IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIII, 2001, Numero 1, Pagina 10

 

 

La ragion di Stato, la pace
e la strategia federalista
 
SERGIO PISTONE
 
 
Parlando di federalismo in questo scritto, si intende la concezione che di esso ha elaborato il Movimento federalista europeo (MFE), il quale ha come fondamentali punti di riferimento nella storia del pensiero politico Alexander Hamilton e Immanuel Kant e ha avuto i suoi più importanti esponenti sul piano della riflessione teorica e dell’azione politica in Altiero Spinelli e Mario Albertini. Ci sono certamente altre concezioni del federalismo e non è mio proposito svolgere in questa sede un confronto con esse.[1] Va d’altro canto sottolineato che sulla base della propria concezione del federalismo il MFE ha alimentato un impegno militante che non ha eguali in Europa (e nel resto del mondo) ed ha costantemente avuto un chiaro ruolo di leadership della lotta federalista condotta dai movimenti per l’unità europea.[2] Questa capacità è indubbiamente il segno di una forte solidità teorica ed è precisamente sul fondamento basilare di quest’ultima che intendo richiamare l’attenzione nelle pagine che seguono. Questo fondamento è rappresentato in sostanza dal legame organico con la teoria della ragion di Stato, che costituisce la specificità essenziale della concezione del federalismo propria del MFE (d’ora in poi ne parlerò omettendo il riferimento al MFE).
Ai fini di un inquadramento storico essenziale è sufficiente qui ricordare che la tradizione di pensiero identificata dall’espressione «ragion di Stato» abbraccia l’intero corso della storia dell’Europa moderna e delle aree ad essa culturalmente legate (l’America in particolare) e che in essa si possono individuare alcuni filoni particolarmente significativi.[3]
Il punto di partenza si colloca alle soglie dell’età moderna ed è rappresentato dalle intuizioni geniali e illuminanti di Machiavelli, attraverso le quali incomincia a emergere il nucleo concettuale della teoria della ragion di Stato — riassumibile nella tesi secondo cui nella vita politica prevalgono i comportamenti che rafforzano la sicurezza e la potenza dello Stato — anche se non ancora la sua precisa formulazione verbale. Prima di allora sono rilevabili nella storia del pensiero politico numerose parziali anticipazioni, talora assai acute, di questa teoria, ma è fuori dubbio che solo con Machiavelli si registra un salto qualitativo tale da costituire l’inizio di una nuova tradizione di pensiero. Il secondo momento particolarmente significativo di questa tradizione è costituito dalle riflessioni dei precettisti della ragion di Stato e degli interessi degli Stati, in grandissima parte italiani e francesi, della seconda metà del ‘500 e del ‘600. Ad essi dobbiamo, oltre alla definitiva introduzione dell’espressione «ragion di Stato» nel significato che essa ha ancora ai giorni nostri, ulteriori precisazioni ed approfondimenti del concetto di ragion di Stato e delle sue implicazioni, ed in particolare una più rigorosa distinzione fra l’interesse individuale del principe e l’interesse dello Stato. Va precisato che anche Hobbes, pur non usando l’espressione «ragion di Stato», deve essere inserito, e con un posto preminente, in questa tradizione di pensiero. Essa raggiunge successivamente un momento di grandissima fioritura ed un livello molto elevato di concettualizzazione nella cultura tedesca dell’‘800 e della prima metà del ‘900, sulla base dei contributi di un folto gruppo di filosofi e soprattutto di storici, fra i quali primeggiano i nomi di Hegel, Ranke, Treitschke, Hintze, Meinecke, Weber, Ritter, Dehio. Il loro apporto alla teoria della ragion di Stato viene solitamente indicato con l’espressione «dottrina dello Stato-potenza» (Machtstaatsgedanke). La più recente espressione di questa tradizione di pensiero è costituita dalla corrente realista nell’ambito della teoria delle relazioni internazionali. Fra i suoi più noti esponenti, in grande maggioranza inglesi e americani, vanno ricordati Niebuhr, Carr, Morgenthau, Kennan, Osgood, Kissinger, Kaplan, Aron, Hoffmann, Waltz, Gilpin.[4]
Il fatto che la corrente realista non faccia generalmente uso dell’espressione «ragion di Stato» è legato alla tendenza della cultura politica contemporanea ad associare indissolubilmente tale teoria all’epoca storica della formazione dello Stato moderno e alla sua struttura assolutistica. Questo atteggiamento non è giustificato, dal momento che il contenuto teorico fondamentale di questa tradizione di pensiero non è stato contraddetto dagli sviluppi successivi all’epoca dell’assolutismo. Perciò ritengo che non sia conveniente rinunciare all’espressione «teoria della ragion di Stato», anche perché questa espressione richiama la tesi, di importanza cruciale nel quadro dell’approccio teorico realista, della centralità dello Stato. In questo scritto userò pertanto le espressioni «teoria della ragion di Stato» e «realismo» come sinonimi. Ciò precisato, il rapporto fra la teoria federalista e la teoria della ragion di Stato non è configurabile in termini di identificazione, bensì piuttosto come convergenza sostanziale per quanto riguarda la conoscenza della realtà politica e divergenza sul piano degli orientamenti valutativi. Concretamente, la conoscenza delle leggi della politica ottenuta sulla base degli insegnamenti della teoria della ragion di Stato è impiegata dai federalisti al servizio della pace invece che della potenza del proprio Stato, come avviene in linea generale per i realisti politici. Questo rapporto complesso è d’altro canto l’elemento decisivo che distingue la posizione dei federalisti da quelle degli internazionalisti e dei pacifisti, rispetto ai quali vi è convergenza sul piano dei valori (la pace come valore guida) e divergenza per quanto riguarda gli strumenti con cui realizzare la pace. Inoltre la chiara visione, che l’approccio realistico rende possibile, delle leggi che regolano l’acquisto e il mantenimento del potere costituisce la premessa insostituibile della capacità da parte dei federalisti di definire una valida strategia della lotta politica concreta per la realizzazione della pace. Riassumendo, il federalismo ha dunque il suo baricentro nella sintesi fra Kant e Machiavelli.
Mi sforzerò ora di chiarire queste asserzioni, puntualizzando anzitutto le leggi fondamentali della politica individuate dalla teoria della ragion di Stato per poi precisare come il federalismo le utilizza nella prospettiva della lotta per la pace. Preciso che non mi propongo di individuare gli specifici contributi dei principali teorici della ragion di Stato, bensì di chiarire, procedendo secondo un criterio logico e non cronologico, gli insegnamenti fondamentali che emergono da questa tradizione di pensiero. Presuppongo evidentemente che essa sia caratterizzata da un paradigma sostanzialmente unitario, che si è progressivamente arricchito e perfezionato attraverso contributi logicamente connessi agli assunti teorici originari.
 
Il primato dello Stato rispetto alla società.
 
L’assunto basilare del paradigma della ragion di Stato coincide con la tesi secondo cui lo Stato è lo strumento insostituibile per rendere possibile la convivenza pacifica fra gli uomini nell’ambito delle società complesse, vale a dire delle società fondate sulla divisione del lavoro e l’economia mercantile (che ha aperto la strada alla rivoluzione industriale), formatesi in Europa a partire dalla fine del Medioevo. Queste società sono caratterizzate da un grande dinamismo, ma altresì da una strutturale conflittualità che può essere gestita pacificamente solo tramite la formazione di uno specifico apparato di coercizione. Questo implica la divisione della società in una piccola minoranza, che detiene il potere e impone coercitivamente le regole indispensabili alla convivenza pacifica, ed una immensa maggioranza che a tale potere è subordinata. In effetti, è precisamente il monopolio della forza — costituente, al di là degli attributi formali, quali l’indivisibilità, l’originarietà, ecc., la base materiale della sovranità statale — che assicura alla minoranza governante la possibilità di imporre un ordinamento giuridico universalmente valido ed efficace, e di impedire quindi che la società si autodistrugga. Ciò implica pertanto l’esistenza di una classe di persone, la «classe politica», che fa della ricerca del potere la propria specifica professione; il che si accompagna in generale a un gusto personale per il potere, ma corrisponde d’altro canto a una necessità sociale, data l’indispensabilità del potere per rendere possibile la riproduzione della società.
La costruzione del monopolio della forza nelle mani dell’autorità centrale dello Stato (normalmente una casa regnante) ha richiesto lotte durissime e secolari, perché si è trattato di disarmare i nobili e i Comuni, di sradicare cioè l’anarchia feudale. A questa fase della costruzione dello Stato moderno si riferisce Machiavelli quando afferma che il principe non deve rifuggire da nessuna crudeltà — deve «saper intrare nel male necessitato»[5] — al fine di rafforzare l’autorità dello Stato e la sua funzione pacificatrice. E’ chiaro d’altra parte che questo aspetto del discorso sulla ragion di Stato è venuto perdendo di attualità, nella misura in cui il monopolio della forza da parte dello Stato si è venuto consolidando fino a diventare un dato sostanzialmente stabile e indiscutibile, che non richiedeva quindi più — salvo che nei momenti di crisi acuta dello Stato, quali le guerre civili e le rivoluzioni — i mezzi indicati da Machiavelli per essere assicurato e conservato.
Su questa base lo Stato moderno ha dunque realizzato, attraverso un lungo processo che in parte è ancora in corso, una grande opera di incivilimento della popolazione ad esso sottoposta, i cui aspetti fondamentali sono il progresso morale, connesso con l’educazione e quindi con la progressiva interiorizzazione del principio della rinuncia alla violenza privata nella tutela dei propri interessi, e il progresso economico-sociale reso possibile dalla certezza del diritto. In questo quadro sono state possibili le grandi trasformazioni dello Stato promosse dalle ideologie emancipatrici che hanno il loro fondamento nell’Illuminismo, e cioè il liberalismo, la democrazia e il socialismo.
A questo riguardo va precisato che, mentre nell’ambito della dottrina tedesca dello Stato-potenza si sono manifestate tendenze autoritarie e, quindi, critiche nei confronti delle ideologie illuministiche, non è questo l’orientamento prevalente nella corrente realista contemporanea. In quest’ambito è chiara in effetti la consapevolezza che le trasformazioni dello Stato moderno promosse dalle grandi ideologie illuministiche hanno introdotto dei fattori integrativi essenziali della funzione pacificatrice dello Stato. Il monopolio statale della forza legittima, cioè il disarmo degli individui e dei raggruppamenti in cui è articolata la società, è visto come il primo fondamento della statualità, come la condizione in mancanza della quale si ritornerebbe allo stato di guerra di tutti contro tutti, cioè alla situazione che oggi definiamo come «jugoslavizzazione» o «tribalizzazione». Questo primo elemento è successivamente integrato da un secondo elemento rappresentato dallo Stato di diritto, cioè dall’insieme di quei meccanismi e disposizioni — dichiarazioni dei diritti, governo della legge, separazione dei poteri, autonomia della magistratura, ecc. — propugnati in particolare dall’ideologia liberale al fine di evitare che il monopolio della forza si traduca in puro arbitrio e cioè dittatura, e non venga perciò accettato come legittimo, aprendo la strada al riarmo dei singoli e alla guerra civile. Si aggiunge storicamente come terzo elemento la generalizzazione — promossa in particolare dalla ideologia democratica e gradualmente sviluppatasi man mano che la rivoluzione industriale ha reso tutti gli strati sociali consapevoli dei propri interessi e dei propri diritti — della partecipazione dei cittadini alla formazione delle leggi e al controllo del governo. In mancanza di questo elemento i settori della società esclusi da ogni influenza sulle decisioni del potere politico sono fatalmente indotti a uscire dalla legalità. Interviene infine, come quarto elemento, lo Stato sociale, prescritto in particolare dall’ideologia socialista che ha posto al centro dei suoi interessi il problema della giustizia sociale. La percezione della indispensabile funzione pacificatrice svolta dallo Stato sociale si fonda sulla consapevolezza che l’economia di mercato, se da una parte è il fattore trainante dell’emancipazione umana e quindi dello sviluppo della moderna società pluralistica e aperta, d’altra parte produce continuamente disuguaglianze, squilibri, emarginazioni. Questi fenomeni devono trovare efficaci correttivi in meccanismi di regolazione e di solidarietà imposti dal potere pubblico, se si vuole evitare che lo Stato venga percepito come un potere che persegue l’interesse di una parte della società invece che l’interesse generale, favorendo in tal modo le tendenze a ricorrere alla violenza.
A conclusione di queste puntualizzazioni occorre sottolineare che la tesi della centralità dello Stato significa la convinzione che esso è lo strumento indispensabile dell’interesse generale, il che è un altro modo di affermare il primato della politica.[6]
 
L’anarchia internazionale.
 
