IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXII, 1980, Numero 3, Pagina 156

 

 

Politica e cultura nella prospettiva
del federalismo*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
L’UEF tra il passato e l’avvenire.
1. Secondo i nostri statuti, il nostro Congresso deve stabilire la linea generale della nostra azione politica per i prossimi due anni. Ma per prendere una decisione di questo genere non è detto che ci si possa limitare all’esame di ciò che potrà accadere, e di ciò che noi vorremmo che accadesse, nei prossimi due anni. Se è vero che il mondo si trova di fronte a problemi nuovi e alla necessità di soluzioni nuove, allora bisogna ammettere che la nostra analisi deve essere molto più ampia. Problemi nuovi e necessità di soluzioni nuove può voler dire un nuovo ciclo del processo storico e dell’azione politica. E se le cose stanno così, come sembra a molti, ciò che noi faremo nei prossimi due anni avrà comunque il carattere del primo tratto di strada su una via nuova; e sarà efficace se, e solo se, noi sapremo scegliere sin da ora la giusta direzione di marcia, anche a costo di rinunciare ad ottenere risultati immediati, se ciò risultasse necessario. È a questo che pensavo quando ho proposto che questo Congresso fosse messo sotto il segno della cultura. Se siamo di fronte ad una svolta storica, e si tratta di capire il nuovo quando esso comincia solo a profilarsi ma non è ancora in mezzo a noi come una cosa già cresciuta che condiziona il comportamento quotidiano dei poteri, la normale analisi politica di carattere pragmatico non basta più. Solo la cultura può riconoscere le svolte della storia. Va detto tuttavia che in questi casi non è solo la politica ad aver bisogno della cultura, ma è anche la cultura ad aver bisogno della politica. A questo punto, solo con i grandi scopi politici che riguardano direttamente il progresso della condizione umana si può animare la cultura — che altrimenti si adagia nel pessimismo e nell’irrazionalismo — e solo con le grandi idee storiche che si formano nel contesto della cultura si può animare la politica — che altrimenti riconosce il nuovo troppo tardi, quando esso ha già preso le forme di una catastrofe.
2. Vorrei ricordare che qualcosa di questo genere è stato fatto da coloro che, durante la seconda guerra mondiale, hanno creato i gruppi che poi sono confluiti nell’UEF. È a questo che dobbiamo l’esistenza dell’UEF: al fatto che allora degli innovatori, unendo nella loro condotta l’esperienza della politica e quella della cultura, seppero riconoscere la svolta della storia allora in atto. Durante la seconda guerra mondiale, quando tutto era in gioco e il mondo doveva prendere forme nuove, tutti si chiedevano che cosa sarebbe stato giusto fare, e che cosa sarebbe stato possibile fare, dopo la fine delle ostilità. In generale, nonostante le diffuse convinzioni europee, gli uomini più legati alle ideologie tradizionali e alle visioni dei partiti (dal liberalismo al marxismo), pensarono alla ripetizione del passato, cioè ad una ipotetica nuova fase di vita degli Stati nazionali e, per quanto riguarda l’unità europea, solo a forme di collaborazione internazionale, senza chiedersi per un verso se la collaborazione sarebbe bastata per garantire l’unità, e per l’altro se i disastri del nostro secolo non devono essere imputati anche al carattere esclusivo degli Stati nazionali e al fatto che essi avevano diviso l’Europa sino quasi a cancellarne la fondamentale unità storica e culturale.
È vero che, per fare questo esame, occorre la bussola del federalismo. Ma è anche vero che per battersi sin da allora per l’unificazione federale dell’Europa e per la trasformazione degli Stati nazionali esclusivi in nazioni liberamente associate con un vincolo costituzionale (secondo la lezione imperitura di Kant); e per non desistere anche a costo di restare isolati per molto tempo, era necessario sapere qualcosa che non si trova già bello e fatto in nessuna dottrina: bisognava sapere che una storia nuova consente soluzioni nuove solo se degli uomini sanno battersi per soluzioni nuove e se la fortuna li assiste. Oggi, specialmente dopo che, con il voto europeo, l’unificazione ha raggiunto praticamente la soglia dell’irreversibilità e può avere solo una conclusione federale, è facile pensare all’Europa unita come a un fatto quasi naturale, scelto spontaneamente da un gran numero di europei sin dall’inizio. Ma si tratta di una deformazione della realtà. La verità è che «l’Europa non cade dal cielo», come ebbe a dire Altiero Spinelli. La verità è che non solo non ci sarebbe l’UEF, ma non ci sarebbe nemmeno un movimento di unificazione dell’Europa così avanzato (e la storia avrebbe preso altre vie), se non ci fosse stata l’opera lucida, coraggiosa e tenace dei pionieri: l’opera dei federalisti e di Jean Monnet.
