IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXIII, 1981, Numero 2, Pagina 80

 

 

L’alternativa federalista alla crisi
dello Stato nazionale e della società industriale
 
LUCIO LEVI e SERGIO PISTONE
 
 
1. Il rapporto fra la crisi dello Stato nazionale e la crisi della società e dello Stato.
Che in Europa occidentale esista una crisi profonda e acuta della società e dello Stato, le cui manifestazioni più evidenti sono la disgregazione corporativa e la diffusione in misura patologica di atteggiamenti di rifiuto di ogni responsabilità sociale, quali la violenza terroristica, la droga e il rifiuto parassitario del lavoro, è cosa risaputa, mentre è pienamente aperto il problema delle cause di fondo di questa crisi. Due sembrano essere al riguardo i fattori di importanza decisiva: la crisi dello Stato nazionale e la crisi della società industriale.
Circa il primo fattore, che rappresenta il filo conduttore costante dell’analisi federalista, verranno qui svolte solo alcune brevissime puntualizzazioni, mentre l’attenzione verrà concentrata prevalentemente sul secondo fattore. Gli Stati nazionali europei sono diventati nel corso del XX secolo istituzioni strutturalmente inadeguate ad affrontare in modo efficace i problemi dello sviluppo economico e della difesa, che richiedono formazioni statali di dimensioni continentali. Nel secondo dopoguerra la tendenza all’unificazione è diventata l’indirizzo fondamentale della politica estera degli Stati dell’Europa occidentale. Tuttavia questi ultimi non hanno ancora portato a termine, pur avendone la possibilità (a differenza degli Stati dell’Europa orientale, i quali dispongono di un margine di autonomia molto più limitato rispetto alla potenza-guida) la costruzione di uno Stato federale. Di conseguenza hanno dovuto, sul piano politico-militare, accettare il protettorato americano, e quindi una forte limitazione della propria indipendenza anche in riferimento alle scelte di ordine interno, e, sul piano economico, rinunciare a sottoporre a un efficace controllo democratico i loro rapporti di crescente interdipendenza, i quali, in mancanza di una autorità democratica europea, sono stati governati in modo inefficace dagli organismi tecnocratici e intergovernativi della Comunità e subordinati nei loro aspetti fondamentali alle scelte incontrollate delle imprese multinazionali.
Qui è una radice di importanza decisiva della crisi della società e dello Stato in Europa occidentale. Da una parte, la mancanza di un controllo democratico sullo sviluppo economico europeo ha aggravato la tendenza dello sviluppo capitalistico-industriale a produrre squilibri economici, sociali e territoriali ed ha quindi provocato, specie nei paesi più deboli e squilibrati, gravi fenomeni di disgregazione sociale connessi con le emigrazioni di massa, la rapida urbanizzazione, e cosi via. Dall’altra parte, il fatto che gli Stati nazionali abbiano perso il controllo degli aspetti fondamentali della difesa e dello sviluppo economico ha determinato l’esclusione del popolo dal controllo delle questioni determinanti per il suo avvenire. Di conseguenza, le procedure democratiche, ridotte a controllare aspetti secondari della vita politica, hanno perso gran parte del loro contenuto. Tutto ciò ha alimentato le tendenze all’apatia politica o al rifiuto del metodo democratico o a far prevalere senza alcuna riserva gli interessi della propria corporazione sugli interessi generali.
A ciò si deve aggiungere la fonte di autoritarismo insita nella forte tendenza all’accentramento, la quale è storicamente legata alla strutturale bellicosità propria del sistema europeo fondato sulla sovranità assoluta degli Stati, e che la perdita dell’autonomia internazionale degli Stati europei nel dopoguerra ha fortemente attenuato, ma non ancora eliminato. E si deve anche ricordare che in Stati, come quello italiano (e in generale quelli mediterranei), opera un ulteriore fattore di autoritarismo e di generale inefficienza del sistema democratico consistente nell’assenza di una partecipazione piena di tutte le forze politiche fondamentali alla vita politica e quindi nella mancanza di un regolare ricambio della classe politica al governo (ciò che viene definito usualmente il fenomeno del «partito permanente di governo»).
 