Dall’assunto basilare che vede nello Stato lo strumento insostituibile per realizzare la convivenza pacifica fra i membri della società discende logicamente il secondo insegnamento fondamentale del paradigma della ragion di Stato. Esso individua nella dicotomia sovranità statale-anarchia internazionale il fondamento della differenza strutturale fra le relazioni interne allo Stato e le relazioni internazionali.
Se la vicenda storica dello Stato moderno è caratterizzata, come si è visto, da un progressivo incivilimento al suo interno, ben diversa è in effetti la vicenda delle relazioni internazionali nel quadro del moderno sistema europeo degli Stati che a un certo punto si è trasformato in sistema mondiale degli Stati. Mentre all’interno dello Stato l’autorità centrale disarma i singoli e i gruppi in cui è articolata la società e li costringe a regolare i propri rapporti e i conflitti che vi sono connessi ricorrendo al diritto invece che alla violenza, nei rapporti esterni tutti gli Stati non solo mantengono gli armamenti l’un contro l’altro, ma li rafforzano e perfezionano senza sosta e ricorrono all’uso e alla minaccia della forza (anche gli Stati più piccoli, i quali, non avendo una forza sufficiente, si appoggiano a quella altrui) per tutelare i propri interessi. Nello stesso momento in cui l’autorità statale non solo costringe, ma anche educa i sudditi alla rinuncia alla violenza nei rapporti reciproci, costringe ed educa un numero crescente dei propri sudditi a usare le armi e quindi la violenza nei rapporti internazionali, e di conseguenza, anche a diffidare delle persone che vivono oltre i confini dello Stato e a odiarle quando si giunge ai conflitti armati. Quando poi lo Stato si trasforma in senso liberale, democratico, socialista, i principi e i diritti in tal modo introdotti nella sua vita interna vengono, nei momenti di guerra, e comunque di tensione internazionale, sistematicamente limitati e circoscritti, se non addirittura revocati. Basti pensare alla diplomazia segreta, ai segreti di Stato, alla censura, al rafforzamento del potere centrale a scapito delle autonomie locali, che sono una violazione patente dei principi democratici più diffusi, ma che non di meno rappresentano una prassi costante nella vicenda degli Stati democratici. Anche gli stessi principi di efficienza economica vengono disapplicati quando si tratta di garantire una maggiore capacità dello Stato di affrontare le prove di forza con gli altri Stati. Basti pensare al sostegno dato a comparti produttivi inefficienti, ma considerati di importanza strategica.
Concentrando l’attenzione sulla natura dei rapporti internazionali, i teorici della ragion di Stato hanno imperniato il loro discorso sul concetto di anarchia internazionale. Essi hanno cioè chiarito che l’anarchia internazionale è la situazione strutturale da cui dipende la differenza qualitativa fra l’evoluzione interna dello Stato e l’evoluzione dei rapporti internazionali. Concretamente, l’anarchia internazionale significa la mancanza di un governo, vale a dire di un’autorità suprema capace di imporre un ordinamento giuridico valido ed efficace. Una tale autorità si è affermata nei rapporti interni in seguito alla monopolizzazione della forza da parte dell’autorità centrale dello Stato, mentre non si è affermata nei rapporti internazionali a causa del permanere in quel contesto di una pluralità di Stati sovrani, cioè di distinti monopoli della forza indipendenti l’uno dall’altro. Di conseguenza manca nella società degli Stati la condizione indispensabile per poter imporre efficacemente le norme necessarie alla pacifica convivenza degli Stati e alla regolamentazione pacifica, cioè giuridica, delle controversie internazionali; il criterio ultimo della loro soluzione non può che essere la prova di forza fra le parti, che il diritto internazionale non può fare altro che sanzionare; e la guerra è sempre all’ordine del giorno ed è presente anche nei momenti di pace, perché anche in questi momenti gli Stati devono tener conto della possibilità permanente della guerra e prepararsi per questa eventualità.
In questa situazione ogni Stato è costretto ad attuare una «politica di potenza», la quale non significa in senso rigoroso una politica estera particolarmente violenta e aggressiva, bensì una politica che tiene conto della possibilità permanente delle prove di forza (sia dell’uso che della semplice minaccia della forza), e che di conseguenza appresta e usa nei casi estremi i mezzi di potenza indispensabili (armamenti, alleanze, occupazioni di vuoti di potere prima che altri lo facciano), o ricorre all’astuzia e alla frode. Nel contesto dell’anarchia che caratterizza strutturalmente la situazione internazionale, garantire la sicurezza esterna, cioè la capacità di difendere efficacemente i propri interessi nelle prove di forza con gli altri Stati e di resistere all’imposizione della volontà altrui, diventa la preoccupazione primaria dei reggitori degli Stati. Ad essa sono sistematicamente sacrificati, in misura proporzionale ai pericoli cui la sicurezza è esposta, i principi giuridici, etici, politici (nel senso delle priorità imposte dalle dottrine politiche dominanti), economici che vengono normalmente rispettati negli ambiti della vita dello Stato nei quali non emerge il problema della sicurezza esterna. Il primato della sicurezza è il fattore decisivo che spiega la diversa evoluzione — nell’ambito del sistema europeo degli Stati — che ha caratterizzato storicamente gli Stati di tipo insulare (esempio paradigmatico: la Gran Bretagna) e quelli di tipo continentale (esempio paradigmatico: la Prussia-Germania). Nel primo caso, la posizione strategica favorevole, dovuta alla mancanza di confini terrestri da difendere, ha favorito l’affermarsi di istituzioni statali più liberali e decentrate; nel secondo caso, una posizione di sicurezza strutturalmente più esposta e precaria, proprio in ragione della necessità di difendere confini terrestri ben più facilmente superabili, ha per contro ostacolato le spinte liberali e favorito l’autoritarismo e l’accentramento.
Con il concetto di anarchia internazionale si mette in luce il dato strutturale costituito dall’assenza di un ordinamento giuridico valido ed efficace e dal conseguente dominio della legge della forza nei rapporti internazionali. Si chiarisce, in altre parole, perché all’interno dello Stato esiste — se si eccettuano le situazioni di profonda crisi istituzionale e addirittura di guerra civile — un grado di certezza e prevedibilità nei rapporti interumani che, pur trovando dei limiti nel permanere di una sfera ineliminabile di rapporti antigiuridici, è comunque qualitativamente diverso dalla strutturale aleatorietà che caratterizza i rapporti internazionali. Questa chiarificazione non significa d’altra parte ritenere che la realtà internazionale sia semplicemente caotica, dominata dallo scontro continuo, irrazionale e imprevedibile fra gli Stati, e quindi sia una situazione caratterizzata dall’assenza di qualsiasi ordine. In realtà i teorici della ragion di Stato hanno fin dall’inizio incominciato a percepire l’esistenza nel contesto internazionale di ulteriori elementi strutturali, al di là di quello più generale dell’anarchia internazionale, che rendono meno caotica e quindi relativamente più prevedibile nei suoi concreti sviluppi la situazione internazionale. Il discorso che essi sono venuti progressivamente elaborando e perfezionando nello sforzo di chiarire questi ulteriori elementi e, quindi, di padroneggiare in modo più adeguato la realtà dei rapporti internazionali è incentrato sul concetto di sistema degli Stati, che si tratta ora di chiarire nei suoi aspetti fondamentali.
Punto di partenza di questo discorso è la constatazione che i rapporti di forza esistenti fra gli Stati hanno portato alla formazione di una ferrea gerarchia fra di essi che discrimina le grandi potenze, cioè gli Stati capaci realmente di tutelare in modo autonomo, cioè con la propria forza, i propri interessi, dalle medie e piccole potenze, le quali devono invece ricercare la protezione di una delle grandi potenze o l’accettazione concorde da parte di queste della loro neutralità. Questa situazione comporta automaticamente che le decisioni fondamentali da cui dipende l’evoluzione del sistema internazionale siano prese dalle grandi potenze e, quindi, da un numero molto limitato di Stati sovrani. Questi esercitano in sostanza il governo del mondo, cioè fissano le regole formali e informali entro cui si svolgono le relazioni internazionali. E’ peraltro chiaro che non si tratta di un governo legittimo fondato sul monopolio della forza, né tantomeno democratico, e che esso è quindi qualitativamente diverso dal governo nell’ambito di uno Stato sovrano. Nel sistema europeo degli Stati le grandi potenze (che non furono sempre le stesse, perché talune decaddero a uno status inferiore o sparirono e altri Stati subentrarono ad esse) non furono in effetti mai più di sei (sistema pluripolare), mentre il sistema mondiale emerso dall’epoca delle guerre mondiali fu dominato fino alla fine del conflitto Est-Ovest dalle superpotenze USA e URSS (sistema bipolare). Oggi esiste una situazione fluida e assai verosimilmente transitoria, in cui sono simultaneamente presenti aspetti monopolari (la supremazia degli USA) e tendenze verso il pluripolarismo (l’ascesa della Cina, dell’India e dell’Unione europea, unitamente al fatto che la Federazione russa possiede ancora un enorme armamento nucleare e ha grandi potenzialità economiche non ancora adeguatamente spiegate).
L’esistenza delle grandi potenze costituisce un primo decisivo elemento strutturale nel quadro dell’anarchia internazionale e vi introduce un fattore indubbiamente molto generale di ordine, che presiede in particolare ai rapporti fra i grandi e i piccoli Stati. Un secondo essenziale elemento strutturale è costituito dall’equilibrio, il quale regola invece i rapporti fra le grandi potenze, introducendo anch’esso un ulteriore fattore di ordine. Individuando nell’equilibrio il fondamentale elemento strutturale che presiede ai rapporti fra le grandi potenze, si intende mettere anzitutto in luce una situazione di fatto e cioè che fra le grandi potenze dominanti nel sistema europeo e in quello mondiale (e pure in quello delle città-Stato greche e in quello italiano del 1400) si è realizzata in modo duraturo una condizione di non eccessiva differenza sul piano della forza. Questa situazione è stata in grado di impedire ad ognuna di esse di sovrastare tutte le altre, ed ha implicato quindi l’automatico imbrigliamento di ogni tentativo egemonico, attraverso la formazione di una coalizione delle altre grandi potenze contro lo Stato più forte ed i suoi alleati o semplicemente grazie alla capacità di resistenza anche di una sola potenza, nel caso di un sistema bipolare. Il meccanismo dell’equilibrio non ha evidentemente comportato il superamento dell’anarchia internazionale con le sue manifestazioni violente e bellicose, ma è stato in grado di limitarle. Le guerre generali sono scoppiate solo nei momenti di sconvolgimento dell’equilibrio, in conseguenza dell’ascesa e, quindi, della spinta egemonica di una grande potenza, mentre le situazioni di equilibrio stabile hanno prodotto lunghe fasi di assenza di guerre o di guerre limitate. D’altra parte l’equilibrio è il meccanismo che ha reso possibile nel sistema europeo e in quello mondiale il mantenimento dell’autonomia delle grandi potenze e quindi di un sistema pluralistico di Stati sovrani, il quale ha tra l’altro anche permesso di garantire una limitata autonomia alle medie e piccole potenze.
Il discorso relativo all’equilibrio delle potenze va completato con le considerazioni dei realisti relative ai cambiamenti epocali introdotti dalla scoperta delle armi atomiche e nucleari. Il salto qualitativo che queste armi di distruzione di massa (integrate da sempre più micidiali armi chimiche e batteriologiche) hanno comportato nell’incessante gara di perfezionamento degli armamenti connessa strutturalmente con l’anarchia internazionale e con il sistema dell’equilibrio, ha portato a una configurazione radicalmente nuova di quest’ultimo. Si è affermato il sistema della deterrenza, detto anche equilibrio del terrore, cioè una situazione in cui una guerra generale fra le grandi potenze produrrebbe distruzioni tali (che possono giungere fino alla eliminazione della vita umana sul pianeta) da equivalere ad un suicidio collettivo. L’inconcepibilità razionale di una guerra generale non ha eliminato i rapporti di forza fra gli Stati e le guerre limitate o locali, ma ha indotto a spostare l’accento, nelle politiche di sicurezza, dalla difesa al controllo degli armamenti e alla prevenzione della guerra. E’ emerso in sostanza nei rapporti fra le grandi potenze un fattore nuovo rappresentato dalla solidarietà per la comune sopravvivenza.
Un’altra conseguenza epocale del progresso scientifico è rappresentata dall’interdipendenza ecologica, cioè da una situazione in cui un numero crescente di decisioni che — come quelle che possono portare alle guerre — rientrano nella sfera della sovranità dei singoli Stati possono condurre a catastrofi di dimensioni continentali e mondiali, che possono giungere fino alla compromissione delle possibilità di vita umana sul nostro pianeta. Anche questa situazione impone una solidarietà per la sopravvivenza che si traduce nella necessità di una crescente cooperazione internazionale e della realizzazione di accordi sempre più stringenti a livello regionale e globale diretti a controbattere una minaccia che accomuna tutta l’umanità.
Oltre all’interdipendenza fra gli Stati connessa con le sfide alla comune sopravvivenza il realismo contemporaneo prende atto dell’influenza sulle relazioni internazionali esercitata dalla crescente interdipendenza economica connessa con lo sviluppo prima della rivoluzione industriale e poi di quella tecnico-scientifica. Il fatto che lo sviluppo del benessere in ogni Stato sia venuto a dipendere in modo sempre più organico dall’apertura dei mercati ha, in connessione con l’inconcepibilità razionale della guerra generale, stimolato potentemente la cooperazione economica internazionale.
Sempre nel contesto del discorso sui fattori che limitano le implicazioni violente dell’anarchia internazionale viene infine richiamata l’attenzione sul fatto che, a differenza degli Stati con regimi autoritari o totalitari, quelli con regimi liberaldemocratici, con effettiva separazione dei poteri e consistente decentramento dei poteri o addirittura dotati di una struttura federale, hanno più difficoltà ad attuare una politica estera bellicosa, in quanto l’equilibrio fra i poteri dello Stato ostacola la rapidità di decisione e di intervento sul piano internazionale. Il che non significa assolutamente l’esistenza di un nesso automatico fra l’affermarsi della democrazia all’interno e il superamento dei rapporti di forza fra gli Stati.
L’insieme di fattori, appena illustrati, tendenti ad ostacolare l’eliminazione del carattere pluralistico del sistema internazionale e a contenere entro certi limiti le tendenze alle prove di forza sono alla base di alcuni rilevanti fenomeni che caratterizzano le relazioni internazionali e su cui occorre ora soffermarsi.
Va sottolineato anzitutto che la gerarchia fra gli Stati e l’equilibrio fra le grandi potenze costituiscono i due fondamentali elementi strutturali nel quadro dell’anarchia internazionale che la trasformano da una semplice pluralità disorganizzata di Stati in un sistema di Stati, cioè in una realtà caratterizzata, come la stessa parola «sistema» suggerisce, da un relativo ordine e quindi relativamente più comprensibile e prevedibile nei suoi sviluppi concreti. In particolare, l’equilibrio fra le grandi potenze costituisce storicamente la condizione fattuale che ha indotto gli Stati a riconoscersi reciprocamente anche in modo formale come Stati sovrani e che, nel caso dell’Europa moderna, ha reso di fatto possibile l’affermarsi e il progressivo estendersi del diritto internazionale, garantendone una certa efficacia, nonostante che esso non promani da un potere sovrano. In effetti, secondo il paradigma della ragion di Stato, le norme del diritto internazionale che vengono effettivamente osservate dagli Stati derivano la loro validità fattuale non tanto dal principio pacta sunt servanda, che costituisce essenzialmente un giudizio di valore, quanto piuttosto dal fatto che, dato l’equilibrio, cioè l’impossibilità fattuale di eliminare la sovranità degli altri Stati, gli attori fondamentali del sistema internazionale hanno dovuto riconoscere la necessità di convivere in qualche modo. Pur non rinunciando alla politica di potenza e alla guerra come extrema ratio, essi hanno dovuto acconciarsi a regolare in qualche modo la loro convivenza di carattere anarchico, dando vita ad un diritto sui generis, che legittima l’uso normale della violenza ed è subordinato ai rapporti di forza e gerarchici fra gli Stati. In sostanza, se non vi è un potere sovrano che garantisce il rispetto del diritto internazionale, vi è comunque una situazione di potere, sia pure instabile, quale l’equilibrio fra le potenze, che ottiene in una certa misura questo effetto.
Quanto ai prima ricordati fenomeni di interdipendenza che si sono sviluppati nell’ambito del sistema degli Stati, essi sono alla base della formazione delle strutture dell’organizzazione internazionale (di cui l’ONU è l’esempio fondamentale), che dopo l’epoca delle guerre mondiali hanno avuto uno sviluppo incomparabile rispetto alle epoche precedenti. La crescita dell’interdipendenza internazionale, di cui la globalizzazione economica rappresenta il più recente sviluppo, ha in effetti imposto una crescente cooperazione fra gli Stati e un enorme sviluppo quantitativo e qualitativo del diritto internazionale per gestire problemi di sempre maggiore importanza e non affrontabili con azioni isolate da parte degli Stati. In questo contesto hanno acquistato un ruolo di crescente importanza nelle relazioni internazionali anche attori non governativi quali le imprese multinazionali e le organizzazioni non governative attive soprattutto nel campo umanitario ed ecologico.
Questi fenomeni inducono molti studiosi delle relazioni internazionali a ritenere che i concetti basilari di sovranità statale e di anarchia internazionale siano sempre più privi di capacità esplicativa della realtà contemporanea, poiché ci troveremmo di fronte a una sostanziale limitazione della sovranità statale e, quindi, all’erosione del fondamento stesso della differenza qualitativa fra relazioni internazionali ed interne. A queste considerazioni i sostenitori del paradigma della ragion di Stato replicano sottolineando in particolare che le organizzazioni internazionali sono dominate di fatto (e anche formalmente nel caso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU) dalle grandi potenze. E aggiungono che il ruolo delle imprese multinazionali, per quanto importante, ha la sua base in ultima analisi nella potenza dello Stato di appartenenza, mentre lo spazio che le Organizzazioni non governative (ONG) si sono ritagliate nel quadro della cooperazione interstatale, non mette sostanzialmente in discussione le regole del gioco stabilite dalle grandi potenze. Gli Stati rimangono dunque gli attori fondamentali delle relazioni internazionali, le quali sono governate dai rapporti di forza, a differenza della vita interna, tanto è vero che tutti gli Stati continuano a mantenere forze armate in dimensioni decisamente superiori rispetto alle pure necessità della sicurezza interna.
Se la dicotomia sovranità statale-anarchia internazionale conserva la sua validità esplicativa, ci si deve piuttosto chiedere se la struttura anarchica della società interstatale non sia sempre più inconciliabile con le esigenze di sopravvivenza e di progresso del genere umano e se, di conseguenza, non sia giunto all’ordine del giorno della storia il problema della creazione di un governo mondiale efficace e democratico e, quindi, delle vie attraverso cui giungere a questo obiettivo. A questo punto si apre il discorso sul paradigma federalista e su come esso ingloba e supera il paradigma della ragion di Stato.
 