3. Noi federalisti dovremmo tener sempre presente che questa è la nostra peculiarità. Pretendiamo di fare politica, ma non usiamo né il mezzo del voto, né quello della rappresentanza di interessi settoriali, né, ovviamente, quello della violenza. Usiamo un solo mezzo, le idee. Ne segue che o riusciamo a distinguerci per le idee — come il federalismo ci consente di fare — o non esistiamo. In pratica, per svolgere il nostro lavoro, e condurre la nostra lotta, noi dobbiamo occuparci delle nuove necessità, che si manifestano nel dibattito politico nazionale solo in modo parziale e confuso sia per ragioni derivanti direttamente dalla natura della politica e dalle sue esigenze pragmatiche, sia per la contraddizione in cui si trova ancora l’Europa: problemi di dimensione europea e mondiale, mezzi di azione completamente sviluppati solo a livello nazionale (bilancio, moneta, esercito, governo). Il nostro compito è quello di dare la forma netta della verità scientifica e culturale a queste nuove necessità ancora confuse, senza aver paura di parlarne anche quando sono ancora verità difficili; e anche se, per questo, siamo ogni volta tacciati di utopismo, o di teologismo, o di misticismo (come ama fare, ad esempio, un grande giornale, Le Monde; ma chi è più utopista: chi pensava sin dalla guerra all’unificazione dell’Europa, o chi pensa, ancora oggi, ad un avvenire esclusivamente nazionale?).
Solo in questo modo, e a patto di insistere anche durante l’isolamento iniziale (che si accompagna sempre a ciò che è veramente nuovo, in ogni campo), le nostre idee riescono a influenzare il dibattito politico, a diventare le idee degli altri, ed a preparare, alla fine, le situazioni che permettono alla politica pragmatica di perseguire obiettivi altrimenti impossibili.
 
L’UEF in un mondo che cambia.
1. Non è un frutto del caso se nella sfera della politica si stanno formando movimenti nuovi — come quello ecologico — e nel contempo nuove motivazioni, e nuove aspettative provocate dai diversi aspetti della situazione dei giovani, delle donne, degli anziani, e soprattutto dalle condizioni in cui si trova la popolazione dei paesi più poveri del mondo. Si tratta delle conseguenze — non ancora giunte al livello della efficacia e della responsabilità — della sempre più ampia conoscenza del mondo che ci proviene direttamente dalle scienze, sia dalle scienze della natura (dalla fisica alla biologia) sia dalle scienze sociali (anche se in un modo più incerto). È evidente che c’è una precisa relazione tra i movimenti ecologici e il rischio di degradazione della biosfera — coincidente del resto con la degenerazione già molto avanzata del tessuto urbano e dell’ambiente umano, in un mondo nel quale tra gli elementi della bilancia mondiale del potere ci sono anche le armi nucleari. Allo stesso modo, è evidente che c’è una relazione precisa tra le grandi inchieste sullo stato mondiale delle risorse, della popolazione, della salute, ecc., effettuate dalle organizzazioni internazionali e da lungimiranti organizzazioni private, e le nuove motivazioni morali che cercano di prendere la forma di nuovi comportamenti politici.
2. Il nostro compito, come federalisti, non è quello di aggiungere qualche dettaglio al quadro fornito dalle scienze. A questo riguardo noi dobbiamo semplicemente imparare da ciascuna di queste scienze ciò che esse sono in grado di insegnarci. Il nostro compito è un altro. Noi dobbiamo, con la nostra scienza, o quasi scienza — il pensiero politico e sociale reso fecondo e attuale dai criteri del federalismo — studiare gli aspetti di potere di questa situazione, e in primo luogo l’aspetto più grave, che sta nella separazione della politica dalla scienza, e perciò dalla cultura. È a causa di questa separazione che la politica non sa ancora fare ciò che le scienze dicono che bisogna fare, e non si rinnova anche se le scienze sono già in grado di mostrare che l’umanità ha acquisito un potere inaudito, quello della propria autodistruzione, e che si trova in ogni caso di fronte a un bivio: o il controllo mondiale delle risorse nel contesto di una solidarietà nuova e fraterna fra le nazioni, o il caos.