2. Il rapporto fra la crisi della società industriale e la crisi della società e dello Stato.
È tuttavia evidente che l’inadeguatezza dello Stato nazionale non costituisce una spiegazione sufficiente della crisi della società e dello Stato in Europa occidentale. Vi concorrono in modo decisivo anche le contraddizioni di fondo della società industriale, le quali in questo periodo storico sono giunte a una fase critica. Proprio per questo una crisi profonda della società e dello Stato si manifesta con tendenze di fondo sostanzialmente analoghe in tutti gli Stati ad avanzata industrializzazione, compresi quelli, come gli Stati Uniti d’America, che non sono coinvolti nella crisi dello Stato nazionale, e pure, anche se in forme più complesse e meno vistose (che in questa sede non possiamo prendere in considerazione), nei paesi del blocco sovietico.
Vediamo anzitutto quali sono i fondamentali aspetti negativi della società industriale. Premettendo che questo discorso, lungi dall’indulgere a qualsiasi nostalgia romantica per la società preindustriale, è guidato dalla convinzione che l’industrializzazione rappresenti una tappa obbligata sulla via del progresso storico, occorre, nel quadro di una analisi estremamente sintetica, richiamare l’attenzione su tre punti.
In primo luogo, il tipo di divisione del lavoro proprio del modo di produzione industriale impone alla grande maggioranza della popolazione un lavoro di tipo ripetitivo (di cui la linea di montaggio è solo l’esempio più negativo), presente anche nella maggior parte delle mansioni impiegatizie, che tende a spegnere ogni capacità creativa, instaura una rigida dicotomia sui luoghi di lavoro fra la minoranza dei dirigenti e la grande maggioranza dei diretti (che devono essere disciplinati come robot per svolgere in modo efficiente questo tipo di lavoro), e quindi condanna coloro che sono costretti a un lavoro ripetitivo a una vita degradata in cui le esigenze di autosviluppo individuale sono sostanzialmente frustrate.
In secondo luogo, questo modo di produzione tende inesorabilmente a degradare il territorio sia a causa dell’inquinamento, sia a causa della tendenza in esso insita a una urbanizzazione patologica. Esso infatti, spingendo alla creazione di unità produttive di dimensioni sempre maggiori (poiché in tal modo diventano possibili sempre maggiori economie di scala e una sempre maggiore efficienza produttiva, date le caratteristiche di questo sistema produttivo), determina l’accentramento, oltre che della produzione, di tutte le altre funzioni che la devono sorreggere in pochi enormi poli urbani congestionati (caratterizzati dall’isolamento individuale e dalla disgregazione sociale) e la desertificazione della parte restante del territorio, che viene condannato ad un organico sottosviluppo sul piano economico e quindi su quello dei servizi e sul piano culturale.
In terzo luogo, il modo di produzione industriale ha distrutto, degradato o soffocato la città vera e propria (struttura fisica della cultura umana) e il quartiere (struttura fisica della solidarietà come fatto spontaneo, immerso nella vita quotidiana). Da una parte, la divisione e la lotta fra le classi caratteristiche della società industriale (e che dipendono sia dal regime di proprietà privata dei mezzi di produzione, sia dal tipo di divisione del lavoro prima ricordato) hanno prodotto barriere che dividono il corpo sociale in strati orizzontali estendentisi su tutta l’area dello Stato e che quindi tendono a sostituire l’identificazione con questi raggruppamenti all’identificazione con la comunità locale e con i modelli di solidarietà spontanea in essa emergenti. D’altra parte, la tendenza all’accentramento propria del modo di produzione industriale (che negli Stati continentali europei si somma a quella propria del modello di Stato unitario di tipo giacobino, la quale è a sua volta accentuata dalla lotta di classe, implicante l’esigenza di decisioni uniformi in tutto il territorio dello Stato poiché gli interessi di classe sono tendenzialmente identici in ogni zona), mentre produce, con l’emigrazione di massa dalla campagna alla città, lo sradicamento dalla propria comunità di origine, crea nei poli urbani condizioni di vita anonime e massificate, nelle quali la rinascita, a livello del quartiere, di rapporti di tipo comunitario è estremamente problematica.
In questo quadro la cultura urbanistica dominante ha costituito un ulteriore fattore di crisi invece che un tentativo per contrastarla. Essa ha cercato di pianificare lo sviluppo urbano, ma senza avere idee chiare né sulla dimensione spaziale dell’evoluzione del modo di produrre né sulla differenza tra una città vera e propria e la cieca occupazione del territorio. Teorizzando persino l’opportunità di tenere separati i quartieri residenziali (differenziati tra di loro sulla base del reddito degli abitanti) dai centri nei quali si svolgono le attività produttive, commerciali e di tempo libero, a ciascuna delle quali viene assegnata una collocazione autonoma e isolata, ha contribuito alla disgregazione delle cellule di vita urbana rappresentate dai quartieri e non ha saputo contrastare lo sviluppo, attorno alle città, di squallide periferie-dormitorio.
Se questi fenomeni negativi non hanno, prima della fase che stiamo vivendo, determinato una crisi profonda e acuta della società industriale, ciò è dovuto al fatto che essa non solo ha dato vita a una situazione storica nel suo complesso decisamente più avanzata di quella precedente, ma è stata in grado nel corso del XX secolo di assicurare, in seguito all’enorme aumento della produttività e ai successi delle lotte dei lavoratori, un benessere materiale di massa, da cui sono rimasti esclusi solo alcuni gruppi e regioni marginali nell’ambito dei paesi industrializzati.
All’affermazione di questo meccanismo di sviluppo ha contribuito in modo determinante la domanda di beni di consumo durevoli da parte delle grandi masse lavoratrici, alimentata da una politica di alti salari. È in questa fase storica che sono cadute le ultime barriere che si opponevano all’emancipazione della classe operaia. Dopo il riconoscimento dei diritti di voto, di associazione e di sciopero, i lavoratori hanno conquistato salari superiori al livello di sussistenza, la riduzione dell’orario di lavoro, che oggi si avvicina al traguardo delle 35 ore settimanali, e il potere di condizionare la politica economica dei governi soprattutto nei paesi a regime di economia mista e di programmazione economica.
Ma verso la fine degli anni ‘60 questo ciclo di espansione della produzione si è esaurito perché la fase evolutiva della società industriale ha raggiunto il suo apice ed è cominciato il suo inesorabile declino. I fattori di questo declino possono essere molto schematicamente individuati nei seguenti termini.