La pace perpetua e lo Stato federale mondiale.
 
Abbiamo detto all’inizio che ciò che distingue fondamentalmente la teoria federalista da quella della ragion di Stato non è l’aspetto conoscitivo, sul quale c’è una larga convergenza, bensì quello valutativo. Il valore-guida dei teorici della ragion di Stato è la sicurezza e, quindi, la potenza del proprio Stato poiché ritengono inconcepibile il superamento dell’anarchia internazionale. In sostanza essi tendono a vedere nella pluralità di Stati sovrani non una fase dello sviluppo storico, ma un punto d’arrivo insuperabile. Il che riflette un pregiudizio ideologico di tipo nazionalistico, che — con argomentazioni diverse a seconda dei vari filoni in cui si articola la tradizione della ragion di Stato — induce a vedere nella pluralità di Stati sovrani e quindi nella loro conflittualità un fattore insostituibile di progresso. Per contro il valore-guida dei federalisti è la pace e, quindi, la convinzione che nella fase storica dell’avanzata rivoluzione industriale l’impegno a favore del progresso dell’umanità sia indissociabile dall’impegno concreto a favore del superamento della violenza nelle relazioni internazionali. Alla base di questo orientamento ci sono le illuminanti riflessioni sulla pace contenute negli scritti politico-giuridici e di filosofia della storia di Kant, che occorre qui brevemente puntualizzare.[7]
Anzitutto Kant, fondandosi su una visione realistica dei rapporti internazionali, ha chiarito in modo rigoroso che cos’è la pace. Essa non va confusa con il semplice fatto che la guerra non è in atto. Simili situazioni non sono in realtà altro che tregue fra una guerra e l’altra perché, finché fra gli Stati esistono rapporti anarchici, mancando una autorità superiore in grado di imporre rapporti giuridici fra di essi, la guerra è lo strumento normale per dirimere le controversie internazionali su questioni ritenute vitali. Essa è perciò sempre presente anche quando non è effettivamente combattuta, perché nei momenti di tregua gli Stati devono prepararsi non solo militarmente, ma anche economicamente, socialmente, politicamente e moralmente alla guerra. La pace è in realtà l’organizzazione di potere che supera l’anarchia internazionale, trasformando i rapporti di forza fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri, e rendendo quindi strutturalmente impossibile la guerra attraverso l’estensione della statualità su scala universale.
Kant ha, in secondo luogo, stabilito un legame organico fra il superamento dell’anarchia internazionale, cioè la realizzazione della pace perpetua, e la piena attuazione all’interno dello Stato del regime repubblicano. Con questa espressione egli intendeva in sostanza ciò che oggi intendiamo quando parliamo di regime liberaldemocratico, e riteneva che esso costituisse un traguardo fondamentale nel progresso dell’umanità. D’altra parte, egli condivideva gli insegnamenti dei teorici della ragion di Stato, secondo cui l’esistenza dei rapporti di forza fra gli Stati fa sì che la sicurezza esterna diventi per questi l’esigenza prioritaria; il che favorisce le tendenze e le strutture autoritarie nella vita interna degli Stati, in quanto più adatte alla necessità di preservare e consolidare la potenza indispensabile per sopravvivere nel contesto dell’anarchia internazionale. Egli era pertanto chiaramente consapevole che i principi liberali e democratici nei momenti critici sarebbero stati sistematicamente sacrificati all’altare della ragion di Stato, cioè del principio della priorità della sicurezza, e che ciò sarebbe avvenuto in modo tanto più cogente quanto più difficili sarebbero stati i problemi di sicurezza del singolo Stato.[8] Questa considerazione, va osservato, è pienamente valida anche per il socialismo (che all’epoca di Kant non era ancora emerso come una delle grandi ideologie del mondo moderno), il quale al pari del liberalismo e della democrazia ha sempre trovato nella ragion di Stato un ostacolo decisivo alla piena affermazione delle sue rivendicazioni tendenti a realizzare la giustizia sociale e, quindi, a rendere effettivi per tutta la popolazione i principi liberali e democratici. La realistica visione delle oggettive implicazioni autoritarie interne della politica di potenza ha dunque portato Kant a indicare nel superamento dell’anarchia internazionale l’indispensabile complemento dell’impegno storico a favore del pieno sviluppo del regime repubblicano.
In terzo luogo questa tesi si inquadra in una riflessione più ampia di Kant che ravvisa nella pace la condizione necessaria per permettere il pieno sviluppo delle facoltà morali e razionali dell’uomo. Finché sussiste il sistema internazionale fondato sulla guerra, la necessità oggettiva per tutti gli individui di adattare la propria condotta a una struttura sociale modellata sui bisogni autoritari e bellicosi dello Stato e la loro coscienza all’etica del combattimento, che tale struttura produce, determina uno sviluppo limitato e unilaterale delle loro capacità creative e ostacola il loro progresso morale. Una volta creata invece una struttura di potere in grado di incanalare entro gli argini del diritto tutti i comportamenti sociali, verrebbe meno la legittimazione della violenza dell’uomo derivante dalla guerra e dalla minaccia permanente della guerra. In questa situazione gli uomini potrebbero realizzare pienamente la loro natura razionale e la loro condotta potrebbe conformarsi interamente al principio dell’autonomia del volere. Si porrebbero cioè le premesse di una trasformazione radicale dei rapporti fra l’individuo e la società; si aprirebbe in sostanza la strada al raggiungimento di una condizione nella quale sarà possibile trattare gli uomini sempre come fini e mai come mezzi in tutte le relazioni sociali.
Il progetto della pace perpetua elaborato da Kant alla fine del Settecento — va precisato — non può essere considerato una semplice espressione del pensiero utopistico, in quanto è fondato sulla chiara consapevolezza che la sua realizzazione richiederà una lunghissima maturazione da parte dell’umanità. Questa ha però delle reali possibilità di svilupparsi. Da una parte, c’è l’esperienza storica che ha visto il superamento dell’anarchia nei rapporti fra gli individui attraverso la creazione di un’autorità statuale capace di imporre il rispetto del diritto all’interno. Questo progresso storico impedisce di escludere a priori che si produca un ulteriore progresso in grado di condurre al superamento dell’anarchia internazionale. Dall’altra parte, un simile progresso sarà favorito — e qui emerge una eccezionale capacità di antivedere le grandi sfide che nel Novecento saranno alla base dell’avvio dell’integrazione sovranazionale — dalla spinta combinata di due potenti forze storiche. Una è rappresentata dallo sviluppo del commercio, che renderà l’umanità sempre più interdipendente e in tal modo moltiplicherà le occasioni di conflitto, ma porrà allo stesso tempo sempre più fortemente l’esigenza di apprestare gli strumenti della soluzione pacifica dei conflitti, cioè di realizzare l’allargamento della statualità. L’altra è individuata nella crescente distruttività della guerra indotta dal progresso scientifico e tecnico, la quale imporrà in modo imperativo di affrontare concretamente la necessità di superare il sistema della guerra per sfuggire a un destino di autodistruzione collettiva.[9]
Le illuminanti considerazioni kantiane sul tema dell’unificazione democratica sovranazionale costituiscono la fonte ispiratrice fondamentale dell’orientamento etico-politico dei federalisti, ma hanno un limite, il cui riconoscimento è un elemento costitutivo della loro identità ideologica. Manca in Kant una visione rigorosa del sistema istituzionale attraverso cui è possibile realizzare effettivamente la pace perpetua. Infatti, pur parlando di «federazione», il filosofo tedesco non giunge ad affermare in modo univoco che lo Stato federale mondiale è lo strumento istituzionale necessario per realizzare la pace mondiale. Nel suo scritto fondamentale dedicato a questa tematica egli esprime addirittura apertamente il timore che la creazione di uno Stato mondiale sia incompatibile con il sistema democratico in quanto significherebbe di fatto l’istituzione di un dispotismo universale, e ipotizza di conseguenza un sistema di tipo confederale. Alla base di questa incongruenza c’è la mancanza di una conoscenza precisa del modello dello Stato federale,[10] il cui primo esempio nella storia era stato realizzato con la Costituzione degli Stati Uniti d’America, redatta nel 1787 dalla Convenzione di Filadelfia, e la cui teoria era stata elaborata soprattutto da Alexander Hamilton.[11]
Il principio costituzionale sul quale si fonda lo Stato federale è l’organizzazione di una pluralità di governi indipendenti e coordinati tra loro, in modo tale che al governo federale, competente per l’intero territorio della federazione, sia conferita una quantità minima di poteri indispensabile a garantire l’unità politica ed economica, e agli Stati federati, competenti ciascuno per il proprio territorio, siano assegnati i poteri residui. Concretamente, al governo federale sono attribuite le competenze di politica estera e militare, in modo da eliminare i rapporti di forza fra gli Stati, e alcune competenze economiche, soprattutto in materia monetaria, doganale e fiscale, indispensabili all’unificazione del mercato e alla realizzazione della solidarietà fra gli Stati componenti la federazione. La possibilità per i singoli Stati di tutelare la propria autonomia e i propri interessi legittimi è garantita dal bicameralismo federale, cioè dall’attribuzione del potere legislativo a un organo composto da una Camera del popolo della federazione eletta su base proporzionale e da una Camera degli Stati, in cui, per tutelare gli Stati più piccoli, c’è una rappresentanza non proporzionale. La distribuzione federale delle competenze e il bicameralismo federale, che nel federalismo classico riguardano il rapporto fra governo federale e Stati federati sono considerati dal federalismo contemporaneo — occorre precisare — principi da estendersi ai rapporti fra Stati e regioni e fra regioni e comunità locali, in modo da realizzare una distribuzione del potere che assicuri a tutti i livelli della vita di relazione, dalla comunità locale alla comunità di tutti gli Stati, la maggiore autonomia possibile e una coordinazione che permetta la gestione efficiente e democratica dei compiti assegnati ai vari livelli.
Come già chiarì Hamilton, il sistema federale consente di ampliare la sfera del governo democratico. Infatti, mentre la democrazia diretta ha permesso di realizzare la libertà nella città-Stato, e la democrazia rappresentativa e la divisione fra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario hanno permesso di realizzarla nello Stato moderno (che poi diventerà lo Stato nazionale), la struttura federale permette di unificare diverse comunità statali evitando gli inconvenienti dello Stato accentrato, e quindi permette di organizzare la partecipazione democratica in spazi di dimensione continentale (e perciò, tendenzialmente, nel mondo intero). Pertanto lo Stato federale è la struttura costituzionale in grado di realizzare la pace — cioè di subordinare tutti gli Stati del mondo ad una autorità in grado di sostituire i rapporti giuridici ai rapporti di forza[12] — sulla base del governo democratico.
L’affermazione, sulla base di quanto detto finora, che la costruzione della pace perpetua coincide con la costruzione di uno Stato federale mondiale appartiene alla sfera dell’astrazione progettuale. Prescinde, in altre parole, dal problema (che verrà affrontato sistematicamente più avanti) dell’attualità storica del progetto e, quindi, dell’individuazione del percorso (cioè delle tappe) attraverso cui si può procedere concretamente in direzione del traguardo finale. Si tratta d’altra parte di un momento assolutamente indispensabile del discorso sulla pace. Se in effetti non si è in grado di concepire razionalmente, anche se in termini inevitabilmente molto generali, il sistema istituzionale in grado di assicurare la pace perpetua, non è possibile individuare il percorso e le tappe di avvicinamento al traguardo finale e di orientare di conseguenza l’azione di coloro che si propongono di migliorare le forme della convivenza politica nella prospettiva della costruzione progressiva di un ordine pacifico mondiale.
Rimanendo ancora nel contesto dell’astrazione progettuale, sono peraltro necessari alcuni ulteriori chiarimenti. Il modello di Stato a cui si fa riferimento in questa riflessione teorica è chiaramente quello affermatosi nel corso dell’età moderna in Europa occidentale e nelle zone del mondo, in primo luogo l’America del Nord, influenzate dalla sua cultura. Poiché questo tipo di Stato si è rivelato storicamente in grado di instaurare una pace duratura al proprio interno, l’estensione delle sue dimensioni su scala mondiale attraverso il sistema federale ci appare la condizione imprescindibile per realizzare la pace perpetua. Questo tipo di Stato presenta d’altra parte, come si è visto, alcuni elementi strutturali, sviluppatisi in successione storica, che costituiscono fattori essenziali della sua capacità pacificatrice. Al di là del monopolio della forza legittima c’è lo Stato di diritto, la democrazia e lo Stato sociale. Ebbene, se questi sono gli elementi costitutivi del modello di Stato europeo-occidentale che è riuscito a instaurare (in misura più o meno efficace a seconda del grado di avvicinamento alla realizzazione del modello e della intensità del progresso economico-sociale che sta alla sua base) la pace all’interno, lo Stato mondiale indispensabile per instaurare la pace sul piano mondiale dovrà essere, a sua volta, caratterizzato da questi elementi. Questa conclusione non è pacifica perché deve fare i conti con l’accusa di eurocentrismo, il quale consisterebbe nel pretendere di imporre come universalmente validi i fondamentali principi politici propri di una delle culture del mondo. Al riguardo mi sembra decisiva la seguente considerazione.
Lo Stato di tipo europeo-occidentale si è affermato, come si è visto prima, nel quadro delle moderne società pluralistiche fondate sull’economia di mercato, in quanto si è rivelato in grado — attraverso un faticoso processo che ha spazzato via dalla storia le alternative autoritarie, fasciste e comuniste — di instaurare in modo duraturo la pace nell’ambito di queste società. Ebbene, la caratteristica saliente della nostra epoca è sia il diffondersi su scala mondiale di società di tipo pluralistico fondate sull’economia di mercato, sia lo sviluppo di una sempre più profonda interdipendenza fra di esse e, quindi, il progressivo affermarsi di una società mondiale di tipo pluralistico. Per questo appare del tutto ragionevole e non dettato da spirito di superiorità affermare che i fondamentali principi della cultura politica europeo-occidentale debbano caratterizzare sia l’ordine interno delle società che man mano si modernizzano, sia lo Stato mondiale indispensabile per governare pacificamente la società mondiale in via di formazione. L’accusa di eurocentrismo deve semmai essere rivolta, si può osservare in questo contesto, a coloro che nel mondo occidentale tendono a negare che le altre tradizioni culturali possano recepire i principi politici fondamentali della nostra cultura, e disegnano un mondo prossimo venturo fatalmente dominato dallo scontro fra le civiltà, dopo che si è esaurito lo scontro Est-Ovest.[13]
Ciò precisato, sono ancora necessari — sempre rimanendo nel contesto della chiarificazione nei suoi aspetti fondamentali del nesso fra costruzione della pace e costruzione dello Stato mondiale — due ulteriori precisazioni circa le premesse ineludibili per giungere all’obiettivo dell’unificazione mondiale. Una di queste premesse consiste nella generalizzazione della democrazia liberale (con l’indispensabile complemento rappresentato dalla istituzionalizzazione della solidarietà sociale) su scala planetaria. Gli Stati non democratici in effetti non solo non sono in grado di realizzare in modo duraturo la pace interna, ma sono anche strutturalmente indisponibili alla limitazione della sovranità verso l’esterno e quindi all’unificazione sovranazionale (salvo che nella forma delle unificazioni imperiali-egemoniche), dal momento che si fondano sul potere illimitato dei governanti all’interno. Ciò non significa che si potrà cominciare a costruire lo Stato mondiale solo allorché in tutti gli Stati del mondo si saranno affermati regimi democratici. Ma è evidente che anche per questa ragione non potrà che trattarsi di un processo graduale e a tempi lunghissimi, destinato a coinvolgere inizialmente le zone più avanzate del mondo sul piano del progresso tecnico-scientifico, civile e politico-democratico, e ad estendersi in coincidenza con l’avanzamento del progresso in tutte le zone del mondo. La seconda premessa fondamentale della costruzione della statualità mondiale è l’organizzazione del mondo in un numero limitato di federazioni democratiche di dimensioni continentali o subcontinentali. Da una parte, è evidente che il processo di unificazione mondiale non può che procedere per grandi tappe storiche, ed appare quindi logico che quelle di fondamentale importanza siano costituite dalle aggregazioni federali sovranazionali nelle zone più avanzate e più interdipendenti del mondo, che possono pertanto fungere da battistrada. Dall’altra parte, è impensabile la formazione di un funzionale e duraturo Stato federale mondiale, che abbia come suoi membri diretti centinaia di Stati di grandi, medie, piccole e piccolissime dimensioni. Se, per ipotesi puramente astratta, si arrivasse a una simile costruzione, l’equilibrio federale finirebbe fatalmente per essere compromesso o dalle spinte centralistiche, cui non potrebbero resistere efficacemente Stati troppo piccoli e numerosi, o dalle tendenze egemoniche degli Stati più grandi, o infine dalle tendenze verso la frammentazione, nel caso in cui per prevenire le spinte centralistiche fossero attribuiti poteri troppo limitati al governo federale mondiale. Solo un sistema federale mondiale avente come suoi solidi pilastri un numero limitato di vaste federazioni regionali sarebbe per contro in grado di realizzare un equilibrio federale stabile e funzionale.[14]
Va sottolineato a conclusione di questa riflessione che l’idea della Federazione europea come prima tappa fondamentale nel processo di costruzione dell’unità mondiale è già presente nel più grande teorico della pace, cioè in Kant, e viene sistematicamente ribadita dai massimi esponenti dell’idea dell’unità europea — ricordo in particolare Giuseppe Mazzini,[15] John Robert Seeley,[16] Lord Lothian[17] e Luigi Einaudi[18] — fino al Manifesto di Ventotene che ha dato inizio alla lotta politica per la Federazione europea.
 
