IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LII, 2010, Numero 3, Pagina 172

 

 

Federalismo ed emancipazione umana*
 
LUISA TRUMELLINI
 
 
Il tema del federalismo come nuova ideologia politica è stato uno dei pilastri su cui Albertini ha costruito il Movimento federalista sin dagli anni Sessanta. Se il MFE è potuto sopravvivere per più di sessantacinque anni in un contesto politico e culturale che, nonostante l’avanzare del processo di integrazione europea, tendeva gradualmente ad emarginare l’opzione federalista, lo si deve innanzitutto alla capacità di Albertini di aver colto e approfondito il fatto che il federalismo non è solo una teoria istituzionale e una soluzione al problema specifico della fine del sistema europeo degli Stati, ma è la risposta politica globale alle sfide poste all’umanità dalla continua evoluzione del modo di produzione industriale. L’elaborazione di Albertini ha permesso di sviluppare il potenziale implicito nella visione radicalmente innovativa portata da Spinelli nella politica europea del secondo dopoguerra, in base alla quale la nuova ed unica battaglia per il progresso che si può condurre oggi nel nostro continente è quella per la Federazione europea. Grazie all’ulteriore approfondimento teorico ne ha reso manifesti gli aspetti di valore universale e ne ha valorizzato la portata storica e politica; e, poiché la ricerca della verità è l’unica risorsa reale di potere del MFE, con questa rielaborazione Albertini ha creato le fondamenta della vita dell’organizzazione.
Su questa base solida si è potuta sviluppare l’autonomia culturale del Movimento, su cui si fonda la stessa autonomia organizzativa; e i federalisti hanno potuto rafforzare la coscienza del proprio ruolo storico e politico.
Non dobbiamo infatti mai scordare che un movimento rivoluzionario (che, per definizione, non può avere riconoscimenti effettivi nel quadro di potere esistente) può alimentare la tensione morale dei suoi militanti solo grazie all’elaborazione di categorie concettuali in grado di portarli alla comprensione del processo storico in corso, di farli confrontare idealmente con le grandi conquiste politiche che li hanno preceduti e di aiutarli a trovare risposte alle nuove sfide che l’umanità si trova a fronteggiare. In particolare, poiché l’adesione alla causa federalista e l’impegno nel Movimento possono essere solo il frutto di una scelta totalmente libera (non essendo neppure collegata alla difesa di qualche interesse specifico, come ancora accadeva, di fatto, per le ideologie del passato, legate all’idea di classe), essa può vivere solo della consapevolezza della natura della situazione storica che l’umanità sta vivendo e della volontà di cambiarla, e può solo avere nella ricerca della verità la parte essenziale della sua azione.
Anche per il futuro, quindi, la sopravvivenza del MFE è legata alla sua capacità di continuare a far vivere il federalismo come pensiero politico attivo in grado di porsi come superamento (in senso hegeliano) delle ideologie tradizionali che lo hanno preceduto e di mostrare l’alternativa rispetto al sistema di potere esistente, ancora fondato sulle categorie del nazionalismo.
Prima di cercare di illustrare, in modo necessariamente breve e schematico, i punti fondamentali della teoria del federalismo come nuova ideologia politica, è opportuno sottolineare il fatto che i capisaldi di questa teoria sono stati posti da Albertini prima, e poi, in alcuni punti decisivi, approfonditi da Rossolillo. Come la visione di Spinelli del significato storico e politico della battaglia per la Federazione europea ha rappresentato la base dell’esistenza del federalismo organizzato, e costituisce pertanto un punto di non ritorno, altrettanto si deve dire riguardo ai fondamenti dell’elaborazione teorico-politica di Albertini del federalismo come criterio di conoscenza e di azione e degli ulteriori approfondimenti che ne ha fatto Rossolillo. Questo non significa affatto che non ci sia più spazio per ulteriori chiarificazioni e arricchimenti della teoria, ma implica anche la consapevolezza che non si può fare a meno delle conquiste intellettuali già raggiunte, che si sono rivelate fondamentali e che non possono non costituire la base di ogni ulteriore aggiornamento.
Tutto questo non comporta, ovviamente, la caduta nel dogmatismo dell’ipse dixit che porta a ripetere in modo rituale formule che in questo modo diventano vuote. Al contrario, si tratta di riconoscere che i federalisti hanno ereditato un pensiero vivo, che devono saper alimentare innanzitutto continuando a metterlo alla prova nel confronto con i fatti del processo storico e politico; e sviluppando, a partire dagli strumenti che ci fornisce, le risposte alle contraddizioni che attraversano la società europea e mondiale in continua evoluzione. Occorre quindi continuare ad approfondirlo, innanzitutto per imparare effettivamente a comprenderlo e ad usarlo, e per riuscire a cogliere i punti da indagare ulteriormente.
Va da sé che si tratta di un compito che può essere svolto solo in modo collettivo, come frutto del dibattito libero e razionale che deve contraddistinguere la vita del Movimento.
 
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Il federalismo si caratterizza per la sua continuità storica rispetto alle grandi ideologie del passato (il liberalismo, la democrazia e il socialismo — che include anche la variante del comunismo), in un duplice senso: per il fatto che sono state proprio le grandi lotte (e vittorie) di queste correnti di pensiero e azione che hanno creato le condizioni per la possibilità della battaglia federalista; e per il fatto di avere caratteristiche strutturali analoghe. In primo luogo, infatti, è stata proprio l’affermazione storica dei loro contenuti essenziali e dei loro valori — la libertà, l’uguaglianza e la giustizia sociale — a portare al superamento della fase storica della lotta di classe e far evolvere gli Stati europei in direzione di quella forma repubblicana che già Kant poneva come condizione essenziale per la loro possibile unione; e quindi a creare i presupposti per la possibilità dell’affermazione storica del federalismo. In secondo luogo, tutte e tre le grandi ideologie del passato (come oggi il federalismo) hanno saputo identificare la strozzatura istituzionale del proprio tempo, che bloccava lo sviluppo delle forze produttive, e hanno avuto la capacità di indicare la soluzione in grado di avviarne il superamento; hanno identificato il valore universale legato alla rivoluzione politica che propugnavano, e la cui affermazione avrebbe creato il quadro per far avanzare il processo di emancipazione dell’umanità; e per fare tutto questo sono state in grado di produrre un’analisi della situazione storico-sociale in cui sono maturate le condizioni che hanno reso possibile la realizzazione del loro obiettivo[1].