Anzitutto le conseguenze negative del modo di produzione industriale hanno incominciato a pesare maggiormente degli aspetti positivi. Se da una parte la degradazione dell’ambiente a causa dell’inquinamento, degli squilibri territoriali, dello sradicamento sociale di milioni di persone, ha raggiunto limiti insopportabili, dall’altra parte, una volta che con l’aumento del reddito individuale (e con una più giusta distribuzione del reddito) si è raggiunto il soddisfacimento dei bisogni elementari, nuovi bisogni, relativi al miglioramento della qualità della vita, hanno incominciato ad affermarsi determinando un crescente rifiuto dei lavori manuali (anche impiegatizi) di carattere ripetitivo e alienante, la contestazione della dicotomia dirigenti-diretti, la spinta al ricupero dei valori comunitari, la crisi del consumismo.
A ciò si è collegato, in un rapporto di influenza reciproca, l’arresto del processo di crescita economica spettacolare e apparentemente illimitata, che in questo dopoguerra ha permesso l’affermarsi in tutto il mondo occidentale del modello consumistico e ha reso meno intollerabili le contraddizioni dello sviluppo industriale. In questo contesto ha avuto un’importanza decisiva il rafforzamento delle organizzazioni dei lavoratori. Questo fenomeno ha dapprima contribuito in modo decisivo all’espansione economica degli anni ‘50-‘60, poiché ha prodotto un enorme ampliamento del mercato di consumo, ed ha permesso di ottenere ovunque nei paesi avanzati, nel quadro della piena occupazione, la importante conquista per cui la forza-lavoro non è più considerata una merce come le altre, domandata e pagata in base alle pure leggi del libero mercato (è emersa la cosiddetta rigidità della forza-lavoro). Ma a partire dalla fine degli anni ‘60, poiché la forza acquisita dai sindacati è stata impiegata essenzialmente per aumentare i consumi (essendo rimasta sostanzialmente subordinata alla logica del modello consumistico), ne è derivato un saggio di incremento del costo del lavoro e dei consumi superiore a quello della produttività, con effetti inflazionistici sempre più difficilmente controllabili. Nello stesso tempo i margini di profitto delle imprese si sono ridotti e spesso annullati, determinando il blocco del processo di accumulazione, il ristagno dello sviluppo e l’aumento della disoccupazione (che riguarda soprattutto i giovani e le donne, perché il movimento sindacale ha acquisito una forza tale da riuscire a limitare i licenziamenti di massa e da far riversare la disoccupazione soprattutto sul versante delle mancate assunzioni).
L’arresto della crescita economica dei paesi industrializzati è dovuto anche in modo determinante al rafforzamento del peso politico dei paesi del Terzo mondo. Se lo sfruttamento del Terzo mondo è stato finora una delle condizioni fondamentali dell’espansione economica dei paesi industrializzati, dalla fine degli anni ‘60 in avanti, nel contesto della crisi dell’egemonia americana sui paesi capitalistici, si è avviata una modificazione decisiva delle ragioni di scambio fra paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati in conseguenza dell’aumento del prezzo delle materie prime (in particolare del petrolio) e dell’affermazione della competitività dell’industria manifatturiera di alcuni paesi in via di sviluppo sui mercati di quelli industrializzati. Ed è perciò entrato irrimediabilmente in crisi un processo di crescita economica implicante, tra l’altro, il saccheggio delle risorse mondiali e fondato su di una divisione internazionale del lavoro che condanna i paesi del Terzo mondo alla perpetuazione del sottosviluppo. E ciò ha posto all’ordine del giorno il problema della creazione di un nuovo ordine economico mondiale fondato su di una diversa divisione internazionale del lavoro, in mancanza della quale non solo non è possibile far uscire il Terzo mondo nel suo complesso dal sottosviluppo e risolvere i problemi della fame, dell’igiene e della istruzione (che costituiscono tuttora la preoccupazione principale della grande maggioranza del genere umano), ma non è più possibile la stessa ripresa dell’espansione economica, sia pure in forme nuove, del mondo industrializzato.
A quanto osservato finora si deve aggiungere che la risposta alla sfida lanciata dalla crisi economica internazionale si sviluppa in modo diseguale nel mondo industrializzato, dove il peso rispettivo delle diverse aree economiche si sta modificando rapidamente in conseguenza della disparità nello sviluppo delle nuove tecniche produttive. Rispetto ai grandi spazi economici (soprattutto Stati Uniti e Giappone), dove esistono le condizioni più favorevoli per sviluppare queste tecniche, la Comunità europea registra un crescente ritardo. La strozzatura più grave che ostacola in Europa la transizione alla società post-industriale è rappresentata dal mantenimento, da parte dei governi nazionali, della sostanza del potere di decisione anche sui problemi che hanno assunto dimensioni europee, malgrado lo stadio avanzato del processo di unificazione dell’Europa. Lo sviluppo dell’elettronica, dell’industria nucleare e di quella aero-spaziale, che sono i settori determinanti per l’avvento della società post-industriale, esigono infatti mezzi che non è possibile reperire sulla base della sola accumulazione privata o anche del finanziamento o dell’intervento pubblico di ciascun governo nazionale.
La crisi qui sommariamente descritta della civiltà industriale, non avendo ancora fatto emergere una chiara alternativa progressiva — anche a causa del ritardo che caratterizza in maggiore o minore misura tutte le correnti politico-ideologiche dominanti (che conservano una indelebile impronta ottocentesca) di fronte a tale problematica — alimenta oggi soprattutto fenomeni disgregativi. Se fra chi non si riconosce più in questo tipo di società molti sono coloro che scelgono la via distruttiva della violenza e della droga o quella non certo costruttiva del rifiuto parassitario del lavoro (cioè dell’assistenzialismo patologico nelle sue svariate forme), chi accetta questa società così com’è e quindi persegue il semplice miglioramento del benessere materiale, in un contesto in cui non si tratta più solo di correggere profonde ingiustizie distributive o di soddisfare bisogni elementari, tiene un comportamento puramente corporativo. Da tutto ciò viene favorita la preoccupante decadenza dello Stato democratico che esperimentiamo quotidianamente.
Qui è dunque una radice decisiva della crisi della società e dello Stato in Europa occidentale, la cui gravità è particolarmente accentuata dall’operare congiunto in questo contesto del fattore costituito dalla inadeguatezza storica dello Stato nazionale. Se per uscire da questa crisi è chiaro che occorre anzitutto il completamento costituzionale dell’unificazione europea (che è diventato politicamente possibile dopo l’elezione diretta del Parlamento europeo), occorre d’altra parte incominciare ad affrontare operativamente, proprio nell’ambito della fase costituente dell’unità politica europea, il problema della crisi della società industriale. È importante ora mettere in luce che la rivoluzione scientifica della produzione materiale, che ha cominciato a svilupparsi nei paesi industrializzati nella stessa fase storica in cui è entrata in crisi la società industriale, apre la possibilità storica di superare i limiti di questa e di avviare un radicale rinnovamento della società e dello Stato.
 