3. È in questo quadro, quello della separazione della politica dalla cultura, che va esaminata la crisi che si manifesta ovunque, sia pure in modi diversi. Va detto, a questo riguardo, che non c’è mai crisi quando gli uomini si trovano di fronte a gravi difficoltà, ma solo quando essi non sanno come affrontarle e superarle; cioè quando la conoscenza del mondo (cultura) e il controllo del mondo (politica) divergono. Ciò che si può e si deve constatare a questo riguardo, è che ormai la scienza ha un progetto mondiale, mentre la politica ha ancora una somma di progetti nazionali. Si dovrebbe inoltre constatare che ciò non mette in evidenza una ipotetica superiorità della comunità scientifica sulla classe politica, ma un limite delle istituzioni come mezzi di formazione della volontà generale. Un programma mondiale ha bisogno di un soggetto politico mondiale; ma le istituzioni sono ancora ferme ai soggetti politici nazionali, che impediscono la formazione di una volontà generale dell’umanità. Per questo il messaggio della scienza, anche quando viene ascoltato, va perduto. Il fatto è che nello stato presente del mondo questo messaggio non può tradursi in una volontà pubblica, ma soltanto in un auspicio.
4. Per colmare il fossato tra la cultura e la politica bisogna colmare il fossato tra le nazioni e la comunità internazionale, applicando progressivamente le regole della democrazia anche ai rapporti internazionali. Per questo, anche se non solo per questo, il federalismo ha qualcosa da dire e da fare. Devo ricordare due cose. La prima è che il federalismo ha reso possibile una critica scientifica dell’idea di nazione esclusiva (Stato nazionale). La seconda è che il federalismo, come tecnica istituzionale, consente di realizzare un insieme costituzionale di governi indipendenti e coordinati (K.C. Wheare). In sostanza col federalismo si può passare dal governo democratico di una sola nazione al governo democratico di una libera società di nazioni indipendenti. Per questo il federalismo giunge sino alla radice della crisi; cioè sino al punto dal quale bisogna ricominciare sia con il pensiero — per costruire la nostra visione del mondo sulle difficoltà di oggi e non su quelle che abbiamo superato nel passato — sia con l’azione — per sostituire ai rapporti di forza tra le nazioni una situazione «nella quale ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza o dalle proprie valutazioni giuridiche, ma solo da questa grande federazione di popoli, da una forza collettiva e dalla deliberazione secondo leggi della volontà comune» (sono parole scritte da Kant nel 1784, ma praticamente non ancora prese in considerazione dalla cultura, che lascia ancora il mondo, e in primo luogo i giovani, all’oscuro di questo aspetto del pensiero di Kant).
5. La nuova vita del federalismo verso il suo traguardo mondiale può cominciare in Europa. Questa è l’opinione di Sacharov. lo credo che quanto ho detto sinora potrebbe essere considerato come una introduzione ai passi di Sacharov che sto per citare, ricordando che egli pubblicò l’articolo da cui li ho tratti in occasione dell’elezione europea. Vorrei ancora osservare che quanto dirò dopo potrebbe essere considerato come il tentativo di formulare in modo schematico le prime ipotesi per far avanzare, sul piano politico, la grande visione di Sacharov. Questo, del resto, è il nostro debito nei suoi confronti.
«È mia opinione che la creazione del Parlamento europeo, e soprattutto l’intenzione di riorganizzarlo in base alle indicazioni che emergeranno dalle elezioni dirette, sia un passo importante nella giusta e necessaria direzione dell’integrazione europea e anzi trampolino, in una più ampia prospettiva, per la convergenza e la integrazione di tutti i paesi del mondo. Sono convinto che solo il progresso in questa direzione potrà eliminare i complessi pericoli che minacciano da vicino l’umanità… È risaputo che un numero sempre crescente di problemi della vita moderna a livello mondiale esigerà gli sforzi di tutti. Tali sforzi dovranno essere coordinati tenendo presente le sempre più ampie prospettive poste per gli interessi dell’umanità. Uno di questi problemi globali è la protezione dell’ambiente collegato con quelli relativi alle risorse, alla tecnologia e alla demografia. Come problema centrale socio-politico abbiamo la battaglia nei confronti del totalitarismo dilagante e contro la minaccia di una guerra termonucleare a livello mondiale… L’integrazione europea, che nel prossimo futuro è destinata a diventare sempre più reale e immediata, dovrà, — lo ripeto — diventare passaggio obbligato e modello per un processo evolutivo che si estenderà a tutto il mondo».