L’elemento invece nuovo che caratterizza il federalismo rispetto alle ideologie del passato (ciò che ne caratterizza, quindi, il superamento) riguarda il fatto che quest’ultimo non persegue l’obiettivo di un’opposizione di regime, ma quello di un’opposizione di comunità. Non pone, quindi, come problema prioritario, quello degli equilibri di potere esistenti all’interno dello Stato, ma indica proprio nell’inadeguatezza della forma di Stato in essere (lo Stato nazionale sovrano) la strozzatura istituzionale che blocca lo sviluppo delle forze produttive. Lo Stato nazionale è stato lo “strumento” politico-istituzionale grazie al quale in Europa si è potuto porre fine all’Ancien régime, in cui i sudditi sono potuti diventare cittadini e la sovranità è passata nelle mani del popolo; è stato dunque il quadro che ha permesso la nascita e l’affermazione del liberalismo, della democrazia e in seguito del socialismo. Nel corso del XIX secolo esso ha costituito un quadro evolutivo all’interno del quale, anche se con affanno crescente, si sono potute trovare risposte profondamente innovative all’esigenza di estendere in modo sostanziale il controllo e la partecipazione popolari sulle e nelle istituzioni. Ma al tempo stesso, proprio grazie allo sviluppo che il suo quadro istituzionale rendeva possibile, e mentre si rafforzava il senso di appartenenza alla comunità nazionale, anche grazie al contributo delle riforme politiche interne (che stemperavano la lacerazione del tessuto sociale in classi contrapposte), la formula dello Stato nazionale sovrano è diventata gradualmente insufficiente e inadeguata. La crescente interdipendenza a livello continentale (legata all’evoluzione dei mezzi e delle forze di produzione) e l’approfondimento dell’integrazione sociale e politica nei diversi paesi, a fronte del permanere della dimensione nazionale del quadro politico e quindi dell’organizzazione della vita civile, hanno creato una contraddizione che ha definitivamente alterato gli equilibri europei. Ne sono derivati una spinta competitiva e una tensione insostenibili all’interno del sistema europeo degli Stati — che hanno esasperato e scatenato la carica di aggressività insita nel nazionalismo — che hanno reso impossibile la convivenza pacifica tra i diversi paesi e ne hanno provocato una grave involuzione politica (è questa infatti la radice più profonda dell’avvento del fascismo in Europa). E’ diventata, in questo modo, evidente e intollerabile anche la contraddizione implicita nelle grandi ideologie politiche che si battevano per l’affermazione dei valori universali della libertà, della democrazia e della giustizia sociale nell’ambito dei singoli paesi, ma che non avevano strumenti, né politici, né culturali, per perseguire questi stessi valori nei rapporti internazionali e nei confronti degli altri popoli.
Il progetto federalista nasce quindi in risposta alla crisi storica dello Stato nazionale europeo, con il duplice obiettivo: innanzitutto di affermare storicamente, a partire dall’Europa, un nuovo modello di Stato che indichi la via per superare la divisione dell’umanità in Stati sovrani e realizzare la pace universale, unificando i popoli e allargando l’orbita della democrazia attraverso la creazione di uno Stato di Stati (lo Stato federale) capace di sostituire, ai rapporti internazionali fondati sulla forza e sulla potenza, rapporti esclusivamente giuridici, garantiti dalla costituzione federale ed espressione della volontà dei cittadini; e al tempo stesso di creare, con il nuovo quadro istituzionale, le condizioni per rilanciare su un piano più elevato (vale a dire effettivamente universale) la battaglia per realizzare pienamente la libertà, la democrazia, la giustizia sociale. Come insegna Kant, “il problema di instaurare una costituzione civile perfetta dipende dal problema di creare un rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi, e non si può risolvere il primo senza risolvere il secondo”.[2] La violenza deve infatti essere espulsa completamente da tutti i rapporti sociali perché si possa instaurare una legge universalmente giusta, perché, se permane un ambito in cui vigono ancora i rapporti di forza, la sopraffazione e dominio rimangono mali necessari e quindi giustificati.
In questo senso la pace, con il federalismo, diventa il valore prioritario, dalla cui realizzazione dipende la trasformazione “materiale” radicale[3] che libera l’umanità dalla violenza e dall’arbitrio e crea le condizioni per la nascita di una costituzione civile perfetta, nel cui quadro per gli uomini diventa possibile avere un comportamento pienamente morale.
Nella prospettiva federalista, quindi, la pace non è l’assenza di guerra, e neppure il sentimento che la guerra sia ormai un fatto remoto, che non rappresenta più un pericolo. E’ bene ribadire e tenere a mente questa verità, nei nostri tempi di confuso cosmopolitismo, in cui l’idea della progressiva affermazione di un diritto universale, amministrato da tribunali internazionali in un quadro di cooperazione tra Stati garantito dalle organizzazioni internazionali, sembra interscambiabile con quella di pace intesa in senso kantiano. La pace è la condizione che si viene a creare solo dopo che gli Stati hanno rinunciato alla loro sovranità e hanno adottato un’unica costituzione giuridica, dando vita ad una comunità statuale. La pace è tale quando non esiste più la politica estera, e la politica è solo politica interna, direttamente controllata dai cittadini attraverso i meccanismi democratici istituiti dalla costituzione.[4]
Questa prospettiva si basa su una nuova concezione della storia, intesa come il processo della progressiva affermazione della pace e come la storia della realizzazione dell’idea dello Stato nella forma dello Stato federale mondiale.[5] Lo Stato è infatti l’entità che realizza e garantisce la pace e il diritto tra i cittadini, e crea le condizioni perché si formi una comunità di destino, all’interno della quale diventano possibili il dialogo e la ricerca del bene comune, frutto del confronto libero e razionale tra cittadini. Ma l’esistenza di una molteplicità di Stati sovrani è la negazione, ad un livello superiore, dei valori incarnati nello Stato e condanna gli uomini a vivere in un mondo di “beni comuni” irriducibilmente contrapposti. Questa contraddizione radicale segna lo Stato in quanto istituzione: esso è insieme l’affermazione e la negazione del diritto, perché garantisce la pace, la giustizia e tutti i valori politico-sociali nei rapporti tra i suoi cittadini, ma al tempo stesso è la causa e l’agente della guerra nei rapporti internazionali, e arma i propri cittadini per la guerra contro gli altri Stati mentre li disarma nella vita civile. Affinché questa antinomia possa essere superata, “lo Stato deve essere concepito come un’istituzione in divenire, che si è realizzata fino ad ora nella storia in forme imperfette, ma che tende a superare le proprie limitazioni e ad avviarsi verso la realizzazione della propria idea, che è quella della sua piena identificazione con l’ordinamento giuridico” e con l’idea del bene comune universale. “La realizzazione compiuta dell’idea dello Stato coincide con la creazione di uno Stato mondiale come federazione di repubbliche”.
