IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVII, 2005, Numero 3, Pagina 144

 

 

Il ruolo del bilancio europeo
nella politica economica europea
 
GUIDO MONTANI
 
 
1. Una moneta federale senza un sistema fiscale federale.
 
L’Europa deve oggi affrontare problemi simili a quelli degli anni Trenta del secolo scorso, quando Keynes denunciava lo spreco delle risorse causato da un sistema economico che non era in grado di garantire la piena occupazione. Da decenni l’economia europea cresce a tassi molti inferiori a quelli potenziali. Non riesce a tenere il passo con la più dinamica economia statunitense e soffre la concorrenza delle nuove potenze mondiali, come la Cina e l’India. I tassi di disoccupazione in Europa sono elevati, il mercato del lavoro crea solo un’occupazione precaria e il Welfare State, il cosiddetto modello sociale europeo, è sottoposto a critiche per i suoi costi insostenibili.
Gli economisti non riescono ad elaborare proposte convincenti di politica economica. Il punto di partenza delle loro analisi è l’Unione monetaria, ormai compiuta con l’istituzione della Banca centrale europea e dell’euro. Il Patto di Stabilità e Crescita completa il quadro imponendo vincoli ai deficit dei bilanci nazionali e al volume del debito pubblico. Quasi tutta la letteratura sull’argomento denuncia i limiti di un sistema economico ormai unificato sul terreno monetario, ma funzionante ancora, per quanto riguarda la politica fiscale, con sistemi nazionali. Tuttavia, i rimedi vengono ricercati all’interno dei margini di manovra concessi dal Patto di stabilità e crescita. Le eventuali potenzialità offerte da un sistema fiscale federale sono ritenute interessanti, ma non realistiche nel breve periodo.[1]
In questo saggio si cercherà di superare questo tabù prendendo esplicitamente in considerazione gli effetti di un Piano europeo per la crescita e l’occupazione finanziato con risorse proprie, dunque con un bilancio europeo adeguato. L’Unione monetaria è a un bivio. La classe politica, o almeno una parte di essa, di fronte a problemi economici complessi, preferisce accusare l’Unione monetaria di provocare la stagnazione, invece di prendere in considerazione la possibilità di creare un sistema fiscale federale europeo. In effetti, non vi sono differenze sostanziali tra il Federal Reserve System statunitense e il Sistema europeo di Banche centrali. L’euro e il dollaro sono due monete federali. Ma esistono differenze sostanziali tra i due sistemi fiscali. Gli Stati Uniti possono contare su una fiscalità federale consistente, a differenza dell’Unione europea. L’Unione monetaria rischia dunque di diventare il capro espiatorio di una visione politica miope e conservatrice.
Il nostro obiettivo è di indicare solo i grandi orientamenti di una riforma della fiscalità europea. Il bilancio dell’Unione ha una lunga storia e svolge, sotto alcuni aspetti, come il riequilibrio territoriale, un ruolo niente affatto secondario. Per quanto riguarda il rapporto tra politica monetaria e fiscale, la Commissione europea elabora le cosiddette Broad economic policy guidelines (BEPGs) per coordinare i bilanci nazionali nel quadro stabilito dal Patto di stabilità e di crescita e pubblica una relazione annuale (in European Economy -Public finances in EMU) sulla situazione delle finanze europee senza prendere in alcuna considerazione il bilancio dell’Unione a fianco dei bilanci nazionali. Il bilancio dell’Unione è considerato un puro ausilio amministrativo che non ha alcuna funzione autonoma nella politica economica dell’Unione. Ci proponiamo di dimostrare che è necessario elaborare una prospettiva finanziaria in cui compaiono non solo gli n bilanci nazionali, ma n+1 bilanci. Va dunque ricercata la funzione specifica del bilancio europeo nei confronti dei bilanci nazionali. A nostro parere, il bilancio dell’Unione deve essere riformato al fine di poter fornire alcuni beni pubblici europei cruciali.
Questo problema non è ignorato dagli economisti.[2] Uno studio promosso dalla Banca centrale europea esplora le possibili modifiche istituzionali che potrebbero accrescere le dimensioni del bilancio europeo, oggi modeste, e la sua efficienza, anche grazie alla possibilità di finanziare dei beni pubblici europei. Gli autori individuano un trade-off tra efficienza e legittimità. Il loro punto di vista è che l’attuale situazione finanziaria dell’Unione si trovi già sulla frontiera esterna della relazione efficienza-legittimità. Per andare oltre, sarebbe necessario compiere un passo in avanti rispetto all’«attuale stato dell’integrazione europea».[3] Questo punto di vista è condivisibile. Occorre essere consapevoli che la fornitura di beni pubblici europei impone di ridiscutere «l’attuale stato dell’integrazione europea». L’Europa, se vuole risolvere i suoi gravi problemi di inefficienza economica, deve compiere un ulteriore passo verso la sua unificazione politica. Nelle Conclusioni, si indicheranno sommariamente le riforme istituzionali necessarie per realizzare il Piano europeo proposto.
Infine, in una Appendice si discute del valore aggiunto di un investimento pubblico europeo rispetto al valore di un investimento di pari ammontare fatto da un governo nazionale. Quando è in discussione la fornitura di beni pubblici europei, un euro speso dai governi nazionali produce meno reddito di un euro speso da un governo europeo.
 
2. Cenni storici del problema.
 
E’ necessario richiamare brevemente la concezione originaria dei rapporti che dovrebbero esistere tra Unione monetaria e fiscalità federale, perché l’attuale posizione dei governi europei — che vorrebbero ridurre ulteriormente il già striminzito bilancio comunitario (poco più dell’1% del Pil europeo) — si pone agli antipodi dei primi progetti di integrazione monetaria. Quando il sistema di Bretton Woods entrò in crisi e poi crollò definitivamente, i governi europei incaricarono Pierre Werner di proporre un Piano di unificazione monetaria entro un decennio. Il Piano Werner[4] prevedeva che al termine del processo decennale di convergenza, nel 1980, quando i cambi fossero stati dichiarati irreversibilmente fissi, il bilancio comunitario venisse aumentato in modo consistente per consentire alla Commissione di affrontare adeguatamente i problemi di coesione sociale e di crescita dell’economia europea. Dopo il fallimento del Piano Werner, la Commissione Jenkins propose il rilancio dell’unificazione monetaria su nuove basi e incaricò un gruppo di studio di redigere un rapporto sulle finanze dell’Unione. Il Rapporto MacDougall[5] prevedeva che il bilancio comunitario avrebbe dovuto raggiungere la dimensione del 2-2,5% del Pil europeo nella fase pre-federale, cioè prima della creazione della moneta europea e di una vera Federazione, con l’istituzione di una difesa europea, che avrebbe comportato un ulteriore aumento del bilancio (sino al 5-7% del Pil; con la difesa, sino al 7,5-10%).
Come noto, il rilancio dell’unificazione monetaria degli anni Settanta non portò alla moneta europea, ma allo SME (Sistema monetario europeo), un sistema di cambi fissi tra le monete europee, senza la creazione di una Banca centrale europea. L’Europa rimase in questa situazione di incertezza, tra unione e disunione monetaria, per molti anni. Solo dopo il crollo dell’URSS e la riunificazione tedesca, venne deciso a Maastricht, nel 1991, il passaggio dallo SME all’Unione monetaria. L’allora Presidente della Commissione europea, Delors, che guidò l’Unione verso la realizzazione della moneta unica, nel 1993 propose anche il Piano Crescita, competitività e occupazione,[6] in cui si affrontava il problema di realizzare, a fianco della moneta europea, anche una serie di investimenti strutturali nei settori fondamentali dell’informatica e delle reti trans-europee di comunicazione al fine di mettere l’Europa nella condizione di rispondere alla sfida della globalizzazione, proveniente sia dai paesi più avanzati, come gli USA e il Giappone, sia dai paesi emergenti a basso costo del lavoro. Se l’Unione non fosse stata in grado di accrescere la sua efficienza e competitività internazionale — questa era la ragione fondamentale del Piano — avrebbe corso il rischio di avviarsi verso una pericolosa stagnazione e tentazioni protezionistiche (Europa fortezza). Al contrario, la realizzazione del Piano le avrebbe consentito non solo di tener testa alla concorrenza internazionale, ma anche di creare 15 milioni di nuovi posti di lavoro entro la fine del secolo.
Il Piano Delors non venne mai realizzato, nonostante l’accoglienza molto favorevole che esso ottenne da parte dei sindacati operai e della grande industria europea. Il Consiglio dei Ministri finanziari, in una situazione in cui i paesi che avevano deciso di costruire l’Unione monetaria dovevano praticare politiche di restrizioni finanziarie, decise che non esistevano fondi sufficienti per il suo finanziamento. Solo qualche troncone delle reti trans-europee programmate venne realizzato nel corso degli anni successivi, ma il Piano nel suo insieme venne abbandonato.
Tuttavia, il problema a cui il Piano Delors tentava di dare una risposta non era frutto di immaginazione. Nel corso degli anni Novanta diventò sempre più evidente che l’economia statunitense stava volando sulle ali della rivoluzione informatica, mentre l’economia europea segnava il passo. Nel 2000, i governi europei lanciarono l’ambiziosa Strategia di Lisbona[7] che avrebbe dovuto consentire all’Unione di divenire, entro il 2010, la più dinamica economia del mondo fondata sulla conoscenza e l’innovazione. A metà cammino, occorre constatare che la Strategia di Lisbona sta fallendo. L’Unione non ha una propria capacità di crescita. Senza un impulso esterno, l’economia europea non cresce.
Alcuni individuano le cause dell’insufficiente crescita nei vincoli del Patto di stabilità o nella perdita della sovranità monetaria nazionale. Altri sostengono che i governi nazionali si sono spinti troppo avanti nel praticare le politiche neoliberali, con le privatizzazioni, scarsi investimenti pubblici e l’eccessiva flessibilità del mercato del lavoro. Altri ancora sperano che si mettano in moto le locomotive nazionali, in particolare quella tedesca. Qui si sosterrà la tesi che l’Unione, senza un governo federale in grado di mobilitare le risorse finanziarie necessarie per un Piano europeo per la crescita e l’occupazione, ben difficilmente riuscirà a tenere il passo delle economie mondiali più dinamiche. Non si tratta di una scelta tra Stato e mercato. Alcuni obiettivi o vengono perseguiti a livello europeo o restano pii desideri (wishful thinking).
 