3. La rivoluzione scientifica della produzione materiale.
Occorrono dunque alcune sintetiche considerazioni sulla natura della rivoluzione scientifica della produzione materiale per chiarire come questo processo, che è nelle sue fasi iniziali, contenga enormi potenzialità emancipatrici.
La trasformazione fondamentale che la rivoluzione scientifica ha incominciato a introdurre nel sistema produttivo è l’automazione, vale a dire la completa sostituzione di lavoro vivo con il lavoro delle macchine. Nella misura in cui questa sostituzione si affermerà sempre più estesamente, il ruolo del lavoro umano cambierà di natura poiché il lavoro manuale, ripetitivo e frammentario, tenderà a diventare marginale e gradualmente a sparire. Parallelamente cambierà anche la composizione della società. Come la rivoluzione industriale ha determinato lo spostamento di grandi masse di lavoratori dell’agricoltura all’industria, così la rivoluzione scientifica sta espandendo il settore terziario e soprattutto i ruoli sociali collegati alla scoperta, all’utilizzazione e alla diffusione delle conoscenze scientifiche.
Il lavoro scientifico sta in effetti diventando nei paesi più sviluppati la principale forza produttiva. Di conseguenza lo sviluppo della produzione avverrà sempre di più a condizione che cambi la qualità del lavoro umano, si sopprima l’inversione tra soggetto e oggetto tipica della società industriale, che fa del lavoratore un’appendice della macchina, e si sviluppi l’autonomia, la responsabilità, l’iniziativa e la creatività dell’individuo. Con la trasformazione dell’operaio in tecnico (che implica l’accesso di tutta la popolazione ai più alti livelli di istruzione e la progressiva estensione del principio dell’istruzione permanente) si avvia a cadere uno dei principali fattori della discriminazione sociale: la separazione fra lavoro manuale e intellettuale. Da una parte, con lo sviluppo della rivoluzione scientifica, il lavoro manuale diventa sempre più un ostacolo alla piena utilizzazione delle risorse umane, mentre dall’altro lo sviluppo dell’automazione permette di ridurre drasticamente il lavoro necessario per la riproduzione fisica degli individui e contemporaneamente di aumentare in modo decisivo l’abbondanza e la qualità dei beni materiali.
Le enormi possibilità di emancipazione umana connesse con l’automazione sono abbastanza evidenti. Basta pensare che con la scomparsa del lavoro ripetitivo e la possibilità di tutti di accedere a mansioni creative verrà meno ogni fondamento oggettivo della dicotomia fra dirigenti e diretti sui luoghi di lavoro, caratteristica della società industriale, e diventerà possibile l’autogestione, cioè la partecipazione cosciente delle forze produttive alla gestione della produzione (il che comporterà ovviamente anche la trasformazione della proprietà dei mezzi di produzione, perché la proprietà capitalistica, sia essa privata o dello Stato, mal si concilia con l’autogestione). D’altra parte l’aumento del tempo libero e del livello di istruzione, oltre ad aprire prospettive qualitativamente nuove di autosviluppo individuale, rende possibile uno sviluppo eccezionale della partecipazione politica e quindi permette di intravedere una situazione storica in cui il fossato fra governati e governanti, che ha finora caratterizzato la democrazia moderna, potrà essere avviato a superamento.
L’altro decisivo fattore di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti umani che sta introducendo la rivoluzione scientifica è lo sviluppo dell’informatica. Il fatto fondamentale da sottolineare qui è che essa, in collegamento con l’automazione, è in grado di permettere un decisivo decentramento produttivo, perché può consentire la realizzazione di efficaci processi produttivi con pochissimo lavoro diretto e quindi la dislocazione (che già ora comincia a verificarsi) delle varie funzioni dell’impresa su vaste regioni. In tal modo diventa possibile eliminare il gigantismo industriale che ha provocato concentrazioni di grandi masse di lavoratori nei poli urbani, contribuendo in modo decisivo alla loro degenerazione e alla degradazione dell’ambiente, e sarà possibile il ricupero della vera e propria funzione urbana e della sua distribuzione equilibrata sul territorio. Ciò apre evidentemente la prospettiva della ripresa di una vera vita comunitaria, che è la condizione insostituibile della rinascita della solidarietà fra gli uomini. Non si deve infine dimenticare che la rivoluzione scientifica apre la prospettiva di una inversione del processo di degradazione dell’ambiente sia attraverso un sempre maggiore perfezionamento delle tecniche di disinquinamento, sia attraverso la produzione di beni sempre meno inquinati.
Chiarito dunque che la rivoluzione scientifica contiene enormi potenzialità, che fanno maturare le condizioni dell’emancipazione dell’individuo così come la rivoluzione industriale ha creato le condizioni dell’emancipazione del proletariato in quanto classe, il problema è ora di individuare le esigenze e gli strumenti indispensabili per controllare il ciclo del passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, verso cui ci sta portando la rivoluzione scientifica, e per affrontare la crisi della società e dello Stato emersa in questo contesto.
 