La critica federalista del pacifismo e dell’internazionalismo.
 
Prima di passare ad esaminare la problematica dell’attualità storica della lotta per la pace, dobbiamo ancora completare il discorso sullo Stato federale mondiale come strumento per la realizzazione della pace perpetua, chiarendo come questa concezione distingua l’approccio federalista da quelli propri del pacifismo e dell’internazionalismo. Questi due orientamenti in effetti convergono sostanzialmente sul terreno dei valori con il federalismo, in quanto la pace è il loro valore-guida, ma se ne distanziano in modo netto nell’indicazione dei mezzi per realizzare la pace. Proprio sotto quest’ultimo aspetto il pacifismo e l’internazionalismo si distinguono, a loro volta, l’uno dall’altro e devono perciò essere esaminati separatamente, anche se va riconosciuto che nella pratica si riscontrano molto spesso commistioni fra i due orientamenti.[19]
Per quanto riguarda il pacifismo, la sua caratteristica fondamentale è quella di ricondurre le guerre essenzialmente all’aggressività umana, sia essa interpretata secondo schemi psicanalitici, che secondo schemi etico-religiosi. E’ immediatamente evidente la differenza fra questo approccio e quello federalista. Le teorie pacifiste, se non sono integrate da una chiara consapevolezza circa la capacità delle istituzioni politiche di condizionare e anche, in una certa misura, di modificare i comportamenti umani, tendono a vedere come rimedio fondamentale contro la guerra l’educazione su base etico-religiosa, o su base psicanalitica. Il federalismo sostiene per contro la possibilità di creare delle istituzioni che, pur senza eliminare l’aggressività umana, siano in grado di rendere impossibile la guerra e, quindi, sappiano canalizzare le tendenze aggressive verso comportamenti non distruttivi. Questa aspettativa ha, come si è visto, un fondamento nell’esperienza storica, la quale indica come il moderno Stato sovrano abbia saputo realizzare il controllo dell’aggressività all’interno. Perché non è possibile che lo stesso processo si realizzi alla lunga nei rapporti internazionali?[20]
Ai fini della realizzazione della pace, il federalismo non attribuisce ovviamente un’importanza strategica al momento educativo e della testimonianza, come tendono invece a fare i gruppi pacifisti che si rifanno a concezioni religiose, morali e psicologiche della pace. Usando la terminologia di un grande teorico della ragion di Stato del XVI secolo, Giovanni Botero,[21] si può dire che i veri pacifisti (non coloro che strumentalizzano le parole d’ordine pacifiste per perseguire altri obiettivi) operano sul terreno della carità, mentre i federalisti operano sul terreno della politica intesa come grande carità. La politica in senso alto, che cioè persegue grandi disegni diretti a far progredire l’umanità verso la sua piena emancipazione, si propone precisamente di affrontare alla radice le situazioni che stimolano i comportamenti caritatevoli e di testimonianza. Questi comportamenti, va ancora detto, pur non essendo in grado, in quanto tali, di produrre istituzioni più avanzate, sono importanti ai fini della creazione di un clima favorevole alla lotta politica per la costruzione della pace.
Veniamo ora alla contrapposizione fra federalismo e internazionalismo, che richiede un discorso più ampio e articolato.[22] L’internazionalismo è un orientamento proprio delle grandi ideologie che a partire dalla fine del XVIII secolo, cioè dalla rivoluzione francese, hanno messo in moto processi di cambiamento profondo delle strutture dello Stato moderno. Queste ideologie sono il liberalismo, la democrazia e il socialismo (nella versione socialdemocratica e in quella comunista), i quali hanno la loro base filosofica diretta o indiretta nella spinta emancipatrice e universalistica dell’illuminismo. La componente internazionalistica di queste ideologie si articola in due aspetti fondamentali.
Il primo è l’orientamento cosmopolitico. Esso esprime l’idea che è impossibile pensare i valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia sociale come principi validi per un solo paese e limitati al solo spazio nazionale. Poiché è intrinseco alla natura di questi valori il carattere dell’universalità, la loro realizzazione nell’ambito nazionale non può essere vista che come una tappa necessaria ad aprire la strada alla loro estensione a livello europeo e mondiale. Il secondo aspetto è la teoria del primato della politica interna, una concezione delle relazioni internazionali, delle cause della guerra e dei mezzi per realizzare la pace secondo la quale la guerra dipende da determinate strutture interne degli Stati. Pertanto l’eliminazione della guerra e l’instaurazione di un sistema di durature relazioni pacifiche fra gli Stati non può che essere la conseguenza del superamento di tali strutture interne.
L’ideologia liberale, quella democratica e quella socialista divergono nettamente nell’individuare le strutture interne considerate come la radice della politica di potenza e quelle invece in grado di superarla. Concretamente: il pensiero liberale individua la causa fondamentale delle guerre nella struttura politica aristocratico-assolutista e in quella economica mercantilista-protezionista e si aspetta di conseguenza che l’affermarsi di governi rappresentativi (sulla base del suffragio ristretto ai soli abbienti) e della separazione dei poteri da un lato, e lo sviluppo del commercio internazionale dall’altro spengano le tendenze bellicose degli Stati; il pensiero democratico chiama in causa il carattere autoritario dei governi e vede quindi la pace come la conseguenza automatica dell’instaurazione della sovranità popolare; il pensiero socialista vede infine nello sfruttamento dei lavoratori proprio del capitalismo moderno la causa ultima dell’imperialismo e delle guerre e indica perciò nella lotta per la giustizia sociale (che per la corrente socialdemocratica significa l’introduzione dello Stato sociale nel quadro liberaldemocratico, mentre per quella comunista vuol dire l’abolizione completa della proprietà privata dei mezzi di produzione e la dittatura del proletariato) la via del superamento dell’antagonismo fra le classi e nello stesso tempo dell’instaurazione della pace. Al di là di queste differenze, il nocciolo comune dell’approccio internazionalistico consiste nel ritenere che un mondo di Stati liberali e, rispettivamente, democratici, socialisti e comunisti sarebbe guidato da idee liberali e, rispettivamente, democratiche, socialiste e comuniste e implicherebbe quindi l’eliminazione dei fenomeni connessi con la politica di potenza, dipendenti dalla realizzazione ancora incompleta o non universale dei principi di organizzazione interna dello Stato affermati da tali ideologie.
Come è facile vedere, il contrasto fra questo approccio, che riduce in sostanza la politica estera a funzione della politica interna, e l’approccio federalista non potrebbe essere più netto. Sul piano dei valori i federalisti sono cosmopoliti, sia perché credono nell’universalità della democrazia (che, per essere effettiva, deve integrarsi organicamente con il liberalismo e la giustizia sociale), sia perché hanno nella pace universale il loro valore-guida. D’altra parte, nella dottrina federalista c’è un legame organico con la teoria della ragion di Stato. Perciò i federalisti vedono che esiste un nesso inscindibile fra politica di potenza e struttura anarchica della società degli Stati, riconoscono, su tale base, una sostanziale autonomia della politica estera rispetto alla politica interna, e percepiscono altresì come la priorità della sicurezza esterna rappresenti un ostacolo fondamentale alla piena realizzazione della democrazia. Donde la convinzione che, ai fini della costruzione della pace, non siano sufficienti le lotte ispirate dalle ideologie internazionaliste, che puntano fondamentalmente ai cambiamenti interni, mentre, sul piano internazionale, hanno come espressioni organizzativo-istituzionali le associazioni internazionali, a livello della società civile, e l’organizzazione internazionale (dalla Società delle Nazioni all’Organizzazione delle nazioni unite), a livello dei rapporti fra i governi. Occorre invece perseguire il superamento dell’anarchia internazionale tramite legami federali che eliminino la sovranità statale assoluta.
Che questo approccio sia più valido di quello internazionalista non è solo una questione di fede, ma è dimostrato dall’esperienza storica a partire dalla rivoluzione francese. In effetti i profondi cambiamenti, graduali o rivoluzionari, di regime, che hanno caratterizzato il sistema europeo degli Stati e, quindi, quello mondiale, hanno certo cambiato molte cose sul piano interno e su quello internazionale, ma non la tendenza delle classi politiche a considerare prioritaria la sicurezza esterna rispetto ad ogni altra esigenza e a comportarsi secondo i dettami della ragion di Stato, prescindendo regolarmente dalle affinità di tipo ideologico fra gli Stati.
Questa considerazione generale deve essere meglio spiegata in riferimento all’internazionalismo democratico contemporaneo. Incominciamo da alcune precisazioni. In primo luogo, se storicamente l’ideologia democratica si è contrapposta anche duramente a quella liberale e a quella socialdemocratica, oggi per contro è abbastanza generale nei paesi avanzati la tendenza a ritenere che il sistema democratico debba necessariamente essere integrato dai principi liberali, come garanzia contro la tirannide della maggioranza, e dallo Stato sociale, come condizione perché tutti i cittadini possano essere effettivamente liberi ed eguali. Alla base di questa convergenza, che non esclude diversità di accentuazioni e quindi lotte fra progressisti e conservatori che però non mettono in discussione il sistema democratico come casa comune, c’è il progresso economico-sociale, che ha portato al superamento, se non dei conflitti fra i diversi settori della società, certamente dello scontro esistenziale fra classi antagonistiche. In secondo luogo, l’internazionalismo democratico ha oggi una posizione dominante nel mondo, dal momento che dopo il crollo del comunismo sovietico non c’è più una significativa dottrina internazionalistica alternativa a quella democratica. In terzo luogo, l’internazionalismo democratico è il vero interlocutore del federalismo, il quale è sempre stato antagonista rispetto alle tendenze totalitarie sia di destra che di sinistra.
Ciò precisato, va sottolineato che la critica federalista nei confronti dell’internazionalismo democratico non implica la convinzione che l’affermarsi del regime democratico sia irrilevante rispetto al problema del superamento dell’anarchia internazionale. In realtà la premessa ineliminabile dell’affermarsi di legami federali fra gli Stati è, come si è già accennato, il loro carattere democratico, sia perché lo Stato federale altro non è che un sistema costituzionale capace di estendere il governo democratico su scala sempre più ampia fino a comprendere il mondo intero, sia perché un potere autoritario o totalitario che non accetta limiti all’interno non può accettarne dall’esterno, se non imposti con la forza. Ma allora si avrebbe l’instaurazione di un impero e non di una federazione.
Se la democrazia è dunque la premessa dell’instaurazione della pace, rimane il fatto che essa non porta automaticamente al raggiungimento di questo obiettivo, dal momento che di per sé non implica il superamento dell’anarchia internazionale. Questa affermazione, va ancora osservato, non è contraddetta in modo convincente dalle ricerche degli studiosi di ispirazione internazionalistica democratica, secondo le quali l’esperienza storica indica una netta prevalenza delle guerre che contrappongono gli Stati non democratici fra di loro o agli Stati democratici rispetto alle guerre fra questi ultimi; una cosa che, secondo queste analisi, appare particolarmente evidente nell’epoca successiva al 1945, in cui si sarebbe instaurata una sorta di «pace perpetua separata» fra le democrazie.[23] Queste considerazioni, che evidentemente contestano la tesi del nesso inscindibile fra pace e superamento della sovranità statale assoluta, in realtà non tengono conto di alcuni fatti: della condizione nucleare che ha reso inconcepibile la guerra fra le grandi potenze; dell’affermarsi dopo il 1945 dell’egemonia statunitense sulle democrazie; dell’avvio, nel quadro dell’egemonia americana, in Europa occidentale di un approfondito processo di integrazione sovranazionale (che vedremo a fondo più avanti) caratterizzato dalla presenza di embrioni federali e dal raggiungimento di un livello di interdipendenza tale da rendere di fatto impossibile una guerra fra gli Stati-membri.
In realtà il non riconoscere che non basta la democrazia per ottenere la pace, la quale richiede, per essere perpetua, solidi legami federali, indica che l’internazionalismo democratico resta in definitiva prigioniero dell’ideologia nazionale, che induce a ritenere insuperabile la pluralità degli Stati sovrani.
 