3. La specificità del sistema federale europeo.
 
Molte resistenze all’ipotesi che il bilancio europeo possa svolgere un ruolo autonomo di politica economica, a fianco dei bilanci nazionali, derivano da un affrettato confronto con il caso americano. Si constata che il bilancio del governo federale era pari al 19,9% del Pil americano nel 2003, si prende in considerazione la dimensione risicata del bilancio europeo e si conclude che non è pensabile che l’Unione europea possa svolgere una funzione di promozione della crescita economica simile a quella del governo di Washington. Questa conclusione è tuttavia affrettata. I sistemi federali consentono di articolare in modo molto flessibile, all’interno di un quadro costituzionale definito, i compiti e le responsabilità a vari livelli di governo. E’ proprio l’esperienza storica statunitense a dimostrarlo. Nel 1900, il bilancio federale rappresentava il 2,6% del Pil, era ancora al 3,4% nel 1930, ma aveva già raggiunto il 10,7% nel 1934, con l’avvio del New Deal. Era al 43,7% nel 1944; al 15,6% nel 1950; al 21,3% nel 1975 e al 22,3% nel 1991 [fonte: Statistical abstract of the United States]. Per paragonare la finanza statunitense a quella europea si deve, tuttavia, tenere conto anche della ripartizione complessiva della spesa, tra livello federale, Stati e enti locali. La situazione è così mutata nel tempo: nel 1902, il governo federale concentrava il 36,3% della spesa pubblica complessiva (Stati e governi locali spendevano il 63,7% nel 1902; il 67% nel 1927; il 33,4% nel 1950; il 66,5% nel 1960; il 63% nel 2003) [fonte: Statistical abstract of the United States]. In conclusione, le serie storiche dimostrano che l’aumento delle dimensioni del livello federale nei confronti degli altri livelli di governo è dovuto principalmente a due fattori: le responsabilità di politica estera, che hanno ingrossato le spese per la difesa durante le due guerre mondiali, e la spesa sociale, che inizia con il New Deal degli anni Trenta e continua sino ai nostri giorni.
Questi sviluppi storici hanno indotto i teorici del federalismo fiscale a proporre un modello di ripartizione delle funzioni federali che assume implicitamente come punto di riferimento il sistema statunitense o sistemi molto simili, esistenti in Canada e in Australia. Richard Musgrave individua tre principali funzioni di un sistema fiscale.[8] La prima funzione può essere definita allocativa. Essa riguarda la fornitura di beni pubblici, che il mercato non riesce a fornire o fornisce solo a costi sociali eccessivi. La seconda funzione può essere definita distributiva, perché riguarda la distribuzione del reddito e della ricchezza tra individui, nell’ipotesi che la distribuzione che scaturisce dal mercato non sia la più equa possibile. Infine, la terza funzione può essere definita di stabilizzazione, perché garantisce che tutte le risorse economiche siano pienamente impiegate senza che si crei inflazione. In uno Stato centralizzato, le tre funzioni sono svolte dal governo centrale o nazionale. In uno Stato federale, si pone il problema di quale sia il livello di governo a cui esse debbano essere attribuite. Tra i teorici del federalismo fiscale[9] esiste un sostanziale accordo sul fatto che la funzione di stabilizzazione del reddito e quella redistributiva debbano essere assegnate al governo centrale, mentre la fornitura e il finanziamento dei beni pubblici deve essere svolta al livello di governo nel quale si possono soddisfare con maggiore efficacia i bisogni dei cittadini. Concentriamo ora la nostra attenzione sul problema della distribuzione del reddito. Negli Stati Uniti, esso si è posto con particolare gravità, insieme a quello della disoccupazione di massa e della stabilizzazione, negli anni Trenta. Gli Stati della Federazione americana hanno tentato di realizzare, in via autonoma, dei programmi di assistenza sociale, come si stava facendo in Europa. Tuttavia i loro tentativi sono falliti, a causa della elevata integrazione del mercato americano e della forte mobilità territoriale della forza lavoro: gli Stati più generosi attiravano rapidamente lavoratori disoccupati e cittadini a basso reddito dagli altri Stati. Si rivelò dunque necessario, da parte del governo federale, accentrare la costruzione del Welfare State. Questa struttura del bilancio federale è ancora predominante. Nel 2003, le spese sociali assorbivano il 65,7% del bilancio federale (la difesa il 18,7%).
La storia dell’unificazione europea spiega perché la struttura della spesa pubblica sia radicalmente differente da quella statunitense. Il Welfare State è stato creato, in tutti i paesi europei, prima che iniziasse il processo di unificazione europea, in ogni caso prima che si costruisse l’Unione monetaria. La funzione distributiva è dunque affidata al livello nazionale e non vi sono ragioni evidenti perché anche l’Unione debba costruire uno European Welfare State, intervenendo nella distribuzione interpersonale del reddito o nella solidarietà tra individui. Anche ammesso che con il mercato interno e il riconoscimento della cittadinanza europea aumenti notevolmente il flusso migratorio interno all’Unione, si imporrà all’attenzione più il problema giuridico del riconoscimento di alcuni diritti (ad esempio, il diritto all’assistenza sanitaria in ogni paese dell’Unione) che non il problema economico di istituire un sistema di assistenza centralizzato al livello europeo. Si può pertanto comprendere perché la dimensione del bilancio europeo sia limitata a circa il 2,4% rispetto alla media dei bilanci nazionali (pari al 48,5% del Pil nel 2003 nell’Europa a 25). Inoltre gran parte del bilancio comunitario è assorbita dai fondi strutturali, per il riequilibrio territoriale tra regioni ricche e povere dell’Unione (salvo la politica agricola, che presenta, tuttavia, aspetti di riequilibrio territoriale). L’Unione si assume, dunque, la responsabilità di redistribuire le risorse non direttamente tra i cittadini europei, ma tra i governi nazionali e i governi locali (negli USA, questa funzione è assicurata dai Grants-in-aid del governo federale agli states. Nel 2003 i Grants-in-aid erano pari al 3,6% del Pil statunitense).
Questa specifica struttura del sistema fiscale europeo rende molto difficile il confronto con quello statunitense. Per questo, il tentativo degli economisti di comparare l’efficacia dei due sistemi fiscali risulta spesso inconcludente.[10] Ai nostri fini, tuttavia, importa sottolineare il fatto che poiché i sistemi di sicurezza sociale restano organizzati al livello nazionale anche il mercato del lavoro continua a rimanere strutturato al livello nazionale. Le contrattazioni sindacali hanno come quadro di riferimento essenziale la legislazione nazionale, sebbene esistano molti problemi che devono essere affrontati su scala europea (come l’armonizzazione dell’orario di lavoro, il diritto alla non-discriminazione sul posto di lavoro, ecc.).
In conclusione, l’Unione europea non ha un bilancio di proporzioni simili a quello statunitense perché la gran parte delle risorse necessarie per finanziare la spesa sociale è concentrata allivello nazionale e non esistono forti ragioni per una sua centralizzazione. Per riprendere lo schema di Musgrave, il bilancio dell’Unione non svolge né la funzione allocativa, perché non fornisce beni pubblici europei, né la funzione redistributiva tra individui, né la funzione di stabilizzazione. Tuttavia è errato concludere che, a causa delle dimensioni limitate del bilancio europeo, l’Unione non debba svolgere alcuna funzione di stabilizzazione, né di fornitura di beni pubblici. Nel corso degli anni Trenta, il governo federale statunitense ha saputo adeguare le dimensioni del suo bilancio per affrontare la sfida della Grande Depressione. Un compito simile, oggi, deve essere affrontato dall’Unione europea. La sfida consiste nel garantire un’autonoma capacità di crescita all’economia europea. La questione non riguarda tanto la dimensione della spesa pubblica, ma il riconoscimento di una funzione autonoma (distinta da quella dei bilanci nazionali) della fiscalità europea.
 
4. Il declino dell’economia europea.
 
Prima di delineare le politiche che l’Unione dovrebbe avviare per superare la crisi, è necessario accennare alle cause maggiori del declino dell’economia europea. Non è nostro intento proporre qui una diagnosi originale, ma indicare solo due tendenze di fondo.
La prima tendenza riguarda il divario crescente di produttività del lavoro tra Europa e USA. Il reddito pro-capite europeo, nel dopoguerra, è progressivamente cresciuto avvicinandosi a quello degli USA, sino agli anni Settanta. Da allora, è ristagnato al 70% di quello statunitense. Il differenziale dei livelli di vita tra Europa e USA è dovuto per un terzo alla produttività del lavoro, per un terzo alla differenza nelle ore lavorate e per un terzo al tasso di occupazione.[11] Secondo uno studio promosso dalla Commissione europea,[12] la spiegazione di questi differenziali, in particolare di quello riguardante la produttività del lavoro, deve essere ricercata nella maggiore capacità dell’economia statunitense di produrre e di utilizzare le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Infatti, se si paragonano i tassi di variazione della produttività del lavoro per ora lavorata, si può verificare che i tassi di incremento della produttività europea erano, sin dagli anni Sessanta, al di sopra di quelli statunitensi, ma declinanti. A partire dalla metà degli anni Novanta, mentre era in corso la rivoluzione informatica negli USA, gli incrementi dei tassi di produttività statunitensi hanno superato quelli europei e questa tendenza è ancora in corso.
La superiorità dell’industria informatica statunitense ha radici lontane nel tempo. Essa nasce nel corso della seconda guerra mondiale e si consolida negli anni Cinquanta, in particolare, grazie alle commesse militari, poiché non esisteva ancora una domanda civile sufficiente. Per lo sviluppo di questa industria fu decisiva la dimensione degli aiuti pubblici. «Nei primi anni Settanta, la spesa totale in R&D degli USA nell’industria dei computer era circa 5 o 6 volte maggiore dello sforzo complessivo di Giappone, Francia e Regno Unito. Negli anni Sessanta e inizi anni Settanta circa 1/3 di tutta la spesa in R&D degli USA era finanziata pubblicamente mentre la Francia e il Regno Unito sostenevano dal 10% al 15% degli investimenti. La quota giapponese si poneva nel mezzo. Pertanto, al contrario del punto di vista diffuso che considera gli USA come il paese meno interventista tra quelli industrializzati, si deve ammettere che gli USA hanno fortemente sostenuto gli investimenti industriali nelle tecnologie informatiche negli anni del loro avvio».[13]
Un esame comparato tra USA ed UE-15 di 56 industrie dimostra che gli europei non solo investono meno degli USA in R&D (1,9% del Pil per l’UE e 2,8% del Pil per gli USA, nel 2003), ma investono maggiormente nei settori a bassa crescita, come le automobili e i prodotti chimici. L’industria statunitense risulta dominante nelle aree di produzione di hardware e di altri prodotti elettronici, le industrie a più elevata produttività, dove maggiori sono gli investimenti in R&D. Queste industrie mancano quasi del tutto in Europa. Inoltre, grazie a questa supremazia, nell’economia statunitense si stanno diffondendo le applicazioni informatiche a nuove aree, come le biotecnologie e i servizi informatizzati. Non è dunque pensabile, come alcuni sostengono, che l’Europa possa colmare il divario tecnologico con gli USA solo importando tecnologie informatiche. Occorre che la ricerca e la produzione delle ICT diventino parte di una strategia europea della crescita.
Il secondo trend che deve essere preso in considerazione riguarda il declino di lungo periodo degli investimenti pubblici. Il loro livello, sia negli USA che in Europa, è pari a un quinto degli investimenti privati. Nel 1970, nella UE-15, gli investimenti pubblici erano più del 4% del Pil europeo; negli USA poco più del 3% del Pil. Da allora, sono cominciati a declinare sia in Europa che negli USA, ma mentre a partire dalla fine degli anni Novanta negli USA si è invertita la tendenza, in Europa il declino continua. Nel 2002, erano pari al 2,9% negli USA e al 2,4% nella UE.[14] Questa tendenziale caduta del tasso di investimenti pubblici non sembra dunque attribuibile alla creazione dell’Unione monetaria. I governi sono portati ad investire di meno quando sono costretti a fronteggiare un debito elevato e un elevato carico di interessi passivi. In effetti, dopo l’approvazione del Patto di stabilità, gli investimenti in Europa sono leggermente ripresi. La diminuzione di lungo periodo dipende probabilmente da due fattori. Il primo riguarda una deliberata scelta di politica economica volta alla riduzione del settore pubblico nell’economia. Ad esempio, nel Regno Unito con la privatizzazione delle telecomunicazioni, delle compagnie fornitrici di energia, degli aeroporti e delle ferrovie si è trasferito circa il 15% del capitale pubblico al settore privato. Il secondo fattore riguarda il ricorso sempre più frequente ad operazioni dette di Public-private partnership (PPP), con le quali i governi finanziano solo una parte del progetto di investimento e forniscono garanzie sul debito emesso dalle compagnie private che partecipano all’iniziativa. In alcuni casi questi progetti non vengono nemmeno considerati nella contabilità nazionale come investimenti pubblici.
Se questi due fattori possono spiegare il trend decrescente sia negli USA che in Europa, occorre comunque prendere atto che negli USA la tendenza al declino è stata arrestata, al contrario di quanto avviene in Europa. Nel dopoguerra, il tasso di investimenti pubblici più elevato in Europa ha significato un maggior sforzo degli europei per costruire uno Stato sociale, infrastrutture e servizi pubblici che hanno garantito una più equa distribuzione del reddito tra i cittadini. Ora occorre constatare che in alcuni settori cruciali le spese pubbliche europee non sono più adeguate. Ad esempio, la spesa pubblica per l’educazione è maggiore negli USA (1,4% del Pil) rispetto a quella europea (1,1% del Pil). La spesa totale per l’educazione, pubblica e privata, è più del doppio negli USA (3%) rispetto all’Europa (1,4%). Di conseguenza, anche i tassi di scolarità sono più elevati negli USA, specialmente per quanto riguarda l’educazione superiore (37,3% negli USA e 23,8% in Europa).[15]
 