 
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L’accelerazione impressa al processo di globalizzazione dalla fine della guerra fredda in concomitanza con il diffondersi delle tecnologie informatiche ha reso ancora più evidente e drammatica la necessità di eliminare la strozzatura istituzionale che blocca la possibilità di governare questo fenomeno, e quindi ancora più urgente la rivoluzione federalista.
La rapida crescita dell’interdipendenza è insita nell’evoluzione del modo di produzione industriale, ed è sicuramente la base materiale del trapasso, all’indomani della seconda guerra mondiale, dal sistema europeo degli Stati a quello mondiale. Anche il recente passaggio, nel quadro del sistema mondiale, dal confronto bipolare all’ancora incerto affermarsi di un ordine multipolare, ancora difficile da definire, è radicato in ultima istanza nell’evoluzione dei mezzi di produzione. Ma l’assenza di modelli politici adeguati, sia per sfruttare le enormi possibilità di progresso, sia per far fronte ai nuovi problemi e alle nuove contraddizioni (l’insieme dei “nuovi bisogni di produzione”, per usare il termine marxiano), che tale evoluzione comporta e immette nel sistema, sta portando l’umanità sull’orlo di crisi drammatiche.
Le potenzialità insite nel nuovo sviluppo scientifico e tecnologico sono state evidenziate sin dagli anni Sessanta, quando è nato il dibattito sul nuovo modo di produzione scientifico e post-industriale. Allora queste caratteristiche innovative della produzione erano ancora agli albori e sembravano prefigurare una nuova fase di avanzamento sociale senza precedenti, con la liberazione non solo di tutti gli uomini dal bisogno materiale, ma soprattutto con l’abolizione del lavoro ripetitivo e fisico, che sarebbe stato svolto dalle macchine, con la conseguente crescita esponenziale dal punto di vista culturale (e quindi civile) di tutta la popolazione, con l’incremento elevatissimo della qualità della vita, per il fatto che i tempi di lavoro giornaliero si sarebbero ridotti al punto da poter liberare le energie creative di ciascuno. La società, composta da uomini molto più liberi che non nel passato, avrebbe di conseguenza sperimentato forme di convivenza civile, aperte e solidali, molto più progredite e giuste. Non si trattava di un’utopia, ma di un modello possibile, se la politica avesse potuto, e soprattutto saputo, guidare lo sviluppo in quella direzione. Ma solo nel MFE si era consapevoli che la condizione necessaria per la realizzazione di questo modello era l’affermazione storica del federalismo, come nuova forma di Stato e nuova cultura politica, innanzitutto in Europa, come modello per il mondo. Senza l’immissione nella storia di questo nuovo paradigma avrebbero prevalso, man mano che si affermava il nuovo modello produttivo, le contraddizioni molto più che le potenzialità.
Alcune di queste contraddizioni erano già evidenti quarant’anni fa, quando molti denunciavano la minaccia di uno sviluppo economico insostenibile dal punto di vista ambientale, o iniziavano a porre la questione della sostituzione delle fonti combustibili fossili in rapido esaurimento; parallelamente l’esistenza delle armi atomiche metteva a repentaglio la sopravvivenza stessa dell’umanità, e rendeva drammaticamente urgente la questione della pace (kantiana), ossia della creazione di un potere universale in grado di disarmare gli Stati.
La differenza oggi, rispetto ad allora, è che il quadro mondiale si è allargato: se fino agli anni Novanta il Terzo mondo rimaneva ai margini dello sviluppo e della politica mondiale, oggi invece si è in gran parte emancipato e le nuove potenze che iniziano a contendere agli USA il controllo del mondo sono in Asia e in America Latina. Questa integrazione nel quadro mondiale delle aree prima periferiche è il frutto positivo, come già si diceva, dell’evoluzione del sistema produttivo (nel senso che quest’ultima ne costituisce la condizione necessaria, ma non si vuole, ovviamente, dire che sia la sola o che sia di per sé sufficiente). Al tempo stesso, il rapido sviluppo di queste aree gigantesche è però anche la causa dell’ulteriore aggravarsi delle minacce sotto il profilo ecologico, della questione energetica, della proliferazione nucleare.
Se pertanto il mondo ha ancora più bisogno e urgenza, oggi rispetto al passato, di trovare le modalità di transizione verso la Federazione mondiale, i federalisti sanno che questa transizione può essere avviata solo a partire dalla creazione in Europa del primo esempio di Stato federale, frutto del superamento della sovranità nazionale, modello di unificazione dei popoli, dimostrazione che esiste una forma più avanzata di Stato rispetto a quello nazionale e che il concetto di popolo federale non è un’utopia, ma è una realtà possibile, in grado di dar vita ad una nuovo tipo di comunità politica fondata su un’identità aperta ed inclusiva. Finché l’Europa continuerà a non indicare al mondo questo modello e ad incarnare non la possibilità della creazione di uno Stato di Stati, ma le difficoltà legate al compimento del processo di unificazione, e la forza di inerzia del potere nazionale, il mondo resterà in balia dell’attuale, tormentato processo di formazione di un equilibrio multipolare competitivo. Solo l’interesse di ciascuno Stato per il mantenimento di un mercato globale aperto potrà costituire il filo sottile su cui cercare di trovare forme di cooperazione, pur nel (probabile) crescente divario degli interessi politici e strategici; e grazie all’esistenza delle armi nucleari e di un implicito equilibrio del terrore è pensabile che l’ipotesi di una guerra globale non sia all’ordine del giorno. Ma questo non eviterà lo scoppiare di nuove crisi locali, come si è continuamente verificato dopo la fine della seconda guerra mondiale, né può assicurare che non si verifichino disastrosi rigurgiti di protezionismo o fasi di forte tensione internazionale. E, soprattutto, possiamo affermare con certezza che questo quadro di potere mondiale bloccherà ancora per molto tempo lo sviluppo delle potenzialità insite nei nuovi mezzi di produzione. La cultura e la “tecnologia” politiche che al momento l’umanità possiede non sono in grado di guidare il processo di emancipazione dell’umanità, e i costi in termini di disuguaglianza, ingiustizia, violenza, sopraffazione e profonda crisi della democrazia saranno sicuramente elevati.
 
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Un’ultima considerazione riguarda il federalismo come risposta alla profonda crisi della democrazia cui assistiamo praticamente ovunque nel mondo.
Oggi si dibatte molto della perdita di potere da parte degli Stati, a causa del processo di globalizzazione, che toglie loro strumenti di controllo e di governo, proprio per il fatto di essere istituzioni che operano su un determinato territorio, a fronte di una finanza globale e di un’economia non più localizzata. Le analisi di questo fenomeno sono numerosissime e generalmente chiare e condivisibili, anche nel mettere in evidenza gli effetti che esso produce sulla vita democratica.