 
La nuova epoca.
1. La situazione dell’umanità non diventa chiara nel pensiero, e trasparente nel linguaggio, fino a che non si constata quanto segue. Una nuova epoca ha avuto inizio, un nuovo pensiero deve prendere forma. Il corso della storia generato dalla formazione del mercato mondiale e sostenuto dalle rivoluzioni scientifica, politica, economica e sociale è ormai giunto al suo culmine con la fine dell’egemonia del sistema europeo degli Stati, l’avvento del sistema mondiale degli Stati, il risveglio di tutti i popoli della terra, la crescente partecipazione dello spirito religioso alla vita moderna e lo sviluppo enorme della capacità tecnologica, non ancora controllata, tuttavia, dalla volontà generale. Per questa ragione è ormai necessario — ed anche possibile a patto di rivolgere il pensiero e la volontà a questo compito supremo — pianificare a livello mondiale la soluzione di alcuni problemi fondamentali per la sopravvivenza e il futuro del genere umano.
2. Nessuno disconosce questa necessità. Ma è ora di rendersi conto che non è possibile risolvere i problemi comuni del genere umano — divenuto ormai una comunità di destino interamente responsabile della sua sorte — solo con le istituzioni ed i criteri di conoscenza e di azione politica del passato, che sono serviti per conoscere e costruire il mondo che sta ormai alle nostre spalle anche se costituisce, con i primi rudimenti della libertà e della uguaglianza di tutti gli uomini, il terreno sul quale si tratta di avanzare per costruire un mondo nuovo.
3. La prima barriera che deve cadere è quella che divide ancora la politica interna dalla politica estera. La politica estera non può più essere considerata come il contesto d’azione nel quale si tratta soltanto di conseguire l’indipendenza, sulla base della premessa secondo la quale alla politica interna spetterebbe il compito dell’emancipazione sociale e alla politica estera quello della sicurezza; e sulla base della convinzione errata secondo la quale l’indipendenza delle nazioni coinciderebbe con l’eguaglianza fra le nazioni. L’indipendenza nazionale è una fase necessaria dello sviluppo storico, e realizza lo scopo di affidare gli Stati ai popoli; ma una volta acquisita essa riflette, e non corregge, la diseguaglianza fra le nazioni che può essere superata solo affidando alla democrazia anche i rapporti fra le nazioni. Bisogna dunque tener presente che la diseguaglianza fra le nazioni è molto più grande, e più inumana, della diseguaglianza fra le classi che ancora persistono nell’ambito delle nazioni più industrializzate. E bisogna dunque anche ammettere che ormai il mondo intero è il teatro del conflitto dei valori ed il quadro nel quale si manifestano e possono essere superate — a patto di far coincidere sempre di più la politica internazionale con la mobilitazione diretta delle forze politiche e sociali di carattere progressivo — le contraddizioni fondamentali del nostro tempo.
4. Il primo fatto da riconoscere è che allo stato attuale del processo storico tutti gli uomini sono ormai liberi e vogliono perciò diventare eguali, come sono ormai liberi e vogliono anch’essi diventare eguali tutti i popoli. È questa volontà d’eguaglianza la nuova forza rivoluzionaria da mobilitare per sprigionare a livello mondiale, a livello di ciascun paese, e di ciascuna comunità locale, la volontà generale nella quale soltanto la libertà dei singoli può diventare la libera eguaglianza di tutti. Il traguardo è lontano e siamo solo ai primi passi. Ma solo dirigendosi sin da ora verso questo traguardo si può acquistare la capacità sia di controllare i fattori della crisi che si manifestano ovunque, sia di trasformare progressivamente la libertà di tutti in gradi crescenti di autocontrollo del genere umano.