5. Il fallimento della Strategia di Lisbona.
 
Nel Piano Delors si individuava il divario tecnologico tra Europa e Stati Uniti come il problema maggiore da affrontare: gli Stati Uniti avevano un’economia più dinamica e competitiva anche perché investivano in R&D almeno il 3% (totale di investimenti pubblici e privati) del loro Pil, mentre l’Unione europea non riusciva a raggiungere il 2%. Il Consiglio europeo di Lisbona, nel marzo 2000, decise di riprendere questa indicazione e di fondare la strategia di rilancio della crescita economica sull’impulso derivante dalla ricerca scientifica e dalla formazione di capitale umano. A Lisbona i governi europei decisero pertanto che entro il 2010 l’Europa sarebbe dovuta diventare «la più dinamica e competitiva economia nel mondo fondata sulla conoscenza, capace di sviluppo sostenibile con più e migliori posti di lavoro, una maggiore coesione sociale e rispetto per l’ambiente». L’obiettivo era senza dubbio molto ambizioso. In un decennio, l’Unione europea avrebbe dovuto sopravanzare gli Stati Uniti.
A differenza del Piano Delors, la Strategia di Lisbona non assegna alcun compito specifico alla Commissione. Non si tratta più di realizzare un Piano europeo, ma di coordinare dei Piani nazionali. La Strategia di Lisbona, sotto questo aspetto, è innovativa, ma si tratta di una innovazione che condurrà presto l’Unione a un vicolo cieco. Poiché la Commissione deve solo coordinare dei Piani nazionali, il nuovo metodo è stato battezzato «open method of coordination».Ogni primavera, la Commissione presenta ai governi nazionali lo stato della situazione, dà «consigli», e poi i governi nazionali decidono «volontariamente» cosa fare. A questo fine sono stati individuati una serie di indicatori (15 in una lista breve), come il Pil pro-capite, la produttività del lavoro per occupato, il tasso di occupazione totale e femminile, i tassi di scolarità, le spese per la ricerca pubblica e privata, ecc.
La Strategia di Lisbona ha suscitato, inizialmente, poco interesse negli ambienti sindacali, nella grande industria europea e, tanto meno, nell’opinione pubblica. Se ne è discusso solo quando la Commissione europea ha cominciato a denunciare il suo fallimento. Dopo quattro anni, l’obiettivo maggiore, quello  di raggiungere, per le spese pubbliche e private per la ricerca, il 3% del Pil, era ancora fermo al livello di partenza (1,9%). Nella proposta per la programmazione finanziaria 2007-2013, la Commissione ha affermato con crudezza che «l’incapacità dell’Unione e dei suoi Stati membri di raggiungere tale obiettivo rivelano l’inadeguatezza dell’azione adottata sinora».[16] Per quanto la riguarda, la Commissione europea, nel progetto di bilancio 2007-13, ha proposto un consistente aumento dei fondi destinati alla crescita e all’occupazione. Dopo la denuncia, il Consiglio europeo ha invitato la Commissione a creare un gruppo di studio. Questo gruppo, presieduto da Wim Kok non ha potuto far altro che constatare che, dal 2000, «il divario con il Nord America e con l’Asia è cresciuto» e che «la prestazione complessiva dell’economia europea è deludente». La ragione di questo risultato negativo, secondo il rapporto Kok, sta nel fatto che l’economia europea è entrata in crisi a causa, prima, dello scoppio della bolla finanziaria che ha colpito, negli USA e in Europa, i titoli sopravvalutati delle imprese informatiche e, poi, dell’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, della guerra irachena, del rallentamento dell’economia mondiale e dell’aumento del prezzo del petrolio. Di conseguenza, questa è la conclusione, «molti Stati membri sono posti di fronte ad un dilemma. A causa delle debolezze strutturali e della loro debole domanda, le prestazioni delle economie nazionali sono state deludenti. Poiché le prestazioni sono state deludenti, è stato più difficile realizzare la Strategia di Lisbona. In questa situazione di bassa crescita, alcuni governi non sono riusciti a mantenere i loro impegni».[17]
Le cause del fallimento della Strategia di Lisbona non potrebbero essere meglio descritte, anche se il rapporto Kok non tira le conclusioni necessarie e propone di continuare sui vecchi binari del «coordinamento» e dei «consigli». Di fronte alle difficoltà dell’economia mondiale (tuttavia, si tenga presente che dopo i fatti denunciati, l’economia mondiale ha ripreso a correre, grazie anche all’impulso della Cina), l’Unione europea non ha una autonoma capacità di risposta. Ogni governo nazionale è costretto ad affrontare le difficoltà sulla base di una strategia «nazionale», non europea. E poiché ogni governo nazionale ha le sue priorità politiche, poiché ogni elettorato nazionale è diverso e poiché i cicli elettorali sono diversi, è del tutto prevedibile che i «consigli» europei della Commissione vengano ignorati. Il rimedio, pertanto, non è quello di migliorare la qualità dei consigli, assegnando eventualmente dei voti ai buoni e ai cattivi governi (come propone pateticamente il Gruppo Kok), ma di consentire alla Commissione europea di realizzare un Piano europeo per la crescita e l’occupazione.[18]
L’Unione europea deve cominciare a trarre qualche lezione dai suoi fallimenti. Il Piano Delors è fallito perché i governi nazionali hanno negato i finanziamenti necessari. La Strategia di Lisbona sta fallendo perché allivello europeo si assegna solo il compito di coordinare dei Piani nazionali. La via d’uscita è un Piano europeo finanziato con risorse europee. Non si tratta di rinunciare del tutto al coordinamento dei Piani nazionali. Qualche coordinamento è necessario. Ma occorre passare dalla strategia dei «consigli» a quella dei «poteri» adeguati alla realizzazione di un «bene pubblico europeo». La Strategia di Lisbona si propone di realizzare un bene pubblico europeo mediante dei mezzi nazionali. Il problema è quello di individuare i mezzi europei adeguati alla realizzazione degli obiettivi europei.
 
