta discutibile — ed un Mercato comune con un quadro giuridico unificato che ha come base la concorrenza.[30]
Ma sarebbe inutile tentare di risolvere qui questa discussione di fondo, perché lo sviluppo politico — abbia esso alla fine buon esito o meno — la ha già aggirata. La decisione di fondo di correre il rischio di una Unione monetaria separata è già stata presa a Maastricht quasi quindici anni fa. Quando l’Unione monetaria europea è stata creata nella sua forma attuale, si è deciso allo stesso tempo di tentare la via di una moneta unica priva del corrispondente scheletro politico. A meno che l’intero tentativo fallisca, è impossibile tornare indietro e la fondazione degli «Stati Uniti d’Europa» non modificherà sostanzialmente la situazione che già esiste. La zona euro rimarrà un gruppo separato di Stati in un futuro prevedibile: non può né essere espansa per includere l’intera Unione europea, né essere ristretta per comprendere solo gli Stati del «nucleo europeo» di nuova fondazione.
Quindi o è corretta la teoria del «coronamento», e allora l’euro scomparirà, indipendentemente da quanto accade nel nucleo; o risulterà che i sostenitori della «separazione» sono nel vero e allora non c’è motivo di credere che il successo dell’Unione monetaria sia messo in pericolo dalla creazione di una nuova entità politica al suo interno. Quindi il rapporto tra gli «Stati Uniti d’Europa» e la zona euro sarà molto simile a quello tra la zona euro e l’Unione nel suo insieme — di cui condividerà il destino.[31]
 
4. La definizione dei partecipanti.
 
Questa definizione contiene già in sé stessa anche gran parte della risposta all’ultima domanda: quali saranno i possibili partecipanti al progetto qui preso in considerazione? Prima di tutto, non c’è alcun tipo di limite naturale a proposito del «nucleo» dell’Europa e, nel rispetto della volontà dei popoli coinvolti, non sembra appropriato definire a tavolino chi può e chi non può diventare parte degli «Stati Uniti d’Europa». Tuttavia, sembrano possibili alcune ipotesi approssimative:
a) i membri fondatori di questa nuova entità devono già condividere l’esperienza dell’unificazione monetaria e quindi devono appartenere alla zona euro.[32]
b) Avendo affermato che gli «Stati Uniti d’Europa» non devono necessariamente coincidere con la zona euro, sembra ragionevole partire con un numero più ristretto di Stati membri, sebbene a lungo termine la nuova entità dovrebbe aprirsi almeno al resto dell’Unione monetaria e non costituire un cerchio chiuso in partenza.
c) È necessario che almeno due dei grandi Stati europei siano fra i membri fondatori, perché altrimenti il progetto o sembrerebbe un tentativo da parte di uno dei grandi Stati di crearsi una nuova zona di influenza, o non sarebbe per nulla preso sul serio.
Insomma, ciò ci riporta indietro al nucleo originale dell’integrazione europea: i sei paesi fondatori, dei quali almeno due grandi devono partecipare — preferibilmente tutti e tre insieme ad alcuni degli Stati più piccoli. Sebbene sembri fattibile far partire gli «Stati Uniti d’Europa» con solo due grandi paesi, qualsiasi progetto di questo tipo che non comprenda nemmeno i «Sei originali»  sarebbe condizionato da dubbi fin dall’inizio. Al di là di questo gruppo, tuttavia, non è difficile immaginare che altri Stati si aggiungano: non solo alcuni del «vecchio» gruppo dei 25, ma ad un certo punto anche forse i più avanzati dei dieci nuovi Stati membri. Se si riesce ad ottenere il sostegno dei cittadini in  questo nucleo di Stati, allora si può porre davvero una nuova pietra miliare nel processo di integrazione europea.