5. Il primo criterio strategico che occorre acquisire riguarda il fatto che esiste un governo del mondo, e che si tratta perciò di battersi con le forze che possono già entrare in campo per affidare gradualmente il governo del mondo ad un numero crescente di popoli e di uomini e, al limite, a tutti gli uomini. Il governo del mondo è la bilancia mondiale del potere, alla quale è collegata la possibilità di stabilire le regole — scritte, e soprattutto non scritte — con le quali si esercita il controllo sul mercato mondiale. Per cambiare il governo del mondo si tratta pertanto di cambiare la bilancia mondiale del potere, in modo tale da diminuire, sino ad eliminare del tutto, la prevalenza delle grandi potenze; e sino ad assicurare, con la federazione mondiale, il governo democratico del mondo e la sostituzione dei rapporti di forza tra le nazioni con la loro eguaglianza sancita e protetta dal diritto.
 
I primi obiettivi politici.
1. La crisi del bipolarismo è la crisi del governo del mondo che ha caratterizzato la prima fase della vita del sistema mondiale degli Stati. La stessa crisi di governabilità a livello nazionale, che si manifesta in modo grave negli Stati nei quali maggiori sono le difficoltà, non è che una delle conseguenze della crisi generale del governo del mondo che, essendo ancora affidato alle due grandi potenze in declino, non riesce più a controllare in modo evolutivo il mercato mondiale e il sistema monetario internazionale, ed è sempre più costretto a ricorrere alle prove di forza, alla guerra psicologica e all’aumento dei mezzi militari. Va dunque ribadito che l’ossessione militare, e l’idea secondo la quale la bilancia mondiale del potere si riduce praticamente alla bilancia delle forze militari, sono di danno gravissimo e possono portare alla perdizione come al tempo del fascismo.
2. Il compito di ristabilire un governo evolutivo del mondo è politico. La bilancia del potere si modifica solo sulla base della crescente liberazione sociale e del successo politico: le stesse guerre, nella misura in cui hanno successo, sono i successi di una politica. In pratica si tratta di gestire in modo graduale la transizione, di per sé stessa inevitabile, da un mondo bipolare ad un mondo multipolare, nel quale i protagonisti non devono più essere solo gli Stati, ma anche le nuove entità internazionali come il gruppo dei paesi non allineati, come la Comunità europea in via di costruzione e, naturalmente, la Cina. L’iniziativa spetta dunque a questi nuovi protagonisti del processo politico; e va detto con chiarezza, specialmente per quanto riguarda l’Europa occidentale — che dovrebbe in un leale confronto con gli Stati Uniti studiare tempi e modi del passaggio dalla leadership alla equal partnership —, che la mancanza di iniziativa e il suo corollario, l’allineamento cieco ed imbelle sulle posizioni della potenza-guida, non potrebbe che perpetuare ed aggravare la crisi del governo del mondo sino al rischio di catastrofi.
3. Il processo della transizione dal mondo bipolare a quello multipolare può svolgersi in modo pacifico e ordinato solo ristabilendo la distensione, in modo tale da garantire in tutti i paesi del mondo la maggiore sicurezza possibile con il minore armamento possibile, per aprire ovunque la strada al successo delle forze politiche che si propongono gli obiettivi della pace e del progresso civile e sociale dei loro popoli. Ma bisogna tener presente che la distensione è un metodo, non una politica. Una politica si manifesta solo dove si manifestano la volontà e la capacità di modificare i rapporti di forza. Per controllare la transizione verso un mondo multipolare bisogna pertanto cercare di spostare una parte almeno dei rapporti di forza internazionali dalla linea bipolare a quella multipolare.
4. A questo riguardo i problemi-chiave, per quanto riguarda la situazione e le possibilità dell’Europa occidentale, sono due. Uno riguarda lo SME. Nel quadro dello SME la Comunità deve creare il Fondo monetario europeo. Se ne farà una cosa seria, potremo pagare il petrolio in scudi. In questo modo potremmo sostituire il rapporto egemonico dollaro-resto del mondo (che impedisce l’avvento di un nuovo ordine economico) con il rapporto multipolare, equilibrato ed evolutivo dollaro-scudo-altre valute. L’altro problema riguarda i palestinesi, e la necessità sempre più urgente di dar vita ad uno Stato palestinese. È impossibile incanalare il risveglio arabo e musulmano in forme positive, utili tanto agli arabi e ai musulmani quanto a tutto il mondo, senza risolvere il problema palestinese. Fino a che non sarà costituito uno Stato palestinese la democrazia israeliana, invece di valere come modello positivo, funzionerà come modello negativo danneggiando lo stesso modello democratico; d’altra parte l’estremismo avrà troppo peso nel mondo arabo e musulmano, impedendone lo sviluppo economico e civile e la liberazione dalla tutela diretta o indiretta delle grandi potenze.