6. Due beni pubblici europei.
 
Vi sono due beni pubblici europei che compaiono e scompaiono dalla scena politica a seconda della congiuntura in cui si trova il processo di integrazione europea. E’ dunque necessario concentrare su di essi l’attenzione, per discuterne l’aspetto economico strutturale. I due beni pubblici in questione sono la difesa europea e un Piano europeo per la crescita e l’occupazione. Essi devono essere discussi insieme, poiché presentano le medesime caratteristiche di bene pubblico. Inoltre, come tenteremo di dimostrare, le economie di scala che si otterrebbero da una loro congiunta realizzazione sarebbero considerevoli. Tuttavia, la politica segue i suoi tortuosi cammini. Certamente, non si farà la difesa europea solo per ragioni economiche. Pertanto, occorre rassegnarsi al fatto che molte delle sinergie possibili verranno perdute. Questo è il costo della non-Europa.
La difesa europea è un bene pubblico europeo. Lo scopo di un sistema europeo di difesa è quello di garantire la sicurezza ai cittadini dell’Unione. Si tratta pertanto di un bene che possiede la caratteristica della non rivalità nel consumo. Un bene privato è considerato rivale, poiché se l’individuo X consuma il bene, non ne resta più per Y. Al contrario, i costi della difesa europea garantiscono la sicurezza in eguale misura a X e Y. L’individuo X sarà più sicuro solo se migliora il sistema di sicurezza europea. Ma in tal caso sarà più sicuro anche Y. Inoltre la difesa europea è un bene non escludibile. Se è possibile escludere un individuo dal consumo del bene in questione, è possibile anche pretendere un prezzo per il suo consumo (ad esempio, per le autostrade si può chiedere un pedaggio). Ma per un bene pubblico puro, come la sicurezza, non è possibile escludere alcun cittadino dal godimento del bene «sicurezza» una volta che una difesa europea sia istituita. Ciò significa che i beni pubblici puri devono essere finanziati mediante la tassazione, perché nessuno pagherebbe volontariamente il prezzo della difesa europea, sapendo che comunque, se qualcun altro provvede alla difesa, anche lui ne beneficerà (fenomeno detto del free rider). Si può pertanto sostenere che i beni pubblici devono essere fomiti da una pubblica autorità (un governo) a causa del fallimento del mercato: l’imprenditore non avrà alcun incentivo a produrre un bene da cui non potrà ricavare alcun profitto.
La difesa europea, oltre alle caratteristiche di cui abbiamo appena discusso, e che sono ampiamente riconosciute dalla dottrina, ne ha una seconda più controversa: è un bene pubblico sovranazionale.[19] I beni pubblici sovranazionali rappresentano la risposta ad un duplice fallimento: il fallimento del mercato e il fallimento della politica intergovernativa nazionale (i governi nazionali si comportano come un free rider: attendono che sia qualcun altro — come gli Stati Uniti o qualche altro paese europeo — a risolvere per loro il problema). Questi beni devono dunque essere prodotti da un governo sovranazionale. Tuttavia, sebbene sia difficile politicamente far ammettere ai governi nazionali che occorre creare un governo sovranazionale, per quanto riguarda la dottrina dei beni pubblici non dovrebbe essere controverso il fatto che esistono aree ottimali di produzione dei beni pubblici: il livello comunale fornisce beni a una collettività locale di cittadini, il livello regionale fornirà beni di interesse regionale (come una rete locale di strade), il livello nazionale fornisce beni pubblici di utilità a tutti i cittadini nazionali e il governo federale europeo fornisce beni pubblici utili a tutti i cittadini dell’Unione europea.
Prendiamo ora in considerazione il bene pubblico «Piano europeo per la crescita e l’occupazione». Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un bene pubblico sovranazionale. La finalità esplicita di questo Piano è di far aumentare il tasso di crescita dell’economia europea e, possibilmente, di occupazione. Si tratta di un bene non rivale perché, se la produttività del lavoro aumenta come effetto del Piano, l’individuo X otterrà un beneficio senza che sia necessario ridurre i benefici che l’individuo Y ottiene (come per la difesa). Quanto più il Piano è efficace, tanto maggiori saranno i benefici per X e per Y. Inoltre, si tratta di un bene non escludibile, perché nessun cittadino dell’Unione può essere escluso dai benefici derivanti da un aumento complessivo della produttività del lavoro nell’economia europea. Il Piano, in quanto insieme complesso di investimenti, non potrà essere prodotto dal mercato, perché nessun individuo o impresa ha interesse a produrre l’insieme dei beni pubblici inclusi nel Piano. La Strategia di Lisbona rappresenta un esempio di bene pubblico europeo fornito dai governi nazionali. Il problema in discussione ora è trovare il livello di governo che può fornirlo nel modo più efficiente. La cooperazione intergovernativa produce risultati insufficienti (è una soluzione di second best). Un bene pubblico europeo deve essere fornito da un governo europeo, con mezzi europei. Anche per il Piano europeo è dunque necessario ricorrere alla tassazione per il suo finanziamento, sebbene sia possibile, per singoli progetti, associare il capitale privato, come del resto avviene anche per la difesa.
Resta da discutere una caratteristica del Piano europeo. Si potrebbe sostenere che un bene pubblico non viene prodotto una tantum, ma deve avere la caratteristica della continuità nel tempo, come avviene per la difesa. Occorre ammettere che nel Piano qui in discussione sono presenti degli aspetti congiunturali, dettati dalla situazione di emergenza in cui si trova l’economia europea, e degli aspetti strutturali. I beni pubblici che si propone di includere nel Piano europeo hanno tutti la caratteristica della permanenza. Quando, ad esempio, il Global Monitoring for Environment and Security (GMES) sarà obsoleto, dovrà essere sostituito da un sistema simile, poiché i servizi resi saranno ormai diventati indispensabili per garantire il funzionamento dell’economia europea. Molti piani presentati dal governo statunitense in funzione anticongiunturale presentano queste caratteristiche (a volte vengono aumentate le spese nel settore della difesa o della ricerca scientifica, ma l’aspetto congiunturale degli investimenti non viene percepito, perché questi settori sono già, a differenza dell’Europa, competenze consolidate del governo federale).
Possiamo ora tentare di riassumere i vantaggi economici ottenibili dalla produzione dei beni pubblici europei da parte di un governo federale europeo. Per quanto riguarda la difesa, i vantaggi economici derivano sostanzialmente dalle economie di scala ottenibili grazie ad una efficiente divisione del lavoro tra le industrie impegnate in questo settore. Un sistema di commesse pubbliche europee (public procurements) che non costringa più le imprese a produrre sulla base di quote nazionali è a questo fine essenziale.[20] Per quanto riguarda il Piano europeo, i vantaggi maggiori dovrebbero derivare dal valore del moltiplicatore europeo della spesa pubblica, perché ogni euro speso dai governi nazionali per tentare di produrre beni pubblici europei produce necessariamente un effetto moltiplicativo molto più limitato (cfr. Appendice). Consistenti vantaggi possono derivare da economie di scala generate dalla contemporanea realizzazione di piani di investimento tra settori tra loro complementari (come si tenta di dimostrare nel paragrafo seguente). Inoltre, è nel contesto della produzione di beni pubblici europei che assume un senso definito la politica industriale europea. L’Unione europea per molti anni si è limitata a considerare come politica industriale la politica della concorrenza. E’ tempo di passare ad una visione attiva di intervento sul mercato, anche mediante la creazione di vere e proprie industrie pubbliche europee. L’introduzione del metodo di co-partecipazione Public-private partnership (PPP), già sperimentato per Galileo, va nella giusta direzione. Se l’Unione europea vuole tener testa alle grandi potenze industriali mondiali non può certo assumere un atteggiamento passivo verso la politica industriale praticata negli spazi extra-europei. Infine, non vanno affatto sottovalutati gli aspetti psicologici di un Piano europeo. Il calcolo della redditività di un investimento non dipende solo da fattori certi e altamente probabili. Le attese ottimistiche o pessimistiche degli imprenditori sono cruciali. Keynes era convinto che compito della politica economica fosse anche quello di incidere sullo «state of confidence». Ebbene, un Piano europeo che prospettasse un insieme di iniziative per consentire all’Unione europea di assumere la leadership della crescita economica mondiale potrebbe attrarre in Europa capitali, scienziati e lavoratori che, in caso contrario, cercherebbero fortuna altrove.
In conclusione, sembra giustificato sostenere che un Piano europeo per la crescita e l’occupazione aggiunga valore, dunque generi un maggiore aumento del Pil, rispetto a una sommatoria di piani nazionali.
 
7. Alcuni capitoli del Piano europeo.
 
Nella impossibilità di discutere di un Piano europeo che non esiste ancora, perché esso può scaturire solo da una proposta della Commissione europea, prendiamo ora in considerazione alcuni progetti europei già esistenti, al fine di mostrare la loro complementarietà nel caso fossero inseriti in un piano organico europeo. I quattro esempi riguardano: la politica spaziale europea; la sua estensione al settore militare; la creazione di un’area europea della ricerca; infine, i progetti delle reti trans-europee di trasporto.
Per quanto riguarda la politica spaziale, il divario tra Europa e Stati Uniti è grave. Gli USA dedicano allo spazio sei volte più risorse rispetto all’Unione europea. Essi perseguono esplicitamente l’obiettivo di una «space dominance» a livello mondiale. La loro spesa spaziale è pari all’80% di quella mondiale (civile e militare). La domanda per il settore spaziale negli USA proviene per 3/4 dal settore militare, mentre la domanda europea proviene per metà dal settore commerciale e per l’altra metà da istituzioni nazionali od europee.[21] Tenuto conto che solo il 30% del mercato mondiale spaziale è aperto (gli altri maggiori competitori, USA, Russia, Giappone e Cina, hanno mercati molto protetti), è indispensabile che esista un finanziamento pubblico per sviluppare l’industria spaziale europea. La Commissione ha fatto pertanto una serie di proposte, attingendo fondi per lo spazio anche da altri programmi già avviati,[22] sottolineando con forza che un aumento nei fondi destinati al settore spaziale è assolutamente indispensabile per garantire l’indipendenza europea. Il fronte delle attività coperto dall’industria spaziale europea è vastissimo. Basti ricordare i programmi principali: Ariane, per l’invio di satelliti in orbita mediante razzi; la sonda Cassini-Huygens per l’esplorazione di Saturno; il Global Earth Observation System of Systems (GEOSS), per l’osservazione dei fenomeni fisici terrestri e marittimi; Galileo, un sistema di satelliti per la radionavigazione e il posizionamento, con rilevanti applicazioni commerciali nel lungo periodo; il Global Monitoring for Environment and Security (GMES), per osservazioni sull’ambiente, l’inquinamento e la sicurezza ambientale. La Commissione calcola che ogni euro speso in applicazioni spaziali può generare un turnover di 7-8 euro per nuovi servizi. Attualmente la spesa totale per lo spazio, compresa quella a livello nazionale, è pari allo 0,06% del Pil europeo. Nel Libro Bianco si prevede che gli investimenti pubblici in questo settore strategico potranno aumentare considerevolmente solo se si deciderà di procedere anche sul fronte della difesa europea. Per questo, la previsione della Commissione è che dal livello di 5.380 milioni di euro nel 2004, si possa passare (scenario minimo) a 6.620 nel 2013 (con un aumento del 2,3% annuo) oppure, scenario massimo, a 8.080 milioni di euro (con un tasso di crescita del 4,6% annuo). Anche nell’ipotesi più fortunata, alla politica spaziale verrebbe dedicato non più del 5% del bilancio comunitario nel 2013.
Da questa breve rassegna della politica spaziale europea si può ben intuire la sua rilevanza anche per la difesa militare europea. La fine della guerra fredda ha fatto emergere, per quanto riguarda la difesa, la nozione di tecnologia duale. Nei nuovi scenari mondiali, la tradizionale concezione autarchica dell’industria della difesa presenta falle sempre maggiori. Nella misura in cui le tecnologie militari dipendono per il loro sviluppo da quelle civili, come dimostrano l’informatica e le nanotecnologie, è il mercato mondiale, non quello nazionale, il quadro di riferimento. Anche l’esercito americano deve dipendere per la fornitura di certe componenti elettroniche da industrie giapponesi. Ciò significa che la Base tecnologica e industriale della difesa (BTID) deve fondarsi sempre più sull’interdipendenza tra militare e civile e tra pubblico e privato. Inoltre, il primato nell’innovazione tecnologica, anche nel settore civile, diventa un aspetto cruciale della strategia di difesa. Ecco perché il governo di Washington sostiene una politica del primato tecnologico statunitense.[23]
Il progetto Galileo è tipicamente una tecnologia duale. In effetti, l’Unione europea è stata indotta a produrre un sistema europeo di posizionamento anche a causa delle minacce statunitensi di impedire ai paesi dell’Unione l’utilizzazione del sistema GPS (Global Positioning System) in caso di crisi acute. Il problema economico della difesa europea dipende dai vincoli che ogni paese dell’Unione pone ad una divisione economica del lavoro nell’industria fornitrice di mezzi militari. Gli Stati Uniti spendono per la difesa più della metà del totale mondiale. La loro superiorità militare è schiacciante. Si può dunque comprendere come l’industria europea sia fagocitata da quella statunitense. La BAE inglese coopera con l’americana Lockheed Martin per la produzione del nuovo aereo da combattimento F-35: in questo progetto sono coinvolte anche la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia e l’Italia. Il Mirage francese ha un mercato sempre più ridotto. Alcuni responsabili dell’industria militare europea sono convinti che «tra qualche anno non resteranno che due o tre grandi gruppi industriali mondiali con una dimensione americana».[24] La conseguenza inevitabile è che non vi sarà più un’industria europea indipendente. Non è certo qui possibile esaminare il costo di un piano di adeguamento dei mezzi militari europei per affrontare le sfide di politica estera dell’Unione nella politica mondiale. La risposta a questo quesito è impossibile senza un governo europeo che ponga la questione esplicitamente. Tuttavia possiamo esaminare un settore più limitato: l’adeguamento di una politica spaziale del settore militare, come viene proposta da uno studio francese.[25] Questo studio parte dalla constatazione che la Francia, il paese europeo che più di ogni altro ha tentato di tener testa alla supremazia americana, negli ultimi vent’anni è stata costretta a diminuire in continuazione le sue risorse dedicate al settore spaziale, a causa di limiti imperativi di bilancio. La sola alternativa è dunque una politica spaziale europea anche nel settore militare, tenuto conto del fatto che esistono numerosissime sinergie tra civile e militare. Lo studio esamina analiticamente i bisogni del settore militare nel campo delle telecomunicazioni, dei sistemi di posizionamento, dei sistemi di ascolto elettronico (Elint-Comint), dei sistemi di sorveglianza dello spazio e di allarme, infine dei sistemi di meteorologia e oceanografia per finalità militari. La conclusione dello studio è che l’adeguamento del sistema spaziale militare europeo avrebbe un costo totale di 8.290 milioni di euro che potrebbero essere ripartiti in piani variabili da 8 a 15 anni (a seconda dell’applicazione) con un costo medio annuo di 730 milioni di euro. Per un confronto, si tenga presente che questo costo annuale è pari a 33 chilometri di autostrada e che in Europa se ne costruiscono 1.200 chilometri all’anno. Naturalmente, dato il carattere politico della decisione da prendere, lo studio riconosce che occorrerebbe affidare la responsabilità della realizzazione del programma a «uno stato maggiore europeo» che risponda a «un organismo di governo» dell’Unione.
Il terzo settore rilevante è quello della ricerca e dello sviluppo, anche se sarebbe più corretto parlare di un insieme di iniziative pubbliche, universitarie e imprenditoriali. Si è già accennato al divario esistente tra Europa e Stati Uniti. L’urgenza di un’efficace politica europea, su questo fronte, è dimostrata anche dal fatto che circa il 40% della R&D negli USA, secondo la Commissione europea, è fatto da personale addestrato in Europa. E’ necessario creare un quadro istituzionale europeo, sia pubblico che privato, capace di offrire ai ricercatori serie opportunità di lavoro e di carriera. La Strategia di Lisbona prevede che le spese per R&D raggiungano il livello del 3% del Pil, di cui 2/3 effettuate dalle imprese e 1/3 dal settore pubblico (europeo e nazionale). Secondo la Commissione un aumento dello 0,1 % nelle spese in R&D causerebbe un aumento del prodotto pro-capite dello 0,3-0,4%. Un raddoppio delle spese del Settimo programma quadro (FP7) porterebbe ad un aumento del tasso di crescita del prodotto lordo compreso tra lo 0,69 e l’1,66%.[26]
Consideriamo da ultimo, come quarto esempio, il programma di investimenti nelle reti trans-europee di trasporto (TEN-T). Originariamente questi progetti erano parte del Piano Delors. Ora alcuni di essi sono stati inseriti in un piano più vasto, comprendente 30 progetti. La proposta della Commissione è di intervenire con finanziamenti pubblici europei, aggiunti a quelli nazionali, per incentivare la costruzione di tratti ferroviari o autostradali transfrontalieri. In questo modo si accelera la costruzione di grandi reti di comunicazione tra il Nord e il Sud dell’Europa (come la linea ferroviaria Ralle-Palermo, via Kufstein e Brennero) e tra l’Ovest e l’Est (come la linea Lione-Torino-Venezia-Budapest). Il costo totale dei 30 progetti è di 600 miliardi di euro ma, non potendo mobilitare questo ammontare ingente di risorse finanziarie, la Commissione ha predisposto un Piano più limitato di sei tronchi, per un totale di 140 miliardi di euro da includere nel bilancio 2007-2013. I benefici derivanti da questi investimenti consistono principalmente in una riduzione del congestionamento del traffico valutato in un risparmio di 8 miliardi di euro all’anno, oltre che in riduzioni di anidride carbonica e altre emissioni nocive. Questi investimenti iniziali dovrebbero provocare un aumento del tasso di crescita del Pil pari allo 0,23% annuo e consentirebbero di creare un milione di nuovi posti di lavoro.[27]
Questi capitoli di un Piano europeo rappresentano una indicazione dei possibili guadagni ottenibili da ciascuno di essi, ma vi sono altri vantaggi ottenibili dalle sinergie derivanti da una loro simultanea realizzazione. Non siamo in grado di dare una risposta precisa a questo interrogativo, ma possiamo suggerire qualche orientamento sulla base di uno studio econometrico realizzato per conto del Senato francese.[28] Lo studio è stato effettuato con il modello econometrico Nemesis sulla base dell’ipotesi che l’intensità di R&D dell’Unione europea raggiunga il 3% del Pil entro il 2010, come previsto dalla Strategia di Lisbona, a partire da un livello pari all’1,86% del 2002. Inoltre si suppone che tutti i governi dell’Unione realizzino effettivamente gli impegni assunti nel quadro della strategia delineata dalla Commissione. La simulazione prevede due scenari. Il primo è che sia il settore privato a compiere lo sforzo maggiore, raggiungendo dunque il 2% del Pil, mentre la parte restante, l’1%, è assicurata dal settore pubblico. La proiezione all’anno 2030 prevede un aumento del tasso di crescita annuo dello 0,43%, con un aumento totale del prodotto lordo del 12,1% e un aumento di posti di lavoro incluso tra 8 e 14 milioni. Un secondo scenario si fonda, invece, sull’ipotesi che sia il settore pubblico a farsi carico interamente dello sforzo supplementare, sino al 3% del Pil. In questo caso si otterrebbe un effetto moltiplicatore molto maggiore. Nel 2030 il prodotto lordo aumenterebbe del 15,8% e si creerebbero 17,1 milioni di nuovi posti di lavoro. Va precisato, tuttavia, che questi calcoli sono effettuati senza tener conto di un possibile effetto di spiazzamento, cioè di un aumento dei tassi di interesse a causa della maggiore domanda di capitali per finanziare i deficit di bilancio (che tuttavia, grazie alla crescita, ritornerebbero in pareggio al termine del processo).
A conclusioni ancora più positive giunge uno studio promosso dalla Commissione europea sul costo della non attuazione della strategia di Lisbona. «Se gli effetti dell’aumento degli investimenti in conoscenza previsti dalla Strategia di Lisbona fossero sommati, l’aumento del tasso potenziale di crescita dell’Unione europea potrebbe raggiungere i tre quarti di un punto percentuale. Nell’arco di un decennio ciò comporterebbe un aumento del livello del Pil del 7% o dell’8%».[29]
 