[1] Guy Verhofstadt, Die Vereinigten Staaten von Europa, 2005, pp. 7-10.
[2] Per ulteriori motivazioni, cfr. anche Joachim Wuermeling, «Die Tragische: Zum weiteren Schicksal der EU-Veifassung», Zeitschrift für Rechtspolitik 2005, pp. 149-153, 150.
[3] Tale speranza era già espressa in: Ralph Alexander Lorz, «Zurück in die Zukunft», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 24 novembre 2004, p. 7.
[4] Cfr. per esempio: Eric Reiter, Die Situation der EU in ihrer geplanten strategischen Uberdehnung, Arbeitspapier der Osterreichischen Instituts für Europäische Sicherheitspolitik, dicembre 2004; un’analisi molto utile può essere anche trovata in: The EU’s Search for a Strategic Role, curato da Esther Brimmer.
[5] Per una più approfondita ricerca a proposito degli elementi federali e della corrispondente esperienza in seno all’UE, vedi David McKay, Designing Europe, 2001, pp. 8 e segg.; ed anche Stephan Mazan, Das föderative Prinzip in der Europäischen Union, 1996, passim.
[6] Rudolf Geiger, EUV/EGV, Kommentar, 4a ed., 2004, Art. 37 n. 2 e segg.; Gereon Thiele, in Christian Calliess-Matthias Ruffert (a cura di), Kommentar zu EG-Vertrag und EU-Vertrag, 2a ed., 2002, Art. 133 n. 5 e segg.; ECJ, Judgment of 13 March 1984, Case 16/83, Rec. 1984, p. 1299 (Prantl).
[7] Vedi al paragrafo V, 3.
[8] Cfr., ad esempio, Rudolf Streinz, Europarecht, 7a ed., 2005, n. 1043 e segg.
[9] Condivide questa visione Thomas Oppermann, Europarecht, 3a ed., 2005, n. 1641.
[10] A proposito di questa posizione, vedi le dettagliate spiegazioni di Wilhelm Hankel et al., Die Euro-Klage. Warum die Währungsunion scheitern muss, 1998, passim.
[11] Verhofstadt (nota 1), p. 22.
[12] Fra i molti osservatori che rilevano questo deficit vedi Bernhard Kempen, in Rudolf Streinz (a cura di), EUV/EGV-Kommentar, 2003, Art. 98 n. 3.
[13] Corte costituzionale federale tedesca, 2 BvR 2236/04, Giudizio del 18 luglio 2005.
[14] Cfr. Daniel Thym, «United in Diversity — The Integration of Enhanced Cooperation into the European Constitutional Order», 6 German Law Journal No. 11 (2005), p. 1746; Marcus Horeth - Cordula Janowski - Ludger Ktihnhardt, Die Europäische Verfassung, 2005, p. 96.
[15] I nuovi provvedimenti hanno in qualche modo facilitato la cooperazione rafforzata riguardo alle sue motivazioni così come alla fissazione del numero minimo di partecipanti (otto) e all’esercizio dei poteri di veto, ma hanno anche eretto nuove barriere. Per una analisi, si confrontino Claus Giering - Josef Janning, «Flexibilität als Katalysator der Finalität? Die Gestaltungskraft der ‘Verstärkten Zusammenarbeit’ nach Nizza», integration 2/2001, pp. 146-155; meno critico nei confronti delle modifiche Klaus Hansch, «Maximum des Erreichbaren - Minimum des Notwendigen? Die Ergebnisse von Nizza», integration 2/2001, pp. 94-101.
[16] Katrin Langner, Verstärkte Zusammenarbeit in der Europäischen Union, 2004, pp. 19 e segg.
[17] Per una rassegna dei benefici e della fattibilità della cooperazione rafforzata, vedi Christian Deubner, «Verstärkte Zusammenarbeit in der verfassten Europäischen Union», integration 4/2004, pp. 274-287. Un’interessante lista di campi di possibili cooperazioni rafforzate è stata compilata dal Commissariat Général du Plan: Perspectives de la coopération renforcée dans l’Union européenne, 2004, 7ème Partie: «Une liste des thèmes potentiels pour les coopérations renforcées», p. 243. Perciò l’attuale limitato impatto pratico della cooperazione rafforzata non deve essere erroneamente interpretato come assenza di qualsiasi potenzialità.