L’attualità storica della lotta per la pace.
 
Abbiamo visto finora perché il federalismo è lo strumento istituzionale necessario per realizzare la pace. Passiamo ora ad esaminare le fondamentali ragioni per cui la costruzione della pace, da un modello normativo fondato sulla ragion pura, è diventata, a partire dagli anni della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra, un vero e proprio programma politico che ha nella pace il proprio obiettivo supremo. Come per quanto riguarda il discorso sul modello dello Stato mondiale, che rende razionalmente pensabile l’obiettivo della pace perpetua, anche il discorso sull’impegno politico per la costruzione della pace è caratterizzato da un rapporto articolato con il realismo politico. La divergenza circa la possibilità storica di impegnarsi per il superamento dell’anarchia internazionale — che riflette in definitiva una divergenza sul piano dei valori — si associa con una impostazione del discorso sulla strategia che proprio nell’utilizzazione degli insegnamenti provenienti dalla tradizione del realismo politico trova i fondamenti sia della sua specificità che della sua superiorità rispetto agli altri approcci al problema della costruzione della pace.
Partiamo dalla divergenza rispetto al realismo politico. Essere convinti che la questione del superamento dell’anarchia internazionale sia storicamente attuale non va disgiunto dalla consapevolezza che lo Stato federale mondiale è un obiettivo a lunghissimo termine, raggiungibile attraverso una serie di tappe storiche e, quindi, implicante l’impegno di numerose generazioni. Questa consapevolezza si accompagna, d’altra parte, alla ferma convinzione che non solo si debba, ma che ci si possa impegnare con effettive possibilità di successo per obiettivi che sono parziali rispetto al traguardo finale, ma che nondimeno costituiscono un effettivo avanzamento in tale direzione. Essi hanno senso pieno solo in quanto momenti concreti di un disegno storico di progressivo ampliamento delle dimensioni della statualità democratica fino a coprire il mondo intero. Alla base di questo modo di vedere c’è fondamentalmente una percezione piena delle conseguenze, sull’evoluzione degli Stati e delle relazioni fra di essi, dei cambiamenti epocali indotti dalla rivoluzione industriale avanzata, che poi si è sviluppata in rivoluzione tecnico-scientifica. I realisti prendono in considerazione i fenomeni di importanza cruciale rappresentati dalla crescente interdipendenza economica fra gli Stati, dall’avvento delle armi di distruzione di massa, dall’interdipendenza ecologica e dalla crisi degli equilibri ecologici globali, ma poiché il loro orientamento valutativo li induce a concepire come insuperabile la pluralità degli Stati sovrani, non riescono a percepire che questi sviluppi hanno introdotto un fattore nuovo di enorme portata: la crisi storica del sistema degli Stati sovrani, una situazione cioè che rende non solo imperativo sul piano etico, ma anche fondato su basi politiche reali l’impegno a favore del superamento dell’anarchia internazionale.
Il concetto di crisi del sistema degli Stati sovrani è l’aspetto storico-sociale dell’ideologia federalista, che ha nella pace il suo aspetto di valore e nello Stato federale il suo aspetto di struttura. E’ cioè il complesso di argomentazioni dirette a mettere in luce l’attualità storica del problema del superamento dell’anarchia internazionale. Questo aspetto del paradigma federalista, alla cui elaborazione e progressivo affinamento hanno contribuito soprattutto Luigi Einaudi, la scuola federalista inglese (Lord Lothian, Lionel Robbins e Barbara Wootton), Altiero Spinelli e Mario Albertini,[24] si fonda sull’utilizzazione creativa degli insegnamenti fondamentali proposti dalla teoria del materialismo storico. In questa sede è sufficiente ricordare che i federalisti hanno recepito dai teorici del materialismo storico che l’evoluzione del modo di produrre — cioè il processo attraverso il quale gli uomini trasformano continuamente la qualità della loro vita attraverso l’innovazione tecnologica e la creazione di nuovi modi di organizzare la divisione del lavoro — determina in ultima istanza la struttura e le dimensioni dello Stato. Ed hanno di conseguenza saputo vedere che, come il passaggio dal modo di produzione agricolo a quello industriale ha dato luogo alle trasformazioni interne dello Stato moderno in direzione del liberalismo, della democrazia e dello Stato sociale, così l’avanzamento della rivoluzione industriale e il passaggio alla rivoluzione tecnico-scientifica hanno mutato la base economico-sociale degli Stati, facendo diventare centrale il problema della dimensione degli Stati e aprendo quindi la fase storica della crisi del sistema degli Stati sovrani.[25] Ciò ricordato, il discorso relativo a questa problematica può essere riassunto riportando schematicamente tre argomentazioni cruciali.
La prima argomentazione riguarda la portata dell’interdipendenza economica che si è venuta sviluppando, con l’avanzamento della rivoluzione industriale, nel corso del XX secolo. Essa ha fatto emergere l’esigenza imprescindibile di creare Stati di dimensioni continentali per evitare la decadenza economico-sociale e, quindi, l’arresto del progresso democratico. D’altro canto ha avviato un processo destinato, in tempi lunghi, a rendere obsoleti anche gli Stati di dimensioni continentali e a porre di conseguenza all’ordine del giorno, per non bloccare il progresso, l’unificazione politica dell’intera umanità. La presa di coscienza delle implicazioni politiche dell’interdipendenza economica è la chiave indispensabile per capire gli sviluppi fondamentali del XX secolo. L’inadeguatezza delle dimensioni degli Stati nazionali europei è la causa profonda della decadenza del primato mondiale delle grandi potenze europee (la fine della centralità del sistema europeo degli Stati) e dell’affermarsi di un sistema mondiale degli Stati dominato dalle potenze di dimensioni continentali, USA e URSS. La decadenza degli Stati nazionali ha dapprima prodotto un generale arresto del progresso democratico, il diffondersi di tendenze autoritarie e totalitarie nelle situazioni di crisi più acuta. In questo quadro si è affermato il tentativo nazista di soluzione egemonico-imperiale del problema di dar vita a uno Stato europeo di dimensioni continentali; il che è stato accompagnato da un crescendo di orrori culminato nel genocidio sistematico. Il crollo della potenza degli Stati nazionali europei, in seguito all’esito conclusivo dell’epoca delle guerre mondiali (le guerre più distruttive che la storia abbia mai conosciuto), ha aperto la strada allo smantellamento degli imperi coloniali e soprattutto al processo di unificazione europea, tendente al superamento su base pacifica e democratica del problema delle dimensioni inadeguate degli Stati nazionali. Questo processo, che è ancora inconcluso, ha cambiato radicalmente la situazione in Europa nel senso della ripresa dello sviluppo economico-sociale, del progresso democratico e della pacificazione ed ha altresì stimolato processi analoghi, ancorché assai meno profondi, in altre aree del mondo, cioè le cosiddette integrazioni regionali. La crescita dell’interdipendenza si è manifestata, in modo meno rapido e profondo ma con continuità, anche sul piano mondiale e ha subito, dopo la fine della guerra fredda,[26] una forte accelerazione, che ha trovato un riflesso nell’affermarsi del neologismo «globalizzazione». Si è quindi venuto formando un sistema economico mondiale sempre più integrato, dominato dagli USA, e che è caratterizzato da aspetti di accelerata crescita economica e nello stesso tempo dal persistere di un enorme divario fra il Nord e il Sud del mondo. L’interdipendenza economica mondiale ha stimolato la formazione di organizzazioni economiche internazionali (il GATT-WTO, il FMI, la Banca mondiale, l’OCSE, il G7), che non hanno prodotto un livello di integrazione paragonabile a quello europeo, ma che fanno intravedere il problema dell’unificazione mondiale come un orizzonte non più utopico, per quanto lontano.
La seconda argomentazione individua come fattore della crisi storica del sistema degli Stati sovrani l’emergere delle sfide non solo al progresso ma addirittura alla stessa sopravvivenza dell’umanità derivanti dalla scoperta delle armi di distruzione di massa e dal degrado degli equilibri ecologici globali. Queste sfide erano già intuite dal Manifesto di Ventotene, anche se non erano ancora chiaramente visibili come lo sarebbero diventate progressivamente nei decenni successivi. L’analisi contenuta nel Manifesto e negli altri fondamentali scritti federalisti del periodo della seconda guerra mondiale ha d’altra parte fornito il punto di vista adeguato per inquadrare nei suoi giusti termini questa problematica.
Il nesso fra la distruttività della guerra moderna e l’attualità storica del problema del superamento dell’anarchia internazionale è stato immediatamente colto con riferimento all’integrazione europea. Questo processo, che contiene la prospettiva concreta del superamento degli Stati sovrani in una regione del mondo di importanza cruciale, è legato, come si è detto, al fenomeno della decadenza economica degli Stati nazionali europei. Ma questa spinta ha chiaramente operato in sinergia con il fatto che i conflitti fra gli Stati nazionali europei hanno prodotto le guerre più terribili della storia, che si sono concluse con l’inizio dell’era atomica. L’alternativa «unirsi o perire», che Aristide Briand aveva posto alla base della sua proposta di unità europea del 1929,[27] è così diventata un fattore politicamente operativo.
Di fronte allo sviluppo delle armi di distruzione di massa il punto di vista federalista ha inoltre permesso di cogliere fino in fondo la portata di questo cambiamento epocale. Esso ha in sostanza messo all’ordine del giorno della storia il problema del superamento della guerra come strumento per risolvere i conflitti fra gli Stati, dal momento che una guerra generale implicante l’impiego su larga scala delle armi di distruzione di massa significherebbe non la continuazione della politica con altri mezzi, bensì la fine della politica come conseguenza di un suicidio collettivo. Alla luce di questa novità inaudita il discorso dei realisti sulla deterrenza appare inadeguato. E’ vero che il sistema della deterrenza ha reso inconcepibile una guerra fra le grandi potenze. E quanto questo dato sia rilevante è emerso in modo particolarmente netto in occasione della fine del sistema bipolare. La deterrenza e il costo degli armamenti sono stati in effetti uno dei fattori fondamentali che hanno portato al superamento della guerra fredda e alla dissoluzione del sistema sovietico, dal momento che hanno eliminato la possibilità del ricorso alla soluzione estrema di una guerra generale come mezzo per cercare di salvare un impero dispotico e hanno spostato il confronto essenzialmente sul terreno, rivelatosi alla lunga perdente per l’URSS, dell’efficienza economica. D’altra parte, pensare che l’inconcepibilità di una guerra generale fra le grandi potenze costituisca un rimedio duraturo contro il rischio dell’olocausto nucleare è un atteggiamento tutt’altro che realistico. Non solo non c’è una garanzia assoluta che la deterrenza non fallisca, ma l’inevitabile proliferazione delle armi di distruzione di massa è anche destinata — in un contesto caratterizzato dalla cronica instabilità del mondo arretrato — a metterle in mano di Stati privi di meccanismi democratici di controllo del potere e guidati da classi dirigenti estremiste e fanatiche, o addirittura di gruppi terroristici che non hanno un territorio in grado di fungere da ostaggio della deterrenza. In realtà la deterrenza e le stesse politiche di sicurezza dirette al controllo e alla riduzione degli armamenti non possono che avere un valore provvisorio, rappresentare cioè il contesto in cui si deve, se si vuol essere davvero realisti, perseguire concretamente il disegno difficilissimo e a lunghissimo termine, ma privo di valide alternative, dell’eliminazione strutturale della possibilità delle guerre.[28] Si tratta, in altre parole, di costruire la statualità democratica mondiale, incominciando con l’unificazione europea e le altre unificazioni regionali,[29] che saranno in grado di pacificare interi sistemi regionali di Stati e quindi costituiranno un grandioso passo avanti verso la pace mondiale.
Analogo discorso si deve fare per quanto riguarda il pericolo dell’olocausto ecologico. La cooperazione internazionale non può essere considerata altro che un rimedio provvisorio, che deve trovare il suo coerente sviluppo nell’allargamento progressivo delle dimensioni della statualità. Solo lungo questa strada è possibile controllare sviluppi, che, lasciati alla completa discrezione dei singoli Stati, sono destinati a produrre catastrofi indicibili su scala continentale e globale.
La terza argomentazione riguarda infine in modo specifico i fattori oggettivi che, nel contesto storico caratterizzato dall’interdipendenza economica e dalle sfide esistenziali che abbiamo or ora visto, hanno permesso che l’impegno federalista per la pace diventasse politicamente operativo. Anzitutto, la crisi del sistema degli Stati sovrani ha prodotto una crisi di legittimità, che si manifesta in una diffusa sfiducia nella capacità degli Stati di affrontare efficacemente i problemi fondamentali della nostra epoca e quindi nella aspirazione allo sviluppo della cooperazione al di là delle frontiere statali e al connesso superamento della sovranità assoluta. Questa tendenza si è manifestata in modo particolarmente intenso in Europa dopo il 1945, in connessione con il carattere particolarmente avanzato della crisi degli Stati nazionali europei. E’ emerso in effetti, come dimostrano i sondaggi dell’opinione pubblica effettuati nel corso del dopoguerra, un europeismo diffuso e maggioritario che condivide, per quanto in modo confuso, l’ideale dell’unità europea. Al di fuori dell’Europa questa crisi di legittimità degli Stati sovrani è soltanto embrionale, ma comunque indicativa di un trend che agisce in profondità.
L’impegno federalista a favore della pace può dunque ottenere una effettiva forza politica attraverso la creazione di un movimento per l’unificazione sovranazionale e la mobilitazione del consenso popolare e ciò riguarda in particolare l’europeismo che è la punta più avanzata della crisi storica della legittimità del sistema degli Stati sovrani. Ma c’è un altro fondamentale fattore oggettivo (connesso con quello appena visto) idoneo a fornire alla lotta federalista per il superamento dell’anarchia internazionale delle possibilità effettive di successo politico. L’inadeguatezza oggettiva del sistema degli Stati sovrani e le stesse generiche aspirazioni sovranazionali delle opinioni pubbliche spingono con forza crescente i governi a cooperare; e la cooperazione, nelle situazioni di crisi più avanzata, dà vita a forme di integrazione particolarmente approfondita, all’integrazione sovranazionale. Il passaggio dalla cooperazione internazionale all’integrazione sovranazionale non mette in moto un meccanismo di sviluppo automatico verso la statualità democratica sovranazionale. Crea però una situazione contraddittoria e perciò dinamica e apre spazi di azione politica efficace alla lotta federalista per la pace.[30] Il problema decisivo è quello della capacità di sfruttare questi spazi, cioè, in altre parole, il problema della strategia. A questo punto del discorso sulla crisi storica del sistema degli Stati sovrani riemerge la crucialità del rapporto con il realismo politico. E’ precisamente il nesso fra federalismo e realismo la ragione specifica della capacità di elaborare un discorso strategico valido, di sfuggire, quindi, sia alle tentazioni della semplice testimonianza, sia alle trappole di una visione evoluzionistica e in definitiva provvidenzialistica dei processi di cooperazione internazionale e di integrazione sovranazionale. E’ questo il tema degli ultimi due capitoli di questo scritto.
 
La strategia della lotta federalista per la pace.
 