4. L’esigenza di una programmazione di tipo nuovo e di istituzioni adeguate a tale compito.
Lo strumento fondamentale in grado di realizzare la sintesi operativa delle esigenze che emergono in questa fase è una programmazione di tipo nuovo, le cui caratteristiche principali possono essere descritte nei termini seguenti.
La prima cosa da osservare è che non si tratta solo di programmare lo sviluppo economico in condizioni normali, ma si tratta di sottoporre al controllo consapevole della società (perché in caso contrario si andrebbe verso catastrofi irreparabili) il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale e nello stesso tempo la creazione di un nuovo ordine economico internazionale fondato sul superamento del sottosviluppo del Terzo mondo. Per chiarire la portata di questo compito, basta ricordare che mentre dovrà essere realizzato un enorme processo di riconversione industriale nei paesi avanzati, orientandoli verso le produzioni nuove connesse con la rivoluzione scientifica, lo sviluppo del Terzo mondo, che comporterà un grandioso trasferimento ad esso di interi settori produttivi e quindi un grandioso trasferimento di risorse (il che implica la scelta dell’austerità), costituirà la molla fondamentale (in quanto attiverà l’enorme domanda potenziale esistente in questa parte del mondo) della ripresa della espansione economica dei paesi industrializzati e quindi del riassorbimento della disoccupazione.
Va detto subito che per conseguire questi scopi nel quadro della piena occupazione, uno degli strumenti essenziali che dovranno integrare questa programmazione è l’Agenzia del lavoro, un organismo destinato ad attuare una politica attiva dell’occupazione e del lavoro. Essa dovrebbe creare, attraverso la formazione e la riqualificazione professionale, disponibilità di lavoro adeguate nella quantità e nella qualità alle necessità del mercato, della società e del territorio; nello stesso tempo, assicurare a tutti i lavoratori il collocamento e un salario minimo garantito. Qui è sufficiente ricordare che essa deve servire a conciliare la garanzia del posto di lavoro nella zona in cui si vive (salvo per chi è spontaneamente disposto a cambiare zona) — cioè una conquista del movimento dei lavoratori che ha grandissimo valore per un sano sviluppo sociale, poiché implica una inversione dei processi di sradicamento che hanno distrutto i rapporti comunitari con l’esigenza della mobilità del lavoro imposta dalla riconversione industriale. Garantendo ai lavoratori l’occupazione, l’Agenzia del lavoro permetterebbe, d’altra parte, di liberare le imprese dai vincoli alla mobilità della forza-lavoro e di sollevare lo Stato dal carico di sussidi improduttivi a imprese inefficienti. Si riaprirebbe così per queste ultime la possibilità del fallimento.
La seconda cosa da osservare è che la programmazione non può più avere come compito unico o privilegiato il controllo dello sviluppo economico, ma deve ricomprendere in sé la politica del territorio che tende in prospettiva a identificarsi con la programmazione tout court. Per politica del territorio non si intende soltanto una politica che miri a superare gli squilibri fra regioni ricche e povere o che persegua il disinquinamento. Essa deve in realtà salvaguardare i valori ambientali, culturali e linguistici e deve soprattutto perseguire l’obiettivo di un riequilibrio globale del territorio, che permetta il superamento della frattura fra città e campagna e quindi il pieno recupero e sviluppo della dimensione comunitaria dei rapporti umani nei quartieri delle città grandi e medie e nei piccoli comuni. Il che implica una organizzazione del territorio (che i mezzi messi a disposizione dalla rivoluzione scientifica rendono gradualmente realizzabile) in cui in ogni punto di esso siano attive vere relazioni urbane e presenti, o facilmente raggiungibili, tutti i servizi essenziali.
Dal fatto che la politica del territorio deve costituire il contenuto essenziale della programmazione (una vera e propria «rivoluzione culturale») consegue che essa deve essere strutturata in modo tale che le esigenze particolari e irripetibili di ogni territorio possano essere tenute presenti, compatibilmente con le esigenze generali. Deve cioè trattarsi di una programmazione non centralizzata, ma articolata, tale cioè che la maggior parte delle decisioni riguardanti la vita quotidiana degli uomini possano essere prese in ambienti territoriali di dimensioni limitate, come il quartiere, il comprensorio e la regione. Per realizzare una programmazione così intesa, occorre anzitutto che emerga una volontà politica adeguata a un simile compito. Una delle condizioni fondamentali perché una tale volontà possa emergere è che le organizzazioni dei lavoratori se ne facciano carico e si orientino a impiegare in tale direzione la forza che hanno acquisita. Se l’obiettivo ultimo deve essere il pieno controllo del processo produttivo da parte dei lavoratori tramite l’autogestione, il punto di partenza del processo storico che ora si apre in tale direzione sta nella possibilità e necessità, avvertita acutamente in questi ultimi anni, che i governi dirigano il negoziato tra le parti sociali, in modo da giungere a un accordo (il nuovo «patto sociale») che garantisca la stabilità dei prezzi e la ripresa dello sviluppo, conciliando le rispettive esigenze del mantenimento dei margini di profitto degli imprenditori e di retribuzioni che assicurino il soddisfacimento equo dei bisogni dei lavoratori.
È evidente che il presupposto del patto sociale è l’attenuazione della lotta di classe. Esso può essere accettato solo quando siano state superate le più profonde diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza tra le classi, tra i ceti e tra le regioni di un determinato paese. In questo quadro, la forza delle organizzazioni dei lavoratori non dovrà più essere impiegata per aumentare irrazionalmente i consumi individuali, ma per orientare la direzione, le modalità e la localizzazione del processo produttivo (facendosi carico in questo contesto del problema fondamentale dello sviluppo del Terzo mondo). D’altra parte, le organizzazioni padronali dovranno impegnarsi a evitare qualsiasi aumento di prezzi che non sia giustificato da un effettivo rincaro dei costi di produzione. Quindi la politica dei redditi (cioè il controllo simultaneo dei prezzi e dei salari) diventa un decisivo elemento integrante della programmazione, la quale deve pertanto fondarsi su una nuova capacità di disciplina, nel rispetto degli obiettivi stabiliti, da parte delle parti sociali. In questo contesto, mentre appare sempre più improrogabile la progressiva regolamentazione del diritto di sciopero, viene all’ordine del giorno l’istituzione della cogestione, la quale, nella misura in cui apre ai lavoratori la possibilità di partecipare al controllo delle scelte aziendali, lungi dall’essere uno strumento per integrare il movimento dei lavoratori nel sistema capitalistico, deve essere interpretato come una tappa storica sulla via dell’autogestione.
A questo riguardo, bisogna tener presente che esiste un nesso preciso tra la possibilità di realizzare la pianificazione e il tendenziale superamento della lotta di classe. Finché la società sarà divisa da profondi conflitti sociali, la linea di sviluppo del processo storico sarà il risultato dei rapporti di forza tra le classi, cioè qualcosa che nessuno ha voluto. La lotta di classe, in quanto è il prodotto della scarsità delle risorse e della lotta per impossessarsene, è l’espressione di un dominio incompleto dell’uomo sulla natura. Ora, la rivoluzione industriale, accanto a immense possibilità di liberazione, ha creato altrettanto grandi possibilità di distruzione. E non è soltanto la guerra che ha moltiplicato le proprie capacità distruttive con le armi nucleari. La stessa attività produttiva, con la distruzione sistematica dell’ambiente naturale, minaccia la sopravvivenza dell’umanità.
Di qui la necessità di sottoporre a un controllo razionale lo sviluppo delle forze produttive e di organizzare il governo della società sulla base di un piano democratico. Governo e piano tendono, in effetti, a coincidere nella società contemporanea. È compito del piano collocare le esigenze avanzate dalle organizzazioni economiche e sociali e dei partiti in un disegno complessivo. In tal modo si offre alla condotta di ogni gruppo sociale un preciso punto di riferimento, che definisca gli obiettivi dello sviluppo della società, ordinandoli secondo una scala di priorità e in un quadro di compatibilità.
D’altra parte, il fatto che un numero crescente di problemi, come quelli relativi al sistema monetario internazionale, all’approvvigionamento delle materie prime, ai diritti dei popoli emergenti che aspirano a partecipare al governo del mondo, alle armi nucleari, alla difesa ecologica, abbiano assunto dimensioni mondiali esige che alcuni elementi del metodo di pianificazione qui sommariamente descritto vengano applicati a livello mondiale con un governo e un piano mondiali. Ma ciò è in contrapposizione con la divisione del mondo in Stati sovrani e con la sua conseguenza: il fatto che la politica internazionale sia dominata dai rapporti di forza tra gli Stati, che impedisce un governo razionale del mondo. Il federalismo, in quanto consente di estendere la democrazia al terreno delle relazioni internazionali, offre il solo criterio che permette di dominare questi problemi e di intraprendere la marcia verso l’unità politica del genere umano, cioè verso la pace perpetua, il disarmo universale e l’uguaglianza di tutte le nazioni.
Sul piano della strategia politica, una delle condizioni decisive per poter mobilitare una volontà politica pari ai problemi cui siamo confrontati consiste nella capacità di far convergere intorno al disegno di una programmazione globale e articolata le nuove forze (gruppi ecologici, movimenti per la qualità della vita e per un nuovo modo di far politica) che la crisi della società industriale sta facendo emergere, e che reclutano gran parte dei loro aderenti fra le giovani generazioni. Occorre rendersi conto che se la protesta contro le contraddizioni della società industriale non troverà uno sbocco politico in un disegno costruttivo capace di coinvolgere la grande maggioranza della popolazione, un immenso potenziale di trasformazione finirà per isterilirsi, con danni incalcolabili, in un atteggiamento di puro rifiuto nichilistico o nella rassegnazione.
Deve d’altra parte essere chiaro che lo schieramento politico e sociale in grado di condurre questa battaglia deve essere uno schieramento di ampia unità popolare. Non solo, per le ragioni che non è qui necessario ripetere, il completamento dell’unificazione europea richiede un accordo fra tutti i partiti democratici e le fondamentali forze sociali e trova d’altra parte in ciascuno di questi delle resistenze, ma ciò vale, benché in termini diversi (poiché in questo caso si tratta di una battaglia più a lungo termine), anche per la politica del territorio e quindi per la programmazione globale e articolata, le quali possono trovare sostenitori e, rispettivamente, nemici in tutte le categorie fondamentali e richiedono quindi non chiusure settarie, bensì un atteggiamento diretto a ricercare il massimo di unità perché solo in tal modo possono essere isolati e battuti i nemici.
Se l’emergere di una volontà politica adeguata al compito è la premessa indispensabile per realizzare la programmazione di tipo nuovo che è stata qui illustrata, deve anche essere chiaro che essa non può svilupparsi e affermarsi senza profonde riforme istituzionali. Per definire in modo non arbitrario le modalità di queste riforme occorre rendere più esplicite le esigenze di fondo che la realizzazione di questa programmazione comporta.
Occorrono anzitutto istituzioni che permettano nello stesso tempo di affrontare problemi di dimensione continentale e mondiale (riconversione industriale, riequilibrio Nord-Sud sul piano europeo e mondiale, problemi ecologici globali ecc.) e di soddisfare le esigenze particolari e irripetibili di ambiti territoriali limitati senza però cadere nel corporativismo localistico. Occorrono d’altro canto istituzioni che permettano di contrastare efficacemente le fortissime spinte corporative oggi esistenti (e che rappresentano un ostacolo formidabile a qualsiasi disegno di programmazione) e che quindi rendano possibile il manifestarsi della volontà generale in modo decisamente più intenso di quanto oggi non avvenga. Occorrono infine istituzioni adeguate a un sempre più forte sviluppo della democrazia partecipativa, essendo chiaro che senza un grado di partecipazione politica, e di efficacia della stessa, qualitativamente superiori rispetto alla situazione attuale non si possono mobilitare le energie indispensabili a far emergere una programmazione come quella indicata (la politica del territorio implica che ogni cittadino diventi attivo politicamente, cioè contribuisca a far conoscere agli organi politici le esigenze specifiche di ogni punto del territorio) e non si può ottenere che essa sia realmente vincolante per tutti (decisioni da cui dipende il futuro sviluppo per più generazioni sia del singolo territorio che degli ambiti più vasti non saranno efficaci senza una forte partecipazione da parte di tutti coloro che vi sono implicati al processo della loro formazione).
Si tratta ora di illustrare le opzioni istituzionali adeguate a queste tre esigenze.
 