8. Le risorse proprie.
 
Il termine «risorse proprie», utilizzato per designare le risorse finanziarie di cui l’Unione europea dispone per la realizzazione delle sue politiche, è ingannevole. In verità, l’Unione europea non dispone di risorse proprie a causa delle procedure adottate per l’approvazione del bilancio e dei vincoli al sistema di reperimento delle risorse finanziarie.
Per discutere queste affermazioni, è opportuno in via preliminare precisare la dimensione del bilancio comunitario che sarebbe necessaria per la realizzazione delle politiche di cui abbiamo sinora discusso, in particolare la fornitura di beni pubblici europei. Il nostro scopo è quello di individuare un ordine di grandezza, non presentare voci dettagliate di un bilancio europeo. Possiamo, a questo fine, sfruttare i risultati conseguiti dal Rapporto Sapir, che prevede una sostanziale riduzione delle spese per la PAC ed un loro riutilizzo per la crescita. Tuttavia, è necessario mettere in discussione due postulati che vengono accettati dal Rapporto Sapir, vale a dire: a) il tetto di spesa, fissato dal Consiglio all’1,24% del Pil comunitario; b) l’esclusione dal bilancio europeo delle spese per la difesa e la politica estera. Le due questioni sono connesse, poiché se si intende creare una difesa europea, andrebbero trasferite le spese correnti dai bilanci nazionali al bilancio europeo. Questa operazione comporta un aumento del bilancio europeo di 1,8% del Pil dell’Unione e un corrispondente alleggerimento dei bilanci nazionali.[30] L’ammontare immutato, rispetto alla somma dei bilanci nazionali, della spesa aggregata per la difesa europea è giustificato: a) dalle economie prodotte da una migliore integrazione dell’industria europea degli armamenti e dalle sinergie possibili con quella civile, che potrebbero concedere un margine di manovra per il miglioramento tecnologico; b) dall’ipotesi, che qui non è possibile approfondire, che l’Unione europea utilizzi i suoi mezzi militari e di politica estera per contribuire alla stabilità internazionale e alla costruzione della pace, senza nutrire l’ambizione di trasformarsi in una nuova superpotenza mondiale. A queste spese per la difesa andrebbero aggiunte quelle per la politica estera, in particolare gli aiuti allo sviluppo (che l’Unione si è impegnata a portare allo 0,39% del Pil). Per quanto riguarda la Strategia di Lisbona, il Rapporto Sapir propone che il bilancio europeo contribuisca con lo 0,25% del Pil per le spese in R&D. Inoltre, vanno creati nuovi poli di eccellenza nella ricerca pura ed applicata in Europa e si deve incentivare un vero e proprio sistema universitario europeo integrato. In breve, il capitolo «Crescita» dovrebbe raggiungere, secondo il Rapporto Sapir, lo 0,45% del Pil. In vista dell’allargamento, il capitolo della «Convergenza» (i fondi strutturali) è portato allo 0,35% del Pil. Il Rapporto propone inoltre un capitolo «Ristrutturazione» (di cui discuteremo nel prossimo paragrafo) pari allo 0,20% del Pil. In definitiva, si può sostenere che un bilancio europeo necessario a sostenere gli impegni di spesa di un governo federale europeo dovrebbe aggirarsi intorno al 3,5% del Pil comunitario, incluse la difesa e la politica estera (crescita 0,45%, convergenza 0,35%, ristrutturazione 0,20%; difesa 1,80%; politica estera 0,50%; altre spese 0,20%. Totale 3,5%). Va tuttavia ricordato che il Rapporto Sapir prevede un drastico ridimensionamento della PAC. Se questo obiettivo non venisse raggiunto, il bilancio dovrebbe essere più consistente. Inoltre, anche le spese per la ricerca, per la ristrutturazione e per la politica estera dovrebbero probabilmente venir aumentate per consentire all’Unione di affrontare più efficacemente le sfide della globalizzazione. Ma complessivamente sembra ragionevole sostenere che un bilancio europeo pari al 3,5-4% del Pil comunitario dovrebbe essere sufficiente a finanziare le politiche di un governo federale europeo.
Questa rozza indicazione della dimensione del bilancio federale dell’Unione è utile per mostrare che anche il bilancio europeo può essere utilizzato in funzione anticiclica. Un Piano europeo per la crescita e l’occupazione della grandezza dell’1,5% o del 2% del Pil comunitario, come hanno fatto nel passato sia gli USA che il Giappone, non è impensabile. Poiché un Piano europeo porterebbe sostanziali benefici alle economie nazionali ed ai loro bilanci, è giustificato un co-finanziamento tra UE e governi nazionali. Ad esempio, si può ipotizzare che un Piano pari al 2% del Pil europeo venga finanziato per l’1% dall’Unione e per l’1% dai governi nazionali. A loro volta, l’Unione europea e i governi nazionali potrebbero attingere per metà (0,5% del Pil) al loro bilancio e per metà ad un prestito pubblico. Si dovrebbe dunque abolire il vincolo del pareggio del bilancio europeo. Sarebbe sufficiente indicare che anche il bilancio europeo, come i bilanci nazionali, debba tendenzialmente essere «close to balance or in surplus», come è richiesto dal Patto di stabilità. Un debito pubblico europeo che raggiungesse le dimensioni del bilancio comunitario non muterebbe sostanzialmente la credibilità dell’Unione sui mercati internazionali. Nel 2005, l’indebitamento totale dell’UE-25 era pari al 63,4% del Pil europeo (al 70,9% per l’UE-12). Nella misura in cui continuasse il processo di riduzione dei debiti pubblici nazionali eccessivi, non ci si scosterebbe molto da questo ammontare anche tenendo conto del debito pubblico europeo. Gli interessi da imputare al bilancio europeo per il servizio del debito sarebbero di un ammontare che, ai tassi attuali, sarebbe circa lo 0,01% del Pil europeo.
Il trasferimento al bilancio europeo delle spese per la difesa, mentre alleggerisce i bilanci nazionali, crea certamente il problema di maggiori e diverse risorse proprie per l’Unione. Le risorse proprie tradizionali (TOR), come è noto, sono rappresentate dagli introiti doganali, da una parte della tassa sul valore aggiunto (IVA) e da una terza risorsa, i contributi nazionali, proporzionale al Pil di ciascun paese. I problemi maggiori, per quanto riguarda il metodo di finanziamento, derivano dall’utilizzo della terza risorsa, che ha un carattere residuale: si ricorre ad essa nella misura in cui le altre entrate non sono sufficienti a finanziare le spese. E poiché le risorse doganali sono in continua diminuzione e le entrate sulla IVA hanno un carattere regressivo (per questo è stato fissato un tetto pari al 50% del Pil), si è ricorsi in misura crescente ai finanziamenti nazionali. Da un ammontare pari al 29,6% nel ‘96, si è raggiunto il 74,5% nel 2005 .[31] La distorsione introdotta da questo sistema di finanziamento del bilancio comunitario è grave. Poiché ogni paese finanzia una quota importante del bilancio e conserva il diritto di veto, pretende anche un juste retour. La pretesa di un giusto ritorno nazionale, svuota di significato il bilancio europeo: è un capitolo dei bilanci nazionali la cui realizzazione è affidata a funzionari europei. L’esperienza, del resto, dimostra che l’efficacia della spesa europea, ad esempio per i fondi strutturali, è gravemente compromessa dalle attese dei governi di un giusto ritorno. Il principio della solidarietà tra regioni ricche e povere viene ignorato o sottovalutato. Questa concezione del bilancio europeo è incompatibile con la nozione di beni pubblici europei. Un bene pubblico, come la difesa europea, dovrebbe essere finanziato direttamente dai cittadini europei, perché la loro sicurezza dipende dall’efficacia con cui il governo europeo provvede alla produzione di quel bene. Le medesime osservazioni dovrebbero valere per il Piano europeo per la crescita e l’occupazione. Nella teoria del federalismo fiscale si sostiene in effetti il principio della equivalenza fiscale, vale a dire che ogni livello di governo deve poter finanziare con risorse proprie, attinte dalla comunità politica locale, nazionale o sovranazionale, i beni pubblici che fornisce ai cittadini.[32]
La Commissione europea è cosciente di queste distorsioni, ma la sua proposta di soluzione non è condivisibile perché viziata da considerazioni ideologiche. Essa suggerisce che almeno metà del bilancio venga finanziato con contributi nazionali, poiché l’Unione europea è una comunità di «Stati e di cittadini». Questa proposta riduce solo il potere di ricatto dei governi nazionali sulla spesa europea, ma non intacca alla radice l’anomalia. Il significato politico dell’espressione «una Unione di Stati e di cittadini» si deve tradurre in una procedura democratica di codecisione tra il Parlamento europeo (che rappresenta i cittadini europei) e il Consiglio (che rappresenta i governi nazionali) per l’approvazione del bilancio dell’Unione. Le regole attuali sono sbilanciate a favore del Consiglio che si è attribuito il potere di fissare il tetto (ora l’1,24% del Pil) del bilancio comunitario. Il rispetto della pari dignità del Parlamento e del Consiglio impone che anche l’eventuale tetto di spesa venga co-deciso (per superare questa impasse, nelle Conclusioni si avanzerà una proposta). Le risorse finanziarie dell’UE devono dunque essere veramente proprie, nel senso di autonome da ogni influenza nazionale. Solo in questo modo la Commissione europea può orientare le sue politiche in funzione della realizzazione di «beni pubblici europei» e non del soddisfacimento degli interessi di questo o di quel governo nazionale.
Per quanto riguarda le nuove risorse proprie, la Commissione propone tre opzioni, non necessariamente alternative. La prima è una tassa sull’energia, che potrebbe rappresentare anche una importante leva di una politica ambientale. La seconda possibilità è una percentuale sulla IVA, che non si dovrebbe tradurre in un aggravio rispetto alle aliquote esistenti, ma in un maggiore trasferimento al livello europeo (l’1% della IVA dell’UE sarebbe sufficiente, secondo la Commissione, per coprire almeno metà dei fabbisogni attuali di bilancio). La terza risorsa proposta, di più complessa attuazione, riguarda la tassa sulle società (company taxation). A queste proposte, occorrerebbe aggiungerne una quarta: una imposta sui redditi personali. I cittadini europei devono diventare consapevoli dei costi dell’Unione e della necessità di provvedere al loro finanziamento. Per avvicinare l’Unione ai cittadini questa scelta è decisiva. Nel corso delle elezioni europee, i partiti europei devono spiegare ai cittadini qual è il loro programma di legislatura e come intendono finanziarlo. La democrazia europea, come la democrazia nazionale, impone che si inneschi un circuito di fiducia tra governanti e governati.
 