In una presentazione sintetica del discorso federalista sulla strategia l’attenzione deve essere concentrata su due aspetti essenziali, che sono strettamente collegati ma vanno analiticamente distinti e separatamente illustrati. Essi riguardano l’individuazione dell’ostacolo fondamentale che deve essere affrontato dalla lotta federalista e l’indicazione della Federazione europea come obiettivo prioritario nel processo di costruzione della pace.
Per quanto riguarda il primo aspetto, si deve partire da una geniale osservazione di Altiero Spinelli circa la difficoltà della lotta per la Federazione europea, cioè della lotta per la pace che passa dalla testimonianza all’impegno politico concreto. Ebbene, secondo il fondatore del MFE i governi democratici nazionali sono allo stesso tempo strumenti e ostacoli rispetto all’obiettivo della Federazione europea.[31] Vediamo che cosa ciò significa.
Se la premessa imprescindibile dell’unificazione pacifica e federale fra gli Stati è la loro struttura repubblicana (in senso kantiano), è evidente che l’unificazione non può che fondarsi su libere decisioni dei governi democratici nazionali. L’unificazione imposta con la forza da una potenza egemonica, oltre a non essere pacifica, non può che dar vita a un impero dispotico. Ma c’è un’altra ragione che rende i governi nazionali democratici attori imprescindibili del processo di unificazione europea, e cioè il fatto che essi sono strutturalmente costretti dalla situazione storica delineatasi dopo la seconda guerra mondiale ad attuare una politica di unificazione europea, dal momento che il collasso degli Stati nazionali europei li ha posti di fronte all’alternativa «unirsi o perire».
Se per queste ragioni i governi democratici nazionali sono strumenti, essi tendono d’altra parte a ostacolare il raggiungimento della Federazione europea, che sola sarebbe in grado di rendere irreversibile l’unificazione europea. Creare la Federazione europea non significa semplicemente delegare dei poteri ad organi sovranazionali, mantenendo però il potere di decisione in ultima istanza nelle mani dei governi nazionali. Significa trasferire in modo definitivo la sovranità a uno Stato sovranazionale, che lascerà una fortissima autonomia agli Stati nazionali, ma li priverà della caratteristica della sovranità assoluta. La resistenza strutturale dei governi nazionali di fronte a questa prospettiva ha il suo fondamento nella legge dall’autoconservazione del potere. Come chiarisce la teoria della ragion di Stato, già a partire da Machiavelli, i possessori e gestori del potere statale tendono inesorabilmente a conservarlo e a rafforzarlo. In questo comportamento non è in gioco principalmente il gusto personale per il potere (anche se questo fattore può avere un certo peso), bensì il fatto che il potere politico (in ultima analisi il monopolio della forza legittima) è la condizione della sopravvivenza e dello sviluppo della società. Perciò la legge dell’autoconservazione del potere vale anche per gli Stati democratici, che possono sempre scivolare nell’anarchia se il potere politico si indebolisce, ed è un ostacolo decisivo al trasferimento di sovranità anche in un contesto caratterizzato dall’alternativa «unirsi o perire».
Va a questo punto ricordata una importante distinzione — per quanto riguarda la resistenza al trasferimento della sovranità anche negli Stati democratici — fra i corpi permanenti del potere esecutivo, quali la diplomazia e l’alta burocrazia civile e militare, e il personale politico transitorio, cioè i capi di Stato e di governo e i ministri. La resistenza più forte deriva normalmente dai primi, i quali, con il trasferimento della sovranità, sono destinati a subire in modo più immediato limitazioni sostanziali in termini di potere e di status. Inoltre i corpi permanenti del potere esecutivo, che sono stati costruiti storicamente per amministrare la sovranità statale assoluta, sono diventati i naturali depositari delle tradizioni nazionalistiche. Per i titolari politici della sovranità la situazione è più complessa per almeno tre ragioni: non avendo una posizione di potere permanente, hanno una possibilità relativamente maggiore di diventare membri della classe politica sovranazionale; sono espressione di partiti democratici i quali hanno nelle loro piattaforme ideologiche una componente internazionalistica che comprende, sia pure in termini generici, l’idea dell’unità europea; hanno un rapporto diretto con l’opinione pubblica, la quale nei paesi in cui il fenomeno generale della crisi degli Stati nazionali si manifesta in modo più acuto tende in maggioranza ad essere favorevole all’unificazione europea. Questa distinzione ha grande importanza, come si vedrà più avanti, in riferimento al problema della procedura per creare le istituzioni federali. Rimane nondimeno il fatto che i governi democratici nazionali, considerati nella loro struttura complessiva, hanno un atteggiamento negativo rispetto all’unificazione federale. Essi sono pertanto portati, se non interviene un efficace fattore esterno alla logica del loro comportamento, a consentire soltanto a un tipo di unificazione che non comporti il trasferimento irrevocabile della sovranità. Questo fattore è rappresentato dall’intervento di un soggetto politico capace di forzare democraticamente i governi nazionali, facendo leva sulle contraddizioni oggettive in cui essi si vengono a trovare in conseguenza della crisi storica degli Stati nazionali.
Vediamo anzitutto la premessa oggettiva del passaggio al federalismo sovranazionale. Essa è costituita dalla maturazione della crisi storica degli Stati nazionali fino al punto in cui diventa politicamente attuale l’alternativa «unirsi o perire». La decadenza prodotta dalla crescita dell’interdipendenza economica non è una condizione sufficiente a rendere possibile l’unificazione federale europea fintantoché gli Stati nazionali sono potenti e la politica di potenza non è condizionata dall’inconcepibilità di una guerra generale fra le grandi potenze. In queste condizioni, in effetti, la tendenza delle classi politiche a conservare e rafforzare il potere nazionale può contare sulla capacità di mantenere il consenso delle popolazioni e di canalizzarlo verso politiche espansionistiche. L’affermazione di Norman Angell nel 1911, secondo cui l’intensificazione dei commerci e l’intreccio di interessi che ne derivava avevano ormai raggiunto un grado tale da rendere la guerra impossibile, trova la sua replica tragica nell’epoca delle guerre mondiali.[32] La situazione cambia in modo decisivo solo in seguito al crollo del sistema europeo degli Stati che, con il concorso determinante della guerra fredda e della pressione esercitata dal potere egemonico americano sull’Europa occidentale, apre la strada al processo di integrazione comunitaria. Qui la formidabile forza inerziale della tendenza all’autoconservazione del potere si manifesta nel rinvio sine die dello sbocco federale (che pure è indicato nella Dichiarazione Schuman), ma è messa in seria difficoltà dalle contraddizioni prodotte dal passaggio dalla semplice cooperazione internazionale all’integrazione sovranazionale.
Queste contraddizioni sono fondamentalmente due. La prima è rappresentata dalla precarietà e dall’inefficienza dell’unificazione funzionalistica. Le istituzioni funzionalistico-comunitarie, sebbene in esse siano presenti degli embrioni federali, sono caratterizzate dalle decisioni unanimi dei governi sulle questioni fondamentali. Perciò sono strutturalmente deboli e si dimostrano incapaci di agire efficacemente nei momenti difficili, quando i problemi da affrontare sono di rilevanza cruciale. Da qui la lentezza decisionale, i continui rinvii, la precarietà che caratterizzano in modo permanente lo sviluppo dell’integrazione europea e che producono una frustrazione delle aspettative da esso alimentate, la quale può, a sua volta, essere trasformata in sostegno a soluzioni federali. Al deficit di efficienza si somma il deficit democratico. Da una parte, l’integrazione funzionalistico-comunitaria produce un meccanismo decisionale sovranazionale, per quanto poco efficiente, e un’interdipendenza in profondità che svuotano progressivamente di capacità decisionale i sistemi democratici nazionali. Dall’altra parte, non viene creato un sistema democratico sovranazionale pienamente sviluppato, dal momento che a tale livello restano dominanti le procedure intergovernative e tecnocratiche. Il paradosso per cui dove si decide non c’è un sistema pienamente democratico e dove questo esiste, a livello nazionale, non si prendono più decisioni di importanza strategica è destinato a produrre un disagio crescente nei partiti e nell’opinione pubblica di orientamento democratico. Questo disagio può sboccare in una crisi fatale della democrazia, ma può altresì essere indirizzato verso l’idea della democrazia sovranazionale.
In sostanza, l’attualità politica dell’alternativa «unirsi o perire» ha portato i governi nazionali su un piano inclinato, in una situazione cioè sempre più insostenibile, che non comporta alcun automatismo verso un esito positivo — l’alternativa agli Stati nazionali sovrani può essere la disgregazione micronazionalistica —, ma che apre concretamente la strada al superamento del sistema degli Stati sovrani in Europa. La condizione perché ciò avvenga è che alla presenza di una situazione oggettiva che rende possibile un cambiamento rivoluzionario si associ l’intervento di un soggetto politico che abbia la capacità di sfruttare le possibilità che la situazione offre. Questo soggetto è un movimento per la Federazione europea autonomo dai governi e dai partiti nazionali e capace di esercitare su di essi una pressione democratica tale da spingerli a fare ciò che spontaneamente essi non sono disposti a fare.
Gli insegnamenti del realismo politico relativi ai soggetti dei cambiamenti rivoluzionari hanno una storia plurisecolare che parte del famoso passo del Principe di Machiavelli (ripetutamente citato da Spinelli) sugli introduttori dei nuovi ordini, che debbono saper forzare e non semplicemente pregare se vogliono riuscire nei loro propositi. Proprio perché si ispira a questa tradizione, il discorso federalista sulla strategia ha il suo capitolo centrale nella definizione dell’autonomia che deve contraddistinguere il movimento per la Federazione europea, perché esso sia effettivamente in grado di perseguire e realizzare il suo obiettivo. Il tema dell’autonomia federalista si concretizza in tre principi fondamentali sul piano politico, organizzativo e finanziario, che sono stati teorizzati soprattutto da Mario Albertini e messi in pratica dal Movimento federalista europeo sotto la sua guida.[33]
Il primo principio, quello dell’autonomia politica, si manifesta anzitutto nella formazione di un movimento e non di un partito. Esso deve infatti proporsi di riunire, ovviamente in un’organizzazione sovranazionale, tutti i sostenitori dell’idea della Federazione europea i quali appartengono a diversi orientamenti ideologici (con l’ovvia esclusione dei sostenitori di ideologie totalitarie) e a diversi ceti sociali. D’altra parte, la lotta per la conquista del potere nazionale (che diventerebbe l’obiettivo fondamentale del movimento per la Federazione europea, se esso si costituisce in forma di partito) finirebbe fatalmente per indebolire la lotta per il trasferimento di una parte sostanziale di questo potere a istituzioni sovranazionali. A questa scelta è connesso il rifiuto da parte del nucleo di militanti che hanno assicurato la direzione e la gestione del MFE di identificarsi con un qualsiasi partito nazionale. In tal modo è stato possibile instaurare, nei momenti opportuni, utilissimi rapporti di collaborazione e di alleanza tattica con i partiti democratici — un certo numero di esponenti dei quali sono diventati membri del Movimento —, salvaguardando allo stesso tempo pienamente l’indipendenza federalista.
Il principio dell’autonomia organizzativa ha riguardato la formazione e la selezione dei militanti. Esse sono state guidate dall’esigenza di evitare i condizionamenti che sarebbero stati imposti al Movimento da un apparato amministrativo pesante e costoso, dipendente perciò inevitabilmente, per la sua sopravvivenza, essenzialmente da finanziamenti esterni. Di conseguenza si è giunti a stabilire che tutti i militanti federalisti fossero militanti a mezzo tempo, con un lavoro in grado di garantire la loro indipendenza economica, pur consentendo loro di disporre di un sufficiente tempo libero da dedicare all’attività federalista. In tal modo si è potuto creare un’organizzazione poco costosa e quindi totalmente al riparo da qualsiasi tentativo di pressione o di ricatto da parte di qualunque forza politica o economica.
Il terzo principio è, infine, quello dell’autonomia finanziaria e ha avuto come sua istituzione specifica l’autofinanziamento. Esso significa concretamente che i militanti reclutati dall’organizzazione dei federalisti italiani hanno sempre saputo che il lavoro federalista non avrebbe mai procurato loro denaro, ma al contrario gliene sarebbe costato. Questa impostazione, che è diventata la base finanziaria del MFE, non ha impedito che esso ricevesse anche finanziamenti esterni, ma essi sono stati usati soprattutto per finanziare azioni specifiche, mentre la struttura permanente dell’organizzazione ha sempre funzionato grazie alle sue «risorse proprie»; il che ha rappresentato una condizione ulteriore della sua impermeabilità a qualsiasi influenza esterna.
Al di là di tutto ciò, il fondamento basilare dell’autonomia politica, organizzativa e finanziaria del MFE è rappresentato dall’autonomia culturale. Solo una forte motivazione culturale (oltre ovviamente a quella morale), cioè il raggiungimento della consapevolezza che la dottrina federalista ha qualcosa di realmente nuovo da dire, in termini di valori e di comprensione della situazione storica, rispetto al pensiero politico dominante può in effetti alimentare un impegno a lungo termine, spesso faticoso e difficile, e che rinuncia alle motivazioni del potere e del denaro, in un numero di militanti sufficiente per costituire una forza federalista autonoma in grado di incidere sulla realtà.
Il fondamento basilare dell’autonomia culturale dei federalisti è la demistificazione dell’ideologia nazionale che è un’operazione molto complessa.[34] Non si tratta infatti semplicemente di rifiutare la scelta nazionalistica, in quanto orientamento valutativo opposto a quelli della pace e del cosmopolitismo, che consiste nella convinzione della superiorità della propria nazione rispetto a tutte le altre e, quindi, nella giustificazione dell’oppressione degli altri gruppi nazionali che può giungere fino alla pratica del genocidio. La demistificazione dell’ideologia nazionale significa altresì essere consapevoli dell’incapacità delle ideologie dominanti di derivazioni illuministica (il liberalismo, la democrazia e il socialismo) di concepire l’effettivo superamento degli Stati nazionali sovrani. Queste ideologie sono universaliste e quindi favorevoli in termini di principio all’unificazione sovranazionale. Nello stesso tempo però tendono a mitizzare gli Stati nazionali, che sono visti come istituzioni «naturali», in quanto fondate sulle preesistenti nazioni; non riescono così a vedere che sono gli Stati a creare le nazioni e non viceversa, e non percepiscono di conseguenza con chiarezza che gli Stati nazionali sono delle istituzioni storicamente determinate e perciò storicamente superabili. Questa automistificazione, che deriva in ultima analisi dalla tendenza all’autoconservazione del potere, spinge strutturalmente i governi e i partiti democratici nazionali a concepire l’unificazione sovranazionale più come cooperazione (per quanto approfondita) fra gli Stati che come trasferimento irrevocabile della sovranità nazionale a istituzioni federali.
Se la demistificazione dell’ideologia nazionale costituisce il fondamento culturale basilare dell’autonomia federalista, essa deve tradursi sul piano pratico nell’esigenza vitale per i militanti federalisti di denunciare sistematicamente i limiti dell’internazionalismo. La denuncia deve essere ovviamente estesa alle teorie funzionalistiche, le quali puntano sull’automatismo dell’integrazione comunitaria e non percepiscono fino in fondo la capacità di resistenza del potere nazionale proprio perché non si sono pienamente affrancate dall’ideologia nazionale che cela la vera natura del potere politico. Ciò vale in altri termini anche per il pacifismo che, proprio perché non ha alcuna consapevolezza della problematica della statualità in generale, è facilmente strumentalizzabile dalla tendenza alla conservazione della sovranità statale assoluta. E’ vero che con gli internazionalisti, i funzionalisti e i pacifisti c’è convergenza sul piano dei valori, e quindi un impegno fondamentale del federalismo organizzato consiste nello sforzo di coinvolgerli nella lotta per gli obiettivi federalisti. Questa operazione può però riuscire solo se i militanti federalisti sono chiaramente consapevoli che questi approcci sono inadeguati di fronte al problema della costruzione della pace e che la specificità del federalismo consiste proprio nel loro superamento. In caso contrario, il dialogo con gli internazionalisti, i funzionalisti e i pacifisti porta alla perdita dell’identità e, quindi, dell’autonomia federalista.
Occorre infine sottolineare un importante aspetto etico-psicologico dell’autonomia federalista. Essa si fonda sulla convinzione da parte dei militanti federalisti di svolgere un ruolo insostituibile, in mancanza del quale, cioè, la lotta per la pace è destinata a fallire. Ne deriva il rifiuto strutturale di ogni forma di provvidenzialismo e di conseguenza la consapevolezza della responsabilità storica dei federalisti e del fatto che i loro errori possono avere conseguenze fatali per il progresso dell’umanità. Questo indispensabile senso di fierezza non deve però tradursi in intellettualistico disprezzo nei confronti dei sostenitori non federalisti del valore prioritario della pace, ma deve accompagnarsi al riconoscimento che esistono altri ruoli indispensabili e degni di grande apprezzamento. L’esempio più calzante che si può fare a questo riguardo è quello di molti gruppi eco-pacifisti che operano attraverso le organizzazioni non governative impegnate sul terreno dei diritti umani, dell’aiuto allo sviluppo, dei problemi connessi con l’emigrazione, della salvaguardia dell’ambiente, e così via. Questo tipo di impegno rientra, è vero, più nella sfera della carità[35] che in quella della grande carità, la quale può essere perseguita solo in una prospettiva federalista. Ma poiché la grande carità ha tempi lunghi e lunghissimi, c’è un ruolo positivo della carità che deve essere apprezzato in tutto il suo valore. L’importante è evitare la confusione dei diversi ruoli, che non può che produrre l’inconcludenza e in definitiva la sterilità.
Fin qui abbiamo visto il nesso fra la necessità dell’autonomia federalista e la presa d’atto che i governi democratici nazionali sono nello stesso tempo strumenti e ostacoli rispetto all’unificazione federale. Da questa fondamentale variabile indipendente del discorso federalista sulla strategia deriva una conseguenza di importanza decisiva anche in relazione alla procedura necessaria per costruire l’unità europea: per realizzare le istituzioni federali, in mancanza delle quali l’integrazione rimane inevitabilmente precaria e reversibile, è indispensabile imporre il metodo dell’assemblea costituente contro il metodo diplomatico delle conferenze intergovernative.
Il metodo della costituente europea, che ha come modello paradigmatico la Convenzione di Filadelfia che elaborò nel 1787 la prima costituzione federale della storia, significa sostanzialmente tre cose: il conferimento del compito di definire le istituzioni europee ad un organo di tipo parlamentare, che, a differenza delle conferenze diplomatiche, delibera in sedute aperte al controllo da parte dell’opinione pubblica; le deliberazioni con voto a maggioranza invece che sulla base del principio dell’unanimità che costituisce la regola primaria delle conferenze diplomatiche; la ratifica a maggioranza del progetto approvato dall’Assemblea costituente, che entrerà in vigore solo fra i paesi ratificanti. La scelta di questa procedura si fonda non solo sul richiamo ai principi della democrazia, bensì anche su considerazioni dettate dal realismo politico. Il punto fondamentale è che sulla base delle deliberazioni unanimi e segrete dei governi nazionali e delle diplomazie la tendenza alla conservazione della sovranità assoluta è inesorabilmente destinata a dimostrarsi più forte della necessità di una efficace unificazione. Per contro con il metodo costituente democratico l’orientamento a favore di istituzioni federali sarebbe incomparabilmente più forte perché si farebbe sentire in modo decisivo l’europeismo largamente diffuso nell’opinione pubblica (soprattutto nei paesi in cui è più matura la crisi degli Stati nazionali) e negli stessi partiti democratici e di orientamento internazionalistico.
Per queste ragioni l’obiettivo strategico della lotta federalista è sempre stato quello di strappare ai governi l’attivazione di una procedura costituente democratica. Il perseguimento di questo obiettivo non ha escluso l’impegno per obiettivi intermedi quali l’esercito europeo, l’elezione diretta del Parlamento europeo, la moneta europea. Ma si è trattato di obiettivi idonei a mettere sul tappeto alcuni dei fondamenti della sovranità, e quindi effettivamente strumentali rispetto alla possibilità di attivare la procedura costituente democratica. Si è trattato e si tratta, in altre parole, di un gradualismo costituzionale,[36] che non ha nulla a che fare con l’appoggio a battaglie di tipo funzionalistico o settoriale. Il sostegno da parte dei federalisti del gradualismo funzionalistico finirebbe in effetti per compromettere l’identità della forza federalista e, quindi, la sua capacità di sfruttare le contraddizioni dell’integrazione funzionalistico-comunitaria.
I deficit sul piano dell’efficienza e della democrazia che caratterizzano strutturalmente l’integrazione europea pongono, come si è detto, su un piano inclinato i governi nazionali, e il loro sfruttamento è precisamente la leva su cui far forza per cercare di strappare l’attivazione della procedura costituente democratica. Condurre in modo efficace questa operazione non presuppone solamente l’esistenza di una forza federalista autonoma, ma implica altresì la capacità di impiegarla in modo efficace. In questo contesto ha un peso determinante la capacità di mobilitare l’opinione pubblica e quindi di imporre nei momenti decisivi — quando le contraddizioni producono situazioni di crisi acuta — la superiorità della discriminante fra chi è favorevole alla Federazione europea e chi difende la sovranità nazionale rispetto alle contrapposizioni che occupano normalmente la scena politica nazionale. Questa capacità è una componente imprescindibile della strategia federalista e se essa manca, o è insufficiente, l’autonomia federalista diventa fine a sé stessa e quindi settarismo.[37]
 
