IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXII, 1980, Numero 4, Pagina 231

 

 

La nazione, un problema
ancora insoluto*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
La nazione non è soltanto un idolo sanguinoso, l’idolo che ha fatto più morti. Essa è anche un rompicapo per gli studiosi sul piano delle idee, come non si cessa di constatare dopo la famosa conferenza di Renan del 1882, senza che ciò disturbi le coscienze, o produca un serio sforzo per acquisire alla ragione il fenomeno nazionale. Secondo Popper «L’assoluta assurdità del principio dell’autodeterminazione nazionale deve essere palese a chiunque si sforzi anche solo per un momento di criticarlo. Tale principio equivale all’esigenza che ogni Stato sia uno Stato nazionale, che sia limitato da un confine naturale, e che questo coincida con la a dimora di un gruppo etnico, sicché dovrebbe essere il gruppo etnico, la ‘nazione’ a determinare e a proteggere i confini naturali dello Stato. Ma degli Stati nazionali di questo genere non esistono».[1] Ciò che bisogna chiedersi, tuttavia, è come mai tutti gli uomini, o quasi, credono che esistano, e pensano che sia proprio questa la forma normale, o naturale, dello Stato. E bisogna anche chiedersi che senso ha, nel nostro tempo, capire che cosa è la nazione, cercare di definirla.
Per gli italiani della mia generazione ciò è stato — o avrebbe dovuto essere — una necessità. Pervenire a capo del problema del fascismo, che resta insoluto sino a che non si stabilisca che cosa impedì alla democrazia di fermarlo prima che fosse giunto al potere, a noi non è bastato mettere in questione i partiti politici e le loro ideologie, dal liberalismo al comunismo. Noi abbiamo dovuto — o avremmo dovuto — mettere in questione il fatto stesso di essere italiani, la nostra stessa nazionalità; e non solo per motivi teorici, ma anche per motivi posti direttamente dalla vita, dal confronto con gli avvenimenti. Per noi — intendo coloro che, pur essendo stati educati dal fascismo, avevano aperto gli occhi — c’è stato un tempo, quello della seconda guerra mondiale, durante il quale siamo stati contro l’Italia, e non semplicemente contro il governo o il regime del nostro paese, come accade di norma in tutte le esperienze politiche, anche rivoluzionarie. Noi abbiamo desiderato con tutto il nostro essere, sin dal primo giorno della guerra, la sconfitta dell’Italia. Non avevamo alternative perché la vittoria dell’Italia avrebbe portato con sé la vittoria del fascismo. Ma sapevamo, o avremmo dovuto sapere, che con l’Italia e il fascismo sarebbero stati sconfitti anche tutti gli italiani, ivi compresi i non colpevoli, gli umili, gli oppressi. In qualche modo, con la scelta della sconfitta dell’Italia si tradiva o si perdeva la patria, si metteva in dubbio la propria identità storica e sociale, e si accettava un confronto con se stessi che avrebbe visto la ragione tacere sino a che non si fosse riusciti a sapere davvero che cosa è la nazionalità.
Furono gli avvenimenti a porci la domanda che in ogni caso ci avrebbe posto la riflessione sul fascismo, e in particolare sul fatto che per impedirne l’avvento non era bastato essere liberali, democratici, socialisti, o democristiani o comunisti. Ognuno di questi modi di agire fu affetto da un limite: da ciò che, in Italia, abbiamo chiamato prefascismo. Anche questo dato di fatto prova, se ce ne fosse bisogno, che quando si attribuisce la colpa del fascismo al capitalismo (e quindi al liberalismo), se si è «marxisti»; o al socialismo, al suo ipotetico disordine mentale e morale, se si è «liberali», si tacita solo la propria coscienza, ma non si prende veramente in esame la propria parte di colpa e non si giunge sino al cuore della questione. Del resto Amendola ha detto benissimo che di fronte al fascismo tutte le forze politiche — a destra, al centro, a sinistra — furono egualmente cieche, egualmente corresponsabili della sua affermazione.[2]