9. L’occupazione.
 
Nella Teoria generale, Keynes ipotizzava una relazione «precisa» tra aumento degli investimenti, aumento del reddito (data la propensione marginale al consumo) e aumento dell’occupazione. La relazione tra aumenti degli investimenti, del reddito e dell’occupazione è uno dei capisaldi della macroeconomia. Tuttavia, le caratteristiche dello sviluppo economico contemporaneo non consentono più di individuare, con precisione, la relazione reddito-occupazione, per almeno due ragioni.
La prima ragione riguarda l’organizzazione del mercato del lavoro, che non può essere più considerato un dato istituzionale rigido come ai tempi di Keynes. La crescita economica non genera meccanicamente, sulla base delle sole tecnologie esistenti, un aumento di occupazione. Occorre tenere sempre più in considerazione l’organizzazione del mercato del lavoro, che può essere più o meno sensibile agli stimoli provenienti dalla domanda aggregata. In Europa, a partire dagli anni Ottanta, ma specialmente nel corso degli anni Novanta, sono state introdotte molte riforme nel mercato del lavoro per renderlo maggiormente flessibile e sensibile alla crescita. Nella misura in cui si può esprimere sinteticamente questo indice istituzionale mediante l’intensità occupazionale della crescita (Employment intensity of economie growth), cioè il rapporto tra crescita dell’occupazione e crescita del Pil, si deve constatare che esso è cresciuto nel corso degli ultimi due decenni, contribuendo così a ridurre il tasso di disoccupazione medio dell’economia europea nel lungo periodo.[33] Questo fattore istituzionale influenza la relazione tra produzione e occupazione non solo nella fase di espansione, ma anche in quella di recessione. Ad esempio, nel corso del 2004, nell’Unione europea, «nessun posto di lavoro è stato perso nel corso della recente stagnazione, mentre più di 2,5 milioni di posti sono scomparsi durante la recessione del 1992-93».[34]
La seconda ragione riguarda la peculiare organizzazione dell’economia europea a differenti livelli di governo. Mentre negli USA, come si è detto, il governo federale gestisce buona parte delle spese sociali, in Europa queste spese sono sostenute al livello nazionale. Il bilancio europeo si sta specializzando, se la tendenza in corso verrà mantenuta, su alcuni fronti decisivi come la crescita e la solidarietà tra diverse regioni e Stati membri. In Europa esistono modelli diversi di Stato sociale, tanto che è problematico parlare di un modello sociale europeo. Se si considera, ad esempio, il livello della spesa sociale rispetto al Pil, tra il tetto della Svezia (30%) e della Germania (27,7%) e il pavimento della Lituania, della Lettonia e dell’Irlanda (15%) si pongono non solo gli altri paesi europei, come l’Italia (22,3%), ma anche gli USA (24,5%).[35] Le prestazioni generate da questi diversi modelli di Stato sociale sono molto differenti: il modello anglosassone (Gran Bretagna e Irlanda) ha un livello relativamente basso di imposizione e una relativamente elevata dispersione del reddito; ma genera soddisfacenti tassi di crescita e di occupazione; il modello scandinavo (Danimarca e Svezia) ha un’elevata tassazione e una bassa dispersione dei redditi, ma è ugualmente in grado di generare alti livelli di crescita e di occupazione. Al contrario, Francia, Germania e Italia, con relativamente alti livelli di tassazione, non sono in grado di ottenere buone prestazioni né in termini di crescita, né in termini di occupazione. Nella misura in cui la funzione della crescita viene affidata prevalentemente allivello europeo, non ci si deve aspettare una uniforme distribuzione nelle varie economie nazionali dei benefici in termini di occupazione.
Ciò non significa che si debba rinunciare a politiche fondate sulla concezione keynesiana del moltiplicatore. E’ solo opportuno limitare l’analisi alla relazione tra incremento della spesa in investimenti e incremento del reddito. La relazione tra incremento del reddito europeo e incremento dell’occupazione dipenderà, in parte, da come ogni singolo paese riuscirà a sfruttare la situazione. Questa troncatura, o concezione ridotta del moltiplicatore keynesiano, non significa, tuttavia, che l’Unione europea debba delegare interamente i problemi dell’occupazione ai governi nazionali. Vi sono problemi di disoccupazione che si manifestano a livello locale, ma che sono generati dall’interdipendenza delle economie nazionali e dal mercato mondiale. L’Unione europea deve farsi carico di questi effetti esterni.
Il problema non è affatto nuovo. E’ stato discusso nella letteratura sul federalismo fiscale sin dall’avvio dell’Unione monetaria. Come rimediare ad un shock asimmetrico in un’economia nazionale, appartenente ad una Unione monetaria? Le risposte sono state spesso cercate attingendo all’insegnamento statunitense. Negli USA, tuttavia, si è visto che la concentrazione del sistema fiscale, sia per quanto riguarda le entrate che le spese, è molto maggiore che in Europa. Esistono pertanto dei meccanismi di redistribuzione degli shock, come l’imposta progressiva (una diminuzione di reddito pro-capite provoca, ad esempio, una riduzione meno che proporzionale dei prelevamenti), che non possono essere attivati in Europa, sebbene anche l’Unione europea abbia previsto un sistema di riequilibrio territoriale, con i fondi strutturali. Attualmente, in effetti, l’Unione europea non è attrezzata per far fronte a questo tipo di problemi, che si manifestano con la delocalizzazione delle imprese e trasferimenti inter-europei di manodopera poco qualificata. Tuttavia, in vista dell’Unione monetaria, la Commissione europea aveva già promosso una serie di studi che hanno avuto il merito di delineare una soluzione specifica per l’Europa. Se si istituisce un fondo ad hoc, il cui scopo è quello di trasferire risorse agli individui colpiti dallo shock, anche un ammontare modesto di risorse può produrre effetti redistributivi simili a quelli di una federazione con un sistema fiscale molto centralizzato. Ad esempio, si calcola[36] che un fondo ad hoc pari allo 0,2% del Pil europeo sarebbe sufficiente per far fronte agli effetti di una diseguale distribuzione regionale della disoccupazione.
Più recentemente, nel Rapporto Sapir[37] viene fatta una proposta analoga. Per affrontare i problemi di disoccupazione causati dal progresso tecnico accelerato dalla competizione internazionale e dalla delocalizzazione delle imprese, si dovrebbe istituire un fondo pari allo 0,2% del Pil comunitario che sarebbe sufficiente per: a) assistere i lavoratori che hanno perso il posto di lavoro con un sussidio (che si aggiunge al sussidio nazionale) pari a 5.000 euro a testa, equivalente in media a circa sei mesi di salario minimo, nell’ipotesi che possa attingerle a questo fondo un totale di un milione di lavoratori; questi fondi possono venir utilizzati dai lavoratori per corsi di riqualificazione, per trasferimenti ad altra località, per intraprendere una nuova attività; b) un sussidio di analoghe dimensioni dovrebbe servire per assistere gli agricoltori colpiti dal processo di ristrutturazione della PAC in corso e dalla concorrenza internazionale e per introdurre metodi di produzione ecologicamente compatibili.
In definitiva, il sistema sociale europeo resta saldamente ancorato al livello nazionale, nonostante la necessità di un Piano europeo per la crescita e l’occupazione, per la ragione che la gran parte dei capitoli di spesa necessari a finanziare le politiche sociali fanno parte dei bilanci nazionali e non esistono ragioni convincenti per una loro centralizzazione nel bilancio europeo. Questo fatto implica anche che il sistema delle contrattazioni sindacali abbia una struttura prevalentemente nazionale, sebbene esistano problemi di armonizzazione che devono essere affrontati nel quadro dell’Unione (come le forme di partecipazione dei lavoratori nelle società europee, alcuni diritti dei lavoratori, l’armonizzazione dei minimi salariali, ecc.). Tuttavia questo non significa che un Piano europeo per la crescita non abbia importanti ripercussioni anche sul sistema della sicurezza sociale. I paesi europei devono rilanciare gli investimenti pubblici e devono riformare il Welfare State a causa dell’invecchiamento della popolazione e della necessità di garantire sempre migliori servizi pubblici. Senza la crescita economica e maggiori entrate fiscali queste politiche rischiano di divenire impossibili. In effetti, ogni governo nazionale le rinvia in continuazione. Inoltre, se l’Unione europea includerà nel suo bilancio un capitolo per garantire la solidarietà europea ai lavoratori colpiti dal processo di ristrutturazione industriale e dalla concorrenza globale, indirettamente alleggerirà gli oneri a carico dei bilanci nazionali.
 