La priorità della lotta per la Federazione europea.
 
Il realismo politico fornisce, come si è visto nel capitolo precedente, gli strumenti teorici indispensabili per individuare l’ostacolo fondamentale che la lotta federalista per la pace deve superare, e la natura del soggetto politico idoneo a questo compito. Nel discorso federalista realista sulla strategia finora svolto sono anche venute alla luce le considerazioni che portano a vedere nella lotta per la Federazione europea l’impegno prioritario che deve contraddistinguere una lotta per la pace, cioè per la Federazione mondiale, che non voglia limitarsi alla pura testimonianza e si proponga di incidere nella realtà politica. Da una parte, la crisi storica del sistema degli Stati sovrani è il contesto che rende storicamente attuale il discorso kantiano sulla necessità di superare l’anarchia internazionale, che apre, in altre parole, la fase federalista della storia mondiale, nella quale la forma statuale federalista è la sola in grado di controllare il processo di aumento dell’interdipendenza. Dall’altra parte, la crisi del sistema degli Stati sovrani, se costituisce un contesto di rilevanza globale, ha però un andamento fortemente diseguale. La crisi degli Stati nazionali europei rappresenta in effetti la punta più avanzata, e quindi l’anello debole della catena. In Europa si è pertanto formato il piano inclinato e sono maturate con ciò le condizioni oggettive per la crescita di una forza federalista in grado di dare concretamente avvio alla costruzione della pace. Donde appunto la priorità della lotta per la Federazione europea. Si tratta ora di chiarire in modo più approfondito come questo impegno prioritario si inquadra con coerenza nel progetto complessivo che ha come suo obiettivo ultimo la Federazione mondiale.
In questo contesto deve essere anzitutto concentrata l’attenzione sul fatto che la Federazione europea è la prima e ineludibile tappa storica in direzione del traguardo della Federazione mondiale. In proposito, sono rilevanti soprattutto tre ordini di considerazioni.[38]
In primo luogo, la Federazione europea rappresenterà un pilastro fondamentale di una futura Federazione mondiale. Questa, come si è già accennato, potrà essere un sistema politico-statale funzionale e duraturo solo se poggerà su di un numero limitato di grandi federazioni regionali democratiche. E d’altra parte solo delle grandi democrazie federali costituiranno dei regimi repubblicani in senso kantiano, cioè fondati sui valori della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia. E quindi avranno la possibilità strutturale di stringere un patto federale mondiale, anche se non mancherà in esse l’ostacolo rappresentato dalla tendenza all’autoconservazione del potere. Mentre finora la sola federazione continentale in grado di fungere da pilastro del futuro Stato mondiale è quella degli Stati Uniti d’America, con la nascita della Federazione europea ne avremo due. E avremo perciò compiuto un grandioso balzo in avanti, che dovrà essere seguito dalla democratizzazione e federalizzazione della Cina, dal consolidamento della democrazia federale nell’India, dalla creazione di altre federazioni regionali in Asia, in America latina, e in Africa (in cui peraltro è ancora incompiuto il processo di formazione della statualità moderna).
In secondo luogo, la Federazione europea costituirebbe un modello di grandissima forza attrattiva per il resto del mondo. Si deve, a questo proposito, tener presente che l’unificazione federale americana si è realizzata in una zona periferica (allora) del mondo avanzato e ha coinvolto dei piccoli Stati appena emancipatisi dal colonialismo britannico e privi di radici storiche. Per contro l’unificazione federale europea comporterebbe la pacificazione definitiva — con il superamento della sovranità assoluta e, quindi, il disarmo degli Stati nazionali europei storicamente consolidati — della regione più dinamica ma anche più turbolenta della storia moderna, che ha prodotto le guerre mondiali ed è stata teatro della guerra fredda e, successivamente, delle guerre balcaniche. Lo sviluppo dell’unificazione europea, pur nella sua incompletezza, ha cambiato radicalmente la situazione dell’Europa occidentale, nel senso della crescita del benessere e del consenso al sistema democratico. E soprattutto ha introdotto una prassi che — contrariamente alla politica nazionalistica tendente a spostare con la forza i confini nazionali (per ottenere «spazi vitali» per lo sviluppo delle diverse nazioni e perseguire una mitica coincidenza fra le dimensioni degli Stati e le dimensioni delle nazioni) e a discriminare e ad opprimere le minoranze culturali, linguistiche e religiose — persegue il superamento della rilevanza dei confini, per ottenere tramite l’integrazione sovranazionale pacifica uno spazio adeguato di sviluppo per tutte le nazioni, e si impegna a tutelare le minoranze. Con l’allargamento all’Europa centrale e orientale (che presuppone, per riuscire effettivamente, il salto federale dell’integrazione europea), la pacificazione si estenderebbe a questa zona e si realizzerebbe la sola alternativa possibile alla disgregazione della regione in una moltitudine di piccoli Stati monoetnici, che implica inevitabilmente la prassi mostruosa della pulizia etnica.
Se si tiene conto che l’Europa è la zona complessivamente più avanzata del mondo moderno, la quale ha inventato la scienza moderna, l’industria, la democrazia e il nazionalismo che hanno avuto tanti imitatori in tutto il mondo, la sua pacificazione federale dimostrerebbe con la forza irrefutabile dei fatti che è possibile estendere la pacificazione ad altre aree del mondo e, quindi, all’intera umanità. L’effetto imitativo, che il sia pure incompleto e quindi ancora precario processo di integrazione europea ha indotto in altre zone, favorendo processi di integrazione regionale aventi come modello quello europeo, risulterebbe rafforzato in modo decisivo. Per contro il fallimento dell’integrazione europea avrebbe una terribile esemplarità negativa. Rafforzerebbe automaticamente e in modo probabilmente fatale tutte le tendenze alla frammentazione e alla disgregazione che sono operanti nel mondo e che traggono alimento sia dall’instabilità prodotta dalla dissoluzione del sistema bipolare, sia dal processo di globalizzazione, che opera per ora essenzialmente come una forza della natura non adeguatamente incanalata dalla progettualità razionale.
Il ruolo determinante che la Federazione europea è chiamata a svolgere rispetto al processo di unificazione mondiale si basa — e questo è il terzo ordine di considerazioni — anche sulle tendenze di fondo che caratterizzeranno la sua politica internazionale e che dipenderanno essenzialmente dalla sua ragion di Stato. Il concetto di ragion di Stato ci permette di capire che la politica estera, che si svolge sempre all’ombra dei rapporti di forza, è d’altra parte fortemente condizionata nelle sue scelte concrete da fattori quali la specifica situazione internazionale con i suoi equilibri e i suoi trends (ad esempio, nella attuale situazione storica, le sfide che rendono necessaria l’unificazione mondiale e alimentano processi di integrazione al di là delle barriere nazionali), la posizione e il peso del singolo Stato nell’equilibrio di potenza e nel sistema economico internazionale, la struttura politico-costituzionale. Ciò precisato, si può fondatamente affermare che la ragion di Stato della Federazione europea sarà sì caratterizzata dalla tendenza a perseguire gli interessi particolari dell’Europa, ma anche da una forte spinta oggettiva a favore di una politica diretta verso l’unificazione mondiale.
Come si è visto prima, con la creazione della Federazione europea si affaccerebbe sulla scena mondiale, accanto agli Stati Uniti d’America, un altro soggetto statale atto a costruire le istituzioni della pace perpetua. La Federazione europea avrebbe però — e questo è il punto essenziale — una attitudine assai più marcata, rispetto alla superpotenza d’oltre Atlantico, a svolgere tale ruolo. In effetti la struttura federale degli Stati Uniti ha subito una forte degenerazione in direzione dell’accentramento — soprattutto attraverso la creazione di un enorme apparato militare-industriale — causata dal fatto che questo paese è stato chiamato dalla storia a svolgere un ruolo egemonico su scala non solo regionale, bensì mondiale. La politica egemonica americana ha svolto in questo secolo una funzione enormemente positiva per il progresso dell’umanità che si è manifestato in particolare nell’aver sconfitto le alternative fascista e comunista alla democrazia liberale e nell’aver favorito in modo decisivo l’avvio dell’integrazione europea; ma nello stesso tempo ha fatto nascere una radicata mentalità nazionalistico-imperiale, che possiede una grande forza d’inerzia, in quanto è un fattore decisivo del consenso interno, e che ostacola la presa di coscienza della necessità di una politica estera orientata verso l’unificazione mondiale e quindi verso il superamento delle sovranità statali particolari.
Con l’unificazione federale europea nascerà uno Stato continentale fornito di una propria identità di politica estera e di difesa, che quindi perseguirà anche i suoi interessi particolari, ma che non sarà condizionato dai fattori negativi presenti nella situazione americana. Anzitutto, lo Stato europeo non potrà che avere una struttura federale fortemente decentrata, in quanto fondata su un pluralismo nazionale, culturale, religioso, economico e sociale che non ha eguali nel mondo; il che oltretutto renderà di fatto impossibile la formazione di una identità europea fondata sulla costruzione di un mito nazionale e imporrà un «patriottismo della costituzione». Secondariamente, non ci sarà la forza d’inerzia rappresentata da una tradizione egemonica consolidata. D’altra parte, il fatto che la nascita della Federazione europea si fonderà sull’esperienza della rinuncia alla propria sovranità da parte di Stati nazionali storicamente consolidati creerà una situazione più favorevole alla presa di coscienza della necessità di superare la stessa sovranità europea. Infine l’Europa dipende assai più degli Stati Uniti dal commercio internazionale e dall’importazione di materie prime insostituibili, il che alimenta un interesse particolarmente forte a mercati mondiali stabilmente aperti (e non abbandonati alla legge della giungla) e allo sviluppo dei paesi arretrati.
Se questi sono gli impulsi fondamentali provenienti dalla ragion di Stato europea, si deve anche aggiungere che l’Europa acquisterà con la sua unità la piena autonomia dagli Stati Uniti e rafforzerà quindi automaticamente l’autonomia della Cina, dell’India e del Giappone. Ciò comporterà il passaggio da un sistema internazionale fondato sull’egemonia, sia pur declinante, degli Stati Uniti a un sistema pluripolare. Esso sarà completato dal progresso delle integrazioni regionali verso la statualità che sarà favorito, oltre che dall’esempio europeo, dal fatto che in presenza di un sistema mondiale, i cui poli siano Stati di dimensioni continentali, le potenze medie e piccole conteranno sempre meno e l’eclissi di fatto della loro sovranità diventerà sempre più evidente. In questo contesto, che sarà condizionato dalla spinta all’unificazione mondiale derivante dalla globalizzazione e dalle sfide alla sopravvivenza dell’umanità di cui si è detto, è ragionevole dunque aspettarsi una forte politica europea a favore dell’unificazione mondiale. Di questa politica è azzardato prevedere le concrete linee di sviluppo perché, oltre a presupporre un salto federale che non si è ancora compiuto, si svolgerà in un contesto mondiale che nel frattempo potrà cambiare. Si possono però individuare delle tendenze di fondo. Due vanno in particolare sottolineate.
Da una parte la Federazione europea tenderà a favorire lo sviluppo dei paesi arretrati, e quindi le integrazioni regionali (due problemi organicamente connessi), perché solo progredendo in questa direzione sarà possibile rimediare a sempre più pericolose situazioni di instabilità, aprire importanti mercati e controllare emigrazioni «bibliche», che finiranno per diventare incompatibili con il progresso democratico in Europa. In questo contesto la scelta obbligata sarà in particolare un grande Piano Marshall europeo per il Mediterraneo meridionale, il Medio Oriente e l’Africa. Esso dovrà subordinare — sul modello del Piano Marshall americano che ha permesso l’avvio dell’integrazione europea — un aiuto di dimensioni adeguate, sul piano economico e su quello della sicurezza, allo sviluppo della integrazione regionale e del progresso sul piano dei diritti umani. Dall’altra parte, la Federazione europea avrà non solo l’interesse, ma anche la possibilità effettiva (in quanto avrà raggiunto l’autonomia internazionale) di portare avanti un rafforzamento decisivo dell’organizzazione internazionale globale (ONU, WTO, FMI) e cioè della governance mondiale. Venendo meno la situazione di asimmetria che caratterizza le organizzazioni internazionali in conseguenza dell’egemonia americana, diventerebbero possibili grandi innovazioni e si porrebbero le premesse per l’apertura di una nuova fase storica avente al suo centro la costruzione del governo mondiale. E’ evidente che le condizioni oggettive favorevoli potranno essere sfruttate pienamente se svolgerà adeguatamente il suo ruolo una forza federalista autonoma.
Se, sulla base di quanto detto finora, è chiara la priorità della lotta per la Federazione europea, occorre ora sottolineare nella parte conclusiva di questo scritto le implicazioni pratiche che ne derivano in ordine al problema della coerenza fra impegno europeista e impegno mondialista. Da una parte, l’affermazione dell’obiettivo dello Stato federale mondiale è un aspetto essenziale del federalismo, non solo in quanto indica l’obiettivo ultimo della lotta federalista (che quindi permette di individuare con rigore gli avanzamenti parziali), ma anche perché attiva le motivazioni indispensabili — la lotta per la pace e quindi per l’emancipazione piena dell’umanità — per i militanti di una forza politica rivoluzionaria. Se non si crede nella possibilità della piena emancipazione dell’umanità, sia pure attraverso un percorso di lunghissimo termine e di parziali ma concreti avvicinamenti storici, si cade fatalmente nell’accettazione opportunistica dell’esistente. Dall’altra parte, solo individuando e seguendo la giusta via di avanzamento — cioè la Federazione europea — si mantiene aperto il percorso storico verso l’unificazione mondiale. Il fallimento dell’impresa dell’unificazione europea significherebbe infatti il ritorno all’anarchia medioevale, in una situazione storica in cui però l’umanità ha a disposizione le possibilità tecnologiche di autodistruggersi.
Da ciò consegue che solo l’impegno europeistico ha valore strategico mentre quello mondialistico ha carattere prestrategico, in senso lato culturale. Pertanto, se è evidente che i federalisti in Europa devono concentrare integralmente il proprio impegno politico sull’obiettivo della Federazione europea, dovrebbe essere altresì chiaro che i federalisti presenti in altre parti del mondo, e che, date le circostanze obiettive, operano sul terreno prestrategico, dovrebbero prioritariamente appoggiare la lotta federalista in Europa. Il che non toglie che debbano impegnarsi a favore delle integrazioni regionali e della democratizzazione delle unioni regionali già esistenti (India, Cina, Russia). L’errore fondamentale che deve essere evitato — e ciò vale essenzialmente per i federalisti attivi in Europa, perché è qui che si svolge la battaglia decisiva — è di presentare l’impegno per la Federazione mondiale, come un impegno politico concreto e, quindi, di carattere strategico. L’affermarsi di una simile posizione significherebbe lo scivolamento verso le posizioni pacifiste e internazionaliste e, quindi, la perdita dell’autonomia federalista. D’altro canto, si contribuirebbe a fornire alle resistenze nazionalistiche al trasferimento della sovranità in Europa il comodo alibi della fuga in avanti sul terreno mondialistico.