La verità è che non si può imputare semplicisticamente la responsabilità dell’avvento del fascismo al liberalismo, al socialismo, o a qualunque altro modo di pensare la democrazia, perché si deve imputare questa responsabilità a qualcosa che riguarda tutti, al modo italiano di essere stati liberali, socialisti ecc. nel secolo scorso e nella prima metà del nostro. In questione è il modo con il quale si è manifestato storicamente il fenomeno nazionale italiano, cioè l’Italia nel sistema europeo degli Stati. Basta questa osservazione per veder entrare in campo la ragion di Stato (e di partito, di gruppo, ecc.); e per constatare fino a qual punto sia giunto il compromesso italiano tra valori e fatti, tra principi derivanti direttamente dalla ragione (a cominciare dal liberalismo, sulla base del cristianesimo), e le «ragioni» del potere che dovrebbero tuttavia essere rifiutate a qualunque costo quando il potere, le istituzioni, il «positivo» spezzano il legame tra «il transeunte e l’eterno». Ma questa indagine sull’Italia, che riguarda la conoscenza storica e mette in causa con l’Italia anche ciò che ha condizionato l’Italia, cioè il sistema europeo degli Stati nella lunga fase della sua agonia e della formazione del sistema mondiale degli Stati, non può nemmeno essere impostata se, restando oscura la definizione della nazione, non si sa nemmeno che cosa motiva o determina un uomo quando agisce come «italiano», e pensa a volta a volta alle cose più disparate, a un destino, a una scelta, a un fatto storico mitizzato, o a una inesistente condizione naturale come la stirpe.
Sul piano dei fatti, la partita che alcuni italiani hanno aperto con sé stessi come italiani, cioè con l’Italia, si può chiudere solo con la nuova patria, l’Europa; e al di là dell’Europa con l’idea della cittadinanza mondiale, di cui l’Europa può essere l’alba. Ma per avere l’Europa bisogna distruggere ciò che la divide: lo Stato nazionale non solo indipendente (ogni gruppo sociale deve essere indipendente: la città, la regione, gli Stati della federazione europea, gli Stati della federazione mondiale del futuro), ma anche esclusivo (nel senso che esclude che chi fa parte della nazione possa far parte, allo stesso titolo e con pari libertà, di una regione e di una federazione); e che per questa sua pretesa — ormai forsennata a causa della crescente interdipendenza di tutti gli uomini — ferma la vita politica, la lotta sociale e la mobilitazione delle masse ai confini dello Stato, sottoponendo così tutti gli Stati, tutte le nazioni e la democrazia stessa, ai puri e semplici rapporti di forza della bilancia mondiale del potere, all’impero della ragion di Stato.
In Italia si è dunque forse intravvisto, sotto la stretta di fatti difficili ed amari, un aspetto centrale della storia contemporanea. Sul piano della riflessione bisogna infatti ammettere che nell’ambito dei paesi industriali avanzati la nazione, dopo aver servito la causa della democrazia, è diventata ormai il presidio della diseguaglianza fra i popoli e la roccaforte della ragion di Stato: il punto nel quale il potere può far valere ancora, con il dogma della divisione nazionale, le ragioni della necessità contro quelle della libertà, nel quale l’assolutismo del vecchio Stato dinastico non è ancora stato snidato dal cuore degli uomini, nel quale l’emancipazione umana si è fermata. È difficile parlare dell’emancipazione umana, ed è difficile fare affermazioni a questo riguardo. È pur vero, in ogni caso, che si è comunisti, ma prima di tutto francesi o italiani, cioè infedeli, strictu sensu, al proletariato, ivi compreso quello del Terzo mondo. Ed è pur vero, ad esempio, che si è liberali, ma prima di tutto inglesi o tedeschi, cioè liberali a spese della libertà di tutti gli altri. Ed è anche vero che questo modo di essere non ha più una base sociale empiricamente accertabile perché l’interdipendenza fra gli uomini è più stretta oggi su tutta l’area dell’Europa occidentale, e non solo dell’Europa occidentale, di quanto non lo fosse nel secolo scorso fra gli uomini di ciascuna delle nazioni.
Ciò che è ormai in causa, con la nazione, è tutto il pensiero. Se la ragione, nella sua chiarezza, dice «non uccidere un altro uomo», ci vuole una zona oscura della mente per fare del servizio militare, dell’addestramento ad uccidere gli stranieri, il primo dovere, sino ad includere nella sfera del diritto ciò che esso dovrebbe assolutamente escludere per non pervertirsi convertendosi nel suo contrario: il culto della forza. Se la ragione, nella sua chiarezza, ci insegna che bisogna impostare i rapporti con gli altri uomini sulla base della libertà, della democrazia e della giustizia, ci vuole una zona oscura della mente per credere che ciò valga solo per i nostri connazionali, e per consentirci di regolare i rapporti con gli altri uomini in ogni altro modo salvo questi; e, in ultima istanza, sulla base dei rapporti di forza tra gli Stati.