L’esperienza di questi ultimi decenni ha inoltre smentito l’assioma che allo sviluppo economico si accompagnassero quasi necessariamente anche il progresso sociale e l’affermazione del modello liberal-democratico. Oggi non solo si contesta l’automatismo sviluppo-progresso, perché, laddove non è governato con intenti di redistribuzione della ricchezza e di promozione sociale e politica di tutta la popolazione, lo sviluppo crea anche sfruttamento e accentua le ineguaglianze; ma si è visto che la domanda di partecipazione democratica nei paesi che si stanno sviluppando rimane marginale. Cina e Russia, in modi diversi, sono due esempi di autocrazia che è fortemente sostenuta dal consenso dei cittadini, che chiedono maggiore rispetto dei diritti individuali, maggiori libertà personali ed economiche, soprattutto maggiore benessere per tutti, ma che non mettono in discussione la dittatura del partito unico (in Cina) o non sostengono le forze più liberali (in Russia), tanto da essere, in quest’ultimo caso, probabilmente la principale causa della mancata evoluzione democratica del sistema di potere in vigore (inizialmente più aperto in questo senso). Proprio il caso della Russia sembra anzi fornire una buona prova agli scettici circa gli scarsi vantaggi dei meccanismi democratici quando questi sono solo formali e non si accompagnano a corretti equilibri istituzionali e ad una effettiva domanda della società e quindi non corrispondono a processi di reale partecipazione alla vita politica da parte dei cittadini. I primi dieci anni di vita “democratica” (gli anni Novanta di Eltsin) hanno rappresentato una vera tragedia per il popolo russo, arrivando addirittura a mettere in pericolo la sopravvivenza del quadro statuale. La disintegrazione dell’URSS e le sue catastrofiche conseguenze sono state il modello negativo cui la Cina ha fatto riferimento per pilotare la sua transizione verso l’ingresso nel mercato e nell’economia mondiali.
Per molti aspetti, un’autocrazia che incentiva la libera iniziativa dei cittadini, che garantisce buoni standard di efficienza, che aumenta il benessere della società, che governa il processo economico in modo consapevole, conscio dei problemi e degli squilibri che esso genera, e che opera per cercare di risolverli, è altamente competitiva, in assenza di una forte domanda di democrazia dal basso (che sembra poter essere il frutto di un lungo processo di evoluzione della società in larga parte ancora difficile da definire), con gli attuali regimi democratici. Questi ultimi non si sono rivelati migliori nell’affrontare il problema delle diseguaglianze sociali. Il giudizio non vale solo per le democrazie dei paesi (cosiddetti) in via di sviluppo, sicuramente più fragili e con tendenze populiste (come in America Latina), oppure più solide, come in India, ma confrontate con una società estremamente complessa e rimasta statica per molti secoli. Anche in Occidente le diseguaglianze non sono diminuite: il benessere diffuso le ha solo rese tollerabili, portando tutti (tendenzialmente) a standard di vita dignitosi; ma oggi, dato che la povertà, come conseguenza di determinate scelte politiche e, soprattutto, per effetto della concorrenza delle nuove potenze economiche in ascesa, è tornata ad essere un problema crescente negli USA e in Europa, le democrazie occidentali non sembrano più in grado di offrire un progetto di ulteriore crescita sociale e civile per tutti. La coesione sociale e il consenso dei cittadini verso le istituzioni democratiche vengono pertanto rimessi in discussione.
Il fenomeno è più accentuato in Europa, nel cui quadro confluiscono tutti gli attuali fattori di crisi, ma investe tutti gli Stati, ovviamente in misura molto diversa a seconda del grado di potenza che ogni Stato esercita sulla scena mondiale (da cui dipende la capacità di autonomia e la quota effettiva di sovranità di ciascuno) e dal livello di sviluppo della società e delle aspettative dei cittadini. Le radici della crisi si ritrovano principalmente nell’inadeguatezza delle dimensioni statuali (che, tra i paesi occidentali, pesa particolarmente in Europa, dove tale inadeguatezza è maggiore e ha addirittura iniziato a manifestarsi oltre un secolo fa); nella rigidità, nei rapporti internazionali, del modello dello Stato nazionale inteso in senso lato, ossia come comunità politica che si concepisce come soggetto sovrano nel quadro internazionale e che ha come primo compito quello di garantire la sicurezza e gli interessi dei propri cittadini, perpetuando strutturalmente la categoria amico/nemico nell’approccio verso l’esterno: questo impedisce di trovare forme di integrazione che aiutino a fronteggiare i problemi comuni globali e provoca crescente rigidità nell’organizzazione interna della vita civile (chiusura psicologica, micro-nazionalismo, allontanamento della società dai valori universali); e infine nell’atomizzazione della società, frutto di quel processo di individualizzazione e de-tradizionalizzazione[6] gradualmente iniziatosi ad affermare nel corso del XIX secolo e cui la fine della divisione della società in classi rigide e l’evoluzione del sistema produttivo hanno imposto un’accelerazione incontenibile.
Quest’ultimo fenomeno investe fortemente la politica perché comporta il venir meno del rapporto cogente e formativo tra il singolo e la comunità, fondato su vincoli e forme sociali precostituiti, articolati su molteplici livelli, a partire già dalla famiglia. Si tratta di un fatto che distrugge le basi su cui sono state organizzate nel secolo scorso sia la possibilità di tradurre le esigenze dei cittadini in programmi politici, sia la partecipazione diretta, popolare alla politica. I partiti sono stati lo strumento formatosi a questo scopo, e le grandi ideologie il canone teorico-pratico capace di orientare le scelte; ma la base concreta era fornita dall’esistenza dei legami precostituiti dai vincoli sociali (che definivano anche interessi chiaramente strutturati).
Oggi, la politica nel quadro nazionale, oltre a non avere un progetto da proporre (per le ragioni già esposte), non riesce neppure più a trovare gli strumenti per entrare in sintonia con la società e per mobilitarla, se non facendo appello alle sue insicurezze e alle sue paure, al crescente egoismo e alla manipolazione delle informazioni. D’altro canto l’individuo, teoricamente libero di formarsi la propria identità, in realtà, essendo privo di punti di riferimento istituzionali, vive la propria situazione sostanzialmente come una perdita di stabilità e tende a lasciarsi intrappolare nelle nuove forme di standardizzazione e di dipendenza create dal mercato. Invece di un cittadino oggi si forma un consumatore, e gli effetti di questa nuova realtà sulla vita democratica sono necessariamente devastanti. Il problema della politica, oggi, non è quello di identificare nuovi blocchi di interessi contrapposti, bensì nuove istituzioni, capaci di creare una dimensione politico-sociale in cui si formino, in modo spontaneo, nuove forme di partecipazione politica a base territoriale, capaci di generare relazioni umane fondate sulla condivisione cosciente e responsabile di un interesse collettivo comune, a sua volta basato sull’adesione ai valori morali e politici universali.