[1] Si vedano, per questo confronto, M. Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993 e L. Levi, Il federalismo, Milano, F. Angeli, 1987.
[2] Cfr. S. Pistone (a cura di), L’idea dell’unificazione europea dalla prima alla seconda guerra mondiale, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1975; ID. (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1945-1954, Milano, Jaca Book, 1992; ID. (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1954-1969, Università di Pavia, 1996; ID., «Europeismo», in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2000; A. Landuyte, D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986, 2 voll., Bologna, Il Mulino, 2000.
[3] Cfr. M. Albertini, La politica e altri saggi, Milano, Giuffré, 1963; S. Pistone, F. Meinecke e la crisi dello Stato nazionale tedesco, Torino, Giappichelli, 1969; ID. (a cura di), Politica di potenza e imperialismo. L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di Stato, Milano, F. Angeli, 1973; ID., L. Dehio, Napoli, Guida, 1977; ID., «Imperialismo», «Ragion di Stato», «Relazioni internazionali», in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, UTET, 1990.
[4] Un sintetico ed efficace inquadramento della corrente realistica nell’ambito della teoria delle relazioni internazionali si trova in J.J. Roche, Théories des relations internationales, Parigi, Editions Montchrestien, 1999 (trad. it., Le relazioni internazionali. Teorie a confronto, Bologna, Il Mulino, 2000).
[5] Cfr. N. Machiavelli, Il Principe.
[6] Cfr. F. Rossolillo, «La sovranità popolare e il popolo federale mondiale come suo soggetto», in Il Federalista, XXXVII (1995), n. 3.
[7] Cfr. I. Kant, La pace, la ragione e la storia, a cura di M. Albertini, Bologna, Il Mulino, 1985.
[8] A questo riguardo va ricordata la chiarificatrice osservazione di Seeley (Introduction to Political Science, Londra, Macmillan, 1902) secondo cui «la libertà interna di uno Stato è inversamente proporzionale alla pressione esercitata sui suoi confini».
[9] E’ importante sottolineare a questo riguardo che Kant, proprio perché non era un ingenuo pacifista, ha saputo vedere come la guerra sia anche un fattore decisivo di progresso storico, in quanto spinge i governanti a migliorare le condizioni di vita dei sudditi, onde rafforzare il loro consenso nei confronti della politica di potenza del proprio Stato. Nello stesso tempo ha saputo prevedere che il progresso continuo dell’efficacia degli armamenti avrebbe finito per far prevalere gli aspetti puramente distruttivi delle guerre e porre l’esigenza vitale del loro superamento.
[10] E’ stato sostenuto (G. Marini, «Kants Idee einer Weltrepublik», in P.J.M. Van Tongeren et al., Eros and Eris, Kluwer Academic Publishers, Netherland, 1992) che Kant prospetta la formazione di uno Stato federale mondiale, allorché usa l’espressione Weltrepublik, e quindi un termine, Republik, che nel suo pensiero è sinonimo di Stato. Rimane il fatto che le sue ambiguità terminologiche indicano una non chiara conoscenza del modello federale e che questa lacuna deve essere chiaramente sottolineata anche per controbattere la tendenza degli internazionalisti a vedere in Kant un sostenitore del loro approccio.
[11] Cfr. L. Levi, «La federazione: costituzionalismo e democrazia oltre i confini nazionali», saggio introduttivo all’ultima edizione di A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il federalista, Bologna, Il Mulino, 1997.
[12] La chiara distinzione fra la confederazione, che rimane sul terreno dell’anarchia internazionale, e lo Stato federale, che la supera, ha permesso a Hamilton di approfondire gli insegnamenti provenienti dai teorici della ragion di Stato. Si veda L. Levi, «Il Federalist e la teoria della ragion di Stato», in Il pensiero politico, XXI, 1988, n. 1.
[13] Cfr. S.P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon and Schuster, 1996 (trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997).
[14] Cfr. S. Pistone, «La politica di sicurezza dell’Unione europea», in Il Federalista, XXXIV (1992), n. 2.
[15] Cfr. M. Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea, Napoli, Guida, 1979.
[16] Cfr. J.R. Seeley, The United States of Europe (1971), trad. it. in Il Federalista, XXXI (1989), n. 2.
[17] Cfr. Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino, 1986.
[18] Cfr. L. Einaudi, La guerra e l’unità europea, Bologna, Il Mulino, 1986, e U. Morelli, Contro il mito dello Stato sovrano. Luigi Einaudi e l’unità europea, Milano, F. Angeli, 1990.
[19] Cfr. S. Pistone, «La teoria federalista della guerra e della pace», in Verso la pace, Torino, Scuola di Pace di Boves, 1990.
[20] Un esponente di rilievo della corrente pacifista nell’ambito della teoria delle relazioni internazionali è J.W. Burton (World Society, Cambridge, Cambridge University Press, 1972), il quale ha un orientamento fortemente mondialista ma contrario alla statualità sovranazionale. Cfr. J.J. Roche, op. cit.
[21] Su Giovanni Botero, la cui opera più importante è Della ragion di Stato del 1589, si veda Botero e la «Ragion di stato», Atti del convegno in memoria di Luigi Firpo (Torino 8-19 marzo 1990), a cura di Enzo Baldini, Firenze, Olschki, 1992.
[22] Cfr. L. Levi, «Che cos’è l’internazionalismo», in Il Federalista, XXXIII (1991), n. 3 e «Internazionalismo», in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996.
[23] Cfr. per un buon inquadramento da un punto di vista realista di questa corrente A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, Bologna, Il Mulino, 1997.
[24] Cfr. M. Albertini, Il federalismo, cit. e A. Spinelli, La crisi degli Stati nazionali, a cura di L. Levi, Bologna, Il Mulino, 1991. Va sottolineato che solo con Spinelli e Albertini il concetto di crisi degli Stati sovrani diventa l’aspetto teorico di un programma politico.
[25] Cfr. F. Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Milano, Giuffré, 1972; L. Levi, L’internationalisme ne suffit pas. Internationalisme marxiste et fédéralisme, Lione, Fédérop, 1984; G. Montani, Il federalismo, l’Europa e il mondo, Manduria, Lacaita, 1999.
[26] La fine della guerra fredda e l’implosione del blocco sovietico hanno chiaramente un legame con lo sviluppo dell’interdipendenza economica, che ha reso vieppiù insostenibile, man mano che le informazioni circolavano, l’arretratezza economica derivante dalla chiusura autarchica, oltre che dal peso della corsa agli armamenti.
[27] Cfr. S. Minardi, Origini e vicende del progetto di Unione europea di Briand, Caltanissetta, Salvatore Sciascia, 1994.
[28] Cfr. S. Pistone, «La politica estera e di sicurezza dell’Unione europea», in Il Dibattito Federalista, 1997, n. 1, e «La difesa europea», in Il Dibattito Federalista, 1999, n. 1.
[29] Sulle integrazioni regionali come via maestra al superamento del sottosviluppo si veda G. Montani, Il Terzo mondo e l’unità europea, Napoli, Guida, 1980.
[30] Nell’ambito dell’approccio realista la problematica dell’integrazione europea viene esaminata, ma viene vista esclusivamente come una forma di cooperazione intergovernativa e, di conseguenza, non si percepisce la sua tendenza a produrre contraddizioni acute che aprono spazi a cambiamenti radicali. Cfr., a titolo esemplificativo, S. Hoffmann, The European Sisyphus: Essays on Europe 1964-1994, Boulder, Westview Press, 1995.
[31] Cfr. A. Spinelli, Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, a cura di S. Pistone, Bologna, Il Mulino, 1989.
[32] Cfr. N. Angell, The Great Illusion, New York, Putnam, 1911 e S. Pistone, L’integrazione europea. Uno schizzo storico, Torino, UTET, 1999.
[33] Cfr. M. Albertini, Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999.
[34] Cfr. M. Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1996 e Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999.
[35] Il fatto che le ONG siano one issue movements indica che la loro azione si pone sostanzialmente al di fuori della logica della politica la quale ha come proprio specifico obiettivo la realizzazione della sintesi fra le diverse rivendicazioni. Questo discorso non vale ovviamente per i Verdi in quanto partito politico.
[36] Cfr. M. Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[37] La mobilitazione delle aspirazioni, presenti nell’opinione pubblica, alla cooperazione pacifica al di là dei confini nazionali deve ovviamente essere sorretta dalla chiara consapevolezza dell’insostituibile ruolo di avanguardia svolto dal federalismo organizzato. Non si deve mai dimenticare che è quest’ultimo il soggetto rivoluzionario e non le aspirazioni sovranazionali presenti nell’opinione pubblica, che, lasciate alla loro spontaneità, non sono in grado di superare l’idea della collaborazione internazionale. Vale per la battaglia federalista quello che Lenin diceva in riferimento alla lotta socialista rivoluzionaria: la classe operaia può spontaneamente giungere a una coscienza tradeunionistica, mentre solo il partito può essere pienamente consapevole dell’obiettivo rivoluzionario. Va ricordato che Spinelli proviene dalla scuola leninista ed è questa una ragione fondamentale per cui ha saputo impostare una valida strategia federalista.
[38] Cfr. F. Rossolillo, «Federazione europea e Federazione mondiale», in Il Federalista, XLI (1999), n. 2, e S. Pistone, «L’unificazione europea e la pace del mondo», in U. Morelli (a cura di), L’Unione europea e le sfide del XXI secolo, Torino, Celid, 2000.

 

 

 

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