La nazione è ormai solo questa zona oscura della mente: non l’oscurità ultima che deriva dal destino incerto dell’uomo — dal fatto stesso che la storia è un processo che si impone agli uomini e che essi non sanno ancora controllare — ma proprio la nascosta e insidiosa oscurità che si annida nel seno stesso della chiarezza, nel pensiero liberale, in quello marxista, nel pensiero giuridico, nel pensiero economico, in tutto ciò che la ragione ha sinora prodotto per tracciare, nell’orizzonte sconosciuto della storia, qualche sentiero che sia pensabile come un tratto del cammino sulla via della libertà per tutti gli uomini. Va ribadito che non è stato sempre così, e che non è ovunque così. Nell’idea di nazione c’è un contenuto chiaro, un rapporto effettivo con una tappa essenziale della storia: la prima attribuzione dello Stato al popolo, qualcosa che può davvero essere visto come l’alba del giorno della liberté, della égalité, e della fraternité. Per questa ragione, e fino a quando il cammino non si interrompe perché lo arresta proprio il potere che si nasconde dietro l’idea di nazione, non ha alcuna importanza che non si sappia che cosa sono le nazioni, e che non si cerchi nemmeno di saperlo.
Ma nella sede stessa delle grandi nazioni storiche, l’Europa, ciò ormai è accaduto. E a questo punto per non lasciare nell’oscurità proprio l’ostacolo che deve essere superato per riprendere il cammino in avanti verso la democrazia internazionale, bisogna sapere che cosa sono le nazioni. Noi europei — europei senza identità e con la sola identità francese, italiana, tedesca ecc. — non possiamo più, come Renan, limitarci a dire: «L’oubli, et je dirais même l’erreur historique, sont un facteur essentiel de la création d’une nation, et c’est ainsi que le progrès des études historiques est souvent pour la nationalité un danger». Dal 1914 per gli europei la storia non è che un gorgo limaccioso. A partire dal 1914, con la prevalenza sempre più schiacciante della forza della nazione su ogni altra forza storica, il nazionalismo ha gradualmente incluso anche il socialismo — dopo il liberalismo e la democrazia — nella sfera della guerra e dell’anarchia internazionale sino a fare del «socialismo in un solo paese» la triste bandiera della resa alla ragion di Stato e alla legge della giungla. Nel nostro recente passato ci sono la nazione come ottusità, limitazione e ferocia; ci sono il fascismo, il sostegno internazionale al fascismo, il nazismo, lo stalinismo, due atroci guerre mondiali. Tutto ciò è stato fatto in nome della nazione. In causa è, per ciascun europeo, la sua identità nazionale. Non sono solo i tedeschi e gli italiani che devono fare i conti con il loro passato, ma tutti gli europei. Gli europei devono sapere che cosa sono stati e che cosa sono ora per acquisire alla ragione il legame tra il passato, il presente e il futuro, per ricostruire un rapporto tra padri e figli, per non lasciare soli i giovani in una terra deserta. L’oblio è diventato una colpa, il silenzio della ragione, la stupida sottomissione a un destino di morte.
Ciò che va riconsiderato, per sapere in che modo siamo vissuti, è il semplice fatto che la nazione si difende con le armi. Noi lo reputiamo un fatto naturale, ma senza pensare che le sue conseguenze sono tali che noi non potremmo trarle dall’oblio nel quale le lasciamo senza negare il meglio di noi stessi. Il fatto che le nazioni si difendano con le armi comporta che tutte le nazioni sono governate dalla ragion di Stato (dal calcolo dei rapporti di forza tra gli Stati); comporta che tutte le nazioni conseguono solo il grado di indipendenza pari al posto che occupano nella bilancia mondiale del potere, e comporta inoltre la manomissione dell’indipendenza dell’uomo come tale, e come cittadino e lavoratore, perché in un sistema di Stati nazionali — un sistema regolato dalla forza, non dal diritto — la libertà, la democrazia, la giustizia, e il valore stesso della vita, non possono non essere subordinati al valore nazionale, il solo per il quale si deve ancora arrivare all’estremo del dare e subire la morte. Fino a che si pensa il mondo con l’idea di nazione questo è un destino, un limite invalicabile. Ma la ragione ha superato da tempo questo limite con il federalismo. In un sistema federale — che in prospettiva può essere esteso a tutto il genere umano — gli Stati membri o nazioni (le nuove o vere nazioni, cioè i gruppi sociali costituiti dai comportamenti che si acquisiscono con la nascita indipendentemente dal potere, e che non richiedono un potere per durare) difendono e garantiscono la loro indipendenza con il diritto, con i giudici, con il giudizio costituzionale dei tribunali, non con le armi. In questo sistema compiutamente razionale i valori della libertà, della democrazia, della giustizia, e quello nazionale nel senso etimologico del termine, non si dispongono più in ordine gerarchico ma diventano l’uno la condizione stessa dell’affermazione dell’altro, realizzando un pluralismo autentico e togliendo di mezzo sia la realtà sia l’idea di gruppo esclusivo.