Si tratta, in altre parole, di realizzare l’autogoverno a tutti i livelli. Ancora una volta il federalismo è l’unico pensiero politico che si è posto coscientemente il problema, avendo compreso che la fase storica della liberazione delle classi si era esaurita e che quindi il nuovo compito era quello di individuare le forme per realizzare l’emancipazione dell’individuo, creando le condizioni per lo sviluppo libero e consapevole della sua identità di cittadino responsabile. Si tratta della riflessione profondissima che sia Albertini sia Rossolillo hanno sviluppato sui temi del polo comunitario del federalismo, sulla nuova partecipazione democratica alla programmazione del modello di sviluppo e del territorio, grazie alla molteplicità dei livelli di autogoverno dal quartiere al mondo e alle nuove modalità di formazione delle opinioni politiche e della partecipazione, fino al nuovo concetto di democrazia militante.[7]
Qui mi limito a questo semplice riferimento al tema; ma credo che meriterebbe di essere ripreso e approfondito, almeno quanto la dimensione cosmopolitica del federalismo. Il dibattito politico attuale — in cui il concetto di comunitarismo viene studiato e discusso senza uscire dalle categorie nazionalistiche — dimostra infatti che si tratta di un tema che corrisponde ad un’esigenza profonda, che, però, al di fuori delle categorie federaliste, diventa vettore di chiusura e involuzione. Al contrario, la nostra società ha bisogno di creare forme nuove di partecipazione democratica a tutti i livelli proprio per poter riavviare il processo di emancipazione dell’umanità e lasciare in eredità alle generazioni future un mondo migliore.
Per questo l’obiettivo che perseguiamo in Europa con la battaglia per la Federazione europea ha un significato così profondo per il futuro di tutto il mondo. Se sapremo superare in Europa la strozzatura istituzionale che blocca la crescita della civiltà, affermando storicamente la forma dello Stato federale, capace di concepire la moltiplicazione dei livelli della rappresentanza politica, si aprirà finalmente una nuova fase della storia, più vicina alla realizzazione della pace universale kantiana.
 
Appendice sul materialismo storico
 
Uno dei temi che investe direttamente la riflessione di Albertini sul federalismo come ideologia riguarda la rielaborazione del materialismo storico di Marx che lo stesso Albertini ha concepito nel corso degli anni. Si tratta di un lavoro che ha sviluppato in particolare durante le sue lezioni di Filosofia della politica presso l’Università di Pavia, di cui esiste la registrazione integrale per l’anno accademico 1979-80, e di cui restano alcune tracce in conferenze trascritte e poi pubblicate (in particolare quella su “Il corso della storia” pubblicata nel Federalista[8]). Da questo materiale si possono desumere alcuni punti cardine che dimostrano l’importanza di questa rielaborazione teorica di Albertini per cogliere i processi storici profondi. Vorrei pertanto cercare di sintetizzarli e di richiamarne la funzione nell’ambito della riflessione complessiva di Albertini sul federalismo come nuovo pensiero politico.
Bisogna innanzitutto sottolineare che si sta parlando del tentativo di sviluppare una teoria di tipo scientifico nell’ambito delle ancora incerte scienze sociali, e pertanto l’obiettivo è l’elaborazione di un modello da cui non ci si deve aspettare né una descrizione esaustiva della realtà sociale, né la previsione di avvenimenti futuri; l’elemento della libertà umana impedisce infatti per definizione di ridurre la conoscenza dei processi storico-sociali alla ricerca di leggi deterministiche. Lo scopo è piuttosto quello di cercare di isolare, nella globalità della realtà, le tendenze deterministiche di fondo (che poi si sovrappongono ad ulteriori determinismi più specifici e si intrecciano con l’elemento della libertà) che inducono l’orientamento generale del processo storico-sociale; in questo modo diventa possibile sia identificare i meccanismi che consentono l’evoluzione, sia valutare le contraddizioni profonde che di volta in volta si creano.
Per elaborare la nuova teoria materialistica, Albertini, rispetto alle variegate indicazioni di Marx, spesso contraddittorie e oltretutto affermatesi anche sulla base di interpretazioni successive in parte strumentali e dogmatiche, isola, sostanzialmente, l’intuizione di base e alcune delle formulazioni ad essa collegate. Si tratta dell’intuizione marxiana che permette di individuare, ai fini dell’indagine del processo storico, tra gli innumerevoli elementi che caratterizzano l’uomo, quello che determina — nelle linee più generali — la sua organizzazione sociale; ossia la caratteristica umana relativa alla produzione dei propri mezzi di sussistenza, grazie alla quale la specie sopravvive e si evolve.
Si tratta di un punto di vista che, come già detto, non può e non deve pretendere di cogliere la totalità della realtà umana. Invece, proprio le oscillazioni teoriche di Marx a questo proposito, e la versione che si è affermata successivamente nell’ambito della cultura politica del XX secolo, costituiscono una delle ragioni dell’attuale rifiuto della concezione materialistica della storia. Albertini, nell’esaminare e nell’eliminare tutte le contraddizioni racchiuse nelle formulazioni ancora molto grezze di Marx, spiega invece innanzitutto come il pensiero non possa esaurirsi nell’ideologia, ossia nell’automistificazione — che pure è un parte consistente e inevitabile della produzione mentale dell’uomo —, e inoltre dimostra come all’interno della globalità della realtà sociale non si possano identificare una “struttura” determinante — la produzione cosiddetta materiale dei mezzi di produzione — e una “sovrastruttura” determinata — la politica, il diritto, la religione, la cultura, l’arte, ecc., vale a dire tutta la produzione intellettuale; viceversa, sia la produzione materiale (quella che solitamente rientra nel concetto di “struttura”), sia le diverse espressioni dell’attività intellettuale (la cosiddetta sovrastruttura) costituiscono le molteplici parti della realtà sociale, i cui rapporti non sono di tipo gerarchico, ma nascono dall’intreccio e dall’interdipendenza reciproci.[9]
Quindi, astraendo da tutto ciò che non rientra nelle possibilità di spiegazione di una teoria scientifica nel campo delle scienze sociali — vale a dire la biologia da un lato e l’elemento della ragione dall’altro —, il materialismo storico permette innanzitutto di comprendere come si stabilisce l’interdipendenza sociale degli individui: vale a dire, spiega come le modalità di produzione dei mezzi sussistenza (e il grado di sviluppo di tali modalità) determinano i rapporti sociali tra gli uomini, ossia la composizione della società e i ruoli sociali.[10] Questo dato, cosiddetto materiale, è quello che fissa anche l’arco di possibilità dello sviluppo dell’attività intellettuale e delle tipologie di convivenza politica.