 
Il ruolo dell’UEF.
1. Allo stato dei fatti l’evoluzione storico-sociale riproduce automaticamente gli orientamenti liberale, democratico e socialista (nelle loro diverse espressioni storiche, anche di carattere religioso), cioè la cultura che separa la politica interna da quella internazionale ed impedisce pertanto la mobilitazione democratica diretta delle forze politiche e sociali a livello internazionale. Va tuttavia osservato che questa cultura, pur essendosi piegata per ragioni storiche al concetto di nazione esclusiva tipico dello Stato nazionale tradizionale, contiene tuttavia il germe del federalismo, e quindi la possibilità del superamento di questo limite. In ogni caso, fino a che non sarà la stessa evoluzione sociale a produrre spontaneamente, a fianco dei criteri liberale, democratico e socialista, il criterio federalistico del governo democratico del genere umano e di tutte le sue comunità, il compito di diffondere e di sviluppare il pensiero federalistico riguarderà in primo luogo l’UEF; e potrà essere svolto — soprattutto nei confronti delle nuove generazioni che dovranno gestire una fase più avanzata del mondo multipolare — solo ridando la priorità ai problemi organizzativi del tesseramento, del reclutamento e della formazione teorica e pratica dei militanti.
2. Il passaggio da una situazione nella quale il federalismo organizzato è solo il frutto della pura e semplice buona volontà — e deve pertanto essere creato e ricreato da ciascun militante — ad una situazione nella quale esso avrà il carattere di una idea socialmente riconosciuta, è legato alla completa trasformazione democratica della Comunità europea. Realizzando un governo democratico di una società di nazioni indipendenti ed eguali (nell’ambito di una legge costituzionale), e superando così sul piano istituzionale la divisione tra politica interna e politica internazionale, l’Europa costituirà non solo un modello, ma anche un punto di appoggio e un solido alleato per tutte le forze che vogliono affrontare insieme i problemi della pace, della collaborazione e della giustizia internazionale, anche con la creazione di grandi federazioni regionali come premessa della trasformazione dell’ONU in una federazione mondiale.
3. Il federalismo non è legato alla liberazione di una classe. Per questo non si presenta come una ideologia alternativa rispetto al liberalismo, alla democrazia e al socialismo che, avendo espresso ed organizzato la liberazione della borghesia, della piccola borghesia e del proletariato, hanno assunto storicamente forme antagonistiche e reciprocamente esclusive, limitando così la realizzazione stessa dei loro valori di libertà e di eguaglianza — che in quanto tali sono complementari e non alternativi. Ne segue che il federalismo non ha bisogno, per diffondersi, di diminuire la presenza del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Al contrario esso può svilupparsi solo collaborando ad una affermazione sempre più completa dei valori di libertà e di eguaglianza mediante quello della pace, che solo nel federalismo trova la sua sistemazione morale, istituzionale e storica. Sono queste le ragioni di fondo per le quali il federalismo organizzato non usa nessuna arma del potere — il voto, la rappresentanza di interessi settoriali, la violenza — salvo quella indiretta della cultura. Ma proprio per questo i federalisti possono modificare la situazione di potere — e costituire una forza politica di iniziativa anche se non di esecuzione — solo facendo delle loro sezioni, in ogni città e comunità, dei centri di elaborazione culturale, di dialogo e di agitazione di idee, intervenendo così negli ambienti sociali di base nei quali si formano gli orientamenti politici.
4. Il compito dell’UEF è quello di costituire il vettore del pensiero federalistico sino all’avvento di una vera federazione europea, che segnerà una svolta nella storia dell’evoluzione del federalismo. E non si possono avere dubbi sul fatto che l’UEF potrà affrontare questo compito solo con la collaborazione più stretta possibile con la gioventù federalista. È evidente, in primo luogo, che se l’UEF non saprà guadagnarsi la fiducia dei giovani non potrà sopravvivere, perché in questo caso verrebbero a mancare i ricambi nelle nostre sezioni di base, nelle nostre regioni, nelle nostre nazioni e a livello europeo. Ma c’è di più. L’UEF ha bisogno dei giovani per sviluppare la sua identità. A questo riguardo noi ci troviamo di fronte ad un compito molto difficile e di lunga durata. L’UEF ha acquisito l’unità statutaria, cioè giuridica. Si tratta di una conquista fondamentale, che non deve essere vanificata con una fusione con il Movimento europeo. Anche se il Movimento europeo è per noi il primo degli alleati, non bisogna dimenticare che esso non è una organizzazione il cui compito sia quello di sviluppare il federalismo come pensiero valido per tutti gli uomini e non solo per gli europei.