È una colpa, per gli europei, non fare questa riflessione. Ed è una colpa non tener conto della situazione storica. Il mondo agricolo, nel quale sta ancora la maggior parte del genere umano, è sulla soglia del mondo industriale. Il mondo industriale è sulla soglia del mondo postindustriale. Ciò significa che per i paesi in via di sviluppo la nazione è la forma di coscienza politica che permette di avanzare, di unire gli uomini. Ma ciò significa anche che per il mondo industriale, e segnatamente per quello europeo ancora organizzato politicamente con gli Stati nazionali tipici del passato, la nazione è la forma di coscienza politica che tiene artificialmente divisi gli uomini col potere, ed impedisce loro di vedere, persino quando considerano il carattere multinazionale della loro economia e della loro difesa, o si occupano delle superpotenze, delle imprese multinazionali e così via, quanto essi stessi siano già multinazionali, cioè già così uniti di fatto al di sopra delle nazioni che i confini tra esse non sono più i confini di un tempo, i confini militari da presidiare con un esercito per la suprema difesa della patria.
C’è un altro dato storico che gli europei dovrebbero considerare. La storia avanza solo travolgendo gli ostacoli che incontra sulla sua strada, ma dopo la caduta dell’ostacolo che rendeva impossibile, nelle prime fasi della rivoluzione industriale, la libertà della classe operaia, e dopo la conquista da parte degli operai della piena capacità d’azione politica e sindacale (che ha già provocato l’avvento dell’economia mista e l’inizio della trasformazione democratica dello Stato liberale) la riflessione politica non ha ancora identificato il nuovo ostacolo che si tratta ora di abbattere per riprendere la marcia in avanti sul piano internazionale, e per consolidare e sviluppare la libertà ormai acquisita di tutte le classi e di tutte le nazioni. A causa di ciò, si ricorre sempre meno — salvo che nell’ambito di linguaggi rituali ormai molto lontani dalla realtà — alla cognizione secondo la quale solo l’identificazione dell’ostacolo da abbattere fornisce alla ragione un punto di riferimento certo per tentare di stabilire quale sia la giusta direzione di marcia, quale il processo storico da promuovere. È per questo che chi cerca egualmente di avanzare cade nella mistificazione o nella follia. Ed è per questo che la critica della nazione — la sola critica politica del nostro tempo nella quale si fa luce di nuovo l’idea che ci sia un ostacolo da abbattere: la nazione esclusiva può servire non solo per ristabilire un legame tra il passato, il presente e il futuro, ma anche per ritrovare un orientamento per l’azione.
A questo punto l’esame dovrebbe assumere un carattere politico concreto, ma in questa sede si può solo osservare che un esame di questo genere può fondarsi non solo sulla base dell’intiero patrimonio delle nostre conoscenze politiche e sociali, ma anche, e specificamente, sulla conoscenza realistica del fatto nazionale. La premessa sta dunque in una definizione accettabile della nazione. È quanto ho tentato di fare. Il libro che ripresento ai lettori riguarda in effetti una riflessione fatta dentro l’oscurità del pensiero nazionale nel tentativo di uscirne; e di questa oscurità reca le tracce. Ma la chiarezza giunge solo alla fine; e nelle scienze sociali — con i loro quadri teorici di riferimento ancora incerti — solo percorrendo tutto il cammino dall’oscurità alla chiarezza si può sperare di acquisire i fatti alla ragione.


* Nonostante il lavoro dei federalisti il problema della nazione non è ancora risolto né sul piano dei fatti né su quello della cultura. Per questa ragione Albertini ha ripubblicato il suo lavoro del 1958 con questa prefazione (N.d.R.).
[1] «La storia del nostro tempo, visione di un ottimista» (Sesta Eleanor Rathbone Memorial Lecture, Università di Bristol, 12 ottobre 1956), ora in Conjectures and Refutations, London, Routledgeand Kegan Paul, 1969.
[2] G. Amendola, Intervista sull’antifascismo, Bari, Laterza, 1976, pp. 45-9.

 

 

 

 

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