[18] Si veda di nuovo Deubner (nota 17), p. 285.
[19] Thomas Jaeger, in «Enhanced Cooperation in the Treaty of Nice and Flexibility in the Common Foreign and Security Policy», European Foreign Affairs Review, 7 (2002), pp. 297-316, parla perciò di «integrazione rafforzata» anziché di cooperazione rafforzata come obiettivo generale.
[20] Rapporto del Primo Ministro Leo Tindemans sull’Unione europea, pubblicato ad esempio in: Deutscher Bundestag, 7. Wahlperiode, Drucksache 7/4969 del 3 aprile 1976, p. 17.
[21] Per una rassegna degli svariati termini utilizzati anche solo in inglese, vedi Alexander Stubb, «A Categorization of Differentiated Integration», Journal of Common Market Studies, 34 (1996), pp. 283-295, 285; un riassunto dettagliato è anche offerto da Claus Giering, «Vertiefung durch Differenzierung - Flexibilisierungskonzepte in der aktuellen Reformdebatte», integration 2/97, pp. 72-83.
[22] Ralf Dahrendorf, A Third Europe?, Terza Lettura Jean Monnet, Firenze, 26 novembre 1979, p. 20.
[23] Cfr. Josef Janning, «Europa braucht verschiedene Geschwindigkeiten», Europa-Archiv 2994, p. 533, e Bernd Langeheine, «Rechtliche und institutionelle Probleme einer abgestuften Integration in der Europäischen Gemeinschaft», in Eberhard Grabitz (a cura di), Abgestufte Integration, 1984, p. 51.
[24] Cfr., per esempio, Commissariat Général du Plan d’Equipement et de la Productivité, L’Europe les vingt prochaines années, Rapport d’un groupe de perspective à long terme animé par Jacques Pelletier et Gérard Tardy, 1980, pp. 211 e segg.
[25] Un tipico commento a questo proposito potrebbe essere quello fatto da Georg Escher in un articolo su di un giornale: «Now that the Citizens Have Got that Europe, they Voted Against it», Nürnberger Nachrichten, 31 maggio 2005.
[26] Vedi Verhofstadt (nota 1), p. 22, e Ernst-Wolfgang Böckenförde, «Welchen Weg geht Europa?», in Ernst-Wolfgang Böckenförde (a cura di), Staat, Nation, Europa, 1999, pp. 77 e segg.
[27] Cfr. ad esempio: Wolfgang Wessels, «Die Wirtschafts- und Währungsunion. Krönung der Politischen Union?», in Rolf Caesar - Hans-Eckart Scharrer (a cura di), Maastricht. Königsweg oder Irrweg zur Wirtschafts-und Währungsunion?, 1994, p. 122.
[28] Ibidem.
[29] Gli esempi di solito citati in questo contesto sono l’Unione monetaria austro-tedesca (dal 1857 al 1867), l’Unione monetaria latina (dal 1865 al 1927) e l’Unione monetaria scandinava.
[30] Ciò è sottolineato ad esempio da Markus Reupke, Die Wirtschafts-und Währungsunion, 2000, pp. 79 e segg.
[31] I punti critici a questo riguardo stanno già comparendo nella relazione tra l’UE e la zona euro; per esempio, la Svezia ha recentemente criticato il fatto che il Consiglio dei Ministri delle Finanze dell’Unione sta rapidamente perdendo terreno nei confronti degli incontri più informali dei Ministri delle Finanze della zona euro. Cfr. «Schweden moniert Einflußverlust der EU-Finanzminister», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 25 gennaio 2006, p. 13.
[32] L’antica esperienza che l’uguaglianza facilita l’unità e perciò deve far parte delle motivazioni razionali che stanno dietro l’integrazione europea è già stata affermata da Walter Hallstein, Der unvollendete Bundesstaat: europäische Erkenntnisse und Erfahrungen, 1969, p. 33.

 

 

 

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