5. Federalismo classico e nuove forme di federalismo.
Che la creazione di istituzioni federali europee fornite di poteri e di un bilancio adeguato costituisca il quadro insostituibile (anche come tappa intermedia verso la creazione di istituzioni federali mondiali) in cui può essere realizzata efficacemente una programmazione con i contenuti sopra indicati non richiede in questa sede di essere chiarito. Qui occorre invece mettere in luce che la politica del territorio, che della programmazione moderna costituisce un elemento centrale, richiede che il federalismo classico (insostituibile per la democrazia internazionale, in quanto sola forma capace di organizzare un insieme di governi coordinati e indipendenti) venga completato e articolato con nuove forme di federalismo i cui obiettivi hanno trovato alcune formulazioni nel federalismo integrale (soprattutto in quello di scuola olivettiana), ma che richiedono in gran parte di essere elaborati ex novo e sono pertanto uno dei temi centrali dell’attuale dibattito culturale federalista. Gli elementi fondamentali di questo federalismo di tipo nuovo sui quali fra i federalisti comincia a delinearsi un consenso di massima sono i seguenti:
Il piano deve avere carattere costituzionale. Da una parte, come quando gli Stati si trovano in guerra fra di loro, il pericolo per l’esistenza dello Stato stimola il riflesso dell’unità nazionale al di sopra delle divisioni di classe e impone agli individui di adeguare la loro condotta agli imperativi della difesa, così oggi una analoga unità è necessaria per l’attuazione del piano, stante il rapporto che esiste tra la sopravvivenza fisica delle società umane e l’attuazione del piano.
D’altra parte, la portata del piano tende a dilatarsi anche in senso temporale. In ogni piano si compiono scelte capaci di imprimere al processo storico-sociale una direzione che influenzerà il destino di un popolo per molti anni, e al limite per sempre. Si tratta dunque di decisioni che non possono essere prese da una semplice maggioranza, ma che esigono il consenso di gran parte del popolo. Di qui il carattere costituzionale che deve assumere il piano. Il patto costituzionale, che negli Stati democratici rende corresponsabili le forze politiche e sociali nella difesa del regime, cioè delle istituzioni che regolano la lotta per il potere e costituiscono le fondamenta della convivenza politica, si deve estendere su un terreno più ampio: quello della programmazione.
La complessità dell’organizzazione collettiva della società programmate è tale che è indispensabile trovare una conciliazione tra gli interessi in contrasto, che permetta di realizzare un ampio consenso tra le forze politiche e sociali attorno agli obiettivi del piano, una forte autodisciplina di tutte le componenti della società nell’attenersi a quegli obiettivi e una leale collaborazione nel perseguirli. Occorre, in particolare, distinguere la fase della elaborazione del piano da quella dell’esecuzione. Nella fase di elaborazione del piano, la partecipazione di tutti non solo è possibile, ma necessaria, per far aderire il piano ai bisogni della collettività. Ciò significa che la programmazione non soffoca la dialettica democratica ma richiede la paziente ricerca di un’ampia unità popolare attorno agli obiettivi del piano. D’altra parte, il successo nell’esecuzione del piano esige che tutti si attengano alle sue disposizioni. E ciò comporta una rivoluzione culturale: il superamento degli atteggiamenti egoistici ancora oggi dominanti e il prevalere dell’interesse e della volontà generali (per quanto riguarda la sfera pubblica) sugli interessi e sulle volontà particolari.
La decisione ultima in materia di programmazione spetta al Parlamento, in quanto rappresentante del popolo nel suo insieme, ma dovrà essere presa da una maggioranza qualificata (quella richiesta per approvare gli emendamenti costituzionali), in modo che sia sostenuta da un ampio consenso sociale. Ai tribunali e, in particolare, alla Corte costituzionale spetta il ruolo di garanti del piano. Il potere giudiziario ha quindi il compito di punire chi non conforma la propria condotta alle disposizioni del piano. Esiste infine l’esigenza inevitabile di correggere il piano per adeguarlo alle situazioni non previste. Questo compito, che spesso deve essere assolto con grande rapidità (si pensi al caso delle calamità naturali) deve essere affidato al capo del governo, il quale avrà la possibilità di svolgerlo nel modo più efficace se sarà eletto direttamente dal popolo.
I livelli fra i quali si deve realizzare la divisione federale delle competenze non possono più essere soltanto quello europeo e quello degli Stati nazionali. Ad essi si devono aggiungere con pari dignità i livelli della regione, del comprensorio (o comunque dell’ente intermedio fra regione e comune) e del quartiere, il che implica, tra l’altro la piena libertà per ogni livello di avere, nel quadro delle proprie competenze, rapporti con ogni altro livello corrispondente o diverso, senza sottostare a controlli (salvo quelli di carattere costituzionale) dei livelli superiori (rapporto Regione-Comunità europea, collegamenti fra regioni frontaliere, e così via). Perché l’autonomia dei vari livelli sia reale è indispensabile che ciascuno di essi abbia sovranità fiscale, nel quadro ovviamente del cosiddetto federalismo fiscale, in modo che la libertà di manovra nella spesa pubblica, che gli enti territoriali minori acquisteranno (e che dovrà essere molto ampia poiché un volume di spesa molto forte dovrà essere trasferito a tali livelli onde realizzare l’obiettivo del riequilibrio territoriale globale), si accompagni alla responsabilità verso i contribuenti.
La divisione delle competenze fra i vari livelli non può più, però, essere basata su criteri di carattere settoriale. La tendenza della problematica legata al territorio a coincidere con quella della programmazione tout court è indice del fatto che i confini fra settori come politica economica e industriale, politica dei trasporti, controllo dell’inquinamento, politica urbanistica, pubblica istruzione, sanità, ecc., sono diventati indistinti poiché hanno tutti un legame con il territorio, avendo ogni decisione in ciascuno di questi settori un’immediata influenza appunto sul territorio. Affidare quindi a un ente la responsabilità di decidere della localizzazione delle industrie a un altro quello di controllare l’inquinamento equivarrebbe a negare il concetto stesso di programmazione e a rinunciare di conseguenza a qualsiasi speranza da parte dell’uomo di controllare razionalmente la crescita anarchica delle forze produttive. Ogni livello decisionale deve perciò avere competenza su tutti i settori (fatta eventualmente eccezione per quei pochi che hanno ancora un certo grado di autonomia effettiva) e i confini fra competenze di livelli diversi devono essere tracciati sulla base di criteri territoriali e non funzionali (il che comporta ovviamente gravi difficoltà e anche conflitti, che possono essere affrontati e superati solo con un rafforzamento della volontà generale e dei mezzi della sua espressione).
Per quanto riguarda il meccanismo di formazione delle decisioni, il problema fondamentale è di correggere le distorsioni territoriali provocate dall’attuale fase di sviluppo anarchico o che possano prodursi in futuro e quindi di impedire che la composizione delle rappresentanze politiche si limiti a rifletterle e quindi tenda ad accentuarle anziché a farle regredire. Il compito tipico da prendere in esame è quello di arginare e fare, entro certi limiti, regredire l’espansione dei grandi poli urbani. Rispetto a questo compito appare contraddittoria l’esistenza di organi rappresentativi regionali fondati sul principio della proporzionalità senza alcun correttivo, poiché in tal modo la preponderanza demografica dei poli urbani si trasforma senza mediazioni in preponderanza politica, e quindi gli interessi favorevoli al decongestionamento (che per definizione sono più forti al di fuori dei poli urbani da decongestionare che non in essi) hanno inevitabilmente meno peso. Occorre perciò individuare dei meccanismi di autoregolazione, il più importante dei quali ci sembra essere l’estensione al livello regionale (e a tutti gli altri tranne naturalmente il più basso) del bicameralismo previsto per il livello centrale dalle costituzioni federali.
Si tratta cioè di affiancare, a tutti i livelli, a un organo deliberativo eletto su base proporzionale un secondo organo composto dalle rappresentanze paritetiche delle unità territoriali del livello immediatamente inferiore. Questo meccanismo, dando alle unità territoriali meno ricche e meno popolate un peso politico superiore alla loro consistenza demografica, consentirebbe loro di far valere i propri autonomi interessi nel processo di definizione della politica del livello superiore e avrebbe quindi una essenziale funzione riequilibratrice.
— Per quanto riguarda il meccanismo di formazione della volontà politica, sono indispensabili sistemi elettorali adeguati all’esigenza di una stretta coordinazione tra i vari livelli e quindi tali da non creare canali totalmente distinti e non comunicanti fra di loro per la selezione della classe politica locale, nazionale e europea, i quali tendono a cristallizzare mentalità e modi di affrontare i problemi radicalmente contrapposti, che costituiscono una causa permanente di incomprensioni e di conflitti, del tutto incompatibili con le esigenze di una moderna programmazione globale e articolata. A questa esigenza tende a dare una risposta la proposta di introdurre nella costituzione federale europea una norma che regoli l’ordine di successione e i tempi dello svolgimento delle elezioni ai vari livelli, stabilendo in particolare che l’elezione degli organi del livello inferiore debba sempre precedere quella degli organi del livello superiore e che l’intero processo — dalla elezione degli organi del quartiere a quella degli organi della federazione — si svolga in un tempo sufficientemente breve da consentirgli di conservare una fisionomia unitaria («elezioni a cascata»).
Questo meccanismo consente di dibattere i problemi del comune dopo aver dibattuto quelli del quartiere, quelli della regione dopo aver dibattuto quelli dei comuni, ecc., in modo tale da partire dai problemi reali della vita quotidiana degli uomini, e da stabilire via via tutte le compatibilità. Diventerebbe così possibile l’unificazione del momento della formazione della conoscenza e di quello della formazione della volontà, che oggi sono separati, con la conseguenza che le decisioni politiche non aderiscono ai concreti bisogni degli uomini. Con questa forma di federalismo elettorale si potrebbe rafforzare la volontà generale (volontà razionale) e precostituire la base della generalizzazione del bicameralismo.
 