10. Conclusioni.
 
Se l’Unione europea vorrà dotarsi di un governo federale con poteri sufficienti per produrre beni pubblici europei sono necessarie tre riforme decisive.
La prima consiste nell’includere nel Patto di stabilità e di crescita anche il bilancio comunitario, al fine di delineare in un quadro unitario coerente i problemi fiscali dell’Unione. Questo passo è tanto più necessario se si intende concedere al bilancio europeo gli stessi margini di flessibilità dei bilanci nazionali, fissando un limite all’indebitamento europeo e un deficit sostenibile, come si è fatto per i bilanci nazionali. A questo punto il Patto di stabilità e di crescita dovrebbe entrare a far parte esplicitamente della Costituzione europea e dovrebbe essere riformabile con la medesima procedura prevista per la Costituzione europea.
La seconda riforma decisiva riguarda la creazione di una autorità europea di bilancio che prende le sue decisioni sulla base di un processo democratico di codecisione tra Parlamento europeo e Consiglio. Sino a che sopravvivrà il diritto di veto nazionale e la possibilità, per il Consiglio, di fissare un tetto alle risorse comunitarie non si potrà parlare di risorse proprie dell’Unione. La procedura di approvazione del bilancio deve riflettere nella sostanza la volontà dei cittadini dell’Unione; volontà che si esprime con il voto europeo, al momento dell’elezione del Parlamento europeo, e nei governi nazionali. Una volta che il Patto di stabilità e di crescita sarà in grado di imporre dei limiti costituzionali all’indebitamento massimo dell’Unione e al suo deficit di bilancio non si vede perché il Consiglio dei Ministri debba imporre ulteriori vincoli al bilancio comunitario.
Infine, è necessario che venga creato un Ministro dell’economia e delle finanze in seno alla Commissione europea. Nel progetto di Costituzione europea già si prevede l’istituzione di un Ministro degli Esteri, ma per quanto riguarda l’economia, la questione resta indeterminata e l’attuale ripartizione dei compiti nella Commissione riflette un vuoto di potere. In effetti, se la Commissione potesse contare su risorse proprie non potrebbe fare a meno di avere un Ministro politicamente responsabile dell’andamento del gettito fiscale e delle spese. Solo attivando nel suo seno questa figura istituzionale la Commissione si potrà assumere la piena responsabilità, di fronte al Parlamento europeo e agli elettori europei. L’economia europea può veramente diventare l’economia più dinamica del mondo, fondata sulla conoscenza e l’innovazione, a patto che esista una chiara volontà politica e i mezzi adeguati per realizzare questo progetto.
 
 
Appendice
Il valore aggiunto di un investimento pubblico europeo
 
Un indice significativo dell’efficacia della politica economica di un governo è rappresentato dal valore del moltiplicatore keynesiano della spesa pubblica. La spesa governativa produce una serie di effetti positivi sul reddito, che aumenterà non solo del valore dell’intero ammontare dell’investimento, ma anche degli infiniti incrementi di spesa che saranno effettuati dai soggetti economici che percepiscono le prime remunerazioni e quelle successive. La serie degli effetti positivi si ridurrà tanto più rapidamente quanto maggiori sono il reddito non speso (risparmiato) dai soggetti economici e la percentuale di reddito spesa in importazioni (che finisce al di fuori dell’area amministrata dal governo). Numerose indagini empiriche confermano che il valore del moltiplicatore è minore dell’unità o prossimo all’unità nel caso dei paesi europei, la cui economia è molto aperta agli scambi internazionali).[38] Per questo le politiche espansive promosse dai governi europei isolatamente, e non coordinate allivello europeo, sono molto poco efficaci.
Prendiamo ora in considerazione l’Unione europea, ignorando i suoi rapporti con il resto del mondo (come se fosse un’economia chiusa) e supponiamo che esista un governo federale europeo che, al pari di quello statunitense, possa contare su un bilancio federale finanziato con risorse fiscali proprie e che possa, in caso di necessità, emettere un debito pubblico europeo. Le competenze assegnate al governo federale riguardano, in primo luogo, la fornitura di beni pubblici sovranazionali. Si tratta di beni che posseggono le caratteristiche della non rivalità e della non escludibilità. Nel nostro caso, siamo interessati a studiare gli effetti della fornitura di due beni pubblici sovranazionali europei: la difesa europea e un piano europeo per la crescita e l’occupazione.
L’analisi della situazione europea, a differenza di quella statunitense, è complicata dal fatto che un vero governo federale europeo, dotato di risorse proprie, ancora non esiste. La funzione di governo europeo è svolta in parte dalla Commissione europea e in parte dal Consiglio europeo. L’Unione europea riesce a fornire alcuni beni pubblici sovranazionali, come il sistema di teleposizionamento Galileo, ma nella maggioranza dei casi fornisce solo dei surrogati di beni pubblici sovranazionali mediante la cooperazione intergovernativa. Si deve parlare in questo caso di beni pubblici internazionali (o cooperativi). Gli esempi dalla difesa europea e della Strategia di Lisbona sono significativi. Al posto di una difesa europea, gli Stati hanno creato dei corpi militari che agiscono come forze alleate di una coalizione di governi nazionali. La Strategia di Lisbona si propone di far crescere la produttività dell’economia europea mediante una serie di piani nazionali coordinati dalla Commissione europea. In entrambi i casi, il surrogato del bene pubblico sovranazionale consiste in una somministrazione di beni pubblici nazionali.
Cominciamo a prendere in considerazione gli effetti di una sommatoria di Piani nazionali, o se si preferisce, la produzione di un bene pubblico internazionale. Supponiamo che i Piani nazionali siano finanziati mediante il ricorso al debito pubblico nazionale, che non esista una fiscalità europea e che l’Unione non abbia rapporti commerciali con l’estero. Il nuovo valore del prodotto lordo europeo (YUE) sarà pari alla somma di n Piani nazionali di spesa (Gn) moltiplicata per il moltiplicatore keinesiano nazionale (kn), nell’ipotesi che la propensione marginale al consumo sia la stessa in tutti i paesi dell’Unione e che ogni paese abbia ina elevata propensione all’importazione. L’incremento di valore del prodotto lordo europeo, che scaturisce da questa operazione, sarà pari alla differenza tra Y2, il valore della produzione dopo gli investimenti nazionali, e Y1, il valore iniziale.
Consideriamo ora un Piano europeo, deciso dal governo federale e finanziato mediante l’emissione di un prestito europeo o con risorse proprie del bilancio europeo. Lo scopo di questo Piano è di fornire dei beni pubblici sovranazionali europei, la cui funzione specifica è di aumentare la produttività del lavoro nell’intera Unione. L’ammontare del Piano europeo è pari alla sommatoria dei Piani nazionali. Il volume complessivo del prodotto lordo europeo che si otterrà dopo questo intervento di politica economica europea sarà maggiore di quello ottenuto mediante la cooperazione intergovernativa (Y3 sarà dunque maggiore di Y2), per almeno tre ragioni.
La prima ragione riguarda il metodo decisionale adottato per produrre il bene pubblico internazionale. Il piano intergovernativo verrà finanziato con risorse nazionali, sia che si ricorra alla tassazione sia che si ricorra al debito pubblico. Anche ammesso che i progetti nazionali vangano realizzati contemporaneamente, le risorse dedicate dai governi nazionali al finanziamento di un bene pubblico internazionale verranno strutturalmente deviate verso investimenti nazionali, con scarsi effetti sulla produttività europea. In breve, si privilegiano investimenti del tipo «autostrade» (con produttività nazionale) rispetto a investimenti del tipo «Galileo» (con produttività europea).
In secondo luogo, un Piano europeo, finanziato con risorse europee, può concentrare interamente la spesa nella fornitura la spesa di beni pubblici sovranazionali. Se lo scopo prioritario del Piano è quello di accrescere la produttività e la competitività dell’economia europea, le risorse finanziarie europee saranno concentrate nella produzione di progetti europei, la cui caratteristica fondamentale è di accrescere la produttività dell’economia europea nel suo insieme, sia privata che pubblica. La complementarietà tra questi progetti consentirà di ottenere consistenti economie di scala.
In terzo luogo un Piano europeo per la fornitura di beni pubblici sovranazionali, poiché può prendere in considerazione i vantaggi che si ottengono dagli incrementi del commercio interno all’unione, genererà aumenti di reddito pari al valore del moltiplicatore europeo (kUE), che dipende solo dalla propensione marginale al consumo dei cittadini europei, rispetto al moltiplicatore nazionale (kn), il cui vlore inferiore dipende anche dalla dispersione causata dalla propensione ad importare beni da altri paesi dell’Unione. Questa affermazione contrasta con quanto sostenuto da alcuni economisti.[39] E’ vero che, se il governo centrale (europeo) provvede direttamente all’investimento pubblico, il valore del moltiplicatore sarà sempre lo stesso, qualsiasi sia lo Stato (o la regione) in cui l’investimento viene fatto. Ma questa osservazione ignora del tutto il problema politico di un’area economica comporta da un insieme di governi indipendenti. I governi nazionali devono necessariamente tenere conto dell’efficacia di un investimento finanziato con fondi pubblici nazionali, perché devono rendere conto della loro azione agli elettori nazionali. Un Piano nazionale di investimenti è generalmente assai poco efficace nello stimolare la crescita dell’economia, se le dispersioni di spesa per l’acquisto di beni prodotti negli altri paesi europei è elevata. Si potrebbe obiettare che questo modesto risultato si otterrebbe solo in occasione di un piano nazionale isolato, senza alcun seguito negli altri paesi dell’Unione. Se tutti i paesi dell’Unione si impegnassero a realizzare contemporaneamente dei Piani di investimenti, le importazioni di un paese corrisponderebbero alle esportazioni di un altro paese e il risultato sarebbe pari a quello di un Piano europeo di investimenti realizzato da un governo europeo. Questa osservazione (sulla quale è fondata la Strategia di Lisbona) è tuttavia irrealistica, perché attribuisce ai governi nazionali la volontà di perseguire prioritariamente l’interesse europeo. Il problema della contemporaneità è decisivo. Se alcuni Piani nazionali non venissero realizzati, si otterrebbero solo dei vantaggi migliori di quelli relativa ad un Piano isolato, ma non si raggiungerebbero gli effetti conseguibili da un unico Piano europeo. La contemporaneità dei piani nazionali, d’altro canto, potrebbe essere ottenuta solo se il governo europeo (la Commissione) potesse imporre l’esecuzione di una certa spesa pubblica ad ogni governo nazionale. Ma questo potere corrisponderebbe quello di un governo di uno Stato centralizzato, con governi nazionali che rappresentano solo l’amministrazione decentrata del governo centrale. I bilanci nazionali sarebbero una frazione locale di un bilancio europeo a disposizione della Commissione. Al contrario, in un sistema federale, il governo europeo avrebbe a disposizione le risorse di bilancio sufficienti per realizzare il Piano europeo, senza interferire con le decisioni di spesa dei governi nazionali. In questo caso le economie esterne ai Piani nazionali potrebbero essere considerate come economie interne al Piano europeo, che conseguirebbe così risultati superiori alla somma dei Piani nazionali. In definitiva, l’interesse europeo può essere preso in considerazione solo da un governo federale europeo che risponda del suo operato al Parlamento europeo, non da governi nazionali che devono, per definizione, difendere l’interesse nazionale.
Possiamo ora riassumere gli effetti sull’economia di un Piano europeo comparandoli a quelli derivanti da un Piano internazionale (o intergovernativo). Il Piano intergovernativo provocherebbe un aumento del reddito da Y1 a Y2. Ora, lo stesso ammontare di risorse finanziarie, se utilizzate per un Piano europeo di investimenti sovranazionali può provocare un aumento del reddito da Y1 a Y3. Si può dunque sostenere che la differenza tra Y3 e Y2 rappresenta il valore aggiunto dal Piano europeo rispetto alla sommatoria dei Piani nazionali. Se lo stesso fenomeno si osserva da un altro punto di vista, si potrebbe sostenere che la differenza tra Y3 e Y2 rappresenta lo spreco di risorse europee provocato dall’ostinazione dei governi nazionali a perseguire inefficaci politiche di cooperazione intergovernativa. Se immaginiamo, per utilizzare la terminologia keynesiana, che Y3 sia il livello di piena occupazione, la differenza tra Y3 e Y2 è il vuoto deflazionistico generato dalle politiche intergovernative di cooperazione.