Per evitare fraintendimenti su quanto esposto sopra, fraintendimenti che si creano facilmente sulla base delle interpretazioni correnti del materialismo storico, è utile sottolineare ancora una volta due punti fondamentali. Innanzitutto, la specificità dell’interpretazione di Albertini è proprio quella di dimostrare che con il termine “materiale” si deve sempre intendere, in realtà, tutta l’attività umana che contribuisce alla produzione dei mezzi di sussistenza: non solo quindi lo sviluppo puramente tecnico, ma anche tutto l’insieme di conoscenze, in ogni settore, che fornisce gli strumenti, culturali, politici, giuridici, ecc. — a seconda del diverso grado di sviluppo di cui si parla —, indispensabili per organizzare la produzione e la società. Quindi, ancora una volta, non esiste una “struttura” che determina una “sovrastruttura”, bensì esiste un insieme globale di attività umane interdipendenti, legate le une alle altre in un sistema complesso in cui ciascuna parte sta in mutuo rapporto con ogni altra parte e con l’insieme. In secondo luogo, ciò che è determinato dal grado di sviluppo del modo di produrre, oltre all’interdipendenza sociale degli individui (intesa in senso generale), è il grado di autonomia di ogni attività intellettuale (e quindi della cultura, della religione, della politica, dell’arte, ecc.): il livello di sviluppo del modo di produrre ci fornisce le indicazioni circa la possibilità materiale che si compia, o la certezza che non si possa compiere, un certo tipo di evoluzione culturale o sociale o l’affermazione storica di certi valori. Qualsiasi attività creativa del pensiero è infatti libera, ossia si manifesta attraverso un atto innovativo, non determinato; ma questa espressione dell’autonomia della ragione, che si ritrova in ogni epoca storica, sin dalle origini dell’umanità, è condizionata dal grado di sviluppo del modo di produrre. Persino l’evoluzione delle manifestazioni più pure della libertà umana richiedono condizioni minime determinate: ad esempio, il sentimento religioso, che, in quanto esigenza spirituale, accompagna l’uomo sin dalle origini, a livello del modo di produzione della caccia e della pesca non può evolvere oltre la deificazione delle forze naturali. Oppure, basti pensare al fatto che nessun pensiero complesso astratto è possibile senza lo sviluppo della scrittura; e a sua volta la nascita della scrittura è legata all’evoluzione del modo di produrre agricolo, perché solo con la comparsa di società articolate, in cui si determinano ruoli sociali differenziati, si crea una classe intellettuale.[11] Il grado di autonomia delle manifestazioni intellettuali in senso lato è quindi relativo al grado di sviluppo delle modalità di produzione da parte degli uomini dei loro mezzi di sussistenza.
In questo quadro la politica merita un’ulteriore specificazione, dato che rientra tra le manifestazioni del pensiero, ma è dotata sicuramente di un’autonomia inferiore nei riguardi del modo di produzione rispetto ad altre espressioni più libere, proprio perché costituisce un elemento essenziale dell’organizzazione sociale indispensabile al mantenimento del modo di produrre. Ad esempio, sappiamo che in società fondate necessariamente, proprio per le modalità di produzione dei mezzi di sussistenza, sulla divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, l’esercizio del potere non può non prevedere forme di coercizione, comunque esse siano mascherate. E va da sé che il disegno politico di realizzare l’uguaglianza politica e sociale di tutti i cittadini può diventare una prospettiva verso cui si orienta l’azione politica solo a partire dal momento in cui esso diventa compatibile con la sopravvivenza della società — vale a dire dal momento in cui l’evoluzione del modo di produrre rende l’uomo capace di dominare in larga parte la natura, a partire dalla rivoluzione industriale, e permette di superare la situazione che costringe la maggior parte degli individui a dover provvedere materialmente alla produzione del cibo. E, infine, come obiettivo, potrà realizzarsi effettivamente e pienamente solo quando l’evoluzione del modo di produzione renderà possibile superare la necessità che una parte della popolazione debba svolgere lavori di tipo subordinato.
Un altro esempio riguarda le dimensioni della partecipazione politica, che è data dallo sviluppo dell’interdipendenza in estensione e in profondità legato all’evoluzione del modo di produrre:[12] ad esempio, la democratizzazione dei grandi imperi dell’antichità era impossibile e la stessa mancanza di una cultura politica in grado di concepire forme di partecipazione politica in tutta l’estensione dell’impero e a tutti i livelli della società era espressione dell’impossibilità materiale (intendendo questo termine nel senso generale già spiegato) di realizzarla. Bisogna infatti aspettare fino alla comparsa delle profonde trasformazioni apportate dalla nascita del modo di produzione industriale perché si creino le condizioni che rendono possibile l’allargamento dell’orbita della democrazia (e la nascita di una cultura politica adeguata).
Questa, e non altra, è la portata interpretativa del materialismo storico: mettere in luce i determinismi di base dell’organizzazione sociale legati all’evoluzione della modalità, da parte degli uomini, della produzione dei propri mezzi di sussistenza. E tali determinismi investono, ancora una volta, direttamente il livello di interdipendenza tra gli uomini e i ruoli sociali, e, di conseguenza, il grado di autonomia dell’attività intellettuale e le tipologie di convivenza sociale e politica.
L’identificazione di questi determinismi sulla base della teoria del materialismo storico può sembrare, a prima vista, un risultato banale, dato che si tratta di categorie ormai ampiamente fatte proprie dalla storiografia, che le utilizza di fatto da decenni, a dimostrazione della loro validità. In realtà, il grande apporto di Albertini è proprio stato quello di essere il solo studioso che è riuscito a teorizzare queste categorie con chiarezza (inserendole in una prospettiva filosofica — elaborata a partire dagli scritti di Kant — che permette di collocarle in un quadro generale coerente). In genere gli scienziati sociali ritengono il materialismo storico superato, anche quando ne utilizzano alcuni criteri; e in particolare gli storici ne usano frequentemente le categorie ma ritengono che la teoria in sé sia sbagliata o inutile; in questo modo la portata teorica di questo modello viene fortemente indebolita, e l’uso che ne viene fatto lo riduce a puro strumento di analisi storica: la capacità interpretativa del materialismo storico riguardo agli sviluppi di fondo dei processi sociali e politici viene a cadere, e con essa la possibilità di utilizzarlo per cogliere le tendenze generali del processo storico. Albertini, invece, con la sua rielaborazione che rende coerente la teoria marxiana, oltre a fornire un contributo decisivo — che aspetta ancora di essere colto — allo sviluppo delle scienze sociali, libera tutte le potenzialità di questo modello; ed egli stesso le evidenzia proprio applicandolo alla riflessione teorica sul federalismo.