5. Per avanzare sulla nostra via, pur essendo consapevoli del valore della unificazione giuridica soprannazionale dei federalisti, noi dobbiamo valutare ciò che abbiamo già ottenuto con il senso della realtà, e ammettere che le situazioni nazionali del federalismo organizzato sono state sino ad ora molto diverse, e che l’unità non è ancora pienamente assicurata. La prova è nel fatto che esiste, in seno alla stessa UEF, una tendenza verso la fusione col Movimento europeo, cioè verso la scomparsa dell’UEF come immagine e vettore del federalismo militante. Allo stato presente delle cose bisogna sapere che ciò che ci ha unito è stato per un verso il problema della riunificazione dell’UEF, e per l’altro la battaglia per l’elezione europea. Va dunque anche tenuto presente che questi incentivi non operano più, non ci spingono più all’azione e all’unità, perché il problema della riunificazione è stato risolto, e la battaglia per l’elezione europea è stata vinta; e bisogna anche sapere che dopo questa elezione noi abbiamo perso la caratteristica di essere i soli a condurre una azione democratica a livello europeo. Ormai per noi — per la nostra unità e la nostra azione — non c’è che un solo incentivo possibile: quello che sta nel tentativo di identificare e di assumere il ruolo che deve caratterizzare il federalismo nella nuova epoca che ha avuto inizio.
Si tratta soprattutto, e in primo luogo, di un compito del pensiero, a condizione, naturalmente, di avere l’intenzione di colmare la breccia che sussiste ovunque tra il pensiero e la vita, la teoria e la pratica, la scienza e la politica. E va da sé che il pensiero non divide i giovani dai vecchi. Bisogna dunque lavorare con i giovani, e cercare di fare delle nostre due organizzazioni, l’UEF e la gioventù federalista, una scuola vivente di pensiero e di azione, una scuola capace di riunire nella personalità di ogni militante il pensiero teorico e l’azione pratica. Occorre, a questo scopo, un piano di dieci anni; e bisogna prendere una decisione fin da ora per ottenere risultati tra dieci anni e per affidare l’UEF di domani ai giovani di oggi.
6. È del tutto naturale che ci siano resistenze di fronte a questo impegno politico-culturale. Ma quando si giunge a credere che bisogna separare la teoria dalla pratica bisogna sia chiedersi se ciò è possibile quando si tratta di costruire un mondo nuovo, sia tener presente che in passato tutte le forme nuove di pensiero politico — dal liberalismo al marxismo — riuscirono a rinnovare la politica solo rinnovando la cultura. È solo con l’unità di teoria e pratica che si possono risolvere problemi nuovi. Per questa ragione bisogna allargare lo sguardo, e chiedersi anche se questa unità non è proprio ciò che tutti gli uomini devono cercare di acquisire visto che la situazione impone al genere umano di sviluppare la capacità di decidere della sua sopravvivenza e del suo destino. È vero che un gran numero di uomini è ancora molto lontano da questa possibilità culturale. Ma si tratta di stabilire se non sia necessario proporsi sin da ora questo obiettivo, per difficile e lontano che sia. In ogni altro caso non si unirebbe la teoria alla pratica. Non potremmo certo dire di trovarci già dalla parte della morale e della ragione — noi, gli europei — se non facessimo sin da ora tutto il possibile per cambiare un mondo che fa di qualunque europeo un uomo colto, e di una grande quantità di uomini in altre parti del mondo degli esseri che molto spesso non hanno nemmeno i mezzi per garantire la sopravvivenza fisica dei loro figli.


* Queste tesi sono state presentate al X Congresso dell’UEF, che si è tenuto a Strasburgo nei giorni 14-16 marzo 1980, per introdurre il dibattito sui compiti attuali del federalismo. In parte erano già state presentate al Congresso di Bari, dove tuttavia avevano valore provvisorio perché i federalisti definiscono la loro linea generale a livello sovrannazionale.

 

 

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