[1] Cfr. ad esempio, la rassegna di Beetsma R., Debrun X., «The interaction between monetary and fiscal policies in a monetary union: a review of recent literature», in Beetsma R., Favero C., Missale A., Muscatelli A., Natale P. e Tirelli P., Monetary Policy, Fiscal Policies and Labour Markets. Macroeconomic Policymaking in the EMU, Cambridge, Cambridge University Press, 2004.
[2] Cfr. Buti M. e Nava M., Towards a European Budgetary System, RSC Working Paper, 2003.
[3] Enderlein H., Lindner J., Calvo-Gonzalez O., Ritter R., The EU Budget. How Much Scope for Institutional Reform?, European Central Bank, Occasional Paper Series, n. 27, 2005.
[4] Werner Report, Report to the Council and the Commission on the Realisation by Stages of Economic and Monetary Union in the Community, Supplement to the Bulletin II-1970 of the European Communities, Bruxelles, 1970.
[5] MacDougall Report, Report of the Study Group on the Role of Public Finance in European Integration, Commission of the European Communities, Economic and financial series, Bruxelles, 1977.
[6] European Commission, Growth, Competitiveness, Employment. The Challenges and Way Forward into the 21st Century, White Paper of the European Commission, Luxembourg, 1994.
[7] European Commission, Report from the Commission to the Spring European Council. Delivering Lisbon. Reforms for the Enlarged Union, Bruxelles, 2004.
[8] Musgrave R.A., The Theory of Public Finance. A Study in Public Economy, Tokyo, McGraw-Hill Kogakusha, 1959.
[9] Sulla teoria del federalismo fiscale cfr. Oates W.E., Fiscal Federalism, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1972; Musgrave R.A. e Musgrave P.B., Public Finance in Theory and Practice, Tokyo, McGraw-Hill Kogakusha, 1976; e per una recente rassegna, Oates W.E., «Toward a Second-Generation Theory of Fiscal Federalism»,in International Tax and Public Finance, 12, 2005, pp. 349-373.
[10] Ad esempio, Fatàs A., «Does EMU Need a Fiscal Federation?» in Economic Policy, 1998, n. 26, pp. 165-192; e, per una rassegna, Pacheco L.M., «Fiscal Federalism, EMU and Shock Absorption Mechanisms: A Guide to the Literature», in European Integration Online Papers (EioP), 2000, vol. 4, n. 4; eiop.or.at/eiop/texte/2000-004a.htm.
[11] Sapir Report, Report of an Independent High-level Study Group Established on the Initiative of the President of the European Commission, European Commission, Bruxelles, 2003.
[12] Denis C., McMorrow K., Roger W., Veugelers R., The Lisbon Strategy and the EU’s Structural Productivity Problem, European Economy; Economic papers n. 221, 2005.
[13] Cfr. Denis C., McMorrow K., Roger W., Veugelers R., op. cit., p. 56.
[14] Turrini A., Public Investment and the EU Fiscal Framework, European Economy, Economic Papers n. 202, 2004.
[15] Cfr. Sapir Report, op. cit., pp. 31-2.
[16] European Commission, Building Our Common Future. Policy Challenges and Budgetary Means of the Enlarged Union 2007-2013, Commission Communication to the European Parliament and Council, Bruxelles, 2004.
[17] Cfr. Kok Report, Facing the Challenge. The Lisbon Strategy for Growth and Employment, European Commission, Bruxelles, 2004.
[18] Per un bilancio «a tinte contrastanti» della Strategia di Lisbona cfr. European Central Bank, «The Lisbon Strategy: Five Years on», in Monthly Bulletin, n. 7, July 2005.
[19] Sui beni pubblici sovranazionali cfr. Montani G., «The European Union, Global Public Goods and Post-Hegemonic World Order», in The European Union Review, vol. 8, n.3, 2003, pp. 35-63.
[20] L’inefficienza dell’attuale sistema europeo di difesa, organizzato su basi intergovernative, è ampiamente riconosciuta dagli organismi dell’UE e della NATO. Un recente rapporto (Flournoy M.A. e Smith J., European Defense Integration; Bridging the Gap Between Strategy and Capabilities, CSIS, Center for strategic and international studies, Washington, 2005), nonostante sia redatto sull’ipotesi che non si debbano mettere in discussione le sovranità nazionali in materia di difesa, riconosce che la creazione della Agenzia europea di difesa (EDA) aiuterà gli Stati membri dell’Unione «a eliminare gli sprechi e le duplicazioni nei loro bilanci di difesa, liberando così risorse per ricerche comuni, lo sviluppo, le ordinazioni, e il miglioramento dell’interoperabilità» (p. 57). Si sostiene inoltre che, per quanto riguarda la base industriale della difesa europea, «vi sono tre sfide cruciali da superare per raggiungere una maggiore cooperazione europea nella difesa: la frammentazione della domanda, la regolamentazione esistente per il commercio intra-europeo di materiali di difesa e il fatto che le capacità industriali continuano ad essere focalizzate su sistemi di difesa sviluppati durante la guerra fredda. …La conservazione di mercati prioritariamente ‘nazionali’ per la difesa impedisce agli europei nel loro insieme di conseguire ogni significativo risparmio economico da un mercato ‘comune’ della difesa e della sicurezza. …Inoltre, l’insistenza nell’utilizzo della formula del juste retour comporta che i programmi siano suddivisi non in base ad una logica ingegneristica o economica, ma secondo espedienti politici» (pp. 73-4).
[21] European Commission, Green Paper on Space, Bruxelles, 2003.
[22] European Commission, White Paper on Space: A New European Frontier for an Expanding Union. An Action Plan for Implementing the European Space Policy, Bruxelles, 2003.
[23] Sui rapporti tra industria e difesa europea cfr. Versailles D., Mérindol V., Cardot P., La recherche et la technologie, enjeux de puissance, Parigi, Economica, 2003.
[24] Cfr. Le Monde, 19 marzo 2003.
[25] Gavoty D., «L’espace militaire, un projet fédérateur pour l’Union européenne», Défense nationale, marzo 2005, pp. 79-96.
[26] European Commission, Why Europe Needs Research Spending, Memo, 9 June, Bruxelles, 2005.
[27] European Commission, Memorandum to the Commission from President Barroso in Agreement with Mr Barrot. Implementing the Trans-European Networks, Bruxelles, 2005.
[28] Bourdin J., Rapport d’information au nom de la délégation du Sénat pour la planification sur les incidences économiques d’une augmentation des dépenses de recherche en Europe, Procès-verbal du 30 Juin, Paris, 2004.
[29] European Commission, The Economic Costs of Non-Lisbon. A Survey of the Literature on the Economic Impact of Lisbon-type Reforms, European Economy, Occasionai Papers, n. 16, 2005.
[30] Infatti il Rapporto Sapir propone una struttura del bilancio comunitario che esclude la difesa europea (cfr. Rapporto Sapir, op. cit., pp. 167-8). Si potrebbe sostenere che non tutte le spese nazionali per la difesa debbano necessariamente essere trasferite al bilancio europeo nel caso in cui i paesi dell’Unione europea accettassero una clausola che li obbligasse ad affidare il comando supremo delle loro truppe ad uno stato maggiore europeo e ad un governo europeo, in alcune circostanze espressamente previste dalla Costituzione europea. Tuttavia, qui prendiamo in considerazione, per semplicità, la soluzione tradizionale adottata dagli Stati federali esistenti.
[31] European Commission, Financing the European Union. Commission Report on the Operation of the Own Resources System, Bruxelles, 2004.
[32] Olson M., «The Principle of ‘Fiscal Equivalence’: The Division of Responsibilities among Different Levels of Government», in The American Economic Review, Papers and Proceedings, 1969, pp. 479-87.
[33] European Commission, The Economic Costs of Non-Lisbon. A Survey of the Literature on the Economie Impact of Lisbon-type Reforms, cit., fig. 1.
[34] European Commission, European Economy, n. 2, Economic forecasts, Spring 2005, p. 5.
[35] European Commission, The Economic Costs of Non-Lisbon. A Survey of the Literature on the Economic Impact of Lisbon-type Reforms, cit., fig. 2.
[36] Italiener A. e Vanheukelen M., «Proposals for Community Stabilization Mechanisms: Some Historical Applications», in European Economy, Reports and Studies, 5, 1993, pp. 493-510; e Majocchi A. e Rey. M., «A Special Financial Support Scheme in Economic and Monetary Union: Need and Nature», in European Economy, Reports and Studies, n. 5, 1993, pp. 457-80.
[37] Sapir Report, op. cit., pp. 148-9.
[38] Hemming R., Kell M., Mahfouz S., «The Effectiveness of Fiscal Policy in Stimulating Economic Activity. A Review of the Literature», in International Monetary Fund, Working Paper 208, 2002.
[39] Ad esempio H. Richardson sostiene che «con propensioni marginali al consumo uguali [in ogni regione], mutamenti nella allocazione della spesa governativa (o altre spese autonome) non cambiano il livello del reddito nazionale, ma influenzano solamente i livelli regionali del reddito» (cfr. Richardson H.W., Elements of Regional Economics, Harmondsworth, Penguin Books, 1969, p. 23).

 

 

 

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