Il materialismo storico, infatti, come lo utilizza Albertini, permette innanzitutto di cogliere la tendenza generale della storia che giustifica la battaglia federalista. Grazie al materialismo storico, diventa comprensibile il nesso tra il modo di produzione industriale e la profonda accelerazione dell’interdipendenza umana in profondità e in estensione[13] che ha sia permesso di sviluppare il graduale coinvolgimento delle masse popolari nell’azione politica — e quindi ha creato le basi per le prime affermazioni del liberalismo, della democrazia, del socialismo — sia posto l’esigenza dell’estensione della dimensione dello Stato democratico. Inoltre, diventa possibile cogliere il fatto che la successiva evoluzione del modo di produzione industriale (a partire dalla seconda metà del XX secolo, e con un’ulteriore accelerazione negli ultimi venti anni) ha rafforzato questo trend, evidenziando da un lato la necessità della prospettiva della creazione, a fronte di un’ulteriore accelerazione dell’interdipendenza globale in estensione, di una comunità statuale mondiale; dall’altro la possibilità della fine dell’oppressione sociale mediante la progressiva abolizione del lavoro manuale subordinato, resa possibile dallo sviluppo tecnologico. Si tratta esattamente delle sfide che il federalismo pensa di poter contribuire a risolvere; ed è evidente che, senza la consapevolezza che la sua azione coincide con i processi profondi della storia, il Movimento federalista europeo, che sostiene queste battaglie, non sarebbe potuto sopravvivere, reclutando nuove forze, per oltre sessant’anni.
Invece, una volta identificato il fatto che lo sviluppo delle modalità di produzione ha creato le condizioni oggettive per la possibilità dell’unificazione del genere umano e della realizzazione della liberazione dell’individuo e della giustizia sociale, si esce dall’analisi dei determinismi storici e si entra nel campo della politica, cui spetta trovare le forme per realizzare questi obiettivi. Non esiste nessun determinismo, sotto questo profilo, che garantisce il successo della battaglia per la Federazione mondiale se non quello, in ultima istanza, legato al criterio della sopravvivenza, che sembra prevalere, a livello della specie (ma non delle singole comunità) nella storia dell’umanità. Ma i tempi sono assolutamente incerti e sono legati, come lo sono le tappe del possibile avanzamento verso questo obiettivo, in larga parte ai determinismi propri della politica (oltre che all’elemento imprevedibile della “fortuna” e della libera espressione della volontà umana), ossia alle leggi ferree del potere e a quelle ancora così difficili da definire della formazione diffusa di una coscienza sociale adeguata rispetto alle sfide che l’umanità deve fronteggiare. Resta il fatto che, per la politica, riuscire ad intravedere la strada da percorrere è il primo e forse il più importante passo da compiere, e questo passo per i federalisti è possibile in larga parte proprio grazie all’eredità teorica lasciata da Albertini riguardo al materialismo storico.


* Si tratta dello schema della relazione tenuta a Verona il 17 aprile 2010 in occasione del seminario promosso dall’Ufficio di formazione del MFE, rivisto ed aggiornato in seguito ad alcune sollecitazioni venute dal dibattito.
[1] A questo proposito, meriterebbe un approfondimento l’ipotesi di considerare il nazionalismo come una ulteriore ideologia che avrebbe contribuito all’emancipazione dell’umanità e che sarebbe dotata di caratteristiche analoghe rispetto al liberalismo, alla democrazia e al socialismo. In questa prospettiva si potrebbe cogliere nell’ideale incarnato dalla patria l’aspetto di valore, nella forma dello Stato nazionale, inteso anche come apparato amministrativo e burocratico, l’aspetto di struttura, mentre dal punto di vista storico-sociale il nazionalismo coinciderebbe con il superamento dell’Ancien régime. Questa ipotesi sembrerebbe avvalorata dall’indubbio ruolo propulsivo per le battaglie politiche di progresso che l’idea e il quadro nazionali hanno ricoperto soprattutto nel corso del XIX secolo, accompagnandosi spesso all’ideale democratico universale (per esempio nel caso di Mazzini). Tuttavia, resta il fatto che una simile ipotesi non risolve la contraddizione di un valore non universale che si incarna in una comunità politica chiusa, che in teoria dovrebbe coincidere perfettamente con l’entità “nazione” (ossia la patria, che si definisce sempre in contrapposizione, anche se non necessariamente aggressiva, ad altre comunità analoghe e circoscritte, tutte dotate della caratteristica del confine e dell’irriducibilità ad altro da sé). Inoltre, mentre ogni affermazione storica dei principi del liberalismo, della democrazia o del socialismo rappresenta, oltre che un passaggio necessario, anche una prefigurazione, per quanto parziale, della loro realizzazione universale, il concetto di fondare artificialmente lo Stato sull’idea di una comunità chiusa, se pure può essere considerato un passaggio necessario, resta comunque contraddittorio rispetto all’obiettivo della realizzazione di una comunità politica universale, che comporta l’unificazione del genere umano. E infatti, nella battaglia per la Federazione mondiale, le altre ideologie continuano a costituire dei vettori di progresso, mentre il nazionalismo rimane l’avversario da battere. Sembra più utile, quindi, inquadrare l’idea di nazione e la forma dello Stato nazione come strumenti cruciali nell’affermazione storica in particolare della democrazia: l’idea di nazione ha effettivamente dato la prima forma al concetto di popolo, e in questo senso è stata una tappa fondamentale per l’affermazione della sovranità popolare (una tappa così efficace da essere presa a modello in tutto il mondo e da essere considerata ancora oggi insuperabile); ma al tempo stesso ha rispecchiato i limiti politici, sociali e materiali del momento storico in cui è nata: questi riguardavano sia il sistema europeo degli Stati sia la ancora insufficiente interdipendenza a livello continentale, che rendeva il quadro nazionale adeguato e, viceversa, ancora utopistico, per quanto fecondo, pensare in termini di comunità statuali sovranazionali. Questa ipotesi potrebbe essere confermata anche dal fatto che la classe sociale che maggiormente ha sostenuto l’idea nazionale ai suoi albori (specie nei paesi dove lo Stato nazionale doveva ancora essere costruito) è stata la borghesia, che ha fatto coincidere la battaglia per il liberalismo democratico con quella nazionale.
[2] Si tratta della Tesi settima dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico.
[3] Mario Albertini, “Le radici storiche e culturali del federalismo europeo”, 1973, ora ripubblicato in Mario Albertini, Tutti gli scritti, Bologna, Il Mulino, 2008, vol. VI.