6. Come far prevalere la volontà generale sul corporativismo.
Le strutture federali sopradescritte costituiscono uno strumento istituzionale di importanza decisiva rispetto all’esigenza di combattere il corporativismo e far emergere quindi in modo assai più forte la volontà generale. Per rendersene conto occorre mettere meglio in luce le implicazioni fondamentali della creazione della federazione europea, da una parte, e della realizzazione in quest’ambito di nuove forme di federalismo, dall’altra.
Circa il primo aspetto, occorre sottolineare che con la creazione della federazione europea gli Europei ridiventeranno responsabili degli aspetti strategici del proprio sviluppo economico e della propria sicurezza sia nel senso militare, sia nel senso più generale della possibilità di impedire con una programmazione globale, che a tale livello diventa possibile, le catastrofi economico-sociali ed ecologiche cui si andrà inevitabilmente incontro se proseguirà l’attuale anarchico sviluppo. Ciò significa che il processo democratico avrà di nuovo la possibilità oggettiva di concentrarsi su problemi, come quelli della sicurezza, che stimolano l’emergere di sentimenti di solidarietà fra gli uomini indipendentemente dall’appartenenza di categoria o di partito, e da questa situazione non potrà non derivare un fattore di contenimento delle spinte egoistiche e corporative. Questa influenza positiva sarà ulteriormente favorita dal fatto che al livello europeo dovranno essere attribuite soltanto le risorse indispensabili per poter realizzare le scelte strategiche della programmazione, compreso il riequilibrio fra regioni forti e deboli, mentre la distribuzione di risorse connessa con la politica sociale, che costituisce il terreno fondamentale dello scatenamento delle lotte corporative, resterà competenza dei livelli nazionali e dovrà anzi essere trasferita nella misura più ampia possibile ai livelli inferiori.
Circa il secondo aspetto, si deve osservare che la rinascita della comunità a dimensione umana, che l’autonomia di tipo federale degli enti territoriali minori renderà possibile (nel contesto del superamento in avanti dei conflitti di classe), alimenterà in modo decisivo l’emergere di sentimenti di solidarietà umana non più soffocati alla base dalla distruzione fisica o strutturale dei quartieri. E quindi anche da questa direzione proverrà una forte tendenza al contenimento e all’attenuazione delle spinte egoistiche e corporative, che sarà tanto più efficace quanto più ampio sarà il graduale trasferimento della spesa sociale agli enti territoriali minori, il che diventa possibile (ed è auspicabile anche per ragioni di efficienza, per eliminare cioè il gigantismo sempre più ingovernabile degli organismi assistenziali) in conseguenza dell’acquisizione da parte di essi di una reale indipendenza sul piano fiscale.
Al di là degli effetti positivi rispetto al problema in esame derivanti dalla creazione di moderne istituzioni federali occorre anche pensare ad ulteriori innovazioni istituzionali indispensabili, da una parte, per garantire la stabilità e l’autorevolezza dell’esecutivo a tutti i livelli, e, dall’altra, per assicurare che lo sviluppo del sentimento di solidarietà umana e quindi dello spirito comunitario segua globalmente la grande trasformazione istituzionale che deve essere avviata in questa fase storica.
Circa la prima esigenza, si deve sottolineare che la cronica instabilità dell’esecutivo, che ha sempre in generale danneggiato la capacità di far prevalere gli interessi generali rispetto a quelli particolari, appare oggi in particolare strutturalmente contradditoria rispetto all’esigenza di una programmazione avente i compiti sopradescritti. Se si vuole che il piano, una volta deliberato, venga effettivamente attuato superando le resistenze degli interessi corporativi, occorre un esecutivo stabile e autorevole, ma occorre d’altra parte che queste qualità vengano acquisite non a scapito della democrazia (il che renderebbe l’esecutivo ancor più prigioniero degli interessi particolari), bensì sulla base di un legame più stretto e diretto possibile con la volontà popolare. Occorre dunque, in primo luogo, una forte volontà generale (che si potrebbe ottenere con il meccanismo elettorale descritto); e occorre, in secondo luogo, una sintesi dei principi del governo parlamentare (per fare del Parlamento il presidio del piano) e del governo presidenziale (per effettuare in modo democratico gli aggiustamenti al piano imposti dalle circostanze).
Lo strumento fondamentale che risponde alla seconda esigenza è invece il servizio civile obbligatorio, che deve essere inteso sotto questo aspetto come l’organo permanente per l’educazione dei giovani al sentimento di solidarietà umana e allo spirito comunitario, e pure come la struttura portante dell’educazione a un metodo democratico fondato sull’assoluto rispetto delle regole del gioco e quindi sul rifiuto della violenza, che costituisce l’elemento caratterizzante del principio della democrazia militante.
 