[4] Alcuni fanno notare come, accanto alla pace, sia prioritaria per il federalismo anche l’affermazione di altri valori, in particolare un nuovo modello di sviluppo sostenibile e di welfare, e di come sia riduttivo non evidenziarli. In realtà, si tratta di due questioni diverse: parlando della pace e indicandola come il valore fondante del federalismo non si vuole escludere nessuno degli altri obiettivi indispensabili per la realizzazione di una società universalmente giusta. La riflessione e la presa di posizione su questi temi resta centrale per l’elaborazione della linea politica dei federalisti; ad essi si deve senz’altro aggiungere anche la questione della proprietà, che è cruciale e apre spazi di riflessione importantissimi. Ma resta essenziale distinguere il fatto che, nell’indicare specificamente nella pace l’aspetto di valore del federalismo, non ci si riferisce semplicemente alla fine della minaccia della guerra — e quindi ad uno degli obiettivi cui tendere per preservare il futuro dell’umanità, al pari, appunto, della salvaguardia del pianeta e di altri analoghi — ma si vuole sottolineare la necessità della realizzazione di quella struttura istituzionale che, sola, può dare all’umanità gli strumenti per il controllo del proprio destino, e quindi per la soluzione dei problemi politici, ambientali e sociali. La specificità del federalismo è proprio quella di saper evidenziare il fatto che la contraddizione fondamentale che vivono oggi gli uomini è quella di non avere gli strumenti e la cultura politica per governare i processi globali; e al tempo stesso di indicare, come spiega Kant, che solo se saranno in grado di auto-governarsi come un unico popolo, realizzando l’ideale della volontà generale, attraverso istituzioni capaci di incarnare il principio della democrazia universale, essi saranno in grado di evitare i mali e le disgrazie che li affliggono. Per questo il punto centrale è la pace, intesa come il superamento dell’idea della “naturalità” della divisione dell’umanità in diverse comunità statuali (non importa quanto “volonterose di cooperare” sotto la spinta di una comune minaccia) e la realizzazione dello Stato di diritto universale.
[5] Francesco Rossolillo, “Federalismo ed emancipazione umana”, Il Federalista, 32, n. 2 (1990).
[6] Ulrich Beck, La società del rischio, Roma, Carocci, 2000.
[7] Si vedano a questo proposito, in particolare Francesco Rossolillo, Città, territorio, istituzioni nella società post-industriale, 1983, ora ripubblicato in Francesco Rossolillo, Senso della storia e azione politica, Bologna, Il Mulino, 2009, vol. I e Mario Albertini, “Discorso ai giovani federalisti”, 1978, ora ripubblicato in Mario Albertini, Tutti gli scritti, op. cit., vol. VII.
[8] Mario Albertini, “Il corso della storia”, Il Federalista, 45, n. 2 (2003).
[9] Insieme a questi punti, Albertini ha inoltre confutato l’interpretazione del processo storico come lotta di classe e la riduzione del concetto di modo di produrre a quello di economia. Per una spiegazione più esaustiva su questi punti, e in generale sulla rielaborazione da parte di Albertini del materialismo storico, si rimanda all’analisi svolta nel saggio “Le riflessioni di Mario Albertini per una rielaborazione critica del materialismo storico”, Il Federalista, 50, n. 1 (2008). In questo scritto viene anche trattata la questione del meccanismo che provoca il cambiamento nell’ambito del processo storico, questione che qui viene solo accennata per concentrarsi sul problema dell’identificazione dei determinismi di fondo del corso della storia, ma che è ovviamente fondamentale. Infatti, affrontare, al di là (e a complemento) delle spiegazioni filosofiche, in termini scientifici, il problema di come mai gli uomini, in quanto specie, non si limitino alla sopravvivenza, ma evolvano e abbiano, appunto, una storia è un nodo cruciale per la costruzione di una scienza sociale. Il materialismo storico offre una risposta a questo riguardo, identificando nei bisogni di produzione la causa generale che provoca il continuo cambiamento. I bisogni di produzione sono bisogni non biologici, che sorgono una volta che questi ultimi sono soddisfatti, proprio per il fatto che l’uomo, modificando artificialmente la propria condizione, modifica anche le proprie esigenze. Queste, a loro volta (i nuovi bisogni), per essere soddisfatti richiedono risposte innovative, in un circolo continuo che si autoalimenta. Questo concetto, per la verità appena abbozzato in Marx, permette dunque di identificare una legge generale fondamentale dell’evoluzione del processo storico.
[10] Mario Albertini, “Il corso della storia”, op. cit, pp. 88-89.
[11] Si noti, in questi esempi che, richiamandosi alle prime fasi del processo evolutivo dell’umanità, potrebbero dare l’impressione di privilegiare proprio l’elemento puramente materiale della produzione, che in realtà la concezione religiosa, nel primo caso, è un elemento essenziale dell’organizzazione della società primitiva, senza il quale la convivenza non funzionerebbe. Non si tratta, quindi, di una forma di espressione del pensiero determinata dal modo in cui gli uomini si procacciano il cibo, ma di un’attività intellettuale che deriva da una profonda esigenza spirituale caratteristica dell’uomo in quanto tale e che, realizzandosi attraverso le forme compatibili con il grado di sviluppo raggiunto dall’umanità, contribuisce alla stabilità dell’organizzazione su cui si fonda il modo di produrre cosiddetto caccia e pesca. Allo stesso modo, nell’evoluzione del modo di produzione agricola, è determinante la capacità (innovativa) intellettuale di trovare le forme organizzative che permettano a una popolazione di impegnarsi nel complesso lavoro di accrescere la produttività del suolo che ha a disposizione e in un secondo momento di affrontare la conseguente crescita demografica e i cambiamenti che ne derivano in termini economici, politici, culturali e così via.
[12] E’ importante a questo proposito sottolineare la distinzione tra la dimensione della partecipazione politica e la dimensione dello Stato: se infatti un’organizzazione complessa di tipo statuale (ancorché pre-moderna) è possibile solo dopo un certo grado di evoluzione del modo di produzione agricolo, una volta che tale grado di evoluzione è stato raggiunto, la dimensione della comunità politica ne è solo parzialmente influenzata (come si ricorda citando l’antichità in cui convivevano comunità statuali molto estese come i grandi imperi insieme a piccole realtà); salvo il fatto, ovviamente, che l’organizzazione interna di tali comunità è invece subordinata al livello di sviluppo raggiunto dalle condizioni concrete di vita degli individui, fatto che riporta alla questione della possibilità di partecipazione attiva alla vita politica.
[13] Si veda a questo proposito Francesco Rossolillo, “Il federalismo e le grandi ideologie”, ora in Senso della storia e azione politica, Bologna, 2009, vol. I.

 

 

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