7. Lo sviluppo della democrazia partecipativa.
Si tratta ora di chiarire come le riforme istituzionali precedentemente indicate costituiscano il quadro insostituibile in cui si può realizzare un decisivo sviluppo della democrazia partecipativa. A tale scopo sono preliminarmente necessarie alcune sintetiche puntualizzazioni sulla problematica della democrazia partecipativa.
Quando si parla di democrazia partecipativa si intende — senza averne precisa coscienza — una situazione nella quale si supera sia il primo grado della democrazia reale, quello della libera scelta dei dirigenti (grosso modo le esperienze liberali), sia il secondo grado della democrazia, quello della libera scelta del programma di governo (grosso modo le aspirazioni a forme moderne di governo presidenziale che consentirebbero ai cittadini la scelta tra alternative programmatiche), e si raggiunge un terzo grado di democrazia, come partecipazione attiva di tutti alla formazione del piano. A questo punto il dilemma, che alcuni ritengono insuperabile, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa si rivela un falso dilemma. In sé, la democrazia diretta è un mito. In quanto tale non è mai esistita (la città-Stato democratica greca non era affatto una democrazia diretta, e non solo perché si basava sulla schiavitù, ma anche, e specificamente, perché nelle città-Stato si formavano delle élites, e quindi, sostanzialmente, la divisione fra governanti e governati). E non basta. Se esistesse, la democrazia diretta significherebbe soltanto che la società non ha bisogno di riflessione politica e di mediazione politica; oppure che la volontà generale può coincidere, immediatamente, con la somma delle volontà particolari. La democrazia rappresentativa, invece, ha un carattere realistico proprio perché riconosce, e istituzionalizza, il momento politico dell’attività umana, elevandolo cosi al livello della esperienza razionale. In sostanza il limite non è la rappresentanza ma la sua limitazione, che nel primo e nel secondo grado di democrazia è eliminata in teoria (formalmente tutti possono diventare dirigenti), ma mantenuta in pratica. La prova di questa limitazione sta nel fatto che nelle forme sinora attuate di democrazia si è sempre manifestato sia il fenomeno sociale della classe politica, sia la divisione strutturale tra governanti e governati (cioè una situazione di potere che mantiene e genera l’ineguaglianza sociale). La limitazione della rappresentanza può tuttavia cadere se il processo democratico inizia realmente dal quartiere, e perciò dai fatti della vita quotidiana del popolo. Un consiglio di quartiere (rappresentanza) non divide strutturalmente la popolazione del quartiere in una classe politica professionale di quartiere e in un elettorato di quartiere, e consente inoltre una rotazione delle cariche che non esclude nessuno, a meno che il quartiere, invece di essere una realtà politica specifica, non si risolva di fatto — come oggi — in una intrusione dei partiti nazionali (e quindi della politica professionale) nella vita non ancora emancipata del quartiere. Ma nel modello che abbiamo descritto, con le elezioni a cascata, la generalizzazione del bicameralismo, la sintesi del governo parlamentare e di quello presidenziale, la coincidenza della formazione della conoscenza e della formazione della volontà, la partecipazione di tutti alla elaborazione del piano, e le trasformazioni sociali e istituzionali possibili in questo contesto politico, questa intrusione dovrebbe attenuarsi sino a scomparire.
Un modello non è la realtà, ma è la base indispensabile per una esperienza razionale e controllabile. Noi pensiamo che con il modello qui definito solo in termini sommari, e che deve essere ulteriormente elaborato, sia possibile fare le prime esperienze di democrazia partecipativa.
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
Questo testo rispecchia l’orientamento politico che si è manifestato in seno al MFE negli ultimi anni. Molti riferimenti sono pertanto orali. In particolare le osservazioni sul sistema elettorale «a cascata» e sui rapporti tra democrazia diretta, rappresentativa e partecipativa si riferiscono a proposte di Albertini. Per i riferimenti testuali, si vedano le opere sotto ricordate.
Sul concetto di crisi dello Stato nazionale, che costituisce il pilastro sul quale si fonda l’autonomia teorico-pratica del Movimento federalista europeo, la letteratura è molto vasta. Ricordiamo: A. Spinelli e E. Rossi, «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto», in Problemi della federazione europea (1944), ed. reprint a cura del Movimento federalista europeo, Bologna, 1972; A. Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, La Nuova Italia, Firenze, 1950; Id., L’Europa non cade dal cielo, Il Mulino, Bologna, 1960; E. Rossi, «L’Europa di domani» (1944), in AA.VV., Federazione europea, La Nuova Italia, Firenze, 1948; M. Albertini, Lo Stato nazionale (1960), Guida, Napoli, 1981; Id., Il federalismo. Antologia e definizione (1963), Il Mulino, Bologna, 1979; M. Albertini, A. Chiti-Batelli, G. Petrilli, Storia del federalismo europeo, a cura di E. Paolini, ERI, Torino, 1973; L.V. Majocchi e F. Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Guida, Napoli, 1979; L. Levi, Verso gli Stati Uniti d’Europa. Analisi dell’integrazione europea, Guida, Napoli, 1979.
Sulla crisi della società industriale nella prospettiva federalista si veda: «Documento di protesta e di rivendicazione degli intellettuali di Torino» (1956) in Trent’anni di vita del Movimento federalista europeo, F. Angeli, Milano, 1973; M. Albertini, «Il modo di produzione post-industriale e la fine della condizione operaia» (1957), Il Federalista, XVIII, nov. 1976, n. 4; Id., «Discorso ai giovani federalisti», Il Federalista, XX, apr. 1978, n. 2-3; G. Montani, «Rivoluzione scientifica e società post-industriale», Il Federalista, XXI, mar. 1979, n. 1; A. Spinelli, PCI, che fare? Riflessioni su strategia e obiettivi della sinistra, Einaudi, Torino, 1979; AA.VV., Lavoro e occupazione nella prospettiva dell’unione economica e monetaria europea, F. Angeli, Milano, 1980. Più in generale si vedano J. Fourastié, Les 40.000 heures, Laffont, Paris, 1965; R. Richta, Civiltà al bivio (1968), F. Angeli, Milano, 1968; R. Garaudy, Le grand tournant du socialisme, Gallimard, Paris, 1969; S. Nora e A. Minc, L’informatisation de la société, Seuil, Paris, 1978.
Sulla problematica del territorio e dell’urbanistica si veda: L. Mumford, La cultura delle città (1938), Milano, Comunità, 1969; J. Gottmann, Megalopoli (1957), Einaudi, Torino, 1970; J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città (1961), Einaudi, Torino, 1969. Per la prospettiva federalista si veda F. Rossolillo, «Implicazioni istituzionali della problematica del territorio nell’attuale situazione dell’Europa occidentale», Il Federalista, XIX, ott. 1977, n. 3.
Sulla democrazia partecipativa: opere generali: C.B. MacPherson, La vita e i tempi della democrazia liberale (1977), Il Saggiatore, Milano, 1980; La partecipazione politica, a cura di C. Cipolla, Città Nuova, Roma, 1978. Si vedano inoltre: AA.VV., Decentramento urbano e democrazia, Feltrinelli, Milano, 1975; S. Pistone, «La partecipazione popolare alla lotta contro il terrorismo e l’impegno delle autonomie locali», Piemonteuropa, V, giu. 1980, n. 2. In particolare sul servizio civile, che in seno al Movimento federalista ha costituito l’oggetto di un ampio dibattito e di alcune proposte operative in parte in corso di attuazione, si veda: «Per un servizio civile europeo» Il Federalista, XXI, nov. 1979, n. 3-4; F. Spoltore, «Le ragioni morali e politiche del servizio civile», Il Federalista, XXII, lu. 1980, n. 3; T. Caizzi, «Nota sul servizio civile obbligatorio per le donne», Il Federalista, XXII, dic. 1980, n. 4.
Sui problemi della programmazione: opere generali: P. Mendès France, La Repubblica moderna (1962), Einaudi, Torino, 1963; J. Meynaud, Pianificazione e politica (1962), Comunità, Milano, 1963; J.K. Galbraith e N. Salinger, Sapere tutto o quasi sull’economia (1979), Mondadori, Milano, 1979. In particolare, per il punto di vista federalista, si vedano: E. Hirsch, «Planification et fédéralisme» in La programmation européenne, Institut de Sociologie de l’Université libre de Bruxelles, Bruxelles, 1965; Programmazioni regionali e nazionali e programmazione europea, a cura del Consiglio Italiano del Movimento Europeo, Roma, 1968; M. Albertini, «L’aspetto di potere della programmazione europea», Il Politico, XXV, mar. 1970, n. 1. Sull’Agenzia del lavoro si veda: Rapports nationaux sur fonctionnement et compétences des services nationaux de l’emploi, a cura dell’Institut pour la promotion par la formation permanente, Paris, s.d. e AA.VV., «Afferrare Proteo», Quaderni della Rivista Trimestrale, genn.-giu. 1980, n. 62-63. Per la prospettiva federalista: «Per la creazione di una Agenzia del lavoro europea», a cura dell’Ufficio problemi del lavoro del MFE, L’Unità europea, VII, sett.-ott. 1980, n. 79-80; L. Levi, «Politica dell’occupazione e Agenzia europea del lavoro», Il Federalista, XXII, dic. 1980, n. 4.

 